C’E’
POCO DA RIDIRE.
In
un’epoca in cui i signori godevano di potere assoluto, gli unici a potersi
permettere una battuta (di troppo) erano i giullari.
Il mestiere del buffone era quello di burlarsi del
signore che lo ospitava, ma la battuta che un giorno faceva ridere, il giorno
dopo poteva far infuriare. E in tal caso erano guai. Tra le punizioni c’era
ogni genere di tortura: dal taglio della lingua alla morte. Ma come mai questi
coraggiosi anticonformisti correvano il rischio di far ridere a tutti i costi
mettendo a nudo il potere? In una comunità divisa tra religiosi, cavalieri e
contadini, il buffone aveva una funzione sociale: limitava temporaneamente il
potere dei signori, mettendone in luce i difetti, e diceva la verità che,
specie se scomoda, il re apprendeva solo da lui. Nel 1340 fu proprio il
giullare del re di Francia Filippo IV ad annunciare il disastro navale subito
dalla flotta francese. Un ruolo, quello del buffone, sempre sul filo del
rasoio, tanto che, per dare brutte notizie o mettere in ridicolo il sovrano,
era costretto addirittura a fingersi pazzo. “il
giullare aveva una carica ufficiale nelle corti: era nutrito, alloggiato,
vestito e pagato dal signore per prestare i suoi servizi. Nei documenti
dell’epoca non è precisato quel era il ruolo del buffone, ma possiamo ipotizzare
che il suo compito fosse tenere compagnia al signore, farlo ridere e,
soprattutto, dargli consigli, anche su decisioni importanti. Fingendosi pazzo,
era il solo che poteva dire quello che pensava davvero. La corte, infatti,
pullulava di cortigiani disposti anche a mentire e adulare pur di piacere al
principe in carica. Grazie alla sua schiettezza, al contrario, il giullare
godeva della fiducia del signore, perché i giudizi che dava erano sinceri”, spiega
Martine Clouzot, docente di Storia medievale all’Università della Borgogna.
UNA VITA AI MARGINI. I buffoni erano soprattutto artisti a 360 gradi:
attori, musicisti, giocolieri, acrobati e persino cantastorie e saltimbanchi. Di
solito si attribuisce loro un’origine medioevale, ma figure simili
esistevano già nell’antica Roma. Si chiamavano mimi ed erano pagati per
intrattenere il pubblico nei circhi, nelle strade o nelle case dei ricchi. Il
loro repertorio prevedeva canzoni, danze, acrobazie, travestimenti e persino
numeri con animali feroci. “Di solito
erano schiavi romani o etruschi che vivevano nella miseria. Il loro lavoro era
denigrato il solo modo salvare la dignità era esibirsi con una maschera, per
nascondere il volto”, racconta Clouzot.
Nel Medioevo il termine mimo scomparve, rimpiazzato da quello di
giullare (dal latino Joculator, colui che gioca). Proprio come i mimi, i
giullari conducevano un’esistenza sregolata da artisti di strada, vivendo di
espedienti. Canzonette volgari e acrobazie non mancavano, ma qualcuno era
capace anche di recitare brani tratti dalle vite dei santi e dai poemi epici
cavallereschi. Tra loro c’erano anche donne, le giullaresse che, per
arrotondare, univano la prostituzione all’attività artistica. Questi
intrattenitori sopra le righe, che nel Medioevo divennero uno status symbol
nelle corti (più se ne potevano esibire e più si era considerati potenti),
davano però fastidio alla Chiesa
Stańczyk di Jan
Matejko: il giullare è raffigurato come l'unica persona a un ballo
reale che è turbata dalla notizia dell'assedio di Smolensk (1514)
CAPRO
ESPIATORIO. “Quello che non
andava giù alla Chiesa era che i giullari si travestissero, si truccassero e
usassero il corpo per le loro performance” spiega Clouzot. Agli inizi del
XIII secolo il teologo inglese Thomas Chobham condannò l’intera categoria senza
mezze misure: “certi buffoni che fanno
contorsioni e distorcono i loro corpi con dei salti spudorati e dei gesti
impudichi, o che si denudano in modo sfacciato, o che portano delle maschere
ripugnanti, tutti sono da condannare”. La Chiesa trovò da ridire persino sui strumenti
musicali a fiato che usavano negli spettacoli: flauti e cornamuse, infatti,
deformavano il viso in strane espressioni, bollate come demoniache. Tuttavia il
clero, che a parole non tollerava l’ironia che rischiava di portare i fedeli
sulla cattiva strada (tutti ministri di
Satana, scriveva un monaco del XII secolo), di fatto tra le mura domestiche
amava circondarsi di buffoni. “C’erano
giullari anche tra i membri del clero: erano gli unici tollerati dalla Chiesa.
I francescani, addirittura, a partire dal XIII secolo predicavano la religione
attraverso spettacoli sacri. La loro funzione era un po’ quella della moderna
musica gospel: avvicinare il pubblico dei fedeli alla Chiesa. Quando però uno
di loro esagerava, magari facendo del sarcasmo sul clero stesso, veniva messo
in riga dalle istituzioni ecclesiastiche” afferma Clouzot. Anche il potere
civile non aveva in simpatia questi artisti perché la difficoltà di
controllarne i movimenti faceva di loro una categoria sociale poco
sorvegliabile e quindi pericolosa. Alcuni statuti cittadini prevedevano pene
pecuniarie e corporali. A Chivasso, all’inizio del Trecento, chiunque si
ritenesse offeso da un giullare poteva picchiarlo senza incorrere in alcuna
sanzione. Mentre a Moncalieri, sempre in Piemonte, potevano essere percossi
liberamente, a meno che non potessero vantare la proprietà di un cavallo o di
un vitello, simobo di ricchezza e quindi di rispettabilità. Nonostante
venissero attaccati da più fronti i giullari erano molto apprezzati dal popolo.
Grandi protagonisti di celebrazioni “pagane”, come la Festa dei Folli, una specie
di carnevale in cui per qualche giorno si potevano prendere in giro liberamente
i potenti. In realtà sovvertire temporaneamente i ruoli era un espediente che
permetteva al popolo di sfogarsi qualche giorno all’anno, per poi tornare
docile alla normalità. Questa cerimonia, che aveva luogo a fine dicembre nelle
grandi città della Francia, in origine si svolgeva nelle chiese ed era aperta
solo al basso clero, ossia diaconi e ragazzi del coro, che si travestivano e
mettevano in scena sfilate blasfeme con tanto di elezione di un papa dei Folli.
La Chiesa si
oppose, ma invano: all’invio del Duecento la festa si trasferì alla luce del
sole, per le strade.
Il rapporto dei giullari con i trovatori consiste
spesso in rapporto di collaborazione nella realizzazione di spettacoli di
intrattenimento presso corti e
banchetti. Il trovatore, che è spesso un nobile fuggiasco
delle terre francesi del
sud, si guadagna l'appoggio delle corti e di nobili fornendo la sua
prestazione artistica di poeta. Il giullare spesso accompagna questa
attività e la completa eseguendo canzoni di cui i testi sono proprio i
componimenti del trovatore.
A tal proposito bisogna distinguere almeno
due categorie di giullari, in base alla loro funzione e alla location della loro performance. I
giullari che agiscono presso le corti sono infatti artisti fissi, non più
girovaghi come lo sono i loro colleghi che si esibiscono nelle piazze e nelle
taverne. Questa differenza influenza anche il tipo di spettacolo che il giullare
era solito eseguire, adattandolo ai contesti e al pubblico. Inoltre si era soliti già nel medioevo fare
una distinzione tra i giullari in base ai tipi di spettacoli che essi
eseguivano, condannando quelli adusi alla nudità, al contorsionismo (considerato una forma di violazione
delle leggi di Dio),
alla volgarità e lodando invece quelli che, in funzioni di cantastorie, diffondevano le storie di santi e
di virtù cristiana.
|
SCHERZI A PARTE. Anche se agli occhi del clero erano ribelli,
in realtà, forse anche inconsapevolmente,
questi artisti girovaghi svolsero un ruolo importante nella diffusione
della cultura. “Nel Medioevo la
trasmissione della cultura era orale. In un’epoca in cui i giornali non
esistevano, spostandosi da un luogo all’altro i i giullari diffondevano
oralmente le notizie, le tradizioni popolari e il patrimonio letterario delle
comunità, erano intermediari tra la cultura di corte e quella popolare, dato
che si muovevano tra castelli e piazze. Quando si esibivano davanti al popolo,
mettevano in scena gli stessi canti che avevano sentito da altri nelle corti
dei principi.”, spiega Clouzot. Gli aristocratici francesi si resero conto
del potenziale dei giullari già nel Duecento, quando iniziarono ad assumere a
corte gli artisti più istruiti: nel Sud della Francia si chiamavano trovatori,
nel Nord trovieri. Erano letterati, autori di storie che venivano poi recitate
o cantate davanti al pubblico. Figure simili si trovano anche nel panorama
italiano. Uno dei più noti fu Cielo d’Alcamo, vissuto nel XIII secolo, che
divenne uno dei più grandi poeti popolari della scuola siciliana. Con la sua Rosa fresca aulentissima, Cielo d’Alcamo
diede vita al genere della poesia cortese in lingua volgare, raccontando la
storia d’amore tra un nobile e un’umile pastorella, alternando con abilità
espressioni auliche, altisonanti e un linguaggio umile e sfacciato.
Ben presto i
professionisti della parola presero le distanze dai cugini giullari meno colti.
Gli artisti di strada, però sopravvissero. Dal Trecento, alcuni divennero
menestrelli, cioè cantanti e musicisti che giravano di corte in corte. Altri,
soprattutto nani o deformi, furono assunti da principi e signori, come buffoni.
Altri ancora continuarono a vivere per strada, portando avanti una tradizione
popolare ormai millenaria.
La corte
dei miracoli di Victor Hugo.
Pieter Bruegel il Vecchio, Gli storpi(1568).
Sul retro della tavola due iscrizioni: «Nemmeno la natura possiede ciò che
manca alla nostra arte, tanto grande è il privilegio concesso al pittore, qui
la natura, tradotta in immagini dipinte, e vista nei suoi storpi, stupisce
rendendosi conto che il Bruegel le è pari.» e un'altra che recita «O storpi
che i vostri affari possano prosperare». Nella Fiandra passata al calvinismo il 5 aprile 1566 il
"compromesso dei nobili" chiede a Filippo II l'abolizione
dell'editto che condanna a morte 60000 uomini e in un banchetto i nobili
convitati travestiti da mendicanti inneggiano all'insurrezione nazionale
chiamando tutti alla lotta comune al grido di «Viva i pitocchi». Bruegel si
schiera con i rivoltosi rappresentando in una corte dei miracoli un principe,
un vescovo, un soldato, un contadino e un borghese che indossano una casacca
con code di volpi: il segno distintivo dei mendicanti poi divenuto simbolo
della resistenza nazionale
Nel romanzo Notre-Dame de Paris, (1802-1885) , esponente
del Romanticismo, descrisse
SOLO
FINCTION. Così accanto ad artisti di strada e ballerine, rappresentò anche
una corte dei miracoli, che in realtà apparve in Francia soltanto più tardi,
a partire dal Seicento.
La corte in
questione non era altro che l’insieme dei quartieri poveri delle grandi città
francesi, in cui vivevano mendicanti che facevano finta di essere malati o
invalidi per suscitare pietà ed estorcere denaro ai passanti.di giorno
chiedevano l’elemosina per strada fingendosi storpi o ciechi, ma di sera,
appena rientrati nei loro tuguri, come per miracolo (da qui l’espressione)
guarivano. Questi quartieri degradati furono gradualmente smantellati a
partire dal 1667 su espresso ordine del Re
Sole, Luigi XIV.
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Articolo in gran parte di Simone
Zimbardi pubblicato su Focus Storia 139 altri testi e foto da Wikipedia.
CUORI
RIBELLI.
Due
hippie ante litteram: san Francesco e santa Chiara, uniti dal “privilegio della
povertà”, sovvertirono le regole della Chiesa e l’ordine sociale.
Amore
spirituale, fraterno, romantico: sono molte le accezioni date al rapporto tra
Francesco d’Assisi e Chiara Scifi un uomo e una donna che, prima di divenire
santi della cristianità furono ribelli: in un tempo in cui intaccare
istituzioni consolidate come Chiesa e famiglia, sembrava inconcepibile,
sovvertirono ogni regola mollando tutto, dimore, parenti e status sociale. Tra
critiche, e persino violenze, si unirono nell’intento di rivoluzionare la Chiesa.
Chiara
d'Assisi, nata Chiara Scifi (Assisi, 1193 circa – Assisi, 11
agosto 1253), è stata una religiosa italiana, collaboratrice di Francesco d'Assisi e fondatrice dell'ordine delle monache
clarisse: fu
canonizzata come santa Chiara nel
1255 da Alessandro IV nella cattedrale di Anagni. Il 17 febbraio 1958 fu dichiarata da Pio
XII santa patrona della televisione e delle telecomunicazioni
Francesco
d'Assisi, nato Giovanni di Pietro Bernardone (Assisi, 1181 o 1182[1] – Assisi, 3 ottobre 1226[2][3]), è stato un religioso e poeta italiano.Diacono[4] e
fondatore dell'ordine che da lui poi prese il nome, è
venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Il 4 ottobre ne viene
celebrata la memoria liturgica in tutta la Chiesa cattolica (festa in Italia; solennità per la Famiglia francescana).
È stato proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale
d'Italia il
18 giugno 1939 dapapa Pio XII.
COSI’ LONTANI,
COSI’ VICINI. Francesco, all’anagrafe Giovanni di Pietro di
Bernardone, era un giovane ambizioso e arrivista nato nel 1182 da un’agiata
famiglia borghese (all’epoca nomine populi) che commerciava in stoffe. Chiara
era invece una fanciulla tutta casa e chiesa nata nel 1193 dal conte di
Favarone di Offreduccio degli Scifi, appartenente alla potente classe dei boni
nomine, la nobiltà. Due realtà diverse, destinate allo scontro. Assisi,
divenuta dominio imperiale nel 1174
per mano di Federico Barbarossa, il cui potere era sostenuto dai boni homines, mentre
era inviso agli nomine populi, attraversava una profonda instabilità politica.
La rivalità tra le due fazioni, sfociò nel 1202 nella battaglia di Collestrada,
nei pressi di Perugia, a cui partecipò anche
Francesco. La sua fazione ebbe il peggio, e il futuro santo finì in
carcere, dove trascorse un anno intero. Chiara, nel frattempo, si era
trasferita a Perugia con la famiglia per sfuggire alle tensioni politiche
cittadine. I due si ritrovarono così inconsapevolmente vicini nel dolore:
vivendo l’uno nella prigionia, l’altra, ancora bambina, nell’esilio.
UN
FRATE EVERSIVO. Chiuso l’amaro
capitolo della detenzione, Francesco non fu più lo stesso: iniziò a trascorrere
molto tempo da solo, aggirandosi come uno
straccione, alternando preghiera e aiuto ai malati, senza farsi scrupolo di
elargire i denari di famiglia. Si sparse perfino la voce che fosse divenuto
pazzo. “Il padre capì che Francesco non
sarebbe stato il figlio da viziare e ammirare, e al dolore si sostituì presto
la rabbia: voleva recuperare il denaro di famiglia e impedire che il giovane
continuasse quello sperpero rovinoso tra elemosine e donativi”, racconta
Chiara Frugoni, medievista e autrice del saggio Storia di Chiara e Francesco
(Einaudi;). Così fu: nel 1206 il padre lo denunciò davanti al vescovo di Assisi
con l’accusa di dilapidare il patrimonio familiare, e Francesco, in sede
processuale, rispose con un gesto a dir poco sfrontato: si denudò completamente
e rinunciò in pubblico all’eredità paterna, il che equivaleva ripudiare la sua
stessa famiglia. Poi decise di circondarsi dei suoi primi “fratelli”: 12 uomini
(come gli apostoli di Cristo) con cui diede il via a una nuova forma di vita
religiosa incentrata sulla povertà.
Chiara l suo compagno di vita l’aveva già scelto ed
era proprio Francesco. Fu il cugino di lei, Frate Rufino, a presentarli nel
1206. I due cominciarono a incontrarsi spesso in appuntamenti fugaci e clandestini,
finché lei non cedette completamente: il 18 marzo 1212, Chiara si dileguò nel
cuore della notte dalla casa paterna per unirsi a Francesco e alla sua
comunità, insediatasi nella chiesa della Porziuncola di Assisi. Lui l’accolse a
braccia aperte. Ma dietro quell’unione spirituale (e forse romantica) si
nascondeva qualcosa di più. Avvicinare una nobile come Chiara aveva infatti per
Francesco un forte significato politico. “Attrarre
nella propria confraternita una fanciulla di rango elevato avrebbe dato importanza
al progetto dei francescani, mostrando ai concittadini un esempio di pacificazione
sociale” spiega l’esperta. E altrettanto clamorosa fu la scelta di Chiara
di rinunciare per sempre agli abiti aristocratici per vestire quelli da
penitente e dedicarsi alla carriera monastica, seguendo l’esempio del suo
maestro di vita. Una scelta che la famiglia tentò di contrastare ricorrendo
anche alla violenza: per due volte tentarono di ricondurre la giovane con la
forza tra le mura di casa, senza successo. Ma perché la sua famiglia si
opponeva in maniera così decisa all’idea di una vita religiosa? Chiara fece
scandalo perché rifiutò la vita da monaca di clausura , destinata alle nobili
dell’epoca ma scelse di condividere con Francesco un’esistenza consacrata alla
diffusione di principi come povertà, umiltà e carità, messi quotidianamente in
pratica, non in una vita ascetica.
L’ABBANDONO.
La giovane richiamò subito a sé un
numero sufficiente a dar vita a nuova comunità (il
futuro ordine delle Clarisse), e si stabilì nella chiesa di San Damiano ad
Assisi, dove visse per oltre quarant’anni. Tra quelle austere quattro mura, gli
incontri e gli scambi di mutuo soccorso tra monache e frati, tra Chiara e
Francesco furono assidui. “Il futuro santo voleva un movimento aperto
alle donne, con la speranza di poter riunire un giorno in un’unica fraternità i
fedeli di ogni sesso” spiega Frugoni. Un progetto ambizioso che non si
realizzò mai. Seppure contro la sua volontà, infatti i contatti con Chiara
andarono sempre più diradandosi. Questa rottura fu poi sancita nella regola non
bollata, ultimata da Francesco nel 1221 e contenente le norme destinate ai
frati dell’ordine francescano (approvato da Innocenzo III nel 1209) . tra le
altre cose, nel documento si vietava espressamente la frequentazione con le
donne. L’idillio sembrava dunque finito.
LE STIGMATE
Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224,[33][34] due
anni prima della morte, mentre si trovava a pregare sul monte
della Verna (luogo
su cui in futuro sorgerà l'omonimo santuario)
e dopo 40 giorni di digiuno, Francesco avrebbe visto un Serafino crocifisso. Al termine della
visione gli sarebbero comparse le stigmate: «sulle mani e sui piedi presenta
delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai
quali sanguina spesso». Tali agiografie raccontano inoltre che sul fianco
destro aveva una ferita, come quella di un colpo di lancia. Fino alla sua
morte, comunque, Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite.
Nell'iconografia tradizionale successiva
alla sua morte, Francesco è stato sempre raffigurato con i segni delle
stigmate. Per questa caratteristica Francesco è stato definito anche «alter
Christus». La condivisione fisica delle pene di Cristo offriva un nuovo volto
al cristianesimo, partecipe non più solo del trionfo, simboleggiato dal
Cristo in gloria.
|
UN
DOLCE SALUTO. Privata dell’appoggio della sua guida, la poverella
di Assisi dovette affrontare da sola un ostacolo più grande di lei: l’ostilità
delle autorità ecclesiastiche al suo progetto religioso. E mentre Chiara si
dava da fare per cambiare le cose in seno alla Chiesa, Francesco faceva i conti
con una salute sempre più cagionevole e con la delusione per il cambio di rotto
preso dalla sua comunità, che era cresciuta, ma perdendo ai suoi occhi la
purezza originaria . ormai stanco di combattere, diede le dimissioni e cedette
la guida dell’ordine. Sul finire della propria esistenza (morì nel 1226),
Francesco fece un’ultima visita all’amica mai dimenticata, raggiungendola nella
chiesa di San Damiano. Qui soggiornò, già malato, assistito dalle amorevoli
cure di Chiara su un lettuccio di stuoie. Il carismatico frate trovò la forza di ultimare il cantico
delle creature, tra le cui strofe si
cela forse un ultimo pensiero per la sua clariata: nel verso in cui le stelle sono
definite “clarite, pretiose et belle,
ossia chiare, preziose e belle”. Gli astri del cielo ricordavano a
Francesco nientemeno che gli di Chiara.
La regola di Chiara.
La
tenace e progressista Chiara Scifi, è stata la prima donna nella Storia a
scrivere un Regola monastica, abbracciando l’ideale di vita francescano
incentrato sull rinuna e sulla povertà.
RIBELLI. Ma il suo progetto dovette
fare i conti con l’establishment ecclesiastico: la comunità femminile di San
Damiano (le clarisse) rifiuta infatti la clausura, ossia l’unica opzione
considerata accettabile per la vita monastica delle donne in quel periodo
(che per praticarla dovevano contare sulle rendite di proprietà familiare).
Chiara combatté questa battaglia per tutta la vita , e la sua Regola, seppur
modificata per andare incontro al volere pontificio, fu approvata il 9 agosto
1253, appena due giorni prima della sua morte. E già nel 1255 la combattiva
clarita fu canonizzata.
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Articolo in gran parte di Federica Campanelli su
Focus storia 139, immagini e altri testi da Wikipedia.
MANIERI E MISTERI.
Simbolo di un’epoca e cuore del potere feudale, i castelli
da sempre ispirano leggende e nascondono… fantasmi.
Un vampiro a palazzo.
Le rovine del castello del conte Vlad.
La possente rocca del XIV
secolo che si erge tra le storiche regioni rumene della Transilvania e della
Valacchia (foto sotto), è stata a lungo considerata la residenza del conte
Dracula , personaggio letterario ispirato a Vladislav III di Valacchia (1431-
1477), sovrano dai modi efferati. Di lui si
tramanda che usasse impalare i propri nemici, pratica che gli valse il nome di
Tepes, impilatore. Tuttavia il maniero in questione ha il solo merito di aver
stimolato la fantasia dello scrittore Bram Stoker, autore del romanzo del 1897
con protagonista il noto vampiro.
QUELLO
VERO. Il vero
“castello di Dracula” si trova invece a Poenari, nel comune di Arefu, sempre in
Romania. Si tratta di una fortezza del XIII secolo che ai tempi di Vlad III
cadeva in rovina, ma che il principe volle riedificare per farne la sua dimora.
Lo spettro del Barbarossa.
Chi volesse incontrare un
personaggio del calibro dell’imperatore Federico I Barbarossa può recarsi nella
possente rocca che da oltre mille ani domina la
Val Staffora (Oltrepò Pavese). Stando ad
alcune testimonianze, ogni 25 dicembre a mezzanotte, alcune luci della terza
sala della sua imponente torre si accendono e si spengono misteriosamente: si
tratta, secondo la credenza locale, proprio del fantasma di Barbarossa
TRADIMENTI. La storia del castello di Oramala inizia nel X
secolo, quando la nobile casta degli Obertenghi diede il via alla sua
costruzione. Si racconta che qui, in una notte del 1167,
Federico
Barbarossa trovò rifugio mentre
batteva in ritirata verso la
Germania , per evitare lo scontro con la Lega Lombarda , costituita nello
stesso anno. L’imperatore fu accolto dall’allora proprietario del castello
Obizzo I Malaspina, personaggio ambiguo e doppiogiochista che, dopo aver in un
primo momento osteggiato il sovrano, decise di appoggiarlo nella lotta contro i
comuni ribelli, salvo poi tradirlo ancora una volta alleandosi con la Lega.
Le
anime in pena che si aggirano per le antiche torri sono spesso donne: mogli o
amanti uccise per gelosia.
La prigione di Bianca.
Fondato in epoca
bizantina, il castello di Gioia del Colle (Bari), ha subito negli anni numerosi
rifacimenti. Federico II lo ricostruì conferendogli il tipo stile
normanno-svevo che possiamo osservare oggi. La notorietà del castello è legata
è legata a un fatto di sangue, con protagonista Bianca Lancia, amante di
Federico. Secondo una leggenda sorta nel
XVIII secolo, Bainca venne rinchiusa nelle segrete del maniero con l’accusa di
infedeltà. La donna era incinta, ma Federico non credeva che il nascituro
potesse essere suo figlio.
NEL
SANGUE. Dopo aver dato alla luce il
bambino (Manfredi, ultimo svevo a portare la corona di Sicilia), la donna si
amputò i seni in segno di vergogna e li fece recapitare all’imperatore insieme
al neonato, quindi si tolse la vita. Molti anziani del luogo giurano di aver
visto la figura di Bianca muoversi all’interno del castello e di aver udito le
urla strazianti dell’automutilazione.
Fra Holger e Amleto.
Voluto dal re danese Erik
VII nel XV secolo, l’edificio è stato più volte ristrutturato e ampliato fino a
divenire uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale nordeuropea. Il
palazzo di Kronoborg, a Helsingor (Danimarca), deve la sua fama a Shakespeare,
che qui ambientò il suo Amleto. Ma per i danesi il castello è prima di tutto la
dimora del loro eroe nazionale: Holger, leggendario paladino di Carlo Magno
protagonista del componimento epico Chevalerie Orgier, appartenuto al ciclo dei
“vassalli ribelli” (XI secolo).
PALADINO. Secondo la tradizione, Holger riposa nel castello
accovacciato sulla sua barba, ma se un giorno dovesse trovarsi in pericolo, si
sveglierà dal suo sonno per difenderla.
Non c’è pace per Agnese.
Storica residenza della famiglia
Gonzaga realizzata tra il 1395 e il 1406, il castello di San Giorgio (Mantova)
è noto soprattutto per i capolavori della pittura conservati al suo interno,
tra cui spiccano gli affreschi quattrocenteschi di Andrea Mantegna nella Camera
degli Sposi. Ma nelle sue stanze si cela anche un mistero: la presenza effimera
di una giovane donna che, dice la leggenda, si aggirerebbe nell’edificio in preda
allo sconforto, tra pianti e lampi di luce. Si
tratta dl fantasma della nobile Agnese Visconti, figli di Bernabò,
signore di Milano, e moglie di Francesco I Gonzago, committente del castello.
MOGLIE
SCOMODA. Nel 1391 la donna fu fatta
decapitare per presunto adulterio e sepolta in un terreno non consacrato nei
pressi del Palazzo Ducale. Secondo gli storici, si trattò probabilmente di una
spietata mossa politica per eliminare una moglie scomoda. Agnese, infatti si
era schierata contro il cugino Gian Galeazzo Visconti, che con un colpo di
stato si era impadronito della signoria milanese a scapito di Bernabò.
L’ostilità di Agnese nei confronti dell’usurpatore, evidentemente contrastava
gli interessi degli stessi Gonzaga.
i
castelli nacquero e si diffusero alle soglie dell’anno Mille. A partire dal XII
secolo si trasformarono da semplici capisaldi fortificati a ricchi palazzi.
Nel quartier generale dei Malatesta.
Sorto su una struttura difensiva romana, il Castello di Montebello di Torriana (Rimini) divenne nel 1186 proprietà della famiglia Malatesta. Il castello ospiterebbe uno dei fantasmi più famosi d’Italia, quello di Guendalina, o Azzurrina, figlia del feudatario Uguccione di Montebello.
FIGLIA DEL
PECCATO. Si narra che la bambina
scomparve il 21 giugno 1375 e che da allora, ogni
cinque anni, il suo spirito torni a farsi sentire nella notte del solstizio
d’estate. Dagli anni Novanta il castello è stato addirittura oggetto di studi
pseudoscientifici. Fantasmi a parte, per gli storici la bambina sarebbe stata
uccisa per volere dello stesso Uguccione, perché figlia di adulterio.
pietra di Artognou
Dove nacque re Artù.
Non
ospita alcun fantasma, ma il Castello di Tintagel (Cornovaglia) è noto comunque
in tutto il mondo: è il luogo in cui, secondo la Historia Regum Britanniea
(Storia del re di Britannia, cronaca in latino del XII secolo), sarebbe nato il
mitico re Artù. Le rovine della rocca risalgono però al XIII secolo più tardo
rispetto alla presunta nascita del cavaliere (V secolo). Ciò sembrerebbe
confermare come tutta la storia di Artù sia frutto di fantasia. Eppure, come in
molte leggende, un fondo di verità c’é.
QUALCOSA
DI VERO? Scavi
effettuati nel 2016 hanno infatti portato alla luce i resti di un palazzo
nobiliare ben più antico, datato proprio attorno al V-VI secolo. Queste
scoperte si aggiungono a un’interessante reperto rinvenuto nel 1998: la
cosiddetta pietra di Artognou la cui assonanza con Artù è evidente.
Nella foresta di Sherwood.
Il suggestivo forte sorge
su piccolo promontorio roccioso noto come Castle Rock, nei pressi del fiume
Trent e della celebre foresta di Sherwood. La sua prima costruzione si deve a
Guglielmo il Conquistatore all’indomani della battaglia di Hastings (1066),
evento bellico che portò la dinastia normanna sul trono d’Inghilterra. Si
trattava inizialmente di una “motta castrale” (in inglese motte-and-bailey),
tipologia di fortificazione che i Normanni diffusero nei Paesi da loro
assoggettati, dalla Gran Bretagna alla Francia fino alla Sicilia. Questa veniva
ottenuta scavando un fossato e utilizzando il materiale di risulta perforare
una collinetta (la motta) , in cima alla quale trovava posto il forte vero e
proprio, realizzato generalmente in legno. A volte questo si ergeva su alture
naturali, come nel caso di Nottingham.
ROBIN
HOOD. Nel XII secolo, sotto il
regno di Enrico II, la struttura lignea venne ricostruita in pietra e arricchita
di nuovi ambienti, in modo da fare del forte a residenza reale, ruolo che
ricoprì fino alla prima metà del Seicento. Secondo la legenda di Robin Hood, il
castello fu teatro dello scontro finale fra il bandito-eroe e lo sceriffo di
Nottingham, il suo più accanito antagonista. Questi sostenitore del principe
Giovanni Senza Terra, entrato in conflitto con il fratello Riccardo Cuor di
Leone, aveva occupato l’edificio approfittando dell’assenza del re nella terza
crociata (1189-1192). Per celebrare la saga che ha contribuito alla notorietà
do Nottingham, ogni anno il castello ospita il festival medievale noto come
Robin Hood Pageant.
Articolo in gran parte a cura di Federica Campanelli
pubblicato su Focus storia 139 immagini scaricate da Wikipedia.
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