mercoledì 11 luglio 2018

il vero medioevo - seconda parte

C’E’ POCO DA RIDIRE.
In un’epoca in cui i signori godevano di potere assoluto, gli unici a potersi permettere una battuta (di troppo) erano i giullari.


Il mestiere del buffone era quello di burlarsi del signore che lo ospitava, ma la battuta che un giorno faceva ridere, il giorno dopo poteva far infuriare. E in tal caso erano guai. Tra le punizioni c’era ogni genere di tortura: dal taglio della lingua alla morte. Ma come mai questi coraggiosi anticonformisti correvano il rischio di far ridere a tutti i costi mettendo a nudo il potere? In una comunità divisa tra religiosi, cavalieri e contadini, il buffone aveva una funzione sociale: limitava temporaneamente il potere dei signori, mettendone in luce i difetti, e diceva la verità che, specie se scomoda, il re apprendeva solo da lui. Nel 1340 fu proprio il giullare del re di Francia Filippo IV ad annunciare il disastro navale subito dalla flotta francese. Un ruolo, quello del buffone, sempre sul filo del rasoio, tanto che, per dare brutte notizie o mettere in ridicolo il sovrano, era costretto addirittura a fingersi pazzo. “il giullare aveva una carica ufficiale nelle corti: era nutrito, alloggiato, vestito e pagato dal signore per prestare i suoi servizi. Nei documenti dell’epoca non è precisato quel era il ruolo del buffone, ma possiamo ipotizzare che il suo compito fosse tenere compagnia al signore, farlo ridere e, soprattutto, dargli consigli, anche su decisioni importanti. Fingendosi pazzo, era il solo che poteva dire quello che pensava davvero. La corte, infatti, pullulava di cortigiani disposti anche a mentire e adulare pur di piacere al principe in carica. Grazie alla sua schiettezza, al contrario, il giullare godeva della fiducia del signore, perché i giudizi che dava erano sinceri”, spiega Martine Clouzot, docente di Storia medievale all’Università della Borgogna. 



UNA VITA AI MARGINI. I buffoni erano soprattutto artisti a 360 gradi: attori, musicisti, giocolieri, acrobati e persino cantastorie e saltimbanchi. Di solito si attribuisce loro un’origine medioevale, ma figure simili esistevano già nell’antica Roma. Si chiamavano mimi ed erano pagati per intrattenere il pubblico nei circhi, nelle strade o nelle case dei ricchi. Il loro repertorio prevedeva canzoni, danze, acrobazie, travestimenti e persino numeri con animali feroci. “Di solito erano schiavi romani o etruschi che vivevano nella miseria. Il loro lavoro era denigrato il solo modo salvare la dignità era esibirsi con una maschera, per nascondere il volto”, racconta Clouzot.
Nel Medioevo il termine mimo scomparve, rimpiazzato da quello di giullare (dal latino Joculator, colui che gioca). Proprio come i mimi, i giullari conducevano un’esistenza sregolata da artisti di strada, vivendo di espedienti. Canzonette volgari e acrobazie non mancavano, ma qualcuno era capace anche di recitare brani tratti dalle vite dei santi e dai poemi epici cavallereschi. Tra loro c’erano anche donne, le giullaresse che, per arrotondare, univano la prostituzione all’attività artistica. Questi intrattenitori sopra le righe, che nel Medioevo divennero uno status symbol nelle corti (più se ne potevano esibire e più si era considerati potenti), davano però fastidio alla Chiesa 


Stańczyk di Jan Matejko: il giullare è raffigurato come l'unica persona a un ballo reale che è turbata dalla notizia dell'assedio di Smolensk (1514)

CAPRO ESPIATORIO. “Quello che non andava giù alla Chiesa era che i giullari si travestissero, si truccassero e usassero il corpo per le loro performance” spiega Clouzot. Agli inizi del XIII secolo il teologo inglese Thomas Chobham condannò l’intera categoria senza mezze misure: “certi buffoni che fanno contorsioni e distorcono i loro corpi con dei salti spudorati e dei gesti impudichi, o che si denudano in modo sfacciato, o che portano delle maschere ripugnanti, tutti sono da condannare”. La Chiesa trovò da ridire persino sui strumenti musicali a fiato che usavano negli spettacoli: flauti e cornamuse, infatti, deformavano il viso in strane espressioni, bollate come demoniache. Tuttavia il clero, che a parole non tollerava l’ironia che rischiava di portare i fedeli sulla cattiva strada (tutti ministri di Satana, scriveva un monaco del XII secolo), di fatto tra le mura domestiche amava circondarsi di buffoni. “C’erano giullari anche tra i membri del clero: erano gli unici tollerati dalla Chiesa. I francescani, addirittura, a partire dal XIII secolo predicavano la religione attraverso spettacoli sacri. La loro funzione era un po’ quella della moderna musica gospel: avvicinare il pubblico dei fedeli alla Chiesa. Quando però uno di loro esagerava, magari facendo del sarcasmo sul clero stesso, veniva messo in riga dalle istituzioni ecclesiastiche” afferma Clouzot. Anche il potere civile non aveva in simpatia questi artisti perché la difficoltà di controllarne i movimenti faceva di loro una categoria sociale poco sorvegliabile e quindi pericolosa. Alcuni statuti cittadini prevedevano pene pecuniarie e corporali. A Chivasso, all’inizio del Trecento, chiunque si ritenesse offeso da un giullare poteva picchiarlo senza incorrere in alcuna sanzione. Mentre a Moncalieri, sempre in Piemonte, potevano essere percossi liberamente, a meno che non potessero vantare la proprietà di un cavallo o di un vitello, simobo di ricchezza e quindi di rispettabilità. Nonostante venissero attaccati da più fronti i giullari erano molto apprezzati dal popolo. Grandi protagonisti di celebrazioni “pagane”, come la Festa dei Folli, una specie di carnevale in cui per qualche giorno si potevano prendere in giro liberamente i potenti. In realtà sovvertire temporaneamente i ruoli era un espediente che permetteva al popolo di sfogarsi qualche giorno all’anno, per poi tornare docile alla normalità. Questa cerimonia, che aveva luogo a fine dicembre nelle grandi città della Francia, in origine si svolgeva nelle chiese ed era aperta solo al basso clero, ossia diaconi e ragazzi del coro, che si travestivano e mettevano in scena sfilate blasfeme con tanto di elezione di un papa dei Folli. La Chiesa si oppose, ma invano: all’invio del Duecento la festa si trasferì alla luce del sole,  per le strade. 



Il rapporto dei giullari con i trovatori consiste spesso in rapporto di collaborazione nella realizzazione di spettacoli di intrattenimento presso corti e banchetti. Il trovatore, che è spesso un nobile fuggiasco delle terre francesi del sud, si guadagna l'appoggio delle corti e di nobili fornendo la sua prestazione artistica di poeta. Il giullare spesso accompagna questa attività e la completa eseguendo canzoni di cui i testi sono proprio i componimenti del trovatore.
A tal proposito bisogna distinguere almeno due categorie di giullari, in base alla loro funzione e alla location della loro performance. I giullari che agiscono presso le corti sono infatti artisti fissi, non più girovaghi come lo sono i loro colleghi che si esibiscono nelle piazze e nelle taverne. Questa differenza influenza anche il tipo di spettacolo che il giullare era solito eseguire, adattandolo ai contesti e al pubblico. Inoltre si era soliti già nel medioevo fare una distinzione tra i giullari in base ai tipi di spettacoli che essi eseguivano, condannando quelli adusi alla nudità, al contorsionismo (considerato una forma di violazione delle leggi di Dio), alla volgarità e lodando invece quelli che, in funzioni di cantastorie, diffondevano le storie di santi e di virtù cristiana.



SCHERZI A PARTE.  Anche se agli occhi del clero erano ribelli, in realtà, forse anche inconsapevolmente,  questi artisti girovaghi svolsero un ruolo importante nella diffusione della cultura. “Nel Medioevo la trasmissione della cultura era orale. In un’epoca in cui i giornali non esistevano, spostandosi da un luogo all’altro i i giullari diffondevano oralmente le notizie, le tradizioni popolari e il patrimonio letterario delle comunità, erano intermediari tra la cultura di corte e quella popolare, dato che si muovevano tra castelli e piazze. Quando si esibivano davanti al popolo, mettevano in scena gli stessi canti che avevano sentito da altri nelle corti dei principi.”, spiega Clouzot. Gli aristocratici francesi si resero conto del potenziale dei giullari già nel Duecento, quando iniziarono ad assumere a corte gli artisti più istruiti: nel Sud della Francia si chiamavano trovatori, nel Nord trovieri. Erano letterati, autori di storie che venivano poi recitate o cantate davanti al pubblico. Figure simili si trovano anche nel panorama italiano. Uno dei più noti fu Cielo d’Alcamo, vissuto nel XIII secolo, che divenne uno dei più grandi poeti popolari della scuola siciliana. Con la sua Rosa fresca aulentissima, Cielo d’Alcamo diede vita al genere della poesia cortese in lingua volgare, raccontando la storia d’amore tra un nobile e un’umile pastorella, alternando con abilità espressioni auliche, altisonanti e un linguaggio umile e sfacciato.
Ben presto i professionisti della parola presero le distanze dai cugini giullari meno colti. Gli artisti di strada, però sopravvissero. Dal Trecento, alcuni divennero menestrelli, cioè cantanti e musicisti che giravano di corte in corte. Altri, soprattutto nani o deformi, furono assunti da principi e signori, come buffoni. Altri ancora continuarono a vivere per strada, portando avanti una tradizione popolare ormai millenaria.



La corte dei miracoli di Victor Hugo.
Risultati immagini per brueghel il vecchio gli storpi

Pieter Bruegel il Vecchio, Gli storpi(1568). Sul retro della tavola due iscrizioni: «Nemmeno la natura possiede ciò che manca alla nostra arte, tanto grande è il privilegio concesso al pittore, qui la natura, tradotta in immagini dipinte, e vista nei suoi storpi, stupisce rendendosi conto che il Bruegel le è pari.» e un'altra che recita «O storpi che i vostri affari possano prosperare». Nella Fiandra passata al calvinismo il 5 aprile 1566 il "compromesso dei nobili" chiede a Filippo II l'abolizione dell'editto che condanna a morte 60000 uomini e in un banchetto i nobili convitati travestiti da mendicanti inneggiano all'insurrezione nazionale chiamando tutti alla lotta comune al grido di «Viva i pitocchi». Bruegel si schiera con i rivoltosi rappresentando in una corte dei miracoli un principe, un vescovo, un soldato, un contadino e un borghese che indossano una casacca con code di volpi: il segno distintivo dei mendicanti poi divenuto simbolo della resistenza nazionale
Nel romanzo Notre-Dame de Paris, (1802-1885) , esponente del Romanticismo, descrisse la Parigi di fine Quattrocento come la immaginava lui.
SOLO FINCTION. Così accanto ad artisti di strada e ballerine, rappresentò anche una corte dei miracoli, che in realtà apparve in Francia soltanto più tardi, a partire dal Seicento.
La corte in questione non era altro che l’insieme dei quartieri poveri delle grandi città francesi, in cui vivevano mendicanti che facevano finta di essere malati o invalidi per suscitare pietà ed estorcere denaro ai passanti.di giorno chiedevano l’elemosina per strada fingendosi storpi o ciechi, ma di sera, appena rientrati nei loro tuguri, come per miracolo (da qui l’espressione) guarivano. Questi quartieri degradati furono gradualmente smantellati a partire dal 1667 su espresso ordine del Re Sole, Luigi XIV.
 Articolo in gran parte di Simone Zimbardi pubblicato su Focus Storia 139 altri testi e foto da Wikipedia.
CUORI RIBELLI.
Due hippie ante litteram: san Francesco e santa Chiara, uniti dal “privilegio della povertà”, sovvertirono le regole della Chiesa e l’ordine sociale.

Amore spirituale, fraterno, romantico: sono molte le accezioni date al rapporto tra Francesco d’Assisi e Chiara Scifi un uomo e una donna che, prima di divenire santi della cristianità furono ribelli: in un tempo in cui intaccare istituzioni consolidate come Chiesa e famiglia, sembrava inconcepibile, sovvertirono ogni regola mollando tutto, dimore, parenti e status sociale. Tra critiche, e persino violenze, si unirono nell’intento di rivoluzionare la Chiesa.



Chiara d'Assisi, nata Chiara Scifi (Assisi, 1193 circa – Assisi, 11 agosto 1253), è stata una religiosa italiana, collaboratrice di Francesco d'Assisi e fondatrice dell'ordine delle monache clarisse: fu canonizzata come santa Chiara nel 1255 da Alessandro IV nella cattedrale di Anagni. Il 17 febbraio 1958 fu dichiarata da Pio XII santa patrona della televisione e delle telecomunicazioni


San Francesco d'Assisi, opera di Luca Giordano, XVII sec.
Francesco d'Assisi, nato Giovanni di Pietro Bernardone (Assisi, 1181 o 1182[1]  Assisi, 3 ottobre 1226[2][3]), è stato un religioso e poeta italiano.Diacono[4] e fondatore dell'ordine che da lui poi prese il nome, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Il 4 ottobre ne viene celebrata la memoria liturgica in tutta la Chiesa cattolica (festa in Italia; solennità per la Famiglia francescana). È stato proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale d'Italia il 18 giugno 1939 dapapa Pio XII.


COSI’ LONTANI, COSI’ VICINI. Francesco, all’anagrafe Giovanni di Pietro di Bernardone, era un giovane ambizioso e arrivista nato nel 1182 da un’agiata famiglia borghese (all’epoca nomine populi) che commerciava in stoffe. Chiara era invece una fanciulla tutta casa e chiesa nata nel 1193 dal conte di Favarone di Offreduccio degli Scifi, appartenente alla potente classe dei boni nomine, la nobiltà. Due realtà diverse, destinate allo scontro. Assisi, divenuta dominio imperiale nel 1174 per mano di Federico Barbarossa, il cui potere era sostenuto dai boni homines, mentre era inviso agli nomine populi, attraversava una profonda instabilità politica. La rivalità tra le due fazioni, sfociò nel 1202 nella battaglia di Collestrada, nei pressi di Perugia, a cui partecipò anche  Francesco. La sua fazione ebbe il peggio, e il futuro santo finì in carcere, dove trascorse un anno intero. Chiara, nel frattempo, si era trasferita a Perugia con la famiglia per sfuggire alle tensioni politiche cittadine. I due si ritrovarono così inconsapevolmente vicini nel dolore: vivendo l’uno nella prigionia, l’altra, ancora bambina, nell’esilio.

UN FRATE EVERSIVO. Chiuso l’amaro capitolo della detenzione, Francesco non fu più lo stesso: iniziò a trascorrere molto tempo da solo, aggirandosi come uno straccione, alternando preghiera e aiuto ai malati, senza farsi scrupolo di elargire i denari di famiglia. Si sparse perfino la voce che fosse divenuto pazzo. “Il padre capì che Francesco non sarebbe stato il figlio da viziare e ammirare, e al dolore si sostituì presto la rabbia: voleva recuperare il denaro di famiglia e impedire che il giovane continuasse quello sperpero rovinoso tra elemosine e donativi”, racconta Chiara Frugoni, medievista e autrice del saggio Storia di Chiara e Francesco (Einaudi;). Così fu: nel 1206 il padre lo denunciò davanti al vescovo di Assisi con l’accusa di dilapidare il patrimonio familiare, e Francesco, in sede processuale, rispose con un gesto a dir poco sfrontato: si denudò completamente e rinunciò in pubblico all’eredità paterna, il che equivaleva ripudiare la sua stessa famiglia. Poi decise di circondarsi dei suoi primi “fratelli”: 12 uomini (come gli apostoli di Cristo) con cui diede il via a una nuova forma di vita religiosa incentrata sulla povertà.

LA SVOLTA. E Chiara? Chiusa nella sua “torre d’avorio”, la giovane guardava con ammirazione il concittadino. Anche lei, tra l’altro, agli occhi della famiglia, doveva apparire trasgressiva. “Non apprezzava la nobile dimora, né il buon cibo o i bei vestiti che il suo rango le offriva, preferendo indossare la stamigna, un panno grezzo, come fosse una serva”, ricorda la storica. E ignorando il protocollo sociale previsto dal suo ceto, si distinse per la fermezza con cui rifiutò qualsiasi facoltoso giovanotto che la chiedesse in sposa. “Venne così meno all’obbligo di ogni fanciulla aristocratica, destinata attraverso il matrimonio ad aiutare la famiglia a stringere nuove alleanze per crescere in potenza e prestigio”, aggiunge Frugoni.
Chiara l suo compagno di vita l’aveva già scelto ed era proprio Francesco. Fu il cugino di lei, Frate Rufino,  a presentarli nel 1206. I due cominciarono a incontrarsi spesso in appuntamenti fugaci e clandestini, finché lei non cedette completamente: il 18 marzo 1212, Chiara si dileguò nel cuore della notte dalla casa paterna per unirsi a Francesco e alla sua comunità, insediatasi nella chiesa della Porziuncola di Assisi. Lui l’accolse a braccia aperte. Ma dietro quell’unione spirituale (e forse romantica) si nascondeva qualcosa di più. Avvicinare una nobile come Chiara aveva infatti per Francesco un forte significato politico. “Attrarre nella propria confraternita una fanciulla di rango elevato avrebbe dato importanza al progetto dei francescani, mostrando ai concittadini un esempio di pacificazione sociale” spiega l’esperta. E altrettanto clamorosa fu la scelta di Chiara di rinunciare per sempre agli abiti aristocratici per vestire quelli da penitente e dedicarsi alla carriera monastica, seguendo l’esempio del suo maestro di vita. Una scelta che la famiglia tentò di contrastare ricorrendo anche alla violenza: per due volte tentarono di ricondurre la giovane con la forza tra le mura di casa, senza successo. Ma perché la sua famiglia si opponeva in maniera così decisa all’idea di una vita religiosa? Chiara fece scandalo perché rifiutò la vita da monaca di clausura , destinata alle nobili dell’epoca ma scelse di condividere con Francesco un’esistenza consacrata alla diffusione di principi come povertà, umiltà e carità, messi quotidianamente in pratica, non in una vita ascetica.

L’ABBANDONO. La giovane richiamò subito a sé un numero sufficiente a dar vita a nuova comunità (il futuro ordine delle Clarisse), e si stabilì nella chiesa di San Damiano ad Assisi, dove visse per oltre quarant’anni. Tra quelle austere quattro mura, gli incontri e gli scambi di mutuo soccorso tra monache e frati, tra Chiara e Francesco furono assidui.  “Il futuro santo voleva un movimento aperto alle donne, con la speranza di poter riunire un giorno in un’unica fraternità i fedeli di ogni sesso” spiega Frugoni. Un progetto ambizioso che non si realizzò mai. Seppure contro la sua volontà, infatti i contatti con Chiara andarono sempre più diradandosi. Questa rottura fu poi sancita nella regola non bollata, ultimata da Francesco nel 1221 e contenente le norme destinate ai frati dell’ordine francescano (approvato da Innocenzo III nel 1209) . tra le altre cose, nel documento si vietava espressamente la frequentazione con le donne. L’idillio sembrava dunque finito.

LE STIGMATE
Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224,[33][34] due anni prima della morte, mentre si trovava a pregare sul monte della Verna (luogo su cui in futuro sorgerà l'omonimo santuario) e dopo 40 giorni di digiuno, Francesco avrebbe visto un Serafino crocifisso. Al termine della visione gli sarebbero comparse le stigmate: «sulle mani e sui piedi presenta delle ferite e delle escrescenze carnose, che ricordano dei chiodi e dai quali sanguina spesso». Tali agiografie raccontano inoltre che sul fianco destro aveva una ferita, come quella di un colpo di lancia. Fino alla sua morte, comunque, Francesco cercò sempre di tenere nascoste queste sue ferite.
Nell'iconografia tradizionale successiva alla sua morte, Francesco è stato sempre raffigurato con i segni delle stigmate. Per questa caratteristica Francesco è stato definito anche «alter Christus». La condivisione fisica delle pene di Cristo offriva un nuovo volto al cristianesimo, partecipe non più solo del trionfo, simboleggiato dal Cristo in gloria.



UN DOLCE SALUTO.  Privata dell’appoggio della sua guida, la poverella di Assisi dovette affrontare da sola un ostacolo più grande di lei: l’ostilità delle autorità ecclesiastiche al suo progetto religioso. E mentre Chiara si dava da fare per cambiare le cose in seno alla Chiesa, Francesco faceva i conti con una salute sempre più cagionevole e con la delusione per il cambio di rotto preso dalla sua comunità, che era cresciuta, ma perdendo ai suoi occhi la purezza originaria . ormai stanco di combattere, diede le dimissioni e cedette la guida dell’ordine. Sul finire della propria esistenza (morì nel 1226), Francesco fece un’ultima visita all’amica mai dimenticata, raggiungendola nella chiesa di San Damiano. Qui soggiornò, già malato, assistito dalle amorevoli cure di Chiara su un lettuccio di stuoie. Il carismatico  frate trovò la forza di ultimare il cantico delle creature, tra le  cui strofe si cela forse un ultimo pensiero per la sua clariata: nel verso in cui le stelle sono definite “clarite, pretiose et belle, ossia chiare, preziose e belle”. Gli astri del cielo ricordavano a Francesco nientemeno che gli di Chiara.

La regola di Chiara.
La tenace e progressista Chiara Scifi, è stata la prima donna nella Storia a scrivere un Regola monastica, abbracciando l’ideale di vita francescano incentrato sull rinuna e sulla povertà.
RIBELLI. Ma il suo progetto dovette fare i conti con l’establishment ecclesiastico: la comunità femminile di San Damiano (le clarisse) rifiuta infatti la clausura, ossia l’unica opzione considerata accettabile per la vita monastica delle donne in quel periodo (che per praticarla dovevano contare sulle rendite di proprietà familiare). Chiara combatté questa battaglia per tutta la vita , e la sua Regola, seppur modificata per andare incontro al volere pontificio, fu approvata il 9 agosto 1253, appena due giorni prima della sua morte. E già nel 1255 la combattiva clarita fu canonizzata.

Articolo in gran parte di Federica Campanelli su Focus storia 139, immagini e altri testi da Wikipedia.

MANIERI E MISTERI.

Simbolo di un’epoca e cuore del potere feudale, i castelli da sempre ispirano leggende e nascondono… fantasmi.


Un vampiro a palazzo.

Le rovine del castello del conte Vlad.
La possente rocca del XIV secolo che si erge tra le storiche regioni rumene della Transilvania e della Valacchia (foto sotto), è stata a lungo considerata la residenza del conte Dracula , personaggio letterario ispirato a Vladislav III di Valacchia (1431- 1477), sovrano dai modi efferati. Di lui si tramanda che usasse impalare i propri nemici, pratica che gli valse il nome di Tepes, impilatore. Tuttavia il maniero in questione ha il solo merito di aver stimolato la fantasia dello scrittore Bram Stoker, autore del romanzo del 1897 con protagonista il noto vampiro. 



QUELLO VERO. Il vero “castello di Dracula” si trova invece a Poenari, nel comune di Arefu, sempre in Romania. Si tratta di una fortezza del XIII secolo che ai tempi di Vlad III cadeva in rovina, ma che il principe volle riedificare per farne la sua dimora.

Lo spettro del Barbarossa.

Chi volesse incontrare un personaggio del calibro dell’imperatore Federico I Barbarossa può recarsi nella possente rocca che da oltre mille ani domina la Val Staffora (Oltrepò Pavese). Stando ad alcune testimonianze, ogni 25 dicembre a mezzanotte, alcune luci della terza sala della sua imponente torre si accendono e si spengono misteriosamente: si tratta, secondo la credenza locale, proprio del fantasma di Barbarossa



TRADIMENTI. La storia del castello di Oramala inizia nel X secolo, quando la nobile casta degli Obertenghi diede il via alla sua costruzione. Si racconta che qui, in una notte del 1167, Federico
Barbarossa trovò rifugio mentre batteva in ritirata verso la Germania, per evitare lo scontro con la Lega Lombarda, costituita nello stesso anno. L’imperatore fu accolto dall’allora proprietario del castello Obizzo I Malaspina, personaggio ambiguo e doppiogiochista che, dopo aver in un primo momento osteggiato il sovrano, decise di appoggiarlo nella lotta contro i comuni ribelli, salvo poi tradirlo ancora una volta alleandosi con la Lega.

Le anime in pena che si aggirano per le antiche torri sono spesso donne: mogli o amanti uccise per gelosia.

La prigione di Bianca.


Fondato in epoca bizantina, il castello di Gioia del Colle (Bari), ha subito negli anni numerosi rifacimenti. Federico II lo ricostruì conferendogli il tipo stile normanno-svevo che possiamo osservare oggi. La notorietà del castello è legata è legata a un fatto di sangue, con protagonista Bianca Lancia, amante di Federico. Secondo una leggenda sorta  nel XVIII secolo, Bainca venne rinchiusa nelle segrete del maniero con l’accusa di infedeltà. La donna era incinta, ma Federico non credeva che il nascituro potesse essere suo figlio.
NEL SANGUE. Dopo aver dato alla luce il bambino (Manfredi, ultimo svevo a portare la corona di Sicilia), la donna si amputò i seni in segno di vergogna e li fece recapitare all’imperatore insieme al neonato, quindi si tolse la vita. Molti anziani del luogo giurano di aver visto la figura di Bianca muoversi all’interno del castello e di aver udito le urla strazianti dell’automutilazione.


Fra Holger e Amleto.


Voluto dal re danese Erik VII nel XV secolo, l’edificio è stato più volte ristrutturato e ampliato fino a divenire uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale nordeuropea. Il palazzo di Kronoborg, a Helsingor (Danimarca), deve la sua fama a Shakespeare, che qui ambientò il suo Amleto. Ma per i danesi il castello è prima di tutto la dimora del loro eroe nazionale: Holger, leggendario paladino di Carlo Magno protagonista del componimento epico Chevalerie Orgier, appartenuto al ciclo dei “vassalli ribelli” (XI secolo).
PALADINO. Secondo la tradizione, Holger riposa nel castello accovacciato sulla sua barba, ma se un giorno dovesse trovarsi in pericolo, si sveglierà dal suo sonno per difenderla.



Non c’è pace per Agnese.



Storica residenza della famiglia Gonzaga realizzata tra il 1395 e il 1406, il castello di San Giorgio (Mantova) è noto soprattutto per i capolavori della pittura conservati al suo interno, tra cui spiccano gli affreschi quattrocenteschi di Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi. Ma nelle sue stanze si cela anche un mistero: la presenza effimera di una giovane donna che, dice la leggenda, si aggirerebbe nell’edificio in preda allo sconforto, tra pianti e lampi di luce. Si  tratta dl fantasma della nobile Agnese Visconti, figli di Bernabò, signore di Milano, e moglie di Francesco I Gonzago, committente del castello.
MOGLIE SCOMODA. Nel 1391 la donna fu fatta decapitare per presunto adulterio e sepolta in un terreno non consacrato nei pressi del Palazzo Ducale. Secondo gli storici, si trattò probabilmente di una spietata mossa politica per eliminare una moglie scomoda. Agnese, infatti si era schierata contro il cugino Gian Galeazzo Visconti, che con un colpo di stato si era impadronito della signoria milanese a scapito di Bernabò. L’ostilità di Agnese nei confronti dell’usurpatore, evidentemente contrastava gli interessi degli stessi Gonzaga. 

i castelli nacquero e si diffusero alle soglie dell’anno Mille. A partire dal XII secolo si trasformarono da semplici capisaldi fortificati a ricchi palazzi.
  
Nel quartier generale dei Malatesta. 


Sorto su una struttura difensiva romana, il Castello di Montebello di Torriana (Rimini) divenne nel 1186 proprietà della famiglia Malatesta. Il castello ospiterebbe uno dei fantasmi più famosi d’Italia, quello di Guendalina, o Azzurrina, figlia del feudatario Uguccione di Montebello.

FIGLIA DEL PECCATO. Si narra che la bambina scomparve il 21 giugno 1375 e che da allora, ogni cinque anni, il suo spirito torni a farsi sentire nella notte del solstizio d’estate. Dagli anni Novanta il castello è stato addirittura oggetto di studi pseudoscientifici. Fantasmi a parte, per gli storici la bambina sarebbe stata uccisa per volere dello stesso Uguccione, perché figlia di adulterio.


Dove nacque re Artù.


Non ospita alcun fantasma, ma il Castello di Tintagel (Cornovaglia) è noto comunque in tutto il mondo: è il luogo in cui, secondo la Historia Regum Britanniea (Storia del re di Britannia, cronaca in latino del XII secolo), sarebbe nato il mitico re Artù. Le rovine della rocca risalgono però al XIII secolo più tardo rispetto alla presunta nascita del cavaliere (V secolo). Ciò sembrerebbe confermare come tutta la storia di Artù sia frutto di fantasia. Eppure, come in molte leggende, un fondo di verità c’é.
QUALCOSA DI VERO? Scavi effettuati nel 2016 hanno infatti portato alla luce i resti di un palazzo nobiliare ben più antico, datato proprio attorno al V-VI secolo. Queste scoperte si aggiungono a un’interessante reperto rinvenuto nel 1998: la cosiddetta pietra di Artognou la cui assonanza con Artù è evidente.



 pietra di Artognou




Nella foresta di Sherwood.

Il suggestivo forte sorge su piccolo promontorio roccioso noto come Castle Rock, nei pressi del fiume Trent e della celebre foresta di Sherwood. La sua prima costruzione si deve a Guglielmo il Conquistatore all’indomani della battaglia di Hastings (1066), evento bellico che portò la dinastia normanna sul trono d’Inghilterra. Si trattava inizialmente di una “motta castrale” (in inglese motte-and-bailey), tipologia di fortificazione che i Normanni diffusero nei Paesi da loro assoggettati, dalla Gran Bretagna alla Francia fino alla Sicilia. Questa veniva ottenuta scavando un fossato e utilizzando il materiale di risulta perforare una collinetta (la motta) , in cima alla quale trovava posto il forte vero e proprio, realizzato generalmente in legno. A volte questo si ergeva su alture naturali, come nel caso di Nottingham.
ROBIN HOOD. Nel XII secolo, sotto il regno di Enrico II, la struttura lignea venne ricostruita in pietra e arricchita di nuovi ambienti, in modo da fare del forte a residenza reale, ruolo che ricoprì fino alla prima metà del Seicento. Secondo la legenda di Robin Hood, il castello fu teatro dello scontro finale fra il bandito-eroe e lo sceriffo di Nottingham, il suo più accanito antagonista. Questi sostenitore del principe Giovanni Senza Terra, entrato in conflitto con il fratello Riccardo Cuor di Leone, aveva occupato l’edificio approfittando dell’assenza del re nella terza crociata (1189-1192). Per celebrare la saga che ha contribuito alla notorietà do Nottingham, ogni anno il castello ospita il festival medievale noto come Robin Hood Pageant.

Articolo in gran parte a cura di Federica Campanelli pubblicato su Focus storia 139 immagini scaricate da Wikipedia.







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