domenica 26 gennaio 2020

La scuola nell’antica Roma. Maestri e studenti.


La scuola nell’antica Roma. Maestri e studenti.
Le prime scuole pubbliche romane nacquero solo nel tardo periodo repubblicano. Prima di allora, l’insegnamento era affidato a mastri privati, generalmente schiavi o liberti di origine greca, e l’educazione mirava soprattutto a formare virtuosi cittadini.


(LA)
«Non equidem insector delendave carmina Livi
esse reor, memini quae plagosum mihi parvo
Orbilium dictare; sed emendata videri
pulchraque et exactis minimum distantia miror. [1]»
(IT)
«E comunque non depreco e non voglio distrutti
i poemi di Livio che -ricordo- a me da ragazzo
Orbilio[2] dettava a suon di botte, ma mi meraviglio
che siano creduti puri, leggiadri, praticamente perfetti»


Un magister romano con tre allievi. Bassorilievo rinvenuto a Neumagen-Dhron, presso Treviri.


Mentre in Grecia il saggio Licurgo (leggendario legislatore spartano, vissuto tra il IX e l’VIII secolo a.C.) aveva dettato norme precise per l’educazione dei fanciulli, nella Roma antica non esisteva nulla di simile. Dall’età arcaica fino alla metà del IV secolo a.C., l’istruzione impartita ai giovani, in base alle informazioni che abbiamo, doveva essere piuttosto scarna ed essenziale. Bisogna però considerare che Roma stessa, con le sue istituzioni e i suoi costumi, era una scuola naturale in virtù civili e militari. I bambini imparavano a leggere e scrivere dai familiari, in particolare dal padre o da schiavi istruiti. Costoro provvedevano poi a trasmettere ai piccoli le competenze fondamentali, a seconda che fossero maschi o femmine: agricoltura e arti militari per i primi, filatura, tessitura, cucito ed economia domestica per le seconde. Un particolare, però, distingueva l’insegnamento a Roma antica da quello delle civiltà coeve e successive: i bambini dovevano imparare a memoria le Leggi delle XII Tavole. Emanate nel 451 a.C., erano le prime leggi scritte della Repubblica. Ispirare alle norme greche e incise su dodici tavole di bronzo affisse nel Foro, erano comprensibili e accessibili a tutti i cittadini. Il fatto d’iniziare qualsiasi educazione nel testo base del diritto romano garantiva la formazione del Civis Romanus, il cittadino romano, plasmato sui valori solidi e immutabili che assicuravano l’esistenza e il potere dell’Urbe. Del resto, come scriveva Ennio, poeta del III secolo a.C., considerato il padre della letteratura latina: “E’ sui costumi antichi che riposa la grandezza di Roma”.

Dalle leggi alla religione. Un posto di riguardo spettava all’educazione religiosa: i bambini imparavano a memoria i Carmina Saliaria, i canti dei Salii, antichissimi sacerdoti risalenti all’epoca del re Numa Pompilio. Questi canti, nei quali si invocavano gli dei di Roma, erano una specie di catechismo per imparare i nomi delle divinità e i loro attributi. Allo stesso tempo rafforzavano nel bambino il senso del sacro, che permeava tutta la civiltà romana arcaica. Largo spazio era lasciato anche all’educazione fisica, che mirava a temprare il corpo e il carattere del piccolo, preparandolo alle fatiche della guerra. Quest’idea dell’istruzione si mantenne a lungo nel costume romano: ancora fra III e II secolo a.C., il severo Catone il Censore si vantava di aver educato i figli come avevano fatto tutti i suoi avi, insegnando loro a “leggere, scrivere, nuotare e combattere”. La situazione iniziò a mutare nella seconda metà del III secolo a.C. Cent’anni prima, tra il 367 e il 351 a.C., la plebe aveva ottenuto l’accesso al potere politico; nel frattempo si erano intensificati i rapporti con la Grecia. Lentamente, con la crescente introduzione di elementi stranieri, l’antica educazione domestica e nazionale cambiò, mentre diminuiva l’importanza del padre come modello di riferimento educativo. I genitori cominciarono a disinteressarsi dell’istruzione dei figli, affidandola a figure esterne, non sempre qualificate. Così, alla fine del III secolo a.C. cominciò a porsi seriamente il problema di un’istruzione privata o pubblica.

Giovinetta intenta alla lettura (bronzo del I sec.

La rivoluzione di Quintiliano.

Statua di Quintiliano a Calahorra, città natale del retore
Il metodo d’insegnamento applicato nelle scuole romane era noioso e monotono. Gli allievi dovevano imparare a memoria e ripetere macchinalmente una quantità di nozioni, senza necessariamente comprenderle. Il rapporto tra maestro e allievo era improntato alla massima severità e freddezza, cosa che certo non alimentava negli scolari l’amore per il sapere. Ma nel I secolo d.C. l’oratore Quintiliano rilevò due elementi che oggi riconosciamo fondamentali per la buona riuscita del processo educativo. Il primo è la capacità, da parte del maestro, di attirare l’attenzione dei ragazzi stimolandone l’interesse e la curiosità e interagendo con loro. Come spiega Quintiliano: “La voce del maestro è come il sole, che elargisce a tutti la medesima luce e il medesimo calore. Il secondo elemento è costituito dall’importanza del gioco nel processo di apprendimento. Queste due illuminanti intuizioni sono contenute nell’Institulio oratoria (la formazione dell’oratore), un trattato di retorica redatto nel 90-96 a.C., che per circa un millennio venne considerato, in sostenza, l’unico manuale di pratica e teoria pedagogica dell’Occidente. 

Il gioco della scuola. L’educazione privata, preferita dalle classi alte, era affidata a un pedagogo (termine che deriva dal greco e significa “colui che giuda il bimbo”), cioè uno schiavo istruito o un liberto, il cui unico compito era prendersi cura dell’educazione dei fanciulli di casa. Quanto alle scuole pubbliche, in realtà non esistevano: in età repubblicana lo Stato non si occupò mai di organizzarle o sostenerle economicamente. Le scuole sorgevano grazie all’iniziativa di singoli individui, che affittavano a proprie spese uno spazio in cui accogliere bambini e ragazzi dei due sessi per istruirli in cambio di un compenso. Come riporta lo storico greco Plutarco, la prima di tali scuole fu aperta nel 231 a.C. dal liberto Spurio Carvillo. Più o meno nello stesso periodo, il colto liberto Livio Andronico (280-200 a.C.), nativo della Magna Grecia prese a impartire lezioni di latino e di greco ai giovani delle gentes patrizie.
A ogni modo, le fonti che parlano dell’educazione dei bambini sono piuttosto rare e bisogna attendere il II secolo a.C. per trovarne qualche traccia nei testi e capire com’era organizzata la scuola romana. La prima sorpresa sta nel nome: ludus, gioco. Proprio come un gioco, lo scopo fondamentale della scuola, simile alla nostra scuola primaria, era la socializzazione del bimbo, che nello stesso tempo apprendeva le nozioni di base sotto la guida del ludi magister, il “maestro del gioco”. Bambini e bambine imparavano a leggere, scrivere e far di conto. Poiché i prezzi erano molto bassi, il ludus era accessibile a quasi tutti. Non esistevano edifici scolastici: le lezioni si svolgevano all’aperto, sotto la pensilina (pergula) di qualche bottega; oppure, in caso di maltempo, in un locale della stessa, che soltanto una tenda isolava dal testo dell’ambiente. Da un lato, il chiasso della strada disturbava le lezioni, dall’altro il brusio degli allievi e i richiami dei maestri infastidivano i residenti, come testimonia il poeta Marziale, che in uno dei suoi epigrammi inveisce contro un maestro che insegna sotto casa sua impedendogli di dormire. Le lezioni, infatti, cominciavano prestissimo, verso le sei di mattina, e si protraevano fin verso mezzogiorno. Dopo la pausa per il pranzo, riprendevano nel pomeriggio. I ragazzi delle famiglie più agiate venivano accompagnati da uno schiavo, incaricato di portare l’occorrente per lo studio e provvisto di lanterna per illuminare le strade buie nei mesi autunnali (d’inverno le scuole erano chiuse). Non esistevano cartelle o zaini: gli studenti avevano soltanto la capsa, un astuccio cilindrico contenente le tavolette cerate, lo stilus (la cannuccia da scrivere) e i calculi, le pietruzze per fare i conti. Durante il tragitti ci si fermava presso un forno a comprare qualcosa da mangiare nell’intervallo di pranzo. I ragazzi del popolo si arrangiavano come potevano, portandosi da casa un po’ di cibo e arrischiandosi a camminare anche senza lume. Poiché non esistevano locali specifici adibiti all’insegnamento, gli spazi all’aperto o al chiuso erano arredati con il minimo indispensabile: sgabelli per gli alunni, un sedile (sella) o una sedia con schienale (cathedra) per il maestro, una lavagna, un pallottoliere e un abaco. Non esistevano nemmeno le classi come intendiamo noi: gli scolari, dai 7 ai 12 anni, erano divisi in gruppi in base al livello di apprendimento, indipendentemente dall’età. L’istruzione primaria era affidata al ludi magiseter, ma poi gli allievi passavano a studi più complessi, approfondendo la lettura e la scrittura, l’aritmetica e la stenografia (ossia la tecnica delle abbreviazioni, molto usata a Roma).

Le punizioni corporali.
Nelle scuole romane la disciplina era rigidissima e le punizioni corporali molto frequenti. Verghe e fruste di cuoio erano parte integrale del corredo di ogni maestro come riporta Marziale nei suoi Epigrammi, indicando nel bastone il vero simbolo dell’insegnante. Il poeta Orazio ricorda il suo maestro Orbilius con l’appellativo di plagasus, manesco. Un affresco rinvenuto a Pompei, mostra la punizione di uno scolare con modalità a dir poco sconcertanti: il ragazzino, nudo, e uno dei compagni se l’è caricato sulla schiena e un altro lo tiene per i piedi mentre viene frustato. Aspramente contrario al valore pedagogico delle punizioni corporali, l’oratore Quintiliano così commenta questa pratica: “Il dolore e la paura fanno fare ai fanciulli cose che non si possono onestamente riferire e che ben presto li coprono di vergogna. Accade di peggio se si è trascurato d’indagare sui costumi dei sorveglianti e dei maestri. Non oso dire le infamie cui uomini abominevoli si lasciano andare in base al loro diritto di punizione corporale”.

La gerarchia scolastica. Al livello più basso stavano gli abecedarli, cioè gli scolari che studiavano ancora l’alfabeto, seguivano i sillabarsi, che imparavano le sillabe e il modo di combinarle nelle parole, infine c’erano i nominarsi, che erano in grado di leggere e scrivere le parole complete.
Compiuti i 12 anni, gli allievi in grado, per capacità e mezzi, di continuare a studiare venivano avviati al secondo livello, dove un grammaticus insegnava loro materie letterarie e scientifiche: lingua e letteratura greca e latina, storia, geografia, fisica e astronomia. Poiché, per le donne, l’età minima per sposarsi era 12 anni, molte allieve dovevano lasciare la scuola quando avevano 10 o 11; poche fortunate potevano continuare gli studi in privato.
Il livello scolastico più alto era quello intrapreso sotto la guida di un rhetor, maestro di retorica e di eloquenza, che formava i giovani desiderosi di intraprendere la carriera politica, per i quali l’abilità oratoria era fondamentale. Completato anche questo ciclo di studi, che durava due anni, chi poteva permetterselo si recava all’estero per perfezionarsi nella filosofia o nelle scienze: Atene e Rodi, in Grecia, Pergamo in Asia Minore e Alessandria in Egitto erano le mete più ambite. Per tutti, l’anno scolastico iniziava alla fine di marzo e durava otto mesi, con frequenti interruzioni legate alle molte festività che caratterizzavano la vita romana.
A dispetto dell’importanza del loro compito, quella dei maestri non era una classe privilegiata. Nel I secolo d.C., l’onorario di un’insegnante di qualsiasi livello non superava i 20 sesterzi al mese: lo stipendio di un manovale. Con il tempo le cose sarebbero cambiate di poco, come testimonia l’editto De pretiis (sui prezzi), emesso dall’imperatore Diocleziano nel 301. Per portare a fcasa la stessa somma di un artigiano non specializzato, un maestro doveva riuscire a mettere insieme classi di trenta allievi: impresa non facile, data l’aspra concorrenza. Così, era inevitabile che gli insegnanti cercassero di arrotondare le loro magre entrate come potevano: molti facevano gli scrivani, o s’ingegnavano a dare lezioni private, magari a qualche adulto desideroso di recuperare il tempo perduto.
Il sistema scolastico ricevette forte impulso su un’epoca imperiale, soprattutto nel periodo tra i principati di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) e Marco Aurelio (161-180). Vespasiano, che regnò dal 69 al 79, fu il primo a concepire la figura professionale dell’insegnante come dipendente statale, stipendiato dal governo. Dopo di lui, Adriano (117-138) incentivò la diffusione delle scuole anche nelle province più estreme dell’Impero, offrendo privilegi economici a maestri e precettori che avessero accettato di stabilirvisi. Alessandro Severo (222-235) fondò scuole pubbliche e istituì borse di studio per gli allievi poveri ma meritevoli, permettendo che continuassero a studiare. Graziano (367-383) stabilì per ogni città, a seconda dell’importanza, la somma che doveva corrispondere ai maestri. Nel 425, Teodosio II fondò la Scuola di Costantinopoli, dedicata agli studi di alto livello, qualcosa di molto simile alla nostra università. Fu l’ultimo atto suo della politica educativa di Roma. Cinquant’anni dopo, l’Impero Romano d’Occidente crollava dando inizio al Medioevo.

Articolo in gran parte di Alessandra Colla pubblicato su civiltà romana n. 2 – altri testi e immagini da wikipedia.  

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