La scuola nell’antica
Roma. Maestri e studenti.
Le prime scuole
pubbliche romane nacquero solo nel tardo periodo repubblicano. Prima di allora,
l’insegnamento era affidato a mastri privati, generalmente schiavi o liberti di
origine greca, e l’educazione mirava soprattutto a formare virtuosi cittadini.
(LA)
«Non equidem insector delendave carmina Livi
esse reor, memini quae plagosum mihi parvo Orbilium dictare; sed emendata videri pulchraque et exactis minimum distantia miror. [1]» | (IT) |
Mentre
in Grecia il saggio Licurgo (leggendario legislatore spartano, vissuto tra il
IX e l’VIII secolo a.C.) aveva dettato norme precise per l’educazione dei
fanciulli, nella Roma antica non esisteva nulla di simile. Dall’età arcaica
fino alla metà del IV secolo a.C., l’istruzione impartita ai giovani, in base
alle informazioni che abbiamo, doveva essere piuttosto scarna ed essenziale.
Bisogna però considerare che Roma stessa, con le sue istituzioni e i suoi
costumi, era una scuola naturale in virtù civili e militari. I bambini
imparavano a leggere e scrivere dai familiari, in particolare dal padre o da
schiavi istruiti. Costoro provvedevano poi a trasmettere ai piccoli le
competenze fondamentali, a seconda che fossero maschi o femmine: agricoltura e
arti militari per i primi, filatura, tessitura, cucito ed economia domestica
per le seconde. Un particolare, però, distingueva l’insegnamento a Roma antica
da quello delle civiltà coeve e successive: i bambini dovevano imparare a
memoria le Leggi delle XII Tavole. Emanate nel 451 a.C., erano le prime leggi
scritte della Repubblica. Ispirare alle norme greche e incise su dodici tavole
di bronzo affisse nel Foro, erano comprensibili e accessibili a tutti i
cittadini. Il fatto d’iniziare qualsiasi educazione nel testo base del diritto
romano garantiva la formazione del Civis Romanus, il cittadino romano, plasmato
sui valori solidi e immutabili che assicuravano l’esistenza e il potere
dell’Urbe. Del resto, come scriveva Ennio, poeta del III secolo a.C.,
considerato il padre della letteratura latina: “E’ sui costumi antichi che
riposa la grandezza di Roma”.
Dalle leggi alla religione. Un posto di riguardo
spettava all’educazione religiosa: i bambini imparavano a memoria i Carmina
Saliaria, i canti dei Salii, antichissimi sacerdoti risalenti all’epoca del re
Numa Pompilio. Questi canti, nei quali si invocavano gli dei di Roma, erano una
specie di catechismo per imparare i nomi delle divinità e i loro attributi.
Allo stesso tempo rafforzavano nel bambino il senso del sacro, che permeava
tutta la civiltà romana arcaica. Largo spazio era lasciato anche all’educazione
fisica, che mirava a temprare il corpo e il carattere del piccolo, preparandolo
alle fatiche della guerra. Quest’idea dell’istruzione si mantenne a lungo nel
costume romano: ancora fra III e II secolo a.C., il severo Catone il Censore si
vantava di aver educato i figli come avevano fatto tutti i suoi avi, insegnando
loro a “leggere, scrivere, nuotare e combattere”. La situazione iniziò a mutare
nella seconda metà del III secolo a.C. Cent’anni prima, tra il 367 e il 351
a.C., la plebe aveva ottenuto l’accesso al potere politico; nel frattempo si
erano intensificati i rapporti con la Grecia. Lentamente, con la crescente
introduzione di elementi stranieri, l’antica educazione domestica e nazionale
cambiò, mentre diminuiva l’importanza del padre come modello di riferimento
educativo. I genitori cominciarono a disinteressarsi dell’istruzione dei figli,
affidandola a figure esterne, non sempre qualificate. Così, alla fine del III
secolo a.C. cominciò a porsi seriamente il problema di un’istruzione privata o
pubblica.
Giovinetta intenta alla lettura (bronzo del I sec.
Il metodo d’insegnamento applicato
nelle scuole romane era noioso e monotono. Gli allievi dovevano imparare a
memoria e ripetere macchinalmente una quantità di nozioni, senza necessariamente
comprenderle. Il rapporto tra maestro e allievo era improntato alla massima
severità e freddezza, cosa che certo non alimentava negli scolari l’amore per
il sapere. Ma nel I secolo d.C. l’oratore Quintiliano rilevò due elementi che
oggi riconosciamo fondamentali per la buona riuscita del processo educativo.
Il primo è la capacità, da parte del maestro, di attirare l’attenzione dei
ragazzi stimolandone l’interesse e la curiosità e interagendo con loro. Come
spiega Quintiliano: “La voce del maestro è come il sole, che elargisce a
tutti la medesima luce e il medesimo calore. Il secondo elemento è costituito
dall’importanza del gioco nel processo di apprendimento. Queste due
illuminanti intuizioni sono contenute nell’Institulio oratoria (la formazione
dell’oratore), un trattato di retorica redatto nel 90-96 a.C., che per circa
un millennio venne considerato, in sostenza, l’unico manuale di pratica e
teoria pedagogica dell’Occidente.
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Il gioco della scuola. L’educazione privata,
preferita dalle classi alte, era affidata a un pedagogo (termine che deriva dal
greco e significa “colui che giuda il bimbo”), cioè uno schiavo istruito o un
liberto, il cui unico compito era prendersi cura dell’educazione dei fanciulli
di casa. Quanto alle scuole pubbliche, in realtà non esistevano: in età
repubblicana lo Stato non si occupò mai di organizzarle o sostenerle
economicamente. Le scuole sorgevano grazie all’iniziativa di singoli individui,
che affittavano a proprie spese uno spazio in cui accogliere bambini e ragazzi
dei due sessi per istruirli in cambio di un compenso. Come riporta lo storico
greco Plutarco, la prima di tali scuole fu aperta nel 231 a.C. dal liberto
Spurio Carvillo. Più o meno nello stesso periodo, il colto liberto Livio
Andronico (280-200 a.C.), nativo della Magna Grecia prese a impartire lezioni
di latino e di greco ai giovani delle gentes patrizie.
A ogni modo, le fonti
che parlano dell’educazione dei bambini sono piuttosto rare e bisogna attendere
il II secolo a.C. per trovarne qualche traccia nei testi e capire com’era
organizzata la scuola romana. La prima sorpresa sta nel nome: ludus, gioco.
Proprio come un gioco, lo scopo fondamentale della scuola, simile alla nostra
scuola primaria, era la socializzazione del bimbo, che nello stesso tempo
apprendeva le nozioni di base sotto la guida del ludi magister, il “maestro del
gioco”. Bambini e bambine imparavano a leggere, scrivere e far di conto. Poiché
i prezzi erano molto bassi, il ludus era accessibile a quasi tutti. Non
esistevano edifici scolastici: le lezioni si svolgevano all’aperto, sotto la
pensilina (pergula) di qualche bottega; oppure, in caso di maltempo, in un
locale della stessa, che soltanto una tenda isolava dal testo dell’ambiente. Da
un lato, il chiasso della strada disturbava le lezioni, dall’altro il brusio
degli allievi e i richiami dei maestri infastidivano i residenti, come
testimonia il poeta Marziale, che in uno dei suoi epigrammi inveisce contro un
maestro che insegna sotto casa sua impedendogli di dormire. Le lezioni,
infatti, cominciavano prestissimo, verso le sei di mattina, e si protraevano
fin verso mezzogiorno. Dopo la pausa per il pranzo, riprendevano nel
pomeriggio. I ragazzi delle famiglie più agiate venivano accompagnati da uno
schiavo, incaricato di portare l’occorrente per lo studio e provvisto di
lanterna per illuminare le strade buie nei mesi autunnali (d’inverno le scuole
erano chiuse). Non esistevano cartelle o zaini: gli studenti avevano soltanto
la capsa, un astuccio cilindrico contenente le tavolette cerate, lo stilus (la
cannuccia da scrivere) e i calculi, le pietruzze per fare i conti. Durante il
tragitti ci si fermava presso un forno a comprare qualcosa da mangiare
nell’intervallo di pranzo. I ragazzi del popolo si arrangiavano come potevano,
portandosi da casa un po’ di cibo e arrischiandosi a camminare anche senza
lume. Poiché non esistevano locali specifici adibiti all’insegnamento, gli
spazi all’aperto o al chiuso erano arredati con il minimo indispensabile: sgabelli
per gli alunni, un sedile (sella) o una sedia con schienale (cathedra) per il
maestro, una lavagna, un pallottoliere e un abaco. Non esistevano nemmeno le
classi come intendiamo noi: gli scolari, dai 7 ai 12 anni, erano divisi in
gruppi in base al livello di apprendimento, indipendentemente dall’età.
L’istruzione primaria era affidata al ludi magiseter, ma poi gli allievi
passavano a studi più complessi, approfondendo la lettura e la scrittura,
l’aritmetica e la stenografia (ossia la tecnica delle abbreviazioni, molto
usata a Roma).
Le punizioni corporali.
Nelle scuole romane la disciplina
era rigidissima e le punizioni corporali molto frequenti. Verghe e fruste di
cuoio erano parte integrale del corredo di ogni maestro come riporta Marziale
nei suoi Epigrammi, indicando nel bastone il vero simbolo dell’insegnante. Il
poeta Orazio ricorda il suo maestro Orbilius con l’appellativo di plagasus,
manesco. Un affresco rinvenuto a Pompei, mostra la punizione di uno scolare
con modalità a dir poco sconcertanti: il ragazzino, nudo, e uno dei compagni
se l’è caricato sulla schiena e un altro lo tiene per i piedi mentre viene
frustato. Aspramente contrario al valore pedagogico delle punizioni
corporali, l’oratore Quintiliano così commenta questa pratica: “Il dolore e la paura fanno fare ai
fanciulli cose che non si possono onestamente riferire e che ben presto li
coprono di vergogna. Accade di peggio se si è trascurato d’indagare sui
costumi dei sorveglianti e dei maestri. Non oso dire le infamie cui uomini
abominevoli si lasciano andare in base al loro diritto di punizione
corporale”.
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La gerarchia scolastica. Al livello più basso
stavano gli abecedarli, cioè gli scolari che studiavano ancora l’alfabeto,
seguivano i sillabarsi, che imparavano le sillabe e il modo di combinarle nelle
parole, infine c’erano i nominarsi, che erano in grado di leggere e scrivere le
parole complete.
Compiuti i 12 anni, gli
allievi in grado, per capacità e mezzi, di continuare a studiare venivano
avviati al secondo livello, dove un grammaticus insegnava loro materie
letterarie e scientifiche: lingua e letteratura greca e latina, storia,
geografia, fisica e astronomia. Poiché, per le donne, l’età minima per sposarsi
era 12 anni, molte allieve dovevano lasciare la scuola quando avevano 10 o 11;
poche fortunate potevano continuare gli studi in privato.
Il livello scolastico
più alto era quello intrapreso sotto la guida di un rhetor, maestro di retorica
e di eloquenza, che formava i giovani desiderosi di intraprendere la carriera
politica, per i quali l’abilità oratoria era fondamentale. Completato anche
questo ciclo di studi, che durava due anni, chi poteva permetterselo si recava
all’estero per perfezionarsi nella filosofia o nelle scienze: Atene e Rodi, in
Grecia, Pergamo in Asia Minore e Alessandria in Egitto erano le mete più
ambite. Per tutti, l’anno scolastico iniziava alla fine di marzo e durava otto
mesi, con frequenti interruzioni legate alle molte festività che
caratterizzavano la vita romana.
A dispetto
dell’importanza del loro compito, quella dei maestri non era una classe
privilegiata. Nel I secolo d.C., l’onorario di un’insegnante di qualsiasi
livello non superava i 20 sesterzi al mese: lo stipendio di un manovale. Con il
tempo le cose sarebbero cambiate di poco, come testimonia l’editto De pretiis
(sui prezzi), emesso dall’imperatore Diocleziano nel 301. Per portare a fcasa
la stessa somma di un artigiano non specializzato, un maestro doveva riuscire a
mettere insieme classi di trenta allievi: impresa non facile, data l’aspra
concorrenza. Così, era inevitabile che gli insegnanti cercassero di arrotondare
le loro magre entrate come potevano: molti facevano gli scrivani, o
s’ingegnavano a dare lezioni private, magari a qualche adulto desideroso di
recuperare il tempo perduto.
Il sistema scolastico
ricevette forte impulso su un’epoca imperiale, soprattutto nel periodo tra i
principati di Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) e Marco Aurelio (161-180).
Vespasiano, che regnò dal 69 al 79, fu il primo a concepire la figura
professionale dell’insegnante come dipendente statale, stipendiato dal governo.
Dopo di lui, Adriano (117-138) incentivò la diffusione delle scuole anche nelle
province più estreme dell’Impero, offrendo privilegi economici a maestri e
precettori che avessero accettato di stabilirvisi. Alessandro Severo (222-235)
fondò scuole pubbliche e istituì borse di studio per gli allievi poveri ma
meritevoli, permettendo che continuassero a studiare. Graziano (367-383)
stabilì per ogni città, a seconda dell’importanza, la somma che doveva
corrispondere ai maestri. Nel 425, Teodosio II fondò la Scuola di
Costantinopoli, dedicata agli studi di alto livello, qualcosa di molto simile alla
nostra università. Fu l’ultimo atto suo della politica educativa di Roma.
Cinquant’anni dopo, l’Impero Romano d’Occidente crollava dando inizio al
Medioevo.
Articolo in gran parte
di Alessandra Colla pubblicato su civiltà romana n. 2 – altri testi e immagini
da wikipedia.
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