lunedì 30 luglio 2018

bombardamento porto di Bari: la nave segreta

LA NAVE SEGRETA.
Nel porto di Bari, occupato dalle forze inglesi, i primi di dicembre del 1943 alcuni aerei tedeschi bombardarono le navi da rifornimento, in rada. Tra queste ce n’era uno che non avrebbe dovuto essere lì.




Bombardamento di Bari (1943) - 5.jpg

Il porto visto da una postazione antiaerea dopo l'attacco

La sera del 2 dicembre 1943, 105 bombardieri Junkers Ju 88 appartenenti alla Luftflotte 2 tedesca bombardarono lenavi da trasporto ancorate alla fonda del porto; l'attacco causò grosse perdite per gli alleati, che non subivano un'incursione aerea a sorpresa di tale efficacia a un proprio porto dall'attacco giapponese di Pearl Harbor[1



Il 2 dicembre 1943, in piena Seconda guerra mondiale ai soccorritori accorsi al porto di Bari, appena bombardato, si presentò una scena da inferno dantesco: fumo e fiamme, morti che galleggiavano in acqua feriti e mutilati con indosso un salvagente e strazianti grida di aiuto. Un testimone, imbarcato sulla nave Vulcan, riferì che “sembrava che tutto il mondo andasse a fuoco”. Un attacco della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca, aveva infatti appena colpito alcuni cargo inglesi presenti in rada. L’attacco, che qualcuno chiamò la Pearl Harbour italiana, fu compiuto da dai bombardieri durante le operazioni di carico e scarico delle navi. Le vittime, soprattutto militari, secondo lo storico e giornalista americano Rick Atkinson, furono più di mille. Si stima che morirono 186 civili, normali cittadini che passavano di lì per caso o che abitavano nei dintorni del porto.

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junker ju88


PORTO STRATEGICO. Dall’11 settembre (3 giorni dopo che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati9 la città pugliese, considerata strategica per gli approvvigionamento delle forze inglesi dell’8a Armata britannica, era sotto il controllo delle forze inglesi. E lo scopo dei bombardamenti tedeschi era proprio quello di ostacolare i rifornimenti delle truppe in zona. L’obbiettivo era l’affondamento di 17 navi e il danneggiamento di altre 7, fu raggiunto. Un successo per i nazisti, che fu usato soprattutto a fini propagandistici, per compensare le numerose sconfitte subite nel corso di quell’anno. Tra le imbarcazioni colpite vi fu anche la USS John Harvey, che aveva un carico speciale. Il cargo americano trasportava un migliaio di ordigni e soprattutto, ma questo i tedeschi non lo sapevano, 100 tonnellate di iprite, un gas altamente tossico, che sotto i colpi fuoriuscì, contaminando acqua e aria.

SS John Harvey on fire 12-2-1943, Italian port of Bari.JPG

SS John Harvey on fire
on 2 December 1943 at Bari

INTOSSICATI.  Gli effetti del gas non tardarono a manifestarsi. Qualche ora dopo l’attacco tedesco si sparse nell’aria un forte odore acre, simile a quello dell’aglio, che faceva bruciare gli occhi, e iniziarono a manifestarsi sintomi apparentemente inspiegabili per i medici. Nelle corsie dell’ospedale i primi feriti accusarono improvvisi abbassamenti di pressione e qualcuno cadde in uno stato di quasi letargia, ma soprattutto nessuna delle terapie somministrate dai sanitari sembrava dare risultati apprezzabili sui malati. Quando poi alcuni feriti da poco arrivati, che avevano ancora indosso ancora i vestiti inzuppati d’acqua, morirono all’improvviso, i medici capirono che erano stati intossicati. L’iprite era un gas tristemente noto ai sanitari perché usato già nella Prima guerra mondiale. Nonostante i vertici militari minimizzassero, non vi erano dubbi: all’insaputa di tutti una nave “tossica” era stata ormeggiata al porto. Ma perché e per quale motivo?

TRASPORTI ECCEZIONALI. Questo carico speciale aveva alle spalle una storia complessa. Gli americani dicevano di essere in possesso di alcune intercettazioni e di documenti attestanti il fatto che Hitler, pur di frenare l’avanzata degli Alleati, fosse disposto ad usare le armi chimiche. Sospetto che secondo lo stato maggiore americano era stato confermato durante gli interrogatori anche da alcuni ufficiali tedeschi fatti prigionieri. Per questo motivo a Washington fu deciso di inviare in Italia un grosso quantitativo di gas da usare per un’eventuale rappresaglia. Fondati o meno che fossero i sospetti, una cosa è certa: la scelta metteva gli Usa in una situazione imbarazzante, dal momento che erano tra i Paesi firmatari della convenzione dell’Aia del 1899, che bandiva l’uso di armi chimiche in guerra, non solo per l’attacco ma anche per la rappresaglia.

SEGRETO DI STATO. Alla Harvey quindi non restò che partire dagli States in gran segreto, solo il comandante della nave e i suoi ufficiali erano a conoscenza dello scottante contenuto del cargo. Quando poi la bomba tedesca colpì l’imbarcazione, causando la morte di tutti i 41 membri dell’equipaggio, e la conseguente fuoriuscita del gas, lo stato maggiore statunitense decise che era necessario nascondere l’accaduto all’opinione pubblica. Non solo per i morti provocati dai gas, ma anche per non dare a Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, una buona occasione per denigrare gli Alleati. Il silenzio sull’accaduto calò fin dai giorni immediatamente successivi al bombardamento. L’8 dicembre un comunicato del quartier generale alleato specificava che, per motivi legati alla sicurezza nazionale e alla segretezza delle operazioni militari in corso, i decessi strani sarebbero stati classificati genericamente come causati da una “dermatite non meglio identificata”. La censura funzionò alla perfezione anche sui giornali, il quotidiano Washington Post, in un editoriale di metà dicembre, trattò ampiamente l’episodio del porto pugliese senza tuttavia fare il minimo cenno alla nave carica di sostanze tossiche. Nei mesi successivi alla tragedia però, per volere del generale Dwight Eisenhower, comandante in capo delle truppe americane in Europa, fu istituita una commissione militare con il compito di indagare sui fatti e sulle morti sospette. L’inchiesta si basò soprattutto sui referti medici, in cui si affermava che, non sapendo inizialmente della presenza in porto del materiale tossico, il personale sanitario non era preparato e non aveva adottato le misure indispensabile per salvare i feriti in questi casi, come togliere immediatamente i vesti e lavare gli intossicati.

Iprite.

Il tioetere del cloroetano, più noto come iprite, è uno dei gas impiegati per la guerra chimica; è conosciuto anche come gas mostarda per il suo caratteristico odore[1][2].


Caratteristiche chimiche

Chimicamente è il tioetere del cloroetano, un liquido di color bruno-giallognolo dal caratteristico odore di aglio osenape, abbastanza stabile all'aria, con elevato punto di ebollizione e bassa tensione di vapore; anche il punto di fusione è basso; si tratta perciò di una sostanza assai persistente. L’Iprite è un vescicante d'estrema potenza, possedendo la spiccata tendenza a legarsi a molte e diverse molecole organiche costituenti l'organismo.



NELL’OMBRA. Tutto questo fu fatto ma quando ormai era troppo tardi, molti uomini avevano purtroppo respirato per ore le esalazioni tossiche provenienti dai loro indumenti e non erano sopravvissuti. Nel marzo del 1944 la commissione concluse che parte delle vittime erano morte a causa della contaminazione da iprite. L’episodio del bombardamento del porto pugliese e delle esalazioni del gas, comunque, è rimasto a lungo nell’ombra, perché gli Usa decretarono tutti i documenti, rendendoli consultabili solo 15 anni dopo la fine del conflitto, nel 1959. Nel 1971 un esperto di storia militare, Glenn B. Infield, scrisse il primo saggio sull’argomento: Disastro a Bari- soltanto negli anni ’80 il governo britannico riconobbe ufficialmente che i militari erano stati colpiti dall’iprite, e ritoccò di conseguenza le pensioni dei sopravvissuti ai bombardamenti di Bari.


Articolo in gran parte di Riccardo de Rosa pubblicato sul numero 141 di Focus Storia. Altri testi e immagini da Wikipedia.   

domenica 29 luglio 2018

Una perla a oriente.

Una perla a oriente.
In Asia Minore sorgeva una città che gareggiò per bellezza con Atene e con Roma: era Pergamo, che fiorì tra il III e il II secolo a.C.


modello città di Pergamo

A più di 300 metri di altezza e a una trentina di chilometri dalla costa dell’Egeo, dalla cima rocciosa di una collina la sua acropoli maestosa domina la valle del fiume Caico (nell’attuale Turchia). Il sole che sorge illumina poco alla volta la rocca antica, i palazzi reali e i templi sulla città alta, scacciando le ombre dai porticati, dal grande teatro e dalla piazza coperta. Un po’ più in basso, lungo il crinale scosceso, la luce irrompe nei ginnasi e più giù ancora risveglia gli abitanti, una folla eterogenea di bottegai, artigiani, artisti, uomini liberi e schiavi, per lo più discendenti dai coloni greci e delle popolazioni originarie dell’Asia Minore, conducendoli alle loro occupazioni, per gli stretti vicoli e le scalinate che collegano questa città a più piani. Ecco la splendida Pergamo (oggi Berghama), la florida capitale, fra il III e il II secolo a.C. di un regno ricco e ben amministrato, affacciato sull’Egeo e sullo Stretto dei Dardanelli ed esteso nella parte occidentale dell’Asia Minore (l’odierna Anatolia) fino alla moderna città di Ankara. “Di Pergamo abbiamo notizie come polis solo a partire dagli inizi del IV secolo a.C., quando ne parla lo storico greco Senofonte nelle Elleniche. È certo però che fosse abitata già durante l’età arcaica: la documentazione archeologica risale almeno al VII secolo a.C., ma non è stato possibile, finora, determinare con precisione chi la abitasse come fosse governata”, spiega Federico Maria Muccioli, docente di Storia greca e storia ellenistica all’Università di Bologna.
Ma come poté una rude fortezza dell’Asia Minore trasformarsi in uno dei maggiori centri culturali e artistici d’epoca ellenistica? La risposta breve è: “grazie ai suoi sovrani”. Quella lunga richiede un salto nel 323 a.C.: l’anno in cui Alessandro Magno morì e i generali del condottiero macedone, i diadochi, se ne spartirono l’immenso regno. Uno di loro, Lisimaco, nel 301 a.C. scelse Pergamo come cassaforte e affidò la custodia del suo enorme tesoro a un collega, figli odi un greco di nome Attalo: il diadoco Filitero. Proprio lui, in capo a una ventina d’anni, sarebbe diventato il capostipite della dinastia degli Attalidi, che governò sulla città per 150 anni.


 
Il Regno di Pergamo intorno al 188 a.C.


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Testa di Lisimaco (Museo archeologico di EfesoSelçuk)
Lisimaco (in greco anticoΛυσίμαχοςLysímachosPella ?, 361 a.C./355 a.C. – Corupedio281 a.C.) è stato unsovrano e militare macedone antico. Fu uno dei diadochi di Alessandro Magnosatrapo e poi re di Tracia, dell'Asia minore e della Macedonia.

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Busto di Filetero (Museo archeologico nazionaleNapoli)

INIZIO IN SALITA. A dirla tutta, il tesoriere non si comportò da amico leale: nel 283 a.C. si impossessò di Pergamo, tradì Lisimaco e si schierò con il suo avversari, Seleuco I di Siria. Riconoscendosi suo vassallo, ottenne infine di rimanere padrone dell’oro e della fortezza, che gestì come un piccolo principato. Forse per cancellare questo inizio non proprio eroico, oltre che per crearsi un’immagine divina, il suo successore, Eumene, I (re dal 263 al 241 a.C.), diffuse il mito secondo cui la città sarebbe stata fondata da Grino, il nipote del mitico sovrano di Misìa, Telefo, figlio del semidio Eracle. “Di tutta questa costruzione genealogica, gli Attalidi valorizzarono soprattutto il legame con Telefo, di cui a Pergamo si celebrava il culto eroico, e, indirettamente, quello con Eracle, figlio di Zeus. Per questo motivo si definivano telephidat (cioè”discendenti di Telefo”)”, dice Muccioli. Di divino però, nella famiglia attalide ci fu solo il successo di Eumene che ne 262 a.C. sbaragliò l’esercito selucide, emancipandosi dalla condizione di vassallo dei sovrani di Siria.

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Moneta fatta coniare da Eumene, raffigurante suo zio Filetero (Cabinet des Médailles,Parigi)

MOMENTO D’ORO. L’altra pietra miliare nella storia venne posta 22 anni dopo dal nuovo signore della città, Attalo I (in carica dal 241 al 197 a.C.), quando sconfisse la tribù celtica dei Galati, secondo Polibio “la più tremenda e bellicosa torma che c’era allora per l’Asia”, e gli alleati seleucidi. Annettendo molti dei loro territori in Asia minore, fece di Pergamo un regno e di se stesso un re. Quindi, da vero sovrano, decise di dare via alla costruzione dei primi grandi monumenti sull’acropoli, dove, da allora, vennero celebrate attraverso l’arte le vittorie e la grandezza della dinastia. In epoca ellenistica fu il momento d’oro di Pergamo, culminato durante il regno dei figli di Attalo: Eumene II (197-159 a.C) e Attalo II (159-138 a.C.) “Gli Attalidi erano notoriamente amanti delle arti e della letteratura. Alla corte di Eumene II visse, tra gli altri, Cratete di Mallo, filosofo di scuola stoica e noto studioso di Omero, che esercitò una grande influenza culturale. Va anche notato, a dimostrazione della loro munificenza, che nella titolatura dei sovrani spesso si trovano gli appellativi Sotér ed Euerétes, cioè salvatore e benefattore”. Nota Muccioli. Le magnifiche architetture della capitale del loro regno lo confermano: per raggiungere l’acropoli, i pergameni, circa 200.000 persone nel momento di massimo sviluppo, sbuffando e sudando nelle loro tuniche bianche dovevano inerpicarsi lungo la strada principale, l’unica lastricata in roccia e abbastanza larga da far passare due carri contemporaneamente. Ma una volta lassù, la meraviglia prendeva il soppravvento. Uno dei simboli culturali più forti del potere regio era la biblioteca: con i suoi 200.000 volumi fu seconda per importanza solo a quella di Alessandria d’Egitto.

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Testa di Attalo I (PergamonmuseumBerlino)

Attalo Sotere (in greco anticoἌτταλος ΣωτήρÀttalos Sotér, "Attalo il Salvatore"; 269 a.C. – Pergamo197 a.C.[1]), chiamato nella storiografia moderna Attalo I, è stato un sovrano pergamenore di Pergamo, una polis greca dell'Asia Minore, nella moderna Turchia, dal 241 a.C. alla morte, prima come signore della città e poi come re.

 

Situazione politica nella Grecia del 200 a.C., alla vigilia dellaseconda guerra macedonica: in verde il Regno di Pergamo, in arancio il Regno di Macedonia, in giallo il regno dei Seleucidi

PRODOTTI SPECIALI. Lo scrittore latino Plinio il Vecchio sosteneva che, nel II secolo a.C., proprio l’antagonismo “librario” fra le due città, oltre al divieto emanato dal sovrano egizio Tolomeo V di rifornire la rivale di rotoli di papiro, spinse gli artigiani di Pergamo a perfezionare la produzione di quella che venne chiamata “pergamena”. Il particolare supporto per la scrittura ricavato dalla pelle delle pecore o delle capre soppiantò il fragile fogli alessandrino anche nelle esportazioni. Insieme a un altro apprezzato prodotto locale destinato al commercio: le Vestes Attalicae, speciali tende e vesti di broccato intessute di fili d’oro. “L’economia del regno si basaba sul supporto tra la capitale e il territorio circostante, che comprendeva poche città della costa e della valle del Caico e il territorio rurale con villaggi e templi, per lo più indigeni. Era nel complesso un’economia che riguardava l’esportazione di prodotti agricoli, in primo luogo grano, ma anche ceramica, unguenti e tessuti, che venivano inviati in tutto il mondo greco attraverso i porti sulla costa dell’Asia Minore, come quelli di Elea e Attalia, creati dai re di Pergamo”, sostiene l’esperto.


Tempio di Traiano sull'Acropoli di Pergamo.

L'Altare di Zeus a Pergamo è uno degli edifici più famosi e uno dei capolavori dell'arte ellenistica.
L'Altare di Zeus a Pergamo è uno degli edifici più famosi e uno dei capolavori dell'arte ellenistica. Fu fatto edificare da Eumene II in onore di Zeus Sotér e Atena Nikephòros per celebrare la vittoria sui Galati.
Attualmente la parte anteriore dell'altare si trova conservata al Pergamonmuseum di Berlino.[1]


IL GOTHA. Dai porti fino alla pulizia delle strade, l’influenza dei sovrani si faceva sentire direttamente o indirettamente in tutta la gestione della capitale. “Il sovrano amministrava appoggiandosi ai philoi, letteralmente gli ‘amici’, una vera classe dirigente, al fianco del re al di là dei rapporti personali e affettivi. Nominava inoltre cinque strateghi che si occupavano delle finanze pubbliche e sacre, e che esercitavano il ruolo di guida e di controllo sul Consiglio e sull’Assemblea popolare, due organi simili a quelli presenti di solito nelle città greche.” Prosegue lo storico. In comune con le poleis, i pergameni avevano anche le divinità. Ta gli altri, oltre ai titolari del grande altare sull’acropoli, Zeus Sotér (salvatore) e Atena Nikephoros (portatrice di vittoria); molto amato era Dioniso Kathegemon (il condottiero), nume tutelare della dinastia regnante. Inoltre fuori della città, a valle, si trovava il famoso santuario del dio della medicina Asclepio, dove gli antichi facevano la fila, come in una Lourdes del passato, in cerca di guarigione.

DONO PREZIOSO. A trasformare le magiche acque di quel luogo in un business erano stati i Romani, ma come erano arrivati a mettere le mani si Pergamo? In modo meno bellicoso del solito. Nel 133 a.C., ormai in punto di morte, l’ultimo sovrano legittimo della dinastia Attalo III, decise di disfarsi del regno come il più capriccioso dei ricconi: lo lasciò in eredità al popolo romano. Salvo qualche incidente di percorso, gli Attalidi erano stati alleati dei Roani fin dalla fine del III secolo a.C. e fra loro si era instaurato un proficuo rapporto di mutuo soccorso contro i comuni avversari d’Asia (primi tra tutti i Seleucidi). Per questo, lo storico romano Valerio Massimo vide nel testamento di Attalo quasi una restituzione di ciò che i suoi compatrioti avevano generosamente concesso alla dinastia orientale. Vero o meno, per gli Attalidi  quel lascito segnò la fine. Ma non fu lo stesso per Pergamo: anche se nel 129 a.C. i territori del regno entrarono a far parte della neonata provincia romana dell’Asia, l’ex capitale mantenne la condizione di città libera e alleata. E prima di seguire Roma nel suo declino, in epoca imperiale fiorì per altri due secoli, così bella che ne II secolo d.C. il grammatico e retore Teleto la definì terza capitale dell’impero dopo Roma e Atene. Glia Attalidi ne sarebbero stati orgogliosi.

Efeso, l’altro gioiello.

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teatro di Efeso

A poco più di un centinaio di chilometri da Pergamo, Efeso faceva a gara in bellezza con la capitale del regno attalide. Fondata, secondo il mito, dalle Amazzoni, contesa a lungo nelle lotte fra i diadochi dopo la morte di Alessandro Magno, la città fece parte del regno degli Attalidi a partire dal 190 a.C. Quando grazie al testamento di Attalo III, passò ai Romani, venne scelta al posto di Pergamo come capitale della nuova provincia dell’Asia, trasformandosi in una delle maggiori città dell’Oriente romano.
CONDANNATE IN ETERNO. Il destino di Efeso si incrociò con quello di Pergamo anche nei I secolo d.C, quando San Giovanni Evangelista cita le due città nell’Apocalisse, come due delle sette chiese d’Asia che Dio avrebbe punito per la loro dissolutezza. Peccato che nel 401 il tempio di Artemide a Efeso non sia stato distrutto dall’ira divina, ma dall’arcivescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo.



Articolo in gran parte di Maria Leonarda Leone pubblicato su Focus storia n. 141. altri tesi e immagini da Wikipedia.              

Eugenia de Montijo, il fascino del secondo impero

Eugenia de Montijo, il fascino del secondo impero.

La moglie spagnola di Napoleone III visse i fasti del Secondo Impero francese ma anche la tristezza dell’esilio e il dolore per la morte del figlio, l’ultimo discendete dei Bonaparte


María Eugenia Ignacia Augustina de Palafox y Portocarrero de Guzmán y Kirkpatrick, nota come Eugenia de Montijo (Granada5 maggio 1826 – Madrid11 luglio 1920), diciannovesima contessa di Teba e decima contessa di Montijo, fu imperatrice consorte dei Francesi dal 1853 al 1870 in virtù del suo matrimonio con Napoleone III; fu l'ultima sovrana di Francia.
All’inizio del XX secolo capitava spesso di veder passeggiare nel parque del Oeste di Madrid un’anziana fragile e minuta ma dal portamento fiero ed elegante. La donna viveva in Inghilterra, però durante il freddo inverno inglese si trasferiva in Spagna e più esattamente nel palazzo di Liria, residenza dei duchi d’Alba suoi cugini. I passanti guardavano l’anziana signora con un misto di ammirazione e pietà: la vita le aveva dato tutto e poi gliel’aveva tolto. Si chiamava Eugenia de Palafox y Portacarrero e fu l’ultima imperatrice di Francia. Meglio nota come Eugenia de Montjio in virtù di uno dei titoli nobiliari del padre, era nata a Granada il 5 maggio del 1826. Era stata battezzata con il nome di Maria Eugenia Ignacia Agustina ed era figlia di Cipriano de Palafox y Portacarrero, duca di Penaranda e conte di Teba e di Montijoe di Maria Manuela Kirkpatrick de Closeburn e de Grevignée, una nobildonna di origine scozzese dalla quale aveva ereditato i capelli rossi e la pelle candida, punteggiata di lentiggini. Eugenia aveva una sorella maggiore, Maria Francisca detta Paca, che sarebbe diventata duchessa d’Alba in seguito alle nozze con il duca Jacobo Fitz-James Stuart.
Una vita tra luci e ombre
1826
Maria Eugenia de Palafox y Portocarrero, figlia dei conte di Montoijo e di
Maria Manuela Kirkpatrick de
 Closeburn e de Grevignée
Nasce a Granada.
1853
Sposa nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi Napoleone III imperatore di Francia e nipote di Bonaparte
1870
Dopo la sconfitta di Sedan, Eugenia e suo figlio vanno in esilio in Gran Bretagna. Il deposto imperatore Napoleone III li raggiunge nel 1871.
1879
Eugenia si impegna affinché il figlio recuperi il trono ma questi muore in un’imboscata durante la guerra anglo-zulù
1920
Muore in Spagna dove stava trascorrendo qualche giorno con i suoi cugini i duchi d’Alba.



L'imperatrice Eugenia poco prima della sua morte, 1920.

Façade côté jardin du château de Compiègne.jpg

Il castello di Compiégne, dove gli imperatori trascorrevano un mese e mezzo ogni autunno con iloro cortigiani.

PRESENTAZIONE IN SOCIETA’. Il conte di Montoijo era un militare stimato e un uomo di semplici costumi, che non riusciva a capire le ambizioni e il gusto per l’ostentazione della moglie. La sua condizione di “afrancesado” – termine che indicava i membri della nobiltà spagnola con simpatie napoleoniche e legati all’ambiente intellettuale francese – lo spinse a far educare le figlie in Francia e in Inghilterra. Maria Manuela Kirkpatrick condivideva la visione del marito, ma la sua prima preoccupazione era garantire alle fanciulle un futuro brillante. A tale scopo la contessa di Montijo sfruttò la sua amicizia con lo scrittore Prosper Mérimée, che fece da mentore alle due giovani nobildonne e, al termine dei loro studi presso il collegio parigino del Sacro Cuore, le introdusse nell’alta società della capitale francese.
Nel 1839, alla morte del padre, Eugenia e Maria Francisca tornarono a Madrid, dove fecero debutto in società in grande stile. L’occasione fu uno splendido ballo in maschera nel palazzo di famiglia, in Plaza dei Angel. Qualche anno più tardi, nel 1844, Paca sposò il duca d’Alba soddisfacendo le aspettative materne. La contessa madre decise di tornare a Parigi convinta che lì ci fossero maggiori possibilità di trovare un cosorte anche per la figlia minore. Eugenia era una donna raffinata, colta e intelligente, dotata di una bellezza particolare, lontana dai canoni tradizionali. I contemporanei le attribuirono un particolare potere di seduzione, che lei sapeva gestire con saggezza. Non ebbe quindi difficoltà a mettersi in mostra nei salotti che frequentava in compagnia della madre, né a attirare l’attenzione dell’allora Presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, che aveva conosciuto nel corso di un ballo il 12 aprile 1949. 
 Louis-Napoléon Bonaparte





L’EREDE DI NAPOLEONE. Luigi Napoleone era figlio di Luigi Bonaparte – fratello di Napoleone ed effimero re d’Olanda – e di Ortensia di Beauharnais, nata dal primo matrimonio dell’Imperatrice Giuseppina. Alla morte del fratello maggiore e di Napoleone II, unico figlio dell’imperatore corso, ereditò i diritti dinastici dei Bonaparte. Nel 1848, dopo il fallimento di alcuni tentativi di colpo di stato, Luigi Napoleone – dotato non solo dell’aula eroica che gli proveniva dal cognome ma anche di grande carisma – fu eletto a maggioranza presidente della Seconda Repubblica. Non sembra che il suo interesse per la contessa di Teba (un altro titolo che Eugenia aveva ereditato dal padre) fosse particolarmente esclusivo; inoltre, le vicissitudini politiche lo avrebbero presto interotto. Il 2 dicembre 1851, nell’anniversario dell’incoronazione del suo illustre zio, Luigi Napoleone sciolse con un colpo di stato l’assemblea nazionale e si proclamò “principe-presidente”. Un anno dopo, grazie al beneplacito del senato, Luigi Napoleone assunse il titolo di “Imperatore dei francesi” . Era iniziato il secondo impero. Il nuovo regime aveva bisogno di un erede e a questo scopo serviva un’imperatrice. Per la contessa e la figlia si spalancò un possibilità unica. Eugenia si era ormai lasciata alle spalle qualsiasi velleità romantiche. Era già stata respinta dal duca d’Alba che le aveva preferito la sorella, e dal marchese Alcanices, Josè de Osorio, che si diceva fosse stato il suo grande amore. I vent’anni in più e la fama di libertino del nipote di Napoleone non la spaventarono. Eugenia era infatti estremamente attratta dalla possibilità di diventare imperatrice dei francesi. La leggenda vuole che, quando Napoleone chiese come poteva raggiungerla nella sua alcova, Eugenia rispose “Passando davanti ad un altare sire”. Quasi sicuramente si tratta di un aneddoto perché la stessa frase è attribuita a Anna Bolena agli inizi della relazione con Enrico VIII.

L'imperatrice Eugenia, dipinto di Franz Xaver Winterhalter, 1857.

La cosa certa è che, contro l’opinione pubblica di buona parte della corte e del ceto politico - - che vedevano in lei una straniera – Eugenia riuscì dove altre aveva fallito:sposare Bonaparte. Le nozze si celebrarono il 30 gennaio 1853 nella cattedrale di Notre-Dame. Gli sposi arrivarono in chiesa sulla stessa carrozza che nel 1804 aveva condotto Napoleone e Giuseppina verso l’incoronazione. I sontuosi festeggiamenti fecero rifiorire i fasti di Versailles e preannunciarono quel che sarebbe stato il secondo impero. Iniziava infatti un’epoca che avrebbe permesso alla Francia di recuperare la sua proverbiale grandeur sulla scena politica europea.
Contemporaneamente, grazie alle riforme urbanistiche, Parigi sarebbe diventata un modello di capitale internazionale e il centro di una nuova estetica, borghese nel suo funzionamento ma ancora aristocratica nelle forme. Fin dal giorno del matrimonio Eugenia de Montijo rifiutò di fare la semplice figura decorativa accanto al marito. Per prima cosa decise di destinare i 600 mila franchi del regalo di nozze del comune di Parigi alla fondazione di una delle tante istituzioni caritative che sarebbero sorte durante il suo regno. Il 16 marzo del 1856, dopo due aborti, partorì il suo unico figlio, Napoleone Eugenio Luigi. Ritenne così di avere assolto al dovere di dare un erede al trono e decise quindi di occuparsi dell’impero. 

Il fascino della sovrana.
L'imperatrice Eugenia, fotografia diGustave Le Gray, 1856.
Madame Carette, dama d’onore di Eugenia de Montjio, la descrisse così: “Alta, dai tratti regolari e con un profilo degno di un medaglione antico, era dotata di un fascino tutto suo, un’indefinibile qualità che rendeva impossibile paragonarla a qualsiasi alra donna. La fronte, alta e dritta, si restringeva verso le tempie; le palpebre seguivano la linea delle sopracciglia e le velavano gli occhi, troppo ravvicinati e così caratteristici della fisionomia dell’imperatrice: due begli occhi, di un blu vivido e profondo, circondati d’ombra, pieni di spirito, di vigore e al tempo stesso di dolcezza.”

Sangue freddo imperiale.
Franz Xaver Winterhalter Napoleon III.jpg
Ritratto di Napoleone III, di Franz Xaver Winterhalter
Il 28 aprile 1855 Napoleone III sfuggì a un attentato. Quella notte andò a teatro con la moglie come se niente fosse. Il conte Horace de Viel-Castel descrisse così la scena: “Le grida di ‘Viva l’imperatore’ rimbombavano come cannonate a salve (…). Ho visto varie persone piangere in teatro. L’imperatrice era pallida e preoccupata, nonostante gli sforzi per mostrarsi serena”.

 LA REGINA DELLA MODA. Eugenia si dedicò alla politica con il beneplacito del marito, che la nominò reggente in tre momenti in cui dovette lasciare temporaneamente il trono: durante la campagna d’Italia del 1859, in occasione del viaggio in Algeria del 1865 e infine nel  1870, ormai alla fine del Secondo impero. La sua attività politica non si limitò a quelle opportunità. Cattolica convinta, non esitò ad appoggiare i partiti più conservatori, attirandosi l’odio di buona parte dei settori politici. Nonostante il bonapartismo militante, Eugenia de Montijo non nascondeva la sua ammirazione per Maria Antonietta. Anzi, durante la luna di miele nel palazzo di Saint-Cloud, insistette per soggiornare in quelle che erano state le stanze dell’ultima regina dell’Ancien Régime. E, com’era accaduto all’ultima regina di Francia, si fece una reputazione di donna frivola e arrogante. L’imperatrice divenne una vera e propria icona della moda. Non si trattava di una semplice questione di vanità: Eugenia considerava l’abbigliamento uno degli obblighi del suo ruolo istituzionale. A questo scopo raggiunse un accordo con il marito: avrebbe usato il guardaroba per promuovere i settori dell’economia nazionale che più ne avessero bisogno, come la gioielleria e l’industria tessile. La passione dell’imperatrice  per i gioielli e la sua amicizia con lo stilista Charles Frederick Worth contribuirono inoltre a fare di Parigi la capitale internazionale della moda. Gli effetti positivi gli effetti furono positivi ebbero ripercussioni su tutta l’attività economica della Francia come dimostra quello che scrisse all’amico e biografo Lucien Daudet dall’esilio: “Mi hanno accusato di essere frivola e di amare troppo i vestiti, ma è un’assurdità. Significa non rendersi conto del ruolo di una sovrana, che è simele a quello di un’attrici. E gli abiti sono un aspetto fondamentale di questo ruolo!”.



La famiglia imperiale in esilio a Camden Place, 1872.

LA CADUTA DELL’IMPERO. Il suo discredito aumentò nel 1867, quando difese l’intervento francese nell’avventura messicana di Massimiliano d’Asburgo, che si concluse con la fucilazione di quest’ultimo e con un elevato bilancio di perdite di truppe. E così passarono in secondo piano il suo impegno sociale nella fondazione di ospizi, ospedali e orfanotrofi, la protezione che accordò all’attività di ricerca di Louis Pasteur, il coinvolgimento nella costruzione del canale di Suez, e il suo ruolo chiave nella maggior parte degli indulti concessi dall’imperatore, i quali salvarono la vita a molti dei suoi nemici. Il popolo e la classe politica attribuirono il declino dell’Impero alla “spagnola”, un soprannome dispregiativo che rievocava quello riservato all’”austriaca” Maria Antonietta. La sconfitta francese di Sedan nel 1870, nel corso della Guerra franco-prussiana, fu la goccia che fece traboccare il vaso. La caduta dii Napoleone III in mano nemica e la proclamazione della Terza repubblica francese costrinsero l’imperatrice e il figlio a fuggire in Inghiliterra, dove si stabilirono nella tenuta di Camden Place a Chislehurst. Il deposto imperatore li raggiunse nel 1871, una volta liberato. Duranti i primi anni di esilio, e in particolare dopo la morte di Napoleone III nel 1873, Eugenia continuò a complottare perché suo figlio potesse riprendersi il trono. Ma non fu possibile. Mentre la repubblica metteva radici profonde in Francia, il giovane principe si arruolò come volontario con l’esercito britannico e per andare a combattere gli zulù  e il primo giugno 1879 morì in un’imboscata.

 La famiglia imperiale in esilio a Camden Place, 1872.

ANNI DI SOLITUDINE. Eugenia de Montijo sopravisse quasi quarant’anni a suo figlio, ma non fu più mai la stessa. Mise da parte qualunque velleità politica e si trasferì a Farnborough, nello Hampshire inglese. Nei pressi della sua residenza fece edificare un mausoleo in onore del marito e del figlio, l’abbazia di Saint Michael, che affidò alle cure dei frati benedettini. Eugenia si dedicò alle opere di carità e si ritirò da qualsiasi attività politica. Ben presto il mondo si dimenticò della sua leggendaria bellezza e della sua proverbiale eleganza, che avevano fatto del pittore personale, Wintherhalter, il ritrattista preferito dei regnanti europei e dello stilista Worth, il precursore dei grandi couturier francesi del XX secolo. A Farnborough si lasciò alle spalle le ambizioni, la passione per gli intrighi politici, i tradimenti del marito e il disamore del popolo.
Negli ultimi anni si divise tra l’Inghilterra e la Spagna, dove alleviava la sua solitudine in compagnia dei duchi d’Alba. Proprio in Spagna Eugenia si spense l’11 luglio 1920 a causa di una complicazione renale. Il corpo fu riportato in Inghilterra dove venne sepolto acanto a quello del marito e del figlio. L’imperatrice Eugenia de Montijo era morta e si apprestava a entrare nella leggenda.

La fine di una dinastia.
Nel 1879 Napoleone Eugenio Luigi Bonaparte prese parte alle guerre zulù. Il 2 aprile scrisse alla madre: “Ciò che più mi spiace è non poter stare accanto a chi combatte. Mi conosci abbastanza da sapere che per me è un boccone amaro, ma spero che la mia sfortuna finisca presto”. In giugno il principe fu ucciso a colpi di lancia in un’imboscata.
                                                         

La tomba dell'imperatrice Eugenia.



Abbazia di San Michele dove sono le tombe della famiglia di Napoleone III

Articolo in gran parte di Maria Pilar Queral del Hierro pubblicato su Storica National Geograficdel mese di aprile 2018 altri testi e foto da wikipedia

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