martedì 29 settembre 2020

La sottile arte della diplomazia nell’antica Roma.

 

La sottile arte della diplomazia nell’antica Roma.

L’Urbe non aveva una pratica diplomatica paragonabile a quella moderna. Esisteva una gestione organizzata e funzionale dei complessi rapporti con i popoli confinanti, volta più alla guerra che alla pace, che affondava le sue radici in un collegio sacerdotale di origini antichissime.

 

La nascita della diplomazia modera si fa convenzionalmente risalire al tardo Medioevo, quando alcuni Stati italiani, soprattutto Venezia, svilupparono fitte relazioni internazionali, generando consuetudini e prassi diplomatiche spesso ancora in uso ai giorni nostri. Si pensi, per esempio, alla presentazione delle “lettere credenziali” da parte dell’ambasciatore dello Stato, inviate alle autorità dello Stato ricevente; all’apertura di ambasciate permanenti: ai dispacci scritti dagli ambasciatori veneziani, maestri nell’arte di riferire notizie utili per la Repubblica di San Marco.

Un modello di diplomazia che si estese  progressivamente a tutta l’Europa, fino alla pace di Westfalia (1648) quando,  dopo gli orrori e le sofferenze provocate dalla Guerra dei Trent’Anni, il giurista Ugo Grozio (Huig de Groot) diede alle stampe il De iure beli acpacis, opera che poneva le basi del diritto internazionale, cioè l’insieme delle norme che avrebbero regolato la condotta degli Stati nazione (nati sulle ceneri del Sacro Romano Impero) nei loro rapporti di pace e di guerra.

Da quel momento, diritto internazionale e diplomazia tesero a intrecciarsi sempre di più, sia perché una parte del diritto internazionale riguarda proprio l’insieme degli obblighi che gli Stati assumono per regolare l’attività diplomatica, sia perché esso è il principale strumento di cui dispongono gli Stati per realizzare iniziative fuori dai propri confini. Nel 1961, tutte le consuetudini e le norme che disciplinano i rapporti tra Stati (nonché le prerogative e le immunità di cui godono gli ambasciatori nell’esercizio delle loro funzioni) furono raggruppate nella Convenzione di Vienna che è tutt’ora in vigore.

 

 

Tre grandi ambasciatori.

 

Lucio Anicio Gallo

Politico, pretore nel 168 a.C, console, combattente valorose e vittorioso contro gli Illiri. Nel 154 a.C., fu a capo di una delegazione di ambasciatori inviati in Asia Minore per dirimere la controversia sorta tra Prusia II (re di Bitinia) e Attalo (re di Pergamo). Lucio Anicio Gallo ebbe una serie di colloqui prima con Attalo, poi con Prusia II, che rifiutò tutte le proposte di mediazione avanzate dal Senato romano. I legati assunsero allora un atteggiamento più deciso. Da una parte consigliarono ad Attalo di intensificare le proprie difese e dall’altro ordinarono a Prusia II di non mettere in atto alcuna iniziativa di guerra. Sulla via del ritorno, i diplomatici dell’Urbe ingiunsero agli Stati che attraversavano di non fornire alcun aiuto alle mire bellicose di Prusia II, che finì quindi finì per rimanere del tutto isolato. Così, la pace venne preservata grazie a una diplomazia muscolare com’era appunto quella romana.

Gaio Popilio Lenate

Uomo politico e due volte console (nel 172 e nel 158 a.C.), nel 168 a.C., durante il conflitto di Roma contro la Macedonia, Gaio Popilio Lenale fu inviato in missione diplomatica per evitare la guerra tra Anioco IV (re seleucide della Siria, che voleva invadere Alessandria) e Tolomeo VI, sovrano d’Egitto.

L’ambasciatore romano incontrò Antioco proprio nei pressi di Alessandria e, secondo la leggenda, per accelerare il negoziato tracciò il famoso ‘cerchio di Popilio’. Con la punta di un bastone disegnò un cerchio nella polvere intorno ad Antioco, ingiungendogli (in nome della grandezza di Roma) di non muoversi di lì finché non avesse fornito una risposta chiara alle proposte del Senato romano. Il sovrano, di fronte alla risolutezza dell’ambasciatore, pensò bene di accettare le condizioni poste dalla più grande potenza militare del tempo. I Seleucidi si ritirarono e in seguito concordarono una pace duratura con la dinastia tolemaica.

Quinto Fabio Massimo Gurgite.

Soprannominato “Gurges” (ghiottone) per i suoi eccessi in gioventù, fu eletto due volte console (nel 292 e ne 276 a.C.). Nel 273 a.C., fu a capo di una delegazione diplomatica inviata dal Senato presso il sovrano d’Egitto Tolomeo, parente e amico di Pirro, re dell’Epiro, di cui Roma temeva l’intervento in Italia del Sud e voleva conoscere meglio le intenzioni. Al suo ritorno in patria, Quinto Fabio Massimo fece rapporto al Senato, offrendo generosamente al tesoro pubblico i preziosi regali che aveva ricevuto da Tolomeo a titolo personale, quale attestato di stima e di amicizia. Il Senato, tuttavia, respinse il nobile gesto e lo autorizzò a conservare quegli oggetti, come ricompensa per una missione che aveva dato buoni frutti, permettendo di ottenere informazioni utili per la Repubblica.

 

Diplomazia latina. Tuttavia, non bisogna credere che all’epoca degli antichi Romani non esistesse la diplomazia. Al contrario, c’era ed era anche molto efficiente. Aveva però caratteristiche alquanto diverse rispetto a quella che conosciamo oggi, in un contesto dove ancora non esisteva la concezione dello Stato modernamente inteso. Oggi la diplomazia rappresenta l’alternativa alla guerra, è lo strumento a cui si ricorre per cercare di evitare il conflitto armato. Le relazioni diplomatiche si attuano attraverso missioni permanenti che gli Stati interessati si scambiano reciprocamente. Il diplomatico, in questa cornice, ha facoltà di negoziare, proporre, accogliere richieste, in un contatto permanente con le autorità presso cui è accreditato, con la precisa finalità di migliorare i rapporti tra Stato inviante e Stato ricevente. Il corpo diplomatico è formato da agenti professionisti, cioè persone che svolgono le loro funzioni a tempo pieno nell’ambito di un’apposita carriera.

Nell’antica Roma, invece, la diplomazia era una sorta di strumento parallelo (ma non alternativo) all’azione militare. Serviva, più che per trattare o negoziare, per spiegare e illustrare ai popoli da sottomettere le condizioni (e soprattutto i termini) in cui sarebbe avvenuta l’integrazione. Roma conquistava i popoli, ma poi faceva in modo di assimilarli. Concedeva loro la cittadinanza, facendo del territorio conquistato parte integrante dell’Impero. Compito della diplomazia, dei legati (com’erano chiamati gli ambasciatori), era quindi quello di esprimere il pensiero del Senato, il punto di vista dell’imperatore. I legati non avevano molto spazio negoziale,dovevano solo spiegare e convincere. Ecco perché in genere erano eccellenti oratori e svolgevano la loro missione con una certa teatralità protocollare, per impressionare gli interlocutori stranieri sfoggiando, tra l’altro, le inconfondibili toghe rosso porpora. Le delegazioni diplomatiche erano temporanee, finalizzate a uno scopo preciso. Non si concepivano quindi ambasciate permanenti. I legati dovevano anche verificare che l’integrazione nell’Impero avvenisse in maniera ordinata e priva di eventuali conflittualità, tenendo d’occhio la stabilizzazione interna, che si realizzava secondo diverse fasi: assimilazione, alleanza (i territori annessi manteneva le amministrazioni tradizionali), colonia latina (per le popolazioni più restie alla regola di Roma).

Un ruolo eminentemente politico, ragione per cui non esistevano diplomatici di carriera. Gli ambasciatori venivano scelti tra personalità del mondo politico (pretori, consoli e senatori) in base alla loro esperienza, all’oratoria, alla capacità di persuasione. Erano quindi, incaricati di una o più missioni ad hoc, per poi riprendere le loro occupazioni precedenti.

 

Affresco con scena storica dalle necropoli dell'Esquilino, con una scena forse di feziale al centro, tra le prime testimonianze di pittura su affresco romana pervenutaci (inizio del III secolo a.C.)

 I feziali, ambasciatori sacri. I legati, attraverso le loro delegazioni speciali, avevano la possibilità di osservare direttamente le reazioni e il comportamento dei regni e dei popoli conquistati. I loro discorsi erano spesso accompagnati da una significativa gestualità, per avere il massimo impatto possibile sull’uditorio. Racconta Tito Livio che quando un legato romano si recò di fronte al Senato cartaginese per sapere se Annibale avesse attaccato scientemente Sagunto, in Spagna (e avesse dunque intenzioni bellicose nei confronti di Roma), aprì la sua toga rossa esclamando che in essa era racchiusa la pace o la guerra. Ai Cartaginesi la scelta. Quando si sentì rispondere che volevano la guerra, riavvolse teatralmente la veste, accettando la dichiarazione fatta senza pronunciare una sola parola: iniziava ufficialmente la Seconda guerra punica. Sempre da Tito Livio apprendiamo dell’esistenza di una particolare corporazione di sacerdoti e saggi, i Feziali (Fetiales o Feciales), che fungevano da garanti e interpreti di quello che oggi, con qualche forzatura, potremmo definire diritto internazionale (ius fetiale), e che conferivano sacralità.

 Alle relazioni internazionali e ai patti diplomatici conclusi. Il concorso dei Feziali era richiesto ogni qualvolta fosse necessario dichiarare guerra o concludere un’alleanza e un accordo. In caso di crisi internazionale, i Feziali erano incaricati di accertare (tenendo conto delle indicazioni del Senato e dei legati al rientro delle loro missioni speciali) dove stessero il torto e la provocazione. Se venivano riscontrati comportamento scorretti da parte di cittadini romani, i Feziali (difensori della dignità di Roma) esigevano la consegna dei colpevoli al nemico (dedition), altrimenti procedevano alla solenne dichiarazione di guerra (clarigatio) secondo un complicato cerimoniale, che comprendeva l’utilizzo simbolico di alcune erbe sacre colte in cima al Campidoglio. Il collegio sacerdotale dei Feziali, composto da 20 membri eletti per cooprazione (cioè da membri del collegio stesso), era presieduto, con rotazione annuale, da un magister fetialum e aveva una sorta di portavoce, il pater patratus populi romani, l’oratore ufficiale, incaricato delle dichiarazione formale di guerra.

Va inoltre ricordato che gli ambasciatori romani non godevano dei privilegi e delle immunità oggi riservate ai diplomatici. Non potevano contare sull’inviolabilità personale, sull’extraterritorialità del loro domicilio (peraltro provvisorio) e sull’esenzione dalla giurisdizione civile e penale. Tuttavia, in genere, la loro missione non era troppo rischioso. Avevano alle spalle la più grande potenza del mondo conosciuto, dunque chi si sarebbe ma azzardato a fare un torto a un ambasciatore romano? Del resto anche ai cittadini comuni, qualora si trovassero in difficoltà in una delle numerose zone dell’Impero, bastava dire “civis romanus sun!” (sono cittadino romano) per ottenere subito riguardo e rispetto.

 

Contatti reciproci. Roma inviava ambasciatori, ma riceveva anche delegazioni diplomatiche di altri Paesi. I legati stranieri venivano accolti e ascoltati dal Senato, ma esisteva una certa differenza tra l'atteggiamento degli ambasciatori romani (che riflettevano l’immagine della grandezza dell’Urbe) e quello dei rappresentanti stranieri, che davanti al Senato assumevano un atteggiamento supplicante, sollecitando pace, perdono o giustizia, oppure esprimendo gratitudine. Gli ambasciatori dei Paesi alleati venivano ricevuti immediatamente e alloggiati intra pomerium (dentro la cinta sacra della città), mentre le delegazioni dei popoli poco amici erano ospitate extra pomerium e obbligate a lunghe attese.

Quella dell’Urbe, quindi, era una diplomazia che precedeva, affiancava o seguiva l’azione militare, tesa a fornire un contributo significativo alla politica d’integrazione perseguita da Roma, specialmente nel tardo periodo repubblicano e durante l’Impero, quando sul mondo regnava la pax romana. Una pace che si basava sulla potenza delle legioni, ma anche, e soprattutto, su un’amministrazione evoluta ed efficiente, sull’applicazione di norme giuridiche chiare ed esemplari, sul senso della res publica (cosa pubblica), sul concetto d’integrazione e su una diplomazia di grande peso, i cui meccanismi d’intervento rimasero invariati per secoli, nelle procedure, nei rituali e nel linguaggio. Almeno finché durò l’Impero Romano d’Occidente, la cui caduta (nel 476) comportò la scomparsa delle sue più importanti istituzioni, diplomazia compresa.

 

Articolo di Domenico Vecchioni pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da Wikipedia.

giovedì 24 settembre 2020

I cannoni che fecero l’unità d’Italia.

 

I cannoni che fecero l’unità d’Italia.

La canna rigata migliorò la potenza e la precisione dell’artiglieria e questo fu determinante in molte battaglie. Anche durante le guerre di indipendenza. Una innovazione che ha cambiato la nostra storia.

 

Molte volte nella storia militare del mondo le armi innovative sono risultate decisive per la sorte della guerra. Per quanto riguarda le artiglierie, il progresso fatto dopo il 1850 fu enorme e ciò si deve soprattutto a una caratteristica: la rigatura interna della canna delle bocche da fuoco. Il vantaggio delle armi rigate su quelle bocche è duplice e si traduce nella regolarità e nella precisione del tiro e dell’aumento della portata o della gettata. La rigatura è costituita dall’insieme di un certo numero di solcature (o righe appunto) con andamento elicoidale, ricavate sulla superficie interna della canna, che adempiono alla funzione di imprimere al proiettile o alla pallottola una forte velocità di rotazione attorno al proprio asse. Ma non fu un’innovazione accolta velocemente dagli eserciti. Il principale motivo per cui questo tipo di artiglieria, nonostante i pregi, non fu subito adottata su larga scala era dovuto al fatto che si imputava alla rigatura una diminuzione della robustezza della bocca da fuoco. Nonostante questo essa risultò determinante in molte circostanze, comprese le campagne militari risorgimentali per l’Unità d’Italia, a partire dalla Seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, quando i cannoni a canna rigata furono utilizzati per la prima volta dalle truppe francesi.


 

Dipinto di Carlo Bossoli che illustra l'ingresso della fanteria di linea della Divisione Bazaine nel castello e nel villaggio di Solferino; sulla destra è visibile la Rocca di Solferino, conquistata contemporaneamente dai reparti della Divisione Forey e della brigata Manéque della Guardia imperiale. Ore 13,30 c.a.

Il battesimo di Solferino. Durante la battaglia di Solferino, una delle più decisive della Seconda guerra d’indipendenza, il successo dell’armata franco-piemontese su quella austriaca fu enormemente facilitato dall’importante ruolo svolto dall’artiglieria francese, dotata di pezzi a canna rigata, molti più efficaci di quelli ad anima liscia in dotazione agli austriaci. Per esempio, il 24 giugno il 2° Corpo francese del generale Patrice de Mac-Mahon fu attaccato dalla fanteria austriaca, preceduta dal cannoneggiamento dell’artiglieria posta a un migliaio di metri dai francesi, ma i cannoni del 2° Corpo francese risposero al fuoco, incrociando i cannoni austriaci che furono costretti a ripiegare la 1a Armata austriaca fu poi colpita dall’artiglieria francese mentre attraversava una zona scoperta: grazie alla precisione dei nuovi cannoni a canna rigata, le truppe austriache furono falcidiate. L’artiglieria francese fu determinante anche nella conquista della strategia altura di Monte Sacro, nei pressi di Solferino, così come nell’opporsi all’avanzata del 7° Corpo del maresciallo Friedrich Zobel, e a quella della divisione di Cavalleria del generale Alexnder von Mensdorff.

Nonostante i loro sforzi e un energico attacco su Medole del 9° e dell’11° Corpo, gli uomini dell’Imperatore Francesco Giuseppe non riuscirono a ottenere i successi sperati e alcuni loro reparti furono costretti a ritirarsi fino a Goito. Come confermano anche i rapporti militari del comando francese (ma anche di quello austriaco) la nuova artiglieria a canna rigata procurava ai Transalpini una superiorità tattica perché andava a colpire gli austriaci a distanze superiori rispetto a quelle raggiunte dai loro migliori cannoni.

 

La rigatura.




L’elemento principale dell’artiglieria è la bocca da fuoco costituita da un tubo metallico chiuso posteriormente nel quale, sotto l’azione di una carica di esplosivo, un proiettile può essere lanciato con forte velocità iniziale in una determinata direzione. La superficie interna del tubo, o meglio della canna, dove scorre il proiettile è chiamata anima della bocca da fuoco. La sua caratteristica principale è il calibro, cioè il diametro dell’animo della canna, che è indice della potenza del pezzo e viene usato per suddividere le artiglierie in piccolo, medio e grosso calibro. Le artiglierie rimasero lisce e ad avancarica fino ai primi del XIX secolo. Il “vento” lasciato ha il proiettile e l’anima provocava la fuga del gas prodotto dalla combustione della carica esplosiva, disperdendo una parte della forza propulsiva a discapito della velocità e della gittata. Per effetto di questo gioco, inoltre, il proiettile sbatteva in maniera casuale sulle pareti della canna causando irregolarità nel tiro. Si cercò pertanto do ridurre il vento portando la palla alle sue dimensioni massime, senza riuscire però a eliminare questi inconvenienti. È quindi evidente come il limite fondamentale delle artiglierie a canna liscia sia stato quello della irregolarità del tiro che non dava garanzie di successo nel entrare il bersaglio o l’obiettivo prefissato. Per impedire che il proiettile, uscendo dall’anima, deviasse nel senso dell’ultimo urto era necessario fare in modo che la sua direzione fosse costante. A ciò soltanto la rigatura dell’anima pose rimedio. Essa era costituita dall’insieme di un certo numero di solcature o righe aventi andamento elicoidale, che avevano l’effetto di imprimere al proiettile una forte velocità di rotazione attorno al proprio asse evitando dispersione di potenza e facendo in modo che, grazie all’effetto giroscopico, aumentasse la stabilità e diminuisse la possibilità di deviazioni dalla traiettoria. Ebbe anche come conseguenza un nuovo sviluppo dei proiettili. Con la canna liscia, infatti, il peso e le dimensioni del proiettile erano predeterminate e fissate dal calibro della canna della bocca da fuoco. Il proiettile era una sfera, il cui diametro doveva essere uguale a quello del calibro dell’arma, e il suo peso era una costante fisica che dipendeva esclusivamente dal peso specifico del metallo. È per questo motivo che i vari pezzi di artiglieria a canna liscia erano identificati e classificati con il peso della palla che potevano sparare. Si parlava quindi di pezzi da sei libbre, da dodici libbre, ecc. , (a ogni calibro corrispondeva quindi un certo peso del proiettile stabilito una volta per tutte). Con l’introduzione della rigatura i proiettili non ebbero più la necessità di essere sferici ma diventarono ogivali, con dimensioni e pesi differenti. Per questo motivo si iniziò a indicare le caratteristiche delle artiglierie non con il peso del proiettile, ma con il calibro in millimetri o in pollici delle varie bocche da fuoco. Consuetudine che si andò affermando dopo la battaglia di Solferino del 1859, in cui fu sancita definitivamente la superiorità delle artiglierie a canna rigata rispetto a quelle a canna liscia.

L’INTUIZIONE DI UN ITALIANO.

Le armi portatili rigate avevano righe secondo le generatrici, unicamente allo scopo di permettere una riduzione “vento”. Siccome poi si trovò più facile solcare l’anima a spirare che in modo rettilineo, queste ultime diventarono il modello dominante. A Benjamin Robins, matematico inglese inventore del pendolo balistico, si deve la spiegazione del fenomeno. Egli comprese il grande vantaggio dato dal rigare anche i cannoni e nel 1746 scrisse: “La nazione che per prima capirà l’importanza delle artiglierie rigate e provvederà a munirsene avrà sulle altre tanti vantaggi, quanti ne ebbero sui propri avversari gli inventori delle armi da fuoco”. I principi dimostrati da Robins rimasero però lettera morta per circa un secolo fino a quando l’italiano Giovanni Cavalli (che già si era preoccupato di costruire un cannone a retrocarica mentre era ospite del barone Wahrendorf, in Svezia, che gli fornì i mezzi per i suoi esperimenti, si adoperò per concretizzare il concetto della rigatura della canna. Egli, nel 1845, mise a punto una bocca da fuoco in ghisa avente l’anima solcata da due righe a spirale profonde 4-5 mm, capaci di imprimere una velocità di rotazione pari a 112 giri al secondo. La bocca da fuoco era di 32 libbre (calibro 140 mm) e sparava un proiettile in ghisa, di forma conica o ogivale con due alette, di 17 kg a 3770 metri di distanza, oltre il doppio rispetto ai normali cannoni ad anima liscia. La fama dei risultati da lui ottenuti, che si riassumevano in potenza, gittata e precisione, attrasse l’attenzione di tutti gli studiosi in materia. La prima ad avvantaggiarsi di questa innovazione fu la Francia, che si dotò di artiglierie a canna rigata grazie agli studi compiti da una commissione presieduta dal generale La Hitte. Così l’artiglieria rigata, schierata in campo nel 1859, diede all’esercito francese un vantaggio militare che si concretizzò in alcune importanti vittorie, come a Solferino, e gettò nello sconcerto le altre potenze europee che si affrettarono a seguire le orme dell’artiglieria francese.

 


Giovanni Gallucci - La battaglia di Castelfidardo
palazzo comunale di Castelfidardo


La nuova arma in mano ai piemontesi. Un vantaggio, quello che dava l’artiglieria a canna rigata, che presto anche i piemontesi impararono a sfruttare. Lo fecero, per esempio, nella battaglia di Castelfidardo contro le truppe pontificie. Alle ore 8 del 18 settembre il generale De Pimodan, a capo di una colonna dell’esercito pontificio comandato dal generale De La Moriciére, mosse da Loreto per la conquista di colle Montore di Castelfidardo. L’attacco non riuscì perché verso le ore 10.00 il generale Villamarina diede ordine al capitano Alfredo Sterpone di accorrere sul luogo della battaglia in aiuto degli assediati con una sezione di cannoni rigati. Le due bocche da fuoco furono messe in posizione e subito iniziarono a sparare contro le masse della fanteria pontifica cagionando, con colpi ben assestati, notevoli perdite al nemico. Poco dopo giunsero sul posto altri 4 pezzi: l’artiglieria pontificia fu così bersagliata dai precisi tiri di quella piemontese che gli attaccanti si tramutarono in difensori. Si diede anche ordine alla 4a batteria di cannoni da 16 libbre dell’8° reggimento di portarsi a Monte San Pellegrino e fare fuoco d’infilata contro il fianco destro dello schieramento pontificio, tagliando loro una eventuale via di fuga verso Ancona. Alcune scariche di questa batteria falcidiarono, disgregandola, le linee dei pontifici e le costrinsero a ritirarsi, sgominate, verso il fiume Musone. Un’altra batteria, sempre da 16, venne collocata nell’avvallamento tra le Crocette e l’altura di Colle Montoro. Proprio nel momento cruciale dello scontro, quindi, quando la prima linea pontificia di Pimodan aveva urgente necessità di rinforzi, la seconda linea invece di andare in suo soccorso e rinsaldare le file pontificie, cominciò a indietreggiare battendo in ritirata, dietro i precisi colpi di cannoni rigati piemontesi. Il generale De La Moriciére aveva disposto le sue truppe troppo vicine alle posizioni del nemico, perché non immaginava che i piemontesi avessero a disposizione dei cannoni a canna rigata, i quali con all’arrivo dei rinforzi. Avendo ormai coscienza dell’importanza e della netta superiorità delle artiglieri rigate, i pontifici cercarono in tutti i modi di procurarsi dei cannoni rigati, anche modificando quelli a canna liscia, ma tutti i loro sforzi risultarono vani. Nella mattinata del 28 settembre il controammiraglio della flotta piemontese Pellion di Persano convocò un consiglio di guerra per illustrare le sue intenzioni di attaccare con i cannoni delle sue navi il porto di Ancona. Quello stesso pomeriggio le navi manovrarono per iniziare il tiro contro le difese del porto. Il forte della Lanterna fu completamente distrutto per lo scoppio della polveriera colpita dai tiri delle navi, con un tremendo boato che riecheggiò per tutta la città. La capitolazione venne firmata a Villa Favorita nei pressi di Ancona, sede del comando Sardo-piemontese, alle ore 14.50 del 29 settembre 1860.

 


Enrico Cialdini

La prova del nove. Ancora più che nell’assedio di Ancona, il ruolo delle nuove artiglierie a canna rigata fu esemplare negli assedi di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.

Per prendere una fortezza come quella di Gaeta era evidente che si doveva ricorrere prevalentemente all’azione dell’artiglieria, che doveva necessariamente avere una potenza e una gittata notevole per colpire senza essere a sua volta colpita. Il comando delle truppe Sardo-piemontese che assediarono i borbonici a Gaeta fu affidato al generale Enrico Cialdini, il quale pensò subito che per espugnare la fortezza si doveva evitare la tradizionale tattica: costruzione di batterie sempre più ravvicinate, costruzione di parallele, apertura della breccia e assalto con la fanteria. Secondo lui, che aveva vinto l’effetto dei cannoni a canna rigata a Castelfidardo, si doveva puntare solo sul bombardamento dell’artiglieria a lunga gittata. L’assedio vero e proprio iniziò il 12 novembre 1860 ma subito s’intuì che per un’efficace bombardamento della fortezza occorreva un numero elevato di pezzi di artiglieria di grande potenza. Cialdini aveva richiesto nuovi cannoni a canna rigata con retrocarica, progettati dal generale Cavalli, che promettevano di essere ancora più potenti di quelli ad avancarica. Mentre, infatti, tecnici e tattici erano ancora indecisi sulla effettiva superiorità di queste nuove artiglierie, il generale Cialdini non aveva dubbi: “I cannoni rigati fanno miracoli” disse in una frase entrata poi nella storia militare del nostro Paese. dopo che il 3 febbraio il deposito munizioni della batteria Transilvania che ne conteneva ben 18mila, la fortezza di Gaeta fu ridotta a un ammasso di macerie. Le batterie Sarde, dopo aver tirato circa 55mila colpi e utilizzato 190mila chilogrammi di polvere da sparo, avevano ormai avuto ragione della resistenza nemica. Quello stesso giorno, il 13 febbraio 1861, Gaeta capitolava e con essa le ultime speranze del regime borbonico. Quattro giorni dopo Cialdini partiva per una altro assedio, quello di Messina. Neanche a dirlo fu un altro successo delle nuove artiglierie a canna rigata.

Le ostilità iniziarono il 1° marzo 1861. I piemontesi per prima cosa sistemarono sei batterie ai Gemelli, al Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a Santa Cecilia e a Sant’Elia. L’11 marzo esse concentrarono la loro potenza di fuoco sul forte Don Blasco, che era il bastione fortificato più avanzato della Cittadella. La potenza e la doppia gittata dei cannoni rigati piemontesi ridussero a un cumulo di macerie il fortino in poco tempo. Successivamente anche il gran deposito Norimbergh (pieno di polvere da sparo), concentrato più volte, prese fuoco, rischiando di saltare in aria. I borbonici cercarono di allungare il tiro dei vecchi cannoni (alcuni avevano circa 150 anni di vita), interrando una parte, ma persero così la facoltà di mirare. Tutto fu inutile: la schiacciante superiorità dell’artiglieria dei Franco-piemontesi costrinse presso al silenzio le bocche da fuoco della piazzaforte. Il 13 marzo Cialdini a capo delle sue truppe a capo delle sue truppe fece il suo ingresso nella Cittadella di Messina, dichiarando “prigioniera” la guarnigione del Regno delle Due Sicilie. La resa fu firmata a bordo della nave Maria Adelaide. Al generale Giovanni Cavalli, che ideò le artiglierie rigate e a retrocarica, è stato intitolato un forte della cittadella fortificata di Messina, diventata ora anche un parco museo. Il 14 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamava solennemente l’Unità d’Italia, anche se rimaneva da conquistare la fortezza di Civitella del Tronto, ancora nelle mani dei soldati borbonici (era difesa da un contingente di 530 uomini, con 27 pezzi di artiglieria tutti però a canna liscia), che resistevano. La cittadella era stata assediata a partire dal 26 ottobre 1860 e, visto che non si arrendeva, nel mese di dicembre il governo piemontese decise di potenziare il parco delle artiglierie con pezzi a canna rigata, che iniziarono a bersagliarla, ma questa non capitolò. A quel punto, il 15 febbraio 1861, i piemontesi operarono un potentissimo bombardamento con i nuovi cannoni rigati a retrocarica progettati dal generale Cavalli. Tempo poco più di un mese e il 20 marzo 1861,dopo che l’artiglieria aveva tirato qualcosa come 7860 proiettili contro la fortezza, i borbonici decisero la resa. La storia d’Italia era cominciata.

 

La batteria Santa Maria della fortezza di Gaeta dopo l'assedio. Sullo sfondo, la squadra navale che partecipò ai bombardamenti

Febbraio 1862: immagine della batteria Cittadella della fortezza di Gaeta
 




Articolo di Renato Biondini pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e immagini da Wikipedia.

giovedì 17 settembre 2020

La Schola Salerni! Dove nacque la scienza medica.

 

La Schola Salerni!

Dove nacque la scienza medica.



Tra l’XI e il XIII secolo la Scuola Salernitana rappresentò l’istituzione medica più avanzata d’Europa, antesignana delle moderne università. La fama dei suoi dottori era tale da richiamare nella città campana malati e studenti da tutta la Cristianità. La sua storia desta meraviglia ancora oggi.

 

La scuola medica in una miniatura del Canone di Avicen



«Quattro sono le città che eccellono sulle altre: Parigi nelle scienze, Salerno nella medicina, Bologna nel giure ed Orleans nelle arti attoriali»

(Tommaso d'Aquino nel De virtutibus et vitiis)

Nella storia della "Scuola Medica" si possono distinguere tre periodi:


Quante volte ci siamo sentiti ripetere suggerimento del tipo “dopo pranzo riposa, dopo cena passeggia”, oppure “la prima digestione avviene in bocca”, o ancora perché il sonno sia ti sia lieve, la tua cena sia breve”. Saggi consigli, il cui fine è suggerire uno stile di vita attento a evitare inutili complicazioni, senza dover ricorrere a farmaci o a cure mediche. Perle di saggezza popolare si potrebbe pensare, si tratta invece di traduzioni di locuzioni latine, facilmente rintracciabili nel “Regimen Sanitatis Salernitanum”, ovvero la Regola Sanitaria Salernitana, un compendio in versi redatto molto probabilmente tra il XII e il XIII secolo, ma alcuni sostengono addirittura intorno alla metà dell’XI secolo, ma alcuni sostengono addirittura intono alla metà dell’XI: un testo che raggiunse un’incredibile popolarità e fu tenuto in grande considerazione come base per l’insegnamento e la divulgazione medica fino al XIX secolo. Un primato invidiabile: tradotto quasi in tutte le lingue europee, oggi se ne contano una quarantina di versioni. Ed è solo uno dei grandi lasciti dalla Scuola Medica Salernitana, quella che viene considerata unanimemente la prima e più importante istituzione medica europea, antesignana delle moderne università.

 

Mulieres Salernitane.


Trotula, la più famosa delle mulieres di Salerno, da un manoscritto del XII-XIII secolo

Lo statuto della Scuola Medica Salernitana non precludeva alle donne la professione medica. Il caso di Trotula de Ruggero, divenuta celebre per il suo impegno nello studio di discipline come la ginecologia e l’ostetricia, non è quello quindi un caso limitato. Altre figure riuscirono a ritagliarsi grande notorietà. Rebecca Guarna, Abella Salernitana, Mercuriade e Costanza Calenda. Nell’”Historia Mercuriade Ecclesiastica” di Orderico Vitale veniamo a sapere che anche la seconda moglie di Roberto il Guiscardo, Sichelgaita di Salerno, ebbe modo di formarsi nell’ambiente della Scuola campana. Il ruolo di queste donne non era limitato allo studio o all’insegnamento della materia medica, ma anche alla produzione di opere teoriche, alcune delle quali sono arrivate sino a noi.

Oltre al famoso “De passionibus mulierum ante in et post partum”, a Trotula sono attribuiti altri due trattati: “De ornatu mulierum” e “Pratica secundum Trotam”. Altrettanto conosciuti sono 2 testi di Abella Salernitana: “De atrabile” e “De natura seminis humani”. Nel primo l’argomento è la bile nera, nel secondo la natura del seme umano. Questa prolifica attività femminile è senza dubbio un altro esempio del grande influsso che ebbe la scuola nel panorama dell’Europa medievale.

  





Sintesi tra Oriente e Occidente. Una fama davvero meritata come dimostrano le parole di Tommaso d’Aquino: “Sono … 4 le città preminenti, Parigi nelle scienze, Bologna nelle leggi, Orleans nelle arti attoriali e Salerno nelle medicine”. Era la metà del XIII secolo e in Europa nessun’altra istituzione poteva anche lontanamente sperare di eguagliare tale primato. E tutto questo grazie ad un approccio più articolato della materia che, basandosi su una mirabile sintesi della tradizione greco-latina e le più avanzate conoscenze arabe ed ebraiche, permise di introdurre nuove metodologie e regole di profilassi. Rispetto alla medicina altomedioevale, legata a una visione imperniata sulla fede (la malattia era intesa come una sorta di punizione divina a cui ci si poteva opporre se non con la preghiera), fu dato sempre più peso alla conoscenza e all’esperienza diretta, aprendo in tal modo la strada a un più attuale metodo empirico, sia come rimedio che come prevenzione.

Come nacque questa celebre Scuola e perché proprio a Salerno? Se il periodo di massimo splendore si colloca all’incirca tra l’XI e il XIII secolo, dopodiché si registra una lenta ma inesorabile decadenza, sulle origine e sulla fase formativa (X-XI) le notizie sono scarse. Ci viene però in aiuto la tradizione: in alcune testimonianze più tarde si racconta infatti che un giorno un pellegrino di origine greca di nome Pontus, giunto a Salerno, avesse trovato rifugio per passare la notte sotto gli archi dell’acquedotto dell’Arce. Scoppiato un violento nubifragio, fu presto raggiunto da altri viandanti, l’arabo Abdela e l’ebreo Helinus, e in particolare il laitno Salernis, che nel frattempo si era procurato una seria ferita. Mentre Salernus si medicava, gli altri lo osservavano incuriositi dal modo in cui tratta la sia piaga e dopo un breve conciliabolo i 4 scoprirono di essere tutti medici. Fu così che decisero di unire le loro scienze e far sì che fossero messe al servizio del prossimo. Che cosa ci sia di vero in questa leggenda non è dato sapere, di certo però già nel IX secolo la città, particolarmente apprezzata per la salubrità del suo clima, era nota per l’abilità dei suoi medici. “Erano privi di cultura letteraria, ma forniti di grande esperienza e di un talento innato”, ha scritto l’accademica Cecilia Trocchi. Non stupisce quindi che il vescovo Adalberone di Laon (947-1030), noto per i suoi componimenti poetici in latino, abbi voluto a tutti i costi – era il 984 – farsi curare nella città campana. Così cine altri eminenti personaggi di quell’epoca.

La nascita, e il successivo sviluppo della Scuola Medica Salernitana, sono spiegabili solo tenendo conto di due fattori: la posizione strategica della città al centro del Mediterraneo con il suo porto trafficatissimo, e la capacità di recepire e la capacità di recepire e metabolizzare gli svariati influssi culturali provenienti dal mondo arabo e greco-bizantino. Nel suo porto giunsero figure illustri come il grande medico Costantino l’Africano (1020-1087) che per diversi anni vi risiederò, traducendo dall’aravo alcuni dei testi medici più importanti come il “Tegni o Microtegni” e il “Megategni” di Galeno, il “Viaticum” di al-Jazzar, gli “Aphorisma” e i “Prognostica” di Ippocrate, il “Liber febrium”, il “liber urinarium”, e il “Liber divisionum”, di Isaac Israeli  (il Vecchio), così come il “Liber experimentorium” di Rhaze: il massimo della scienza dell’epoca. A Salerno arriveranno con largo anticipo anche le opere di uomini di scienza come Avicenna e Averroè. Sarà proprio questo vivace clima culturale e far sì che tratta di medicina antica o straniera trovino diffusione in un ambiente in cui erano presenti dottori di grandi talento.

 

L'acquedotto medioevale di Salerno

Un faro di scienza nel Mediterraneo. Ma anche gli ordini religiosi in città (i monasteri di Salerno e la vicina abbazia di Cava) contribuirono a diffondere quella conoscenza in materia medica che nei secoli dell’Alto Medioevo era rimasta celata tra le mura dei conventi. Lo dimostra il grande contributo di 3 figure dell’ordine benedettino attive in città nell’XI secolo: l’abate di Montecassino Desiderio (futuro papa Vittore III), il vescovo Alfano e papa Gregorio VII. Ed è proprio tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, come le cronache del tempo sottolineano,che la Schola Salerni comincerà ad attrarre sempre più insistentemente malati da tutta Europa, consapevoli che le nuove conoscenze di quella scuola erano quelle che davano loro le maggiori probabilità di guarigione. Nel frattempo, arrivano a Salerno un gran numero di allievi, desiderosi di apprendere i segreti di quella scuola, unica del suo tempo, in cui cultura scientifica e lavoro pratico andavano di pari passo. Ecco perché in poco tempo la sia fama crebbe sempre più, senza una possibile concorrenza. Non stupisce perciò che nel 1231 l’illuminato Federico II, emanando la Costituzione di Melfi, abbia stabilito che la pratica medica potesse essere esercitata solo ed esclusivamente da dottori in possesso di diploma rilasciato dalla Schola.

Ma dov’era esattamente la scuola, dove si tenevano le lezioni? Secondo lo storico Riccardo Avallone le sedi cambiarono nel tempo: il primo nucleo pare fosse ubicato nel castello di Arechi o nelle strutture ad esso adiacenti. Altrettanti probabili sedi furono le cappelle di Santa Caterina, in prossimità del Duomo (oggi sale i San Tommaso)ì e San Lazzaro). Quando poi gli ambienti di Santa Caterina divennero inagibili, la sede principale si sarebbe spostata nel palazzo dell’antica pretura, localizzato in via Trotula de Ruggiero. L’ultima collocazione in ordine temporale sarebbe stata invece l’ex seminario arcivescovile.

Sul piano dell’ordinamento, in base ai documenti disponibili, per gli allievi era previsto un curriculum studio rum suddiviso in 3 anni di logica, 5 di materie mediche (con lezioni di anatomia e chirurgia) e almeno uno di apprendistato presso un medico già avviato. Ogni 5 anni, inoltre, era stabilito che si effettuasse un’autopsia. Alle materie mediche o affini si aggiungevano anche corsi di teologia, legge e filosofia. Assoluta novità per il tempo è che ai corsi erano ammesse anche le donne, sia come studentesse che in qualità di insegnanti. Sul piano delle materie di insegnamento si faceva una netta distinzione tra teoria e pratica: nel primo caso si fornivano tutte le informazioni necessarie alla comprensione della struttura del corpo umano e il suo funzionamento; nel secondo le regole di profilassi e i modi per operare. Se il fondamento teorico si basava sui principi enunciati nei vari trattati di Ippocrate e Galeno (in campo filosofico predominava Aristotele), sul piano pratico si sperimentarono nuove tecniche come la chirurgia, ch presto assurgerà al grado di scienza, grazie a una figura come Ruggiero di Fugaldo. A lui dobbiamo il primo trattato sulla materia, presto diffusosi in tutto il continente. A compimento del loro ciclo di studi, gli studenti erano sottoposti a un rigoroso esame per poter ottenere il privilegio dottorale che sarebbe servito per esercitare la professione medica o l’insegnamento. Ciò avveniva nell’Almo Collegio, un corpo accademico indipendente dalla scuola, organizzato come una struttura professionale che agiva anche per tutelare gli interessi della professione e porre freno a quelli che venivano definiti i “medicastri” senza abilitazione. Secondo i documenti il conferimento delle lauree aveva luogo nella Chiesa di San Pietro a Corte o nella Cappella di Santa Caterina. Il giuramento era il momento culminante del lungo iter di studi: il medico si impegnava, dinanzi a Dio, a mettere la sua conoscenza al servizio dei bisognosi senza chiedere nulla in cambio, mantenendo uno stile di vita onesto. Dopodiché l’autenticità dei privilegi dottorali, che valevano ovunque il laureato decidesse di operare, veniva attestata dalla firma di un notaio.

Guarigioni leggendarie.

La fama della Scuola Medica di Salerno è testimoniata da alcune leggende arrivate sino a noi. Una delle più affascinanti, rappresentata persino su una miniatura che fa bella mostra sul frontespizio di una copia del Canone di Avicenna, narra la storia del cavaliere Roberto di Normandia colpito da una freccia avvelenata durante una crociata in Terra Santa. Visto che le sue condizioni peggioravano continuamente, nel corso del viaggio che avrebbe dovuto riportarlo in Inghilterra, il suo seguito decise di fare una sosta a Salerno per avere il parere dei medici locali. Il responso fu drastico: si sarebbe salvato solo se qualcuno fosse stato disposto suggere il veleno dalla ferita, avvertendo però che sarebbe morto al suo posto. Il cavaliere non volle che nessuno si avvicinasse, preferendo lasciarsi morire, pur di lasciar morire un altro al suo posto. Durante la notte, però, la moglie Sibilla, senza svegliarlo, si coricò al suo fianco e succhiò il veleno dalla ferita. Roberto ebbe salva la vita, ma per Sibilla non ci fu nulla da fare. Una leggenda ancora più nota – decantata addirittura in un famoso poema del XII secolo attribuito a Hartmann von Aue – riguarda il barone di Svia Enrico, famoso per ricchezza e prestigio. La sua esistenza fu però funestata dai terribili sintomi della lebbra che, in poco tempo, incominciarono a devastare il suo corpo. Enrico non si rassegnò a una così terribile sorte e volle a tutti i costi che i medici di Montpellier lo visitassero. Nessuno fu però in grado di trovare una terapia. Solo dopo aver incontrato un medico che aveva studiato a Salerno, venne a sapere che una soluzione in realtà c’era, per quanto drastica: solo immergendosi nel sangue di una vergine in età di matrimonio, avrebbe potuto mettere fine alle sue sofferenze. Resosi conto di quanto crudele fosse un simile rimedio, Enrico si rassegnò al suo destino: donò tutte le sue ricchezze e si ritirò in un casa di campagna isolata. Ma proprio in quella proprietà conobbe una fanciulla di nome Elsie, figlia del contadino che l’amministrava, che non ebbe terrore della sua condizione e si innamorò di lui. Dopo essere venuta a sapere che esisteva una soluzione per guarirlo, la giovane convinse Enrico a intraprendere un lungo viaggio fino a Salerno per mettere in pratica il proposito. I medici tentarono in tutti i modi di farla desistere, ma senza successo: era determinata a donare la vita per il suo amato. Ma quando Elsie fu adagiata sul tavolo operatorio, Enrico intervenne all’ultimo secondo, pensando alla mostruosità dell’azione. Si oppose all’estremo sacrificio, rassegnandosi a un’esistenza da lebbroso. Il suo altruismo fu però ricompensato. Sulla via del ritorno infatti accadde il miracolo: una guarigione improvvisa e inattesa. Fu così che i due giovani poterono sposarsi e trascorrere il resto della vita insieme.

 

Medicus et clericus. Nel corso del tempo, il corpo insegnanti andò incontro a una significativa trasformazione: l’originario medicus, colui che educava basandosi sulle conoscenze derivanti dalla pratica nell’attività di tutti i giorni, fu presto sostituito dal medicus et clericus che all’esperienza aggiungeva anche la conoscenza della materia medica. Una figura chiave in tal senso, con cui una unanimemente si fa iniziare il periodo aureo della Scuola Medica, è il chierico italiano Garioponto, grande conoscitore dei testi di Ippocrate e Galeno, che operò e insegnò principalmente in malattie urinarie, calcoli della vescica e dei reni. Negli stessi anni fu attiva anche Trotula de Ruggiero, un medico donna che raggiunse gli onori approfondendo discipline come la ginecologia e l’ostetricia. A lei è attribuita la pubblicazione di un trattato fondamentale di un trattato fondamentale come il “De passionibus mulierum ante in et post partum”.

Una delle nozioni in esso contenute fu ad esempio la tecnica di saturazione chirurgica delle lesioni perineali. L’apporto di queste figure nella crescita della scuola, in particolare nel secolo successivo, è di fondamentale importanza. Altri comunque seguirono le loro orme: il Maestro Salerno ad esempio, autore di due opere fondamentali “Tabulae Salernitanae” e “Compendium”, che trattavano di terapie generali e di preparazione dei farmaci, e anche Matteo Plateario (il Giovane), discendente di una famiglia di illustri cultori dell’arte medica, che affrontò il tema delle piante e della sofisticazione dei prodotti medicinali. Alcuni di loro ebbero modo di prestare servizio anche nel corso di operazioni militari: basti ricordare Filippo Fundacario e Bartolomeo de Vallona che furono al servizio del duca di Calabria, Roberto d’Angiò, durante la spedizione in Sicilia del 1299.

La reputazione di questi uomini di medicina superò ben presto i confini italiani, arrivando a toccare ogni angolo d’Europa, tanto da dar vita a numerose leggende sulle loro capacità di curare malattie inguaribili.

 

Articolo di Antonio Ratti, giornalista e ricercatore storico, pubblicato su BBC History n. 97 – altri testi e immagini da Wikipedia.

sabato 12 settembre 2020

Artemisia Gentileschi la pittora tra gli uomini.

 

Artemisia Gentileschi la pittora tra gli uomini.

La più famoso tra le pittrici del seicento fu vittima di uno stupro, denunciò l’aggressore e impose nelle principali corte europei le sue doti di artista, attività allora appannaggio tra gli uomini.

 


Simon Vouet
Ritratto di Artemisia Gentileschi (1623 circa)
PisaPalazzo Blu

«Oggi basta fare il nome di Artemisia Gentileschi per evocare una pittura drammatica, popolata di energiche figure femminili rappresentate in modo diretto e intransigente, e che si rapporta e si integra con gli eventi della vita dell'artista»

(Judith Walker Mann[35])

“Ritroverà l’animo di Cesare nell’anima di una donna!" La sua formazione pertanto avvenne nello studio paterno. Artemisia, infatti, trascorreva quasi tutto il tempo in casa, dove le era consentito di esercitarsi nel dipingere, spesso sotto lo sguardo della dirimpettaia Tuzia, che aveva il compito di sorvegliarla quando il padre o fratelli non c’erano. Per fortuna, la casa era frequentata assiduamente da altri pittori, amici e colleghi del padre. Tra questi vi era Pietro Rinaldi, che le fece da padrino al battesimo. All’inizio del 1611 Orazio fu incaricato di affrescare una loggetta del palazzo del cardinale Scipione Borghese a Monte Cavallo. Il mecenate gli affiancò il trentenne Agostino Tassi detto “lo Smargiasso”, che dopo alcuni soggiorni in Liguria e in Toscana, dove forse era stato anche in galera, si era da poco trasferito a Roma. Tra i due nacque subito un’amicizia, per cui Orazio, che era quasi sempre fuori casa e non poteva più seguire lo studio della figlia, chiese al collega di tenere delle lezioni di prospettiva ad Artemisia, ormai diciottenne. Agostino iniziò, dun1uque, a frequentare i Gentileschi finendo per infatuarsi della ragazza.” assicurava a uno dei suoi committenti in una lettera del 1640 Artemisia Gentileschi. Prima di quattro fratelli, era nata a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Gentileschi e da Prudenzia Montone. Il padre era un pittore di origine pisana che si era trasferito a Roma circa venti anni prima. Della madre, invece, non sappiamo nulla se non che morì nel 1605 all’età di trent’anni. Da quel momento Artemisia dovette occuparsi della casa e dei fratelli minori perché il padre non risposò più. Nella bottega paterna, che era annessa alla casa famigliare, Artemisia scoprì fin dall’infanzia la sua vocazione per l’arte. In un primo momento Orazio aveva insistito affinché la figlia prendesse i voti, ma alla fine aveva accettato il sogno di Artemisia di diventare una “pittora”, come lei stessa si definiva. A quel tempo, però, per una donna era impensabile seguire un percorso di formazione presso la bottega di qualche maestro, senza contare che il genitore consentiva alla figlia di uscire al massimo per andare in chiesa.

 

Una vita dedicata all’arte.

1593

Artemisia nasce a Roma, figlia di Orazio e di Prudenzia Montone. Fin dall’infanzia mostra attitudini artistiche.

1611

Subisce violenza da parte del suo maestro di prospettiva. L’anno dopo il padre denuncia l’uomo per lo stupro della figlia.

1616

Dopo il trasferimento a Firenze, è la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti del Disegno fondata dal Vasari.

1637

Venne invitata presso la corte inglese dove lavora insieme a Orazio Gentileschi, che muore due anni dopo.

1652-1653

Muore a Napoli in ristrettezze. La data indicativa della morte è nota grazie a due epitaffi ironici.

 

 

La violenza di Agostino Tassi. Un giorno, l’uomo allontanò Tuzia da casa e, come gli stessi atti del processo confermano, violentò Artemisia. Successivamente, per quietarla, le prospettò il matrimonio riparatore. Per quasi un anno la ragazza aspettò le nozze acconsentendo ad avere rapporti con lui. Arrivati però a marzo del 1612, improvvisamente Orazio denunciò Tassi alle autorità. Probabilmente i Gentileschi avevano compreso che il matrimonio non sarebbe mai avvenuto, o forse avevano scoperto che Tassi in passato era stato arrestato più volte per vari crimini (era stato addirittura accusato di aver ucciso la prima moglie e di aver avuto una relazione con la cognata). Iniziò dunque il processo.

All’epoca la violenza sessuale non era considerata un reato contro la donna ma contro l’onore familiare (l’ordinamento rimase tale fino al 1996). Inoltre per avere giustizia la vittima era tenuta a dimostrare di avere sempre avuto una condotta casta e integerrima. Per tutta la durata del processo Artemisia ribadì sia la violenza sia l’inganno della promessa nuziale, mentre Agostino l’accusò di non aver avuto mai rapporti con lei. Ad aggravare le cose ci si misero anche altri testimoni, che affermarono che la pittrice si intratteneva con altri uomini ed era “fin troppo libera”. Ad esempio, ci fu chi affermò che era solita affacciarsi alle finestre di casa, cosa non consona a una donna “perbene”. Artemisia, che già veniva guardata con diffidenza perché si occupava di pittura, da quel momento venne considerata una donna licenziosa e piena di amanti. Come se non bastasse, per verificare che la sua deposizione fosse attendibile, fu costretta a sottoporsi a visite ginecologiche da parte di due levatrici, nonché, come era prevista, alla tortura dei cosiddetti “sibilli”. Questa tecnica consisteva nel porre delle cordicelle tra le dita delle mani congiunte e nell’azionare successivamente un bastone che, girando, stringeva le falangi fino a stritolarle. Ovviamente si trattava di una prtica non solo dolorosa, ma pericolosa soprattutto per un’artista, dato che si rischiava di compromettere la funzionalità delle dita. Mentre veniva torturata, si rivolse allo Smargiasso gridando: “Questo è l’anello che tu mi dai, e queste sono le promesse!”. Il processo terminò nel mese di settembre: Tasso venne ritenuto colpevole. La sentenza prevedeva cinque anni di lavori forzati o l’esilio. Tassi scelse quest’ultimo anche se, forse grazie ad amicizie influenti, riuscì a entrare a Roma dopo qualche tempo, riallacciando addirittura i rapporti con Orazio, il 29 novembre 1612, circa un mese dopo la fine del processo, Artemisia sposò il fiorentino Pierantonio Stiattesi, un pittore mediocre con cui ebbe quattro figli. Artemisia ne approfittò per lasciare Roma e affrontare in modo indipendente il resto della vita.

 

Simbolo femminista.

Artemisia Gentileschi
Autoritratto come allegoria della Pittura (1638-1639)
Royal Collection, Windsor


La figura di Artemisia è legata ad Anna Banti, pseudonimo della studiosa Lucia Lopresti che nel 1947 scrisse il romanzo Artemisia, incentrato principalmente sulla vicenda della violenza sessuale. Secondo l’autrice, “Artemisia fu una delle prime donne che sostennero con le parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito tra i due sessi”. Da quel momento la sua fama come icona femminista crebbe notevolmente. A Berlino nel 1989 fu aperto l’Artemisia Hotel, riservato a una clientela femminile. Anche un cratere sul pianeta Venere porta il suo nome.

L’eroina biblica Giuditta: simbolo di vendetta?


Artemisia Gentileschi
Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613)
Museo Nazionale di CapodimonteNapoli

Secondo alcuni studiosi, la pittrice avrebbe in seguito tentato di superare il dramma della violenza grazie all’arte, rappresentando spesso donne forti che si oppongono agli uomini. Per esempio, l’opera Giuditta che decapita Plofermee, (tema che rappresentò più volte) è stata letta come il tentativo di trasfigurare e vendicare lo stupro rappresentando l’eroina (con cui Artemisia si sarebbe identificata) mentre uccide il brutale condottiero assiro. Tuttavia considerare la sua arte solo come una terapia significherebbe limitarne il grande estro creativo. Inoltre, il tema della Giuditta era molto diffuso nell’arte fin dal quattrocento e la stessa Artemisia lo aveva rappresentato anche prima della violenza subita. Nel dipinto l’artista inserì anche il dettaglio del sangue che schizza dal collo di Oloferne fino a macchiare il petto di Giuditta, rappresentato con un atteggiamento molto determinato. Il quadro risente molto dell’influenza di Caravaggio, tanto che è stato detto che con quest’opera il caravaggismo fa il suo ingresso a Firenze.

 

Una Susanna oppressa.

Artemisia Gentileschi
Susanna e i vecchioni (1610 circa)
castello di Weißenste

Realizzato nel 1610, il dipinto è stato per lungo tempo al padre, perché sembrava impensabile che un’opera di tale livello fosse stata realizzare dalla pittrice, allora appena diciassettenne. Il soggetto è tratto dalla Bibbia, precisamente dal Libro di Daniele, dove si racconta della casta Susanna insidiata da due uomini che la minacciano nel tentativo di approfittarsi di lei. Secondo una dubbia interpretazione dell’opera, la tela sarebbe stata realizzata dopo il 1610 e con una connotazione autobiografica: Susanna rappresenterebbe la stessa pittrice oppressa dal padre (l’uomo più anziano) e da Agostino.

Giale e Sisara.

Anche in questo caso si tratta di un tema biblico e ritrae il momento in cui Giaele sta uccidere con un picchetto da tenda il generale cananeo sconfitto dal popolo d’Israele.



 

Le altre Artemisia.

Vi furono altre donne che intrapresero la carriera di artista tra il XVI e il XVII secolo. Tra le più note vi è la nobildonna cremonese Sofonista Anguissola, che lavorò presso la corte spagnola di Filippo II. Anche le sue sorelle si dedicarono all’arte. La pittrice è citata nelle Vite di Vasari insieme ad altre due donne: Properzia de’ Rossi e Plautilla Nelli. Una famosa ritrattista fu poi la bolognese Lavinia Fontana. Si racconta che quando il marito la chiese in sposa, ella pose come condizione il diritto di continuare a dipingere. In Olanda invece fu molto attiva la pittrice Judith Leyster, che a 24 anni era già membro della corporazione dei pittori della sua città, Harlem.

 

 Una nuova vita. La coppia si trasferì a Firenze preceduta da una lettera di Orazio indirizzata alla granduchessa di Toscana Cristina Lorena nel tentativo di introdurre la figlia presso la corte medicea. Orazioni non esitò a elogiare Artemisia: “Mi ritrovo una figlia femmina con altri tre maschi, e questa femmina, avendola drizzata nella professione di pittura, in tre anni si è talmente appraticata che posso dire che non ci sia pari a lei”. Più che la lettera del padre, però, è probabile che le fosse d’aiuto l’influenza dello zio, fratellastro del padre, Aurelio Lomi, pittore molto apprezzato alla corte di Firenze. A ogni modo, in poco tempo Artemisia riuscì a entrare nella cerchia del granduca Cosimo II. Questi anni furono fondamentali per il suo futuro: imparò a scrivere (fino ad allora sapeva solo leggere) e iniziò a frequentare nobili e intellettuali come Galileo Galilei, con cui intrattenne una corrispondenza epistolare, e Michelangelo il Giovane, bisnipote del Buonarroti, che il 24 agosto 1615 le commissioni l’Allegoria dell’inclinazione per la volta della casa di famiglia, Artemisia dipinse un nudo di donna, così realistico (secondo alcuni si tratterrebbe di un autoritratto) che più tardi l’uomo fu costretto a farlo coprire con dei panneggi. Nel giro di pochissimo tempo la sua fama crebbe a dismisura, tanto che in una lettera del segretario di Cosimo II viene definita “un’artista molto conosciuta a Firenze”. Il 18 luglio 1616 fu la prima donna a essere ammessa nell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze fondata da Giorgio Vasari nel 1563. Vi rimase iscritta fino al 1620 quando chiese al granduca il permesso di trascorre del tempo a Roma per sistemare alcune questioni familiari. Il marito Pierantonio guardava di buon occhio l’ascesa di Artemisia che, in pratica, provvedeva al sostentamento della famiglia nonché a saldare i numerosi debiti da lui contratti.

Il vero amore di Artemisia però non fu di certo il marito, bensì il nobile fiorentino Francesco Maria Maringhi. La forte passione tra i due è testimoniata da un ricco carteggio rinvenuto qualche anno fa. In esso, curiosamente compaiono anche diverse lettere dello Stiattesi a Maringhi in cui lo informa di vari fatti di vita quotidiano al posto della moglie, dimostrando di accettare la relazione tra i due. Non si sa per quale ragione il marito non solo seguì Artemisia quando questa rientrò a Roma, ma a un certo punto addirittura scomparve dalla sua vita. Il rapporto con Maringhi, invece, seppur tra alti e bassi (pare nel frattempo ebbe anche una relazione con il musicista inglese Nicholas Lanier), l’accompagnò per molti anni. A Roma le chiacchiere sul suo conto sembravano apparentemente dimenticate. I salotti si contendevano la sua presenza e fu anche invitata a far parte dell’Accademia dei Desiosi, prestigiosa istituzione che raccoglieva i più importanti intellettuali romani. Qualche tempo dopo Orazio si trasferì in Inghilterra, mentre la figlia intraprese un viaggio nel nord Italia. Poi, intorno al 1630, decise di andare a Napoli, che agli inizi del XVII secolo era una città più grandi di Europa, meta di di mercanti e pittori in cerca di committenze. Qui ricevette nuovi importanti incarichi, tra cui quelli di Filippo IV di Spagna.

Nel 1637 Carlo I di Inghilterra la invitò presso la sua corte. Giuntavi l’anno dopo, si ricongiunse con il padre, che stava lavorando alla decorazione del soffitto della Quenn’s House a Greenwich. I due probabilmente ripresero a collaborare fino alla morte dell’uomo, avvenuta nel 1639. Negli anni londinesi Artemisi dipinse una delle sue opere più famose, l’Autoritratto in veste di Pittura. Tornata a Napoli, vi rimase fino alla morte avvenuta tra il 1652-1653. Dopo aver dato in sposa una delle figlie iniziò a trovarsi in difficoltà economiche e accettò di lavorare per don Antonio Ruffo, un collezionista di Messina che le aveva commissionato alcune opere. I problemi economici, però, non diminuirono e a volte fu anche costretta svendere le sue opere. Trascorse gli ultimi anni senza tentare nuove sperimentazioni artistiche e assillata dalla necessità di fronte alle spese. Artemisia non si liberò mai del tutto della fama di donna licenziosa. L’opinione pubblica non le aveva perdonato il suo essere libera ed emancipata. Alla sua morte, per esempio, due contemporanei – Giovan Francesco Loredano e Pietro Michele – le dedicarono epitaffi oltraggiosi. Uno di questi recitava: “Col dipinger la faccia a questo, e a quello / nel mondo m’acquistai merto infinito / nell’intagliar le corna a mio marito / lascia il pennello e presi lo scalpello”. Dopo la sua morte, la sua figura venne rapidamente dimenticata. Il Baglio, per esempio, in Le vite de’ pittori, scultori e architetti (1642) ne fece solo un breve cenno in calce alla biografia del padre, mentre altri biografi successivi neppure la nominarono. La riscoperta della sua figura sarebbe arrivata solo nel 1916, grazie allo storico dell’arte Roberto Longhi, che inquadrò il suo personaggio nell’ambito del caravaggismo. Successivamente, però, le sue vicende private hanno spesso rischiato di prevalere sulla conoscenza dell’attività di pittrice, la cui qualità può essere paragonata a quella di Caravaggio.

 

Articolo di Alessandro Pagano pubblicato su Storica Nationa Geographic del mese di febbraio 2019 – altri testi e immagini da Wikipedia.

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...