martedì 26 febbraio 2019

Il tempio greco


Il tempio greco.
In Grecia i santuari non erano semplici luoghi di culto, ma rispecchiavano l’organizzazione sociale delle città e il modo in cui i suoi abitanti concepivano l’universo.
 Il Tempio E o tempio di Era a Selinunte, in Sicilia, è un tempio greco di ordine dorico.

Fu realizzato verso la prima metà del V secolo a.C. sulle fondamenta di edifici più antichi.[1] Si tratta del tempio meglio conservato di Selinunte, anche se il suo attuale aspetto si deve all'anastilosi(ricostruzione) effettuata, tra le polemiche, nel 1959. Consacrato ad Era, si trova sulla collina ad est dell'acropoli della città.
Il tempio, periptero, appartiene al periodo di transizione tra dorico arcaico e periodo classico e presenta un peristilio con sei colonne sul fronte (esastilo) e quindici sui lati lunghi, avendo per conseguenza una disposizione planimetrica insolitamente allungata. La conformazione planimetrica comprende il naos, piuttosto stretto e senza colonnato interno, il pronao, l'adyton con il pavimento rialzato, ed anche l'opistodomo.
Sono presenti diversi accorgimenti ottici, tipici dell'ordine dorico: la forte rastremazione delle colonne, la contrazione angolare, l'ampliamento delle ultime metope.[2]
Il fregio presenta metope figurate databili intorno al 470 a.C. che mostrano l'evoluzione verso lo stile classico, in particolare quelle che rappresentano Zeus ed Era e Artemide ed Atteone.[3]



Selinonte Temple E2.jpg
Selinunte-TempleE-Plan-bjs.png


Dopo il crollo della civiltà micenea attorno al 1100 a.C., la Grecia attraversò una lunga “età oscura”, il Medioevo ellenico, di cui sono rimasti pochi resti materiali. Di fatto, del primo tempio greco conosciuto non restano che alcune tracce sul terreno. Si sa però che fu eretto nell’VIII secolo a Eretria, sull’isola di Eubea, che era dedicato ad Apollo Dafne-foro (portatore di alloro) e che era in legno. Aveva una navata centrale allungata, coperta da un tetto a due spioventi sostenuto da pilastri esterni anch’essi in legno. Significativamente la pianta di questo tempio sembra rifarsi a quella di un edificio pubblico di poco precedente, di cui sono state trovate tracce sulla stessa isola. La dimora della divinità seguiva insomma il modello della casa degli esseri umani.
Duecento anni più tardi, sull’isola di Samo, di fronte alle coste dell’Asia Minore, sorse il primo tempio greco in pietra del quale ci sono giunte tracce. Dedicato a Era, la moglie di Zeus, aveva una struttura simile ai templi arcaici e presentava già quella forma che avrebbe caratterizzato i santuari nel corso della storia: una cella (naos) con la statua del dio, circondata da colonne.
Secondo alcune teorie, il tempio greco di pietra sarebbe stato influenzato dall’architettura religiosa egizia, anch’essa in pietra, ma non ci sono elementi sufficienti ad avvalorare quest’ipotesi. Se è vero che i templi egizi presentano spesso un gran numero di colonne, queste sono generalmente situate all’interno dello spazio sacro, del quale costituiscono la cosiddetta sala ipostila, e non all’interno, come invece avveniva in Grecia. Pertanto è molto probabile che il modello greco – un recinto circondato da colonne – sia frutto di un’evoluzione autonoma. Lo sviluppo di questa struttura non può essere spiegato unicamente tramite la religione e le necessità del culto, ma è strettamente relazionato con le caratteristiche della società e del suo elemento più rilevante, la polis.



Metopa del Partenone raffigurante la lotta tra un Centauro e un Lapita.
La mètopa è un elemento architettonico del fregio dell'ordine dorico dell'architettura greca e romana. Consiste in una formella in pietra, scolpita a rilievo, a seconda dei casi altorilievo o bassorilievo, posta in alternanza con i triglifi. Spessissimo il soggetto rappresentato in una metopa fu il bucranio, ovvero un teschio di bue in bassorilievo.
Le metope scolpite spesso costituivano dei cicli compiuti, come nel caso del Partenone dell'Acropoli di Atene, in cui sono rappresentate scene mitologiche che celebrano la vittoria sui persiani.
Più antiche sono le metope dell'Heraion alla foce del Sele presso Poseidonia, conservate presso il Museo archeologico nazionale di Paestum.


Le dimore degli immortali.
VIII Secolo a.C.
A Eretia, sull’isola di Eubea, viene costruito il primo tempio greco conosciuto. È
VI secolo a.C.
Sull’isola di Samo compare il primo tempio greco in pietra di cui sono giunte tracce. È consacrato al culto di Era, moglie di Zeus.
500 a.C. circa.
A Selinunte (Sicilia) inizia la costruzione del tempio “G”, dedicato ad Apollo o a Zeus. È uno dei più grandi della Magna Grecia.
450 a.C.
Consacrazione del tempio di Zeus a Olimpia, che diventerà il modello dei templi di ordine dorico del Peloponneso.
447 a.C.
Inizia la costruzione del Partenone, tempio dorico dedicato ad Atena e voluto da Pericle, leader della democrazia ateniese.
438 a.C.
Durante le feste panatenee viene inaugurato il Partenone, pur ancora privo di alcuni elementi della decorazione scultorea.
421-406 a.C.
Nell’Acropoli di Atene viene realizzato l’Eretteo, tempio di ordine ionico dedicato all’omonimo sovrano mitologico dell’Attica.

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Vista panoramica dell'Acropoli di AteneCiviltàAntica Grecia




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Il Partenone (in greco antico Παρθενών Parthenṓn /partʰe'nɔ:n/, in greco moderno Παρθενώνας Parthenṓnas /parθe'nɔnas/) è un tempio greco, octastilo, periptero[1] di ordine dorico che sorge sull'acropoli di Atene, dedicato alla dea Atena.

È il più famoso reperto dell'antica Grecia[2]; è stato lodato come la migliore realizzazione dell'architettura greca classica e le sue decorazioni sono considerate alcuni dei più grandi elementi dell'arte greca. Il Partenone è un simbolo duraturo dell'antica Grecia e della democrazia ateniese ed è universalmente considerato uno dei più grandi monumenti culturali del mondo.



IL TEMPIO E LA CITTA’.  La statua della divinità era sempre situata all’interno dell’edificio sacro, che era la casa del dio. Per questo il tempio era anche chiamato oikos, termine che indica la dimora e, per estensione, la famiglia. Il culto si svolgeva invece su un altare esterno, posto davanti alla facciata. Questo suddivideva il tempio in due aree distinte. Da un lato c’era la cella della divinità, in cui poteva entrare unicamente il personale addetto ai riti per lavare e vestire la statua sacra, e le cui porte erano sempre chiuse perché nessun altro potesse accedervi. Dall’altro, un’area porticata e colonnata che circondava la zona sacra ed era aperta a tutti.
Il santuario greco, quindi, consiste in uno spazio privato e chiuso, circondato da uno spazio pubblico.  La cella che ospita la divinità – o la sia rappresentazione terrena – non ha praticamente aperture, è una specie di luogo oscuro e segreto che appartiene esclusivamente agli dei. Invece il portico circostante è della collettività, e i suoi membri possono deambularvi liberamente. In questo senso si può dire che il santuario ha due proprietari, ognuno dei quali possiede una parte specifica dell’edificio: la polis controlla il portico, aperto ai cittadini, mentre la divinità domina la cella. Da un certo punto di vista lo spazio pubblico del tempio rappresenta i cittadini intesi come collettività. I cittadini (uomini liberi di più di 30 anni)  di una città-stato come Atene sono uguali tra loro: hanno gli stessi diritti e doveri e svolgono le medesime funzioni. Sono pertanto come le colonne del santuario, identiche ed equidistanti. Questa ripartizione del tempio tra la cella della divinità e il portico corrisponde alla struttura della polis, generalmente suddivisa in una città bassa e in una alta fortificata, l’acropoli, dov’erano situati gli spazi sacri. La città bassa era nelle mani della comunità e aveva il centro della sua vita sociale nell’agorà, la piazza pubblica in cui si svolgeva il mercato, si concludevano accordi commerciali e si discuteva di politica e di filosofia. Invece l’acropoli  era dedicata al culto religioso. A differenza di quanto avveniva nella città mesopotamica, che apparteneva interamente agli dei, in Grecia le divinità risiedevano nel loro piccolo spazio separato da quello degli umani. In questo modo il tempio è espressione dell’organizzazione sociale della polis. Situato in cima all’acropoli, visibile da ogni punto della città, il santuario rende manifesta la presenza degli dei, indifferenti alla sorte dei mortali che si affannano ai loro piedi nella città bassa, attorno all’agorà. Ma allo stesso tempo testimonia l’autonomia degli esseri umani, che si prendono cura degli dei ma vivono indipendentemente da loro. Il tempio è la dimora della divinità, ma ricorda ai cittadini che la polis è loro.

Posizione delle colonne.

tempio di Atena Nike 
L’elemento essenziale dei templi greci è la naos, ovverosia la cella che ospita la statua della divinità (qui sopra si può vedere quella di Atena Nike nell’Acropoli di Atene). Le varie tipologie di tempio si distinguono in base alla disposizione delle colonne che circondano la cella: anfiprostilo se ha un porti davanti e dietro la cella, periptero se è circondato sui quattro lati. 
UNA NAVE PER GLI IMMORTALI. A volte si è contrapposto il modello del tempio greco a quello delle chiese cristiane. In queste ultime l’edificio è organizzato attorno a uno spazio centrale che conduce all’altare e in cui le persone possono circolare liberamente, a differenza di quanto avviene nel tempio greco. Gli edifici religiosi cristiani si configurano così come un luogo di accoglienza, in cui mortali e immortali trovano un punto di incontro e di condivisione dei valori. La chiesa, in quanto spazio che non rifiuta nessun essere vivente e in cui tutti si sentono protetti, diventa una riproduzione dell’Eden biblico e dell’arca dell’alleanza, la cassa in cui erano conservate le tavole della legge che Dio consegnò a Mosè; o della stessa arca di Noè. Non è quindi casuale che questo luogo di sovrapposizione tra l’umano e il divino abbia in alcuni casi la forma di un’imbarcazione rovesciata. Ma la metafora navale non è esclusiva del santuario cristiano. Anche il tempio greco presenta delle similitudini con una barca. L’immagine è resa ancora più evidente dalle file di colonne che lo circondano, simili a remi. Va notato che nell’antica Grecia i remi, per il loro modo rapido e sincronizzato di muoversi al di sopra dei flutti marini, erano spesso paragonati a uno stormo di uccelli migratori, come le gruche che guidavano i marinai, e il termine che designa lo spazio porticato del tempio greco, pteron, significa “ala”.
Si può vedere allora il tempio greco come una nave che supera lo spazio invalicabile tra immortali e mortali. È un’imbarcazione solida come una roccia, che sebbene sembri fluttuare nell’aria – soprattutto quando riverbera alla luce del sole, al di sopra delle nebbie umide che coprono la cittò inferiore e il suo porto – è in realtà saldamente ancorato per l’eternità. Gli edifici, come le barche, hanno bisogno di essere ormeggiati perché le correnti del tempo e dell’oblio non li trascinino via. E la nave di pietra è così solida e inamovibile da trasmettere sicurezza a quelle creature effimere che sono gli uomini. Il passaggio degli esseri umani sulla terra è fugace, ma il tempio è progettato e costruito per ispirare un senso di protezione di fronte alla precarietà dell’esistenza. Quella nave attraccata sopra la città ha la sua ancora nel cosmo. Anticamente gli architetti  disponevano i templi secondo la posizione di pianeti, stelle o costellazioni particolarmente luminosi (come Venere, la Stella polare o le Pleiadi) e li orientavano in basi ai punti cardinali. Il mondo greco non faceva eccezione in tal senso, e i suoi santuari avevano una corrispondenza con l’ordine cosmico.

Panorama of the west pediment of the temple of Aphaia in the Glyptothek Munich n1.jpg

Frontoni di Egina sono due complessi scultorei che decoravano il tempio di Afaia nell'isola di Egina in Attica. In marmo pario, sono considerati tra i capolavori della scultura greca arcaica a un passo dallo stile severo e sono entrambi conservati nella Gliptoteca di Monaco di Baviera.

L’Eretteo, un complesso unico.
vista frontale della loggia con le Cariatidi. 
Nell’Acropoli sono conservate le rovine dell’Eretteo, dedicato al leggendario primo re dell’Attica. Il santuario sorge nei pressi del luogo dove, secondo il mito, Poseidone e Atena si sfidarono per il controllo della regione. Poseidone colpì il suolo con il suo tridente e fece sgorgare una fonte d’acqua salata; ma Atena si impose piantando il primo ulivo. Il tempio fu costruito tra il 421 e il 406 a.C. approfittando di una parentesi di pace nella Guerra del Pelponneso, che vedeva fronteggiarsi Atene e Spata. Di ordine ionico, l’edificio riunisce varie costruzioni precedenti dedicate al culo di Atena Poliade – il cui tempio era stato distrutto dai persiani nel 480 a.C., durante l’occupazione di Atene – e di Poseidone, Eretteo ed Efesto (che secondo il mito era il padre di Eretteo). Le cariatidi, sei colonne a forma di fanciulle, potrebbero rappresentare le sei figlie del mitologico sovrano.
I tre ordini, o stili, greci.
Ordini dorico, ionico e corinzio.
Gli storici dell’arte definiscono ordini i diversi stili architettonici, che si distinguono essenzialmente per la disposizione degli elementi fondamentali – le colonne, i capitelli e la trabeazione (ovvero la struttura al di sopra delle colonne) – e per le relative proporzioni. I due ordini di base dell’architettura greca erano il dorico e lo ionico, sorti tra il VII e o VI secolo a.C. Il terzo ordine, il corinzio, era una variante dello ionico apparsa nel IV secolo a.C. Il dorico e lo ionico proseguirono per tutta l’antichità classica, anche se con alcune variazioni delle proporzioni, in particolare dell’altezza e del diametro delle colonne, che si fecero a mano a mano più sottili, mentre la trabeazione divenne più leggera. Lo stile corinzio si differenzia dagli altri due in quanto utilizza elementi naturali, come le foglie d’acanto nei capitelli.

IL TEMPIO E L’UNIVERSO. La facciata principale del tempio, dov’era situata l’entrata, era rivolta a est. Così, quando le porte del santuario si aprivano, i raggi del sole nascente illuminavano il volto della divinità, permettendole di entrare in contatto con sé stessa. Anche le prime chiese cristiane erano orientate secondo i punti cardinali, ma l’ingresso era rivolto a ovest, affinché la luce dell’alba, penetrando attraverso le vetrate del coro, orientate a est, investisse il viso dei fedeli che procedevano verso l’altare. Questa disposizione e il ruolo giocato dalla luce evidenziano una differenza essenziale tra tempio cristiano e greco; il primo è la dimora di tutti gli umani; il santuario pagano ospita invece la divinità, e le persone non vi hanno accesso, a eccezione di re e sacerdoti. I templi greci non erano collegato al cosmo solo tramite i punti cardinali, ma avevano con esso una connessione matematica più profonda. Nella costruzione di un tempio l’importante non erano le dimensioni dei vari elementi ma le specifiche relazioni che questi intrattenevano tra di loro, come per esempio i rapporti tra l’altezza, la larghezza e la lunghezza di una sala, o tra l’altezza delle colonne e la loro distanza reciproca. Tutti i componenti architettonici dovevano attenersi a queste proporzioni. Nel caso del Partenone, la relazione tra larghezza e  lunghezza della cella contenente la grande statua della dea Atena era di 3 a 4. Tali relazioni si ritrovano anche nella musica, nella quale gli intervalli armonici tra le note emesse da due corde dipendono dal rapporto tra le rispettive lunghezze. Di fatto, le colonne che circondavano la cella del tempio rievocavano le corde tese di uno strumento, pronte a vibrare per mano di un divino musicista.
Per i greci le proporzioni musicali rimandava a loro volta alle distanze tra i corpi celesti : il sole, la luna, la terra, gli altri pianeti allora conosciuti (Saturno, Giove, Marte, Mercurio e Venere) e la fascia delle stelle fisse. Se le posizioni degli astri erano governate dagli stessi rapporti che erano alla base della musica, allora i movimenti dei corpi celesti dovevano produrre armonie, la cosiddetta “musica delle sfere”.
E i templi, che seguivano lo stesso modello di proporzioni, rappresentavano un’immagine perfetta del cielo. Erano un’immagine in scala ridotta dell’universo. Il santuario greco replicava il cosmo e allo stesso tempo si situava in esso, orientandosi secondo i punti cardinali.

                         Bellezza e occhio umano.
Le proporzioni dei templi greci rispecchiavano l’armonia dell’universo, e la matematica si poneva al servizio di questi rapporti armonici per evitare che fossero rovinati dall’imperfezione dell’occhio umano; gli architetti del Partenone, per esempio, calcolarono attentamente la curvatura da imprimere alla facciata del tempio per compensare la distorsione prospettica che fa apparire concave le lunghe superficie piane.

IN TERRA COME IN CIELO. Se il cielo e il tempio erano strettamente relazionati, quest’ultimo non poteva essere una struttura chiusa o isolata, ma doveva aprirsi alla vota celeste. Ecco perché era delimitato da colonne e non da pareti continue. Il santuario era organizzato secondo gli stessi rapporti che regolavano il firmamento e mirava a renderli manifesti. Da questo punto di vista era del tutto logico e comprensibile ritenere che la divinità dimorasse nel tempio, proprio come abitava nel cosmo. L’architettura sacra offriva un’immagine chiara e comprensibile del mondo, dissipava timori e incertezze, era uno specchio capace di svelare l’universo e di fugare l’ignoranza di fronte ai movimenti celesti. In definitiva, era una chiave per capire gli enigmi del cosmo.

Il tempio di Zeus a Olimpia.


L’area del santuario di Olimpia nel Peloponneso ospitava le famose gare di atletica che si tenevano ogni quattro anni in onore di Zeus. Durante i giochi i greci interrompevano ogni conflitto per permettere ad atleti e spettatori di raggiungere liberamente la città. Qui furono costruiti due imponenti templi dorici: uno dedicato a Zeus, terminato nel 456 a.C. e uno a sua moglie Era, risalente alla fine del VII secolo a.C.

ORDINE MATEMATICO PER ZEUS. Il progetto dell’edificio è opera dell’architetto Libone di Elide. Il tempio, largo quasi 27 metri e lungo 64, è di tipo esastilo, cioè con 6 colonne sui lati corti e 13 su quelli lunghi. Questo rapporto non è arbitrario, ma corrisponde alla formula 2-n + 1 dove n è il numero di colonne: 2.6 colonne anteriori + 1 = 13 colonne laterali.
Le dimensioni di ogni elemento dell’edificio sono un multiplo di un modulo di base, costituito dalla distanza tra gli assi di due colonne. Il frutto di questi calcoli sono delle proporzioni perfette che ne fanno un esempio di tempio dorico canonico.
LA STATUA PIU’ AFFASCINANTE. La statua di Zeus era crisoelefantina, cioè in oro e avorio, ed era alta più di 12 metri senza contare la base. Conclusa da Fidia nel 433 o nel 432 a.C., era considerata una delle sette meraviglie dell’antichità. La cella che la ospitava misurava quasi 13 metri di lunghezza per 29 metri di larghezza, ed era suddivisa in tre parti da due file di 7 colonne cisascuna, sormontate da una seconda fila di colonne.

 Articolo in gran parte di Pedro Azara università  politecnica della Catalogna,Scuola tecnica superiore di Architettura di Barcellona pubblicato da Storica National Geographic del mese di novembre 2018. Altri testi e immagini da Wikipedia.
   

domenica 24 febbraio 2019

La battaglia degli Altipiani.


La battaglia degli
Altipiani.
Un attacco ritenuto irrealizzabile, un pericolo sottovalutato: gli austro-ungarici calano sul nostro Paese. Ma le difficoltà ambientali sono più grandi di quanto calcolato. La strategia è  indecisa e la reazione italiana sorprende l’invasore.



Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte»
(Emilio LussuUn anno sull'Altipiano)
La battaglia degli Altipiani fu combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini, tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, impegnati in quella che fu definita dagli italiani come Strafexpedition, che si traduce dal tedesco in italiano come spedizione punitiva[3]. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (poiché il Trentino è il territorio più a sud del Tirolo)[4]. Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.


Battaglia degli Altipiani
Frühjahrsoffensive
Strafexpedition
parte del fronte italiano della prima guerra mondiale
Guerra Altipiani Dopo Assalto.jpg
Quello che rimane della vegetazione alpina dopo un assalto sull'Altopiano dei Sette Comuni.Data15 maggio-27 giugno 1916LuogoTrentino meridionale, alto vicentino, nei dintorni del massiccio del Pasubio, nell'Altopiano dei Sette Comuni e nei dintorni di FolgariaTonezza e LavaroneEsitoRipiegamento volontario austroungarico / Vittoria difensiva italianaSchieramenti
Comandanti
Effettivi
172 battaglioni, 850 pezzi d'artiglieria (stime)300 battaglioni, 2.000 pezzi d'artiglieria (stime)
Perdite
147.730 (15.453 morti, 76.642 feriti e 55.635 fra prigionieri e dispersi)[1]82.815 (10.203 morti, 45.651 feriti, 26.961 fra prigionieri e dispersi)[2]
Voci di battaglie presenti su Wikipedia
«Improvvisamente, una nostra mitragliatrice aprì il fuoco. Io mi levai per vedere. Gli austriaci attaccavano.
Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte»
(Emilio LussuUn anno sull'Altipiano)
La battaglia degli Altipiani fu combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini, tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, impegnati in quella che fu definita dagli italiani come Strafexpedition, che si traduce dal tedesco in italiano come spedizione punitiva[3]. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (poiché il Trentino è il territorio più a sud del Tirolo)[4]. Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.



Strafexpedition, in tedesco “spedizione punitiva”: gli ufficiali austro-ungarici chiamavano così nelle loro conversazioni riservate l’offensiva che il generale Franz Conrad von Hotzendorf sta per scatenare sul fronte trentino in quella primavera del 1916. Lo riferivano i disertori in uniforme grigio-azzurra che, all’addentarsi della tempesta, attraversavano la terra di nessuno e si consegnavano agli italiani. Forse era solo una voce propagandistica studiata a tavolino dal generale Luigi Cadorna negli uffici del Comando supremo a Udine, per infiammare di sdegno gli animi dei suoi soldati. Non c’è traccia, infatti, di quello sprezzante appellativo nei documenti ufficiali dell’esercito imperial-regio. Ma, verità o diceria, qualcosa bolliva in pentola, e certo tra gli austro-ungarici il sentimento anti-italiano era vivissimo e varcava abbondantemente la soglia del disprezzo. L’Italia aveva tradito vergognosamente il patto della Triplice alleanza con un machiavellico voltafaccia, una vile pugnalata alla schiena che meritava una punizione esemplare.
Questo l’animo dell’opinione pubblica austriaca: poco importava che quel patto fosse stato rivisto e corretto dalle diplomazie in numerose occasioni fino a perdere negli anni il suo valore originario. Un patto, oltretutto, che lo stesso Conrad non avrebbe esitato a violare nel 1911, chiedendo al suo governo l’autorizzazione ad attaccare l’Italia quando questa entrò in guerra contro l’impero ottomano. Franz Conrad von Hotzendorf aveva maturato l’idea di un attacco preventivo all’Italia  dal Trentino quando dal 1903 al 1906 aveva guidato la divisione di fanteria di stanza in Tirolo. Lui stesso, appassionato di alpinismo, aveva esplorato le montagne per trasformarle in un campo di di battaglia. nel 1911 quella proposta, tanto spregiudicata quanto politicamente inopportuna, gli era costata temporaneamente il ruolo di capo di Stato maggiore dell’esercito imperial-regio, ma ora che l’imperatore Francesco Giuseppe lo aveva richiamato al massimo vertice e che la guerra era in atto, i suoi piani potevano trovare finalmente realizzazione. Sfondare la linea italiana sull’altopiano di Asiago irrompendo nella Pianura veneta a Vicenza significava chiudere in una sacca le centinaia di migliaia di soldati italiani che prendevano a spallate le truppe austriache sull’Isonzo e sulle Dolomiti. Sconfiggendo la 1a  Armata si prendevano prigioniere la 2a, la 3a e la 4a e si costringeva l’Italia alla resa. Per l’Austria, duramente impegnata su troppi fronti e soprattutto preoccupata della situazione in Galizia contro i Russi, riuscire a liberarsi della spina nel fianco rappresentata dall’Italia accendeva la speranza di non venire schiacciata dal conflitto.


il fronte italiano nel 1915-17

UN AMBIENTE OSTILE. Ma se la geografia offriva all’Austria un’opportunità di grande valore strategico, ben altro discorso era riuscire ad approfittarne, perché sempre essa descriveva l’Altopiano di Asiago (detto anche dei Sette Comuni) come un campo di battaglia decisamente ostile. Un massiccio di forma quadrangolare, delimitato da ripide scarpate, tra i fiumi Brenta e Astico, largo 25 chilometri in senso est-ovest e profondo più di 30 da nord a sud, con venti cime oltre i 2000 metri concentrate nel suo lato settentrionale, che forma un primo altopiano. Superandolo si entra nella sua frastagliata conca centrale, il secondo altopiano, dove l’altezza media è di 1000 metri. Uno dei luoghi più freddi delle Alpi, con punte di -30°C in inverno e due metri in media di neve, ma dove l’acqua è scarsa perché la natura carsica del suolo se la inghiotte. Eppure Franz Conrad von Hotzendorf era convito di poterlo superare. Già a fine 1915 aveva sottoposto il progetto al suo omologo tedesco Erich von Falkenhayn per ottenere da lui il sostegno ritenuto necessario: fino a nove divisioni tedesche di prima linea con la loro potente artiglieria per arrivare a un totale ideali di 25, o almeno di 20. Von Falkenhayn aveva espresso subito le proprie perplessità sostanziali: un’offensiva di quell’entità in territorio alpino sarebbe stata troppo soggetta agli imprevisti tipici della guerra in montagna per offrire sufficienti garanzie di riuscita. L’apparato logistico necessario a tenere in vita l’azione di un numero tanto grande di truppe semplicemente non  poteva reggere alla prova. Una frana, un guasto, un fiume in piena e tutto si sarebbe bloccato con conseguenze catastrofiche. C’era poi un ostacolo politico: la Germania non era in guerra con l’Italia e aggredirla avrebbe significato ovviamente modificare questo comodo status di indifferenza reciproca, senza alcun beneficio per il Reich. Ma c’era poi un’ulteriore motivo che toccava direttamente gli interessi strategici tedeschi, ed era probabilmente la principale ragione del rifiuto di quei rinforzi. Von Fralkenhayn stava programmando la gigantesca offensiva contro Verdun, fiducioso di riuscire con essa a dissanguare a morte la Francia. I preparativi per quella operazione, che sarebbe scattata il 21 febbraio, erano già iniziati e il comandante tedesco non poteva privarsi nemmeno di una delle sue divisioni, non parliamo poi di nove, per bruciarle su un fronte secondario come quello italiano, oltretutto in un’impresa che riteneva destinata al fallimento. Aveva consigliato dunque a Franz Conrad von Hotzendorf, senza mezzi termini, peggiorando ancora il rapporto già sufficientemente conflittuale con lui, di rimanersene tranquillo  sulla difensiva nelle sue ottime posizioni dominanti sulle Alpi.



Il contesto storico.

La Grande guerra era scoppiata da pochi giorni, quando il 31 luglio del 1914 il generale Cadorna fece giungere al re Vittorio Emanuele III e ad Antonio Salandra, presidente del consiglio, un dettagliato piano strategico di intervento nel conflitto, con l’invio sul fronte del Reno di ben 5 corpi d’armata, eccedenti, secondo il capo di Stato maggiore italiano, le esigenze della difesa nazionale. Solo che il lato del fiume sul quale pensava di schierarli non era quello giusto. Nessuno aveva infatti avvisato Cadorna che l’Italia stava cercando di districarsi dal garbuglio diplomatico creato nei decenni precedenti, e che la legava, peraltro in modo controverso, alle due potenze centrali: la Germania e l’Austria-Ungheria. Il patto della Triplice Alleanza aveva subito numerose revisioni nel corso degli anni per i continui sommovimenti che avevano sconvolto in modo imprevedibile il panorama politico europeo. Si erano infatti saldati legami tra nemici storici, come la Francia e la Gran Bretagna, o tra opposti politici, come la stessa Francia repubblicana e la Russia zarista. Una “Triplice Intesa” contro il nemico comune: la Germania.
L’Italia, giunta all’unità nazionale in condizioni di debolezza rispetto agli altri attori europei, si era affacciata alla politica estera con spregiudicatezza, compiendo ogni sorta di equilibrismo per consolidare la propria posizione. La natura difensiva della Triplice Alleanza e la prospettiva di acquisire i territori italiani ancora inglobati nell’impero austro-ungarico fecero aderire l’Italia all’Intesa con il patto segreto di Londra, firmato il 26 aprile 1915: quattro settimane dopo l’Italia avrebbe dichiarato guerra all’Austria-Ungheria, guadagnandosi il suo odio. Una decisione machiavellica, ma tutto sommato legittima, e che risolveva il problema politico interno creato dagli irredentisti e interventisti italiani, tra i quali figuravano uomini del calibro di D’Annunzio e Mussolini. Cadorna, lasciato all’oscuro delle manovre politiche, avrebbe cambiato i suoi piani senza fare eccessive domande. Nel frattempo, faticò non poco a rispondere in modo vago ma allo stesso tempo convincente a quelle degli “alleati” tedeschi e austriaci che gli chiedevano su quante truppe italiane potessero contare.

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IMPRESA TITANICA. Il comando austriaco, però, aveva già preso la sua decisione, e se forse gli austriaci non pronunciarono mai la parola “Strafexpedition” l’astio verso l’Italia, congiunto a una scarsa considerazione per la combattività delle sue truppe, rivestì un peso non trascurabile. Comunque, la fiducia di Franz Conrad von Hotzendorf di poter ottenere una vittoria contando sulle sue sole forze era forse eccessiva, ma non completamente infondata. Anche se non aveva esperienze in combattimento precedenti al 1914, era considerato, a ragione, il miglior teorico e stratega dell’esercito di Francesco Giuseppe e con un po’ di esagerazione, uno dei migliori dell’epoca: il suo era un rischio calcolato. Le truppe austro-ungariche avevano resistito a ben 5 offensive italiane sul fronte dell’Isondo, con arretramenti di scarsa importanza: questi successi avevano innalzato il loro morale e la loro fiducia. In Galizia e in Serbia, poi, la situazione si era stabilizzata e le crisi dei mesi precedenti sembravano ormai passate. Era quindi possibile sottrarre a questi fronti le truppe necessarie a un’offensiva, sostituendole con un’unità di seconda linea o, semplicemente, indebolendo numericamente i dispositivi. Si sarebbe potuto così concentrare nel Tirolo meridionale 14 divisioni, costituendo due armate per quasi 160 uomini (con altri 200mila addetti ai servizi nelle retrovie) e un numero di cannoni talmente alto da annichilire qualsiasi resistenza. E in quanto ad artiglierie, Franz Conrad von Hotzendorf aveva un vero asso nella manica. Sul fronte del Carso aveva sperimentato con successo l’utilizzo di trattori per la movimentazione dei grossi calibri, mentre gli italiani ancora spostavano i loro carri trainati da buoi. I mezzi meccanici riuscirono a portare sulla linea del fronte in Tirolo 8 mostruosi mortai da 30,5 centimetri, e 3 ancora più terribili obici  da 42 (l’equivalente austriaco della famosa Gorsse Bertha tedesca): armi che pesavano rispettivamente 21 e 105 tonnellate e sparavano proiettili da 4 e 10 quintali, capaci di ridurre qualsiasi fortificazione nemica in un cumulo di macerie. In tutto quasi duemila bocche da fuoco (di cui un quarto pesanti) con le quali gli italiani assaggiarono per la prima volta il bombardamento di artiglieria a tappeto: il fuoco simultaneo su un’area estesa che chiudeva in una gabbia di distruzione sena scampo le forze nemiche presenti.
I preparativi per l’offensiva iniziarono nel febbraio del 1916: il Tirolo si trasformò in un formicaio brulicante di soldati ansiosi di passare all’azione. L’impresa era titanica, ma Franz Conrad von Hotzendorf si dimostrò un ottimo organizzatore e, nonostante il freddo intenso di quell’inverno e la neve alta da 2 a 4 metri, i preparativi procedettero con energia e tenacia, mantenendo alto il morale delle truppe. La sfida logistica non spaventava gli austriaci, ma la montagna è un oste che non manca mai di presentare i suoi conti: nevicò anche a marzo e ad aprile, le prevedibili difficoltà ambientali, sotto forma di valanghe e frane che bloccarono per giorni le lunghe colonne di uomini e mezzi, non tardarono a manifestarsi, e l’avvio dell’offensiva dovette essere rimandato, settimana dopo settimana, a metà maggio.

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42 cm Haubitze M. 14, ovvero un Obice da 420/12 d'assedio in una postazione alpina della Guardia alla Frontiera.

Un uomo solo al comando.
Luigi Cadorna divenne la massima autorità militare italiana nel luglio 1914 e durante il conflitto ebbe di fatto nelle mani un potere praticamente incontrastato: dalla dottrina delle forze armate (da lui definita in un libretto con la copertina rossa intitolato Attacco frontale e ammaestramento tattico), alla pianificazione delle operazioni militari, alla mobilitazione dell’intero Paese per gli obiettivi della guerra. Un’impresa ciclopica. Solo per dare qualche cifra, i battaglioni di fanteria salirono da 548 nel 1915 a 867 nel 1917, e nello stesso periodo le artiglierie di medio calibro passarono da 246 a 3000 e quelle leggere da 1772 a 5000. Creò un esercito praticamente dal nulla, e lo volle a sua immagine e somiglianza. Quando questa riproduzione di sé lo deludeva la soluzione era semplice: cambiare gli interpreti. Se gli uomini morivano, altri sarebbero venuti a rimpiazzarli, e se gli ufficiali fallivano era sufficiente sostituirli. Esonerò 206 generali e 255 colonnelli, che in un modo o nell’altro avevano disatteso le sue aspettative. Un metodo sbrigativo, ma anche l’unico a sua disposizione perché tra le cose umanamente impossibili per Cadorna c’era anche quello di controllare lo svolgersi delle operazioni militari in un fronte tanto vasto.
Per il suo credo tattico, attaccando una vasta porzione dello schieramento nemico, si poteva individuare il punto di cedimento sul quale esercitare un’ulteriore pressione allo scopo di provocare il massimo delle perdite nemiche. Se non funzionava, la colpa non poteva essere delle mitragliatrici, delle trincee o dell’artiglieria pesante del nemico, ma andava sostanzialmente individuata nell’indisciplina e nella svogliatezza di quelle truppe e di chi le comandava. Il rigido verticismo e la ferrea volontà di Cadorna, dunque, furono tanto essenziali nella costituzione delle Forze Armate italiane durante la Grande guerra , quanto responsabile in larga misura della sua sistematica distruzione in innumerevoli e vani attacchi frontali. 



INDIZI INEQUIVOCABILI. Un apparato militare di quella portata difficilmente passa inosservato e i ritardi e gli intoppi non aiutarono certo gli austriaci a mantenere segreta la loro presenza nel Tirolo. E infatti già dal febbraio gli italiani iniziarono a ricevere segnali inequivocabili di un’insolita attività nemica. Disertori, come abbiamo visto, ma non solo: Franz Conrad von Hotzendorf cercava di far marciare le sue truppe per via nascoste alla vista delle cime italiane, ma interruzioni dei percorsi obbligavano a deviazioni che portavano le colonne e i fumi degli automezzi a portata di binocolo delle vedette in grigioverde. L’effetto sorpresa era perso, ma non del tutto. Cadorna conosceva le difficoltà della guerra di montagna e semplicemente non riusciva a credere che i suoi avversari potessero realizzare l’impossibile. Stava per cominciare la più grande battaglia in montagna di quella guerra e di ogni tempo: la più grande di un conflitto combattuto per quattro quinti in montagna. Ma per Cadorna e i vertici militari italiani gli austriaci stavano solo organizzando un’offensiva limitata, che cercava di distrarre la loro attenzione dal fronte isontino dove si stava preparando una sesta grande offensiva contro Gorizia.
C’era poi un’anomalia nei rapporti di intelligence che arrivavano ai comandi italiani: dal fiume  giungevano copiosi segnali allarmanti, mentre le spie a Vienna non avevano nulla da segnalare: due canali informativi paralleli che avrebbero dovuto convergere nel Comando supremo per essere sottoposti a un confronto e ad una valutazione. Negli uffici di Udine, però, si riponeva maggiore fiducia alle fonti riservate, ai rapporti personali, ai sussurri nei corridoi della corte asburgica, e se questi tacevano significava che c’era poco di cui preoccuparsi. Persino gli alleati dell’Italia erano scettici sull’eventualità di un’azione sul fronte trentino: dove avrebbero mai potuto prendere le truppe necessarie gli austro-ungarici?
Avrebbero sguarnito il fronte galiziano contro la Russia rischiando il disastro solo per dare una lezione agli italiani? Erano capaci di un simile azzardo? La prudenza non è mai troppa però, e Cadorna, proprio in vista della Sesta battaglia sull’Isonzo, non voleva fastidi alle spalle: il 22 marzo inviò dunque l’ordine al generale Roberto Brusati, comandante della 1a Armata, di abbandonare il terreno conquistato e di ripiegare sulle posizioni principali di resistenza assumendo una disposizione strettamente difensiva. Con Cadorna non era facile discutere: non era un leader che desse particolare ascolto alle opinioni diverse dalle sue, e Brusati non pensava di poter valere con il generalissimo le proprie ragioni. In realtà le conquiste della 1a Armata avevano ridotto l’estensione del fronte di un buon 40%: e questo era un beneficio non trascurabile per uno schieramento difensivo. D’altro canto il fronte italiano in quel momento correva addossato a montagne dominate dagli austriaci, senza lo spazio di manovra necessario a un’efficace azione di difesa. Così Brusati, che pure era convinto dell’imminenza della Strafexpedition, interpretò gli ordini ricevuti e lasciò la 1a Armata dov’era, in maggioranza in prima linea, pronta ad attaccare ancora, semmai, per guadagnarsi  sulle montagne che ha di fronte posizione difensive sempre migliori. Anzi, a questo scopo chiese insistentemente a Cadorna ulteriori truppe arrivando a circa 110mila effettivi. Alle sue spalle rinforzò per sicurezza alcuni capisaldi, ma si era ancora ben lontani da quella seconda e terza linea ininterrotte e organiche di una difesa in profondità che si rispetti. In caso di ripiegamento molto avrebbe dovuto essere improvvisato, con risultati difficili da prevedere.

Le truppe da montagna.
Le caratteristiche peculiari della guerra in questo ambiente suggerirono da sempre l’impiego di contingenti di soldati di popolazioni insediate in territori montuosi. Abituati all’altitudine, al freddo e alla fatica, non necessitavano dell’ambientamento e dell’addestramento fisico indispensabile a chi proveniva dalla pianura. Questo creava spontaneamente unità a forte coesione etnica e locale, e dunque uno spirito di corpo e un morale che in altri casi doveva essere laboriosamente costruito. L’Italia, che tra Alpi e Appennini non manca certo di rilievi montuosi, vanta la più antica tradizione di un corpo espressamente pensato per la guerra di montagna: gli Alpini. Era il 1872 e il Paese, da poco unito, temeva un attacco della Francia in risposta all’annessione del papato e di Roma, e un’adeguata difesa del confine alpino non poteva prescindere da truppe specialistiche. La caratteristica penna nera (di corvo per la truppa e di aquila per gli ufficiali) entrò in uso nel 1873. La Francia rispose 16 anni dopo con la creazione degli Chasseur Alpins, anch’essi immediatamente riconoscibili dal copricapo: un largo basco chiamato per la sua forma “Tart”, torta. Anche gli austro-ungarici potevano vantare una lunga tradizione in fatto di truppe da montagna, a partire dai tirolesi, che già si distinsero combattendo contro Napoleone nel 1809, ma dovettero attendere un secolo per essere inquadrati nei Gebirgsjager, l’equivalente dei nostri Alpini, su iniziativa del generale Conrad. Il loro simbolo è la stella alpina. Le truppe da montagna non sono naturalmente un’esclusiva europea: i Gurkha nepalesi, solo per fare un esempio,  provenienti da una delle regione più alte del mondo, sono considerati tra i migliori soldati di questa specialità.

LA BATTAGLIA HA INIZIO. Ai primi di maggio Cadorna visitò il fronte. Da giorni sulla linea italiana cadevano isolati colpi di artiglieria, alcuni dei quali di inusitata potenza: erano i tiri di aggiustamento che preludevano al prossimo bombardamento d’attacco. Era un altro indizio che andava ad aggiungersi ai precedenti, ma ancora Cadorna non credeva a una pericolo imminente e continuava a sospettare fosse solo un inganno orchestrato dagli austriaci per fargli rimandare la prossima offensiva sull’Isonzo. Tuttavia, riscontrò di persona come Brusati avesse interpretato i suoi ordini con eccessiva libertà e lo esautorò dal comando, sostituendolo con il generale Gugliemo Pecori Giraldi: questi ebbe solo una settimana di tempo per ambientarsi prima che su quelle montagne si scatenasse la tempesta annunciata. Lasciò la 1a Armata dov’era perché sapeva di non avere il tempo materiale per spostarla più indietro.
Il piano di battaglia austro-ungarico era semplice, né avrebbe potuto essere diversamente visto lo scenario in cui si svolse. Le due armate si sarebbero dovute schierare l’una dietro l’altra: l’11a Armata, con 7 divisioni, avrebbe effettuato lo sfondamento, la 3a, con altre 7 divisioni, lo avrebbe ampliato e gli avrebbe dato profondità. L’ala destra austriaca, costituita dall’VIII corpo, partendo da Rovereto avrebbe dovuto percorrere la Vallarsa puntando sul passo di Pian delle Fugazze, e da qui scendere verso Schio diretta a Thiene. Al centro avrebbero agito due corpi: il XX schierato tra Lavarone e Luserna si sarebbe fatto strada sull’Altipiano di Asiago e per la Val d’Astico, puntando su Arsiero e Thiene; il III, attraversando il Passo di Vezzena, si sarebbe diretto su Asiago. Infine l’ala sinistra con il XVII corpo (che apparteneva però alla 3a Armata) partendo da Borgo avrebbe percorso la Valsugana seguendo il corso del fiume Brenta fino a Cismon. Il 15 maggio alle 6 del mattino i cannoni austriaci cominciarono la loro opera distruttrice contro le principali fortificazioni italiane. Centro veni erano pesanti, ovvero dai 24 ai 42 centimetri di calibro, e in tre ore di fuoco intenso trasformarono il paesaggio aprendo nel terreno voragini profonde anche 8 metri, scagliando per lungo raggio letali schegge di roccia.
Dopo un’ora di pausa alle 10 scattò il via per le fanterie. Lo shock del bombardamento aveva annichilito le truppe italiane: alcune unità semplicemente non esistevano più, altre si arresero, altre ancora combatterono con una caparbietà che stupì gli austriaci. Ma anche queste prove di eroismo non potevano durare, perché la superiorità numerica del nemico era schiacciante  e i rinforzi non arrivavano. Ma nemmeno ci si poteva ritirare perché non si sapeva dove andare: gli ufficiali non avevano ordini e nessuno glieli faceva arrivare. Cadorna aveva sottovalutato il nemico, ma in questa occasione anche il nemico aveva sottovalutato Cadorna. Il comandante in capo italiano era gelido, impenetrabile, accentratore, inflessibile: questo carattere che tanto aveva influito sull’attuale, disastrosa situazione lo aiutò anche a uscirne. Mentre intorno a lui orma era il panico e l’opinione pubblica italiana era profondamente scossa dall’invasione del “scaro suolo della Patria”, Cadorna seppe rimanere impassibile e concentrato nel suo ruolo e nelle sue responsabilità. Assunse direttamente il comando del fronte riorganizzando la difesa e iniziò a emanare gli ordini necessari alla formazione di una nuova estemporanea 5a Armata prelevando le migliori unità dal fronte dell’Isonzo, da ogni parte d’Italia e persino dalla Libia e dall’Albania. L’apparato logistico italiano fece miracoli portando in pochi giorni decine di migliaia di uomini da un fronte all’altro, prima in treno e poi in camion, un’impresa ricordata dalla festa dell’Arma dei Trasporti e Materiali dell’esercito italiano che si svolge tradizionalmente il 22 maggio.

Strategia in montagna: il caso della Strafexpedition.
Con la grande maggioranza delle truppe concentrate sul fronte dell’Isonzo, il dispositivo militare italiano risultava fortemente sbilanciato. Il generale Franz Conrad von Hotzendorf intuì come un’invasione dal Trentino rappresentasse la chiave strategica capace di decidere il conflitto. Su questo sicuramente non si sbagliava, perché dall’attraversamento delle Alpi di Annibale in poi le montagne rappresentano una falsa sicurezza per il difensore, che può trascurarne la difesa. Gli Altipiani costituivano indubbiamente un ostacolo naturale molto difficile da superare, soprattutto per i problemi legati alla logistica, ma le sue valli conducevano alla pianura veneta e alla vittoria: sopraffatta la resistenza della 1a Armata grazie all’effetto sorpresa, il resto dell’esercito italiano sarebbe stato chiuso in una enorme trappola. Purtroppo per Conrad, la realizzazione del suo piano fu debole, lenta e poco coordinata e rese possibile una reazione. Una anno dopo, a Caporetto, quando l’avversario era il generale tedesco Otto von Below, l’Italia avrebbe avuto molta meno fortuna


DIFFICOLTA’ SENZA FINE. La 5a Armata si schierò in pianura per fermare gli austriaci se fossero riusciti a scendere dall’Altopiano di Asiago, ma anche pronta a passare al contrattacco. In montagna la battaglia proseguiva senza sosta. Gli austriaci continuavano ad avanzare, ma ogni giorno che passava, ogni metro conquistato, le difficoltà aumentavano anziché diminuire. Da un lato la resistenza italiana si faceva sempre più decisa, dall’altro le difficoltà della logistica crescevano in modo esponenziale. Il munizionamento di artiglieria, dopo i primi giorni, già iniziava a scarseggiare. Gli arsenali erano vuoti e le magre finanze dell’impero asburgico non potevano riempirli. Peraltro, anche se le munizioni fossero state disponibili nel numero sufficiente a proseguire i bombardamenti con l’intensità necessaria, la linea del fronte, ormai, si era distanziata oltre la portata iniziale dei cannoni pesanti, che su quel terreno erano difficili da spostare e persino da schierare in batteria, mentre i calibri più maneggevoli e capaci di seguire le fanterie contendevano a essi il magro carico che era possibile trasportare sui sentieri di montagna. Pane o proiettili? O avrebbero taciuto i cannoni o gli uomini si sarebbero dovuti accontentare, finché ne avevano, della dura galletta che portavano nel tascapane. Le condizioni ambientali erano durissime. Il freddo era intenso nonostante la primavera inoltrata, tanto che alcune zone erano ancora coperte di neve, e gli uomini ci scavavano dentro le trincee.
Dove non c’era la neve, invece, si moriva di sete perché non si poteva nemmeno scioglierla per dissetarsi: non c’era acqua sull’altopiano e anche quella doveva arrivare con i trasporti. In questo gelido inferno gli uomini si affrontavano con uguale, disperata ferocia. Franz Conrad von Hotzendorf stava iniziando probabilmente a riconsiderare la propria opinione sulla combattività degli italiani. L’inattesa resistenza delle unità superstiti della 1a Armata iniziava a evidenziare i difetti del suo piano strategico. I primi, come abbiamo visto, riguardavano una generale sottovalutazione degli avversari e delle condizioni ambientali, con le ripercussioni sulla logistica. Di fatto lo sfondamento e la discesa nella pianura veneta avrebbe dovuto essere molto più veloce, anticipando le contromisure improvvisare da Cadorna, per poter aver successo. A questo scopo potevano tornare utili le nove divisioni tedesche richieste da Franz Conrad von Hotzendorf, sempre che si fossero riusciti a risolvere i problemi logistici, destinati a crescere più che proporzionalmente all’aumentare delle truppe coinvolte. Ma c’era anche un difetto di concezione: quattro direttrici di attacco praticamente parallele e indipendenti l’una dall’altra suggeriscono una grave indecisione strategica che affidava al caso la riuscita di un’operazione di questa portata. Con il senno di poi, troppo pochi, troppo deboli, troppo indecisi.

Franz Conrad von Hotzendorf.

Franz Conrad von Hötzendorf in una foto del 1915.

Capo di Stato Maggiore austro-ungarico dal 1906, come molti altri ufficiali della sua generazione non aveva una grande esperienza del campo di battaglia. Era però un prolifico studioso della guerra moderna e al circolo dell’imperatore Francesco Giuseppe sembrò l’uomo adatto per mettere le mani su uno strumento che non era cambiato molto dai tempi del maresciallo Radetzky.
Di fatto, però, a Franz Conrad von Hotzendorf mancava una dote essenziale per esercitare un simile incarico, ovvero la capacità politica: carattere difficile e per niente diplomatico, riuscì soprattutto a distinguersi come propugnatore del grande conflitto mondiale, che perorò sempre con grande entusiasmo. I suoi bersagli preferiti erano l’Italia e la Serbia, la cui sola esistenza come nazioni riteneva un’assurdità e un affronto alla corona asburgica.
Come stratega non gli si può negare un certo intuito e una buona capacitò organizzativa, che gli sono valsi grandi elogi in patria e anche riconoscimenti dagli storici militari. Tuttavia è altrettanto innegabile la sua mancanza di successi eclatanti: anche il più importante di questi, l’offensiva di Gorlice-Tarnow del 1915, infatti, molto deve all’assistenza tedesca. Il suo difetto più evidente, come dimostrò proprio nella Strafexpedition, era la mancanza di realismo e della capacità di commisurare risorse e obbiettivi. Per essere un buon stratega, infatti, non è sufficiente saper individuare delle opportunità: serve soprattutto capire come e con quali forze queste si possono sfruttare a proprio vantaggio.
Anche gli aspetti logistici sfuggivano alla sua capacità di analisi: riponeva un’eccessiva fiducia nella possibilità di risolvere i problemi all’impronta, mano a mano che si presentavano, e, soprattutto, lasciava questa incombenza ai suoi subordinati.
A partire dalla battaglia degli Altipiani la sua carriera e la sua reputazione di stratega conobbero un’inesorabile fase calante, fino a rendere irresistibile l’offerta tedesca di un comando unificato (la cui guida era ovviamente proprio tedesca) a partire dal 1 marzo 1917: per lui significò la destituzione e la definitiva uscita di scena.    
Bombardamento a tappeto.


Asiago distrutta

Il bombardamento ad area o a tappeto è comunemente associato alla Seconda guerra mondiale e ai bombardieri ad alta quota che hanno rovesciato i loro letali carichi sulle maggiori città d’Europa e del Mondo. La sua origine, però, fonda le sue radici nella Prima guerra mondiale. A fine Ottocento il progresso nelle tecniche metallurgiche e negli esplosivi permise la creazione di cannoni a retrocarica di potenza e gittata mai vista in precedenza. Gli apparati industriali avevano messo a disposizione delle nazioni armi di efficacia straordinaria, ma in realtà non si sapeva come usarle. La dottrina prevalente prevedeva il fuoco diretto, e in tal modo le artiglierie incominciarono la Grande Guerra. Le batteria venivano schierate sulla linea del fronte, in modo da poter facilmente inquadrare i propri bersagli e assistere da vicino l’azione della fanteria. In questo modo, però, potevano essere facilmente colpiti dal fuoco di controbatteria nemico, quando non addirittura dalle mitragliatrici e dai fucili: i pesanti scudi frontali spesso non erano sufficienti a proteggere i serventi e il pezzo veniva silenziato. La soluzione più ovvia era quella di allontanare le artiglierie dalla linea del fronte, magari nascondendola dietro un crinale, per sfruttare al meglio la loro ampia gittata, utilizzando il cosiddetto fuoco indiretto. Tornarono in auge obici e mortai, armi da tiro curvo, più corte dei cannoni e con minore gittata, ma che sparavano proiettili di calibro enorme, come i mortai austroungarici da 30,5 centimetri e gli obici da 42, utilizzati nella battaglia degli Altipiani. Artiglierie di ogni calibro venivano indirizzate in modo empirico e con scarsa osservazione su un’area bersaglio, confidando che il loro numero, il peso dei proiettili e la durata del fuoco garantisse l’effetto distruttivo desiderato.
In questo modo si rinunciava all’effetto sorpresa, ma si agevolava il compito della fanteria, secondo un principio che veniva riassunto nel motto “l’artiglieria conquista, la fanteria occupa”.
Gli austro-ungarici si avvalsero di questa tattica rozza, dispendiosa ma tutto sommato efficace non solo nella fase preliminare della battaglia, ma anche durante il suo corso, quando riuscirono ad ammassare sufficienti bocche da fuoco: il bombardamento del 18 maggio 1916 ridusse Asiago ad un cumulo di macerie.    

UN’IMMENSA STRAGE. In quei giorni però si insanguinavano le montagne e tutta l’Italia guardava con costernazione l’avanzata del nemico: tra il 27 e il 28 maggio gli austriaci avevano raggiunto e superato Arsiero e Asiago, quest’ultima rasa al suolo dai bombardamenti, giungendo in vista delle ultime propaggini dell’Altopiano. Sull’ala sinistra italiana, negli stessi giorni, gli austriaci attaccavano ripetutamente passo Buole, la cui conquista avrebbe aperto loro la Val Lagarina, che conduceva a Verona, venendo sempre respinti e guadagnando al passo l’appellativo di “Termopili d’Italia”. Sulla destra, invece, gli austriaci furono fermati a Ospedaletto, un paesino della Valsugana trasformato in una vera e propria fortezza. Cadorna riteneva maturo il momento di un contrattacco e il 2 giugno lanciò le unità fresche della 5a Armata al centro dell’Altopiano. L’azione si infranse contro la resistenza austriaca, ma il suo significato era strategico. Il comandante italiano aveva chiesto e ottenuto dai russi di anticipare al 4 giugno la ripresa delle loro operazioni offensive e sapeva che per gli austriaci era iniziato il conto alla rovescia: quei due giorni di anticipo avrebbero dovuto dimostrare all’Italia e agli alleati che l’esercito italiano era solido e reattivo, capace di vincere con le sue sole forze. E per gli austriaci fu un brutto colpo. I tedeschi avevano prestato la loro assistenza nel teatro di operazioni russo, ma la coperta rimaneva comunque troppo corta e le divisioni che erano state sottratte da quel fronte presto avrebbero dovuto tornarvi.
Si susseguirono i tentativi di sfondamento, come a Monte Fior, tra il 5 e il 9 giugno: reparti di alpini e della Brigata Sassari rimasero aggrappati con le unghie e con i denti su quel ciglione che si apre sulla pianura veneta. Alla fine furono costretti ad abbandonarla, ma senza aprire falle nella difesa.
Gli austriaci bruciarono così, senza risultati e senza prospettive, le loro ultime energie: nella notte tra il 24 e il 25 giugno Franz Conrad  von Hotzendorf arretrò tutte le sue unità su posizioni più sicure che erano già state predisposte. La sua spedizione aveva punito crudelmente e futilmente 15443 italiani morti, 76630 feriti e 55635 fra dispersi e prigionieri, e 10203 austro-ungarici  morti, 45650 feriti e 26960 prigionieri e dispersi.

Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato Storie di Guerre e guerrieri collection anthology extra n. 1 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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