Scalata al potere.
La corte degli Sforza
ospitò le menti più brillanti del Rinascimento. Ma fu anche teatro di intrighi
e congiure: Ludovico il Moro il titolo di duca se lo prese.
Ludovico il Moro ritratto nella Pala Sforzesca, 1494-1495, oggi conservata nella Pinacoteca di Brera di MilanoDuca di Milano In carica1480 – 1494 de facto; 1494– 1499 de jureIncoronazione1480PredecessoreGian Galeazzo SforzaSuccessoreDucato passato a Luigi XII di FranciaDuca di BariIn carica1479 – 1500PredecessoreSforza Maria SforzaSuccessoreIsabella d'AragonaNome completoLudovico Maria SforzaAltri titoliSignore di MilanoNascitaMilano, Ducato di Milano, 3 agosto 1452MorteLoches, Regno di Francia, 27 maggio 1508DinastiaSforzaPadreFrancesco SforzaMadreBianca Maria ViscontiConsorteBeatrice d'EsteFiglida Beatrice d'Este
da Bernardina de Corradis
- Maddalena
- Bianca Giovanna Sforza
da Cecilia Gallerani
da Lucrezia Crivelli
da Romana[1]
- Leone
Gian Galeazzo Sforza nelle vesti di San Sebastiano, Giovanni Ambrogio de Predis, 1483 | |
Duca di Milano | |
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In carica | 1476 – 1494 |
Incoronazione | 24 aprile 1478 |
Predecessore | Galeazzo Maria Sforza |
Successore | Ludovico Sforza |
Altri titoli | Signore di Milano |
Nascita | Abbiategrasso, 20 giugno 1469 |
Morte | Pavia, 21 ottobre 1494[1] |
Casa reale | Sforza |
Padre | Galeazzo Maria Sforza |
Madre | Bona di Savoia |
Consorte | Isabella d'Aragona |
Motto
“di veleno come un cane”. Niccolò Macchiavelli ne era convinto: il giovane duca
di Milano Gian Galeazzo Sforza, il 21 ottobre 1494 non morì per cause naturali,
ma fu assassinato. E, a leggere le cronache dell’epoca, quasi tutti i
commentatori erano di questo parere. Molti si spingevano a indicare anche il
nome del mandante: Ludovico il Moro, suo zio. Calunnie? Di nemici, il Moro ne
aveva molti, è vero, ma anche se Bernardino Corio, fedele e coscienzioso
storiografo alle sue dipendenze, accennava a questa voce infamante, forse
l’ipotesi dell’assassinio non era poi così campata in aria. Scriveva infatti il
Corio nella sua Storia di Milano che il ventiquattrenne duca “era vexato de grave infirmitate e non senza
qualche suspecto a pocho a pocho declinando pareva incurabile”. Ma l’accusa
più pericolosa per il Moro proveniva dalla sua stessa famiglia, ovvero da
Isabella d’Aragona, la coraggiosa vedova di Gian Galeazzo. La duchessa fin
dall’inizio puntò il dito su Ludovico come la mente dell’assassinio e su
Ambrogio Varese da Rosate, famoso astrologo e medico di corte, oltre che fedelissimo
di Moro, come esecutore. Ma perché il signore di Milano avrebbe dovuto
macchiarsi di un delitto così odioso? In fondo, da molti anni aveva tutto il
potere nelle sue mani e il duca Gian Galeazzo si limitava a porre la sua firma
su qualche documento ufficiale. Francesco Guicciardini ci fornisce una
possibile risposta: la sua ambizione infinita. Si tratta però di capire fino a
che punto era pronto a spingersi.
Frontespizio del Lamento del duca Galeazzo Maria -Sforza raffigurante la scena dell'assassinio del duca all'ingresso della basilica milanese di Santo Stefano Maggiore.
MUORE IL FRATELLO. Una cosa è certa: il
Moro pianificò abilmente la sua scalata al potere, costella di soprusi e
vendette, per liberarsi della reggente Bona di Savoia e usurpare il potere del
figlio, il legittimo duca Gian Galeazzo. Tutto cominciò dopo l’assassinio
(organizzato da una congiura di altri nobili), il 26 dicembre 1476, del duca Galeazzo
Maria Sforza, fratello di Ludovico e padre di Gian Galeazzo. Il Moro, dopo vari
tentativi di appropriarsi del ducato, riuscì nel settembre 1479 a scalzare la
vedova Bona di Savoia, reggente insieme al potente Cicco Simonetta, in quello
che fu, di fatto, un colpo di Stato senza spargimento di sangue. A parte quello
di Cicco, a cui fece tagliare la testa il 30 ottobre dopo un anno di prigionia.
Il segretario ducale mise in guardia Bona di Savoia: “Duchessa illustrissima, a me sarà tagliato il capo, e voi in processo
di tempo perderete lo Stato”, riporta il Corio. E così fu: il Moro si
installò al Castello di Milano, divenne tutore del decenne duchino Gian
Galeazzo e relegò Bona di Savoia nel castello di Abbiategrasso. Una decina
d’anni solidamente al potere, rispettato e riverito da tutti, in Italia e
oltralpe, Ludovico si circondò di pittori e architetti che cambiarono l’aspetto
della città. E l’economia del ducato raggiunse risultati record. Lo stesso
Gucciardini lo definì “Principe
vigiliantissimo e di ingenio molto acuto, con invenzioni non pensate da altri”.
E, pur ritenendolo responsabile della morte del nipote non gli attribuiva
l’aggravante della “crudeltà e di molti
altri vizi che sogliono avere i tiranni”. Altri testimoni del tempo, come
il vento Priuli, lo accusavano al contrario di essere “il padre de ogni traditore che fo sempre mancatore di fede et sempre
sarà”, col risultato, affermava lo storico, che tutti diffidavano di lui,
compreso il re di Francia. Il Moro era quindi considerato da molti un Giano
bifronte, geniale ma spregiudicato.
Anonimo lombardo, Bona di Savoia e una santa, 1470-71, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. Bona di Savoia si riconciliò, ingenuamente, con il cognato Ludovico, condannando di fatto il fedele Cicco Simonetta alla pena capitale.
Gli astri e le colpe di Ambrogio.
Ambrogio Varese da Rosate
(1437-1522) fu un personaggio chiave alla corte di Ludovico Sforza:
autorevole lettore all’Università di Pavia, medico personale del Moro e dei suoi
figli, consigliere e soprattutto astrologo. Ludovico era superstizioso e
consultava Ambrogio per sapere quale fosse la data propizia per fissare un
incontro, un viaggio o qualsiasi altra cosa. E così succedeva che matrimoni e
feste, che implicavano lunghi viaggi per gli invitati, si svolgessero in
pieno inverno con grande disagio per tutti, perché così aveva deciso
l’astrologo consultando le stelle. Aveva ragione una cortigiana quando
scrisse che, senza di lui “non si fa niente”.
L’ARRESTO. Ma la caduta del Moro
nel 1499 travolse anche Ambrogio, che fu catturato dai francesi mentre
fuggiva. Fu poi portato nella casa di Alvise Trivulzio, dove fu interrogato
da Pietro dal Verme e Giovanni Borromeo riguardo all’accusa dell’omicidio di
Gian Galeazzo Sforza. Ma non c’è prova che abbia confessato e, di fatto non
fu mai processato. Gli furono però confiscate tutte le proprietà, di cui solo
nel 1513 ritornò in possesso, grazie all’intervento di Massimiliano Sforza,
figlio di Ludovico il Moro, a cui Ambrogio scrisse ricordandogli “i travagli, le veglie, i tormenti
dell’animo da me sopportati in pace e in guerra al tempo dell’illmo e grande
duca Ludovico”.
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COPPIA SCOMODA. Nel 1489 si celebrò il matrimonio
del duca Gian Galeazzo, allora ventenne, con Isabella d’Aragona (a cui seguì
quello di Ludovico con Beatrice d’Este). Quasi subito dopo il Moro allontanò la
coppia da Milano, fissando la loro residenza nel castello di Pavia, allo scopo
di tenerli lontano dalle leve del potere. E non si occupò mai, com’era suo
preciso dovere in quanto tutore, di provvedere alla formazione politica del
nipote in vista dei compiti di governo che lo attendevano. Anzi, favoriva tutti
i suoi divertimenti e vizi per manipolarlo a suo piacimento. Di fatto, Gian
Galeazzo e Isabella dipendevano in tutto dallo zio e dovevano chiedergli il
permesso anche solo per recarsi a Milano. E non sempre veniva loro concesso.
L’appannaggio di 13000 ducati annui che il Moro passava era poi tiratissimo e
insufficiente per una corte ducale così di rilievo. Di certo non era
paragonabile per ricchezza e fasto a quella milanese di Ludovico e Beatrice
d’Este. La moglie del duca, Isabella d’Aragona, intelligente e determinata, si
rendeva conto che il Moro stava scippando il loro ducato e cercò di opporsi
alla sua arroganza. Ma dovette fare i conti con l’arrendevolezza del marito “depresso e soffocato da Ludovico suo zio”,
come scriveva il Guicciardini, e con i problemi di salute che tendevano a
peggiorare. Già dal 1483, quasi dieci anni prima della sua morte, Gian Galeazzo
soffriva di coliche ricorrenti, che gli procuravano vomito e febbri molto alte.
E il vizio del bere non faceva che peggiorare le cose.
Veduta laterale del Castello Visc<<onteo
Il dolore di Isabella.
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Scultura di Isabella d´Aragona, di Francesco Laurana 1487-88Duchessa consorte di Milano In carica1488 – 1494PredecessoreBona di SavoiaSuccessoreBeatrice d'EsteDuchessa di BariIn carica1501 – 1524PredecessoreLudovico SforzaSuccessoreBona SforzaNascitaNapoli,
2 ottobre 1470MorteNapoli, 11 febbraio 1524Luogo di sepolturaBasilica di San Domenico Maggiore (Napoli)DinastiaTrastámara-NapoliPadreAlfonso II di NapoliMadreIppolita Maria SforzaConsorteGian Galeazzo Maria SforzaFigli
ReligioneCattolicesimo
Isabella d'Aragona (Napoli, 2 ottobre 1470 – Napoli, 11 febbraio 1524) fu duchessa consorte di Milano, in seguito divenne duchessa sovrana di Bari (con Palo e Modugno), principessa di Rossano, signora di Ostuni e di Grottaglie. Secondogenita di Alfonso II, erede al trono di Napoli, e di Ippolita Maria Sforza, parve ereditare dal padre il carattere fiero, l'orgoglio per la propria dinastia, l'attitudine al comando; dalla madre apprese l'amore per l'arte e la cultura.
Per Isabella d’Aragona (1470-1524)
la tragica morte del marito, il duca Gian Galeazzo Sforza, fu un colpo
durissimo che la fece sprofondare nella depressione. Ne emerse a fatica solo
per affrontare altri dolori: l’invasione da parte di Carlo VIII del regno
paterno di Napoli e, per la seconda volta, l’usurpazione del trono ducale del
suo primogenito Francesco da parte del solito Ludovico Sforza.
LA STORIA SI RIPETE. Nel 1497,
Ludovico separò da Isabella anche Francesco, per poterlo meglio controllare.
Ma non era ancora finita: il 9 ottobre 1499, con la caduta del Moro, Isabella
baciò per l’ultima volta il figlio Francesco che il re Luigi XII di Francia
portò con sé a Parigi e che non rivide mai più. (Francesco morì a 21 anni per
una caduta da cavallo). Da allora si firmò sempre nelle sue lettere come “Isabella de Aragona Sforcia ducissa
Mediolani unicha ne la desgracia”. Non le rimaneva che andarsene da
Milano. E nel febbraio 1500 partì alla volta di Napoli, dove fu accolta con
tutti gli onori dallo zio Federico d’Aragona. L’inizio di una nuova vita dopo
l’esilio del Castello di Pavia dove erano stati confinati con il marito.
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UN BAMBINO PERICOLOSO. Gian Galeazzo ci mise
un anno per consumare il matrimonio, ma, grazie alle matrone inviate dal nonno
aragonese e specializzate nel risolvere questi delicati problemi, il 30 gennaio
1491 nacque Francesco, l’atteso figlio primogenito della coppia ducale. Al di
là delle manifestazioni di circostanza, questa non fu certo una buona notizia
per il Moro, che vedeva nel bambino un ostacolo nei suoi progetti. Una cosa era
orma certa, come scrisse l’ambasciatore estense Trotti il 21 marzo, tra
Ludovico e i duchi di Milano “è pocho
amore, se bene la non è cossa nuova”. Il 21 ottobre 1494, Gian Galeazzo,
alle tre del mattino, morì nel castello di Pavia. Solo pochi giorni prima aveva
ricevuto la visita del re francese Carlo VIII e della madre, Bona di Savoia,
annichilita nel vederlo in quello stato.
ASSASSINO O MALATTIA? Una lettera del 18
settembre 1499, quindi cinque anni dopo i fatti, sembra incastrare il Moro e
l’astrologo di corte Ambrogio da Rosate. L’ambasciatore Ettore Bellingeri
riferiva infatti al duca di Ferrara quanto Giovanni Gonzaga seppe direttamente
dalla vedova: “La illustrissima Dichessa
Isabella gli disse che maistro Ambrosio da Roxate havea confessato havere dato
il veneno al quandam illustrussimo signore suo consorte in uno syroppo cum
saputa del spetiale ad instantia del signore Ludovico, e che sua signoria era
per far formare uno processo” (in realtà mai avvenuto). Un documento
importante, che ha bisogno però di alcune conferme, come spiega Monica
Azzolini, docente all’Università di Bologna e autrice del libro The Duke and
the Stars (Haward University Press), incentrato proprio su Ludovico il Moro: “Che Ambrogio da Rosate abbia confessato
davvero è difficile da stabilire: si sa che tentò di fuggire e che i suoi beni
furono confiscati, tant’è che i familiari più tardi tentarono di recuperarli,
ma non mi risulta che ci siano documenti che attestino la confessione. Le
lettere disponibili firmate dai medici di Gian Galeazzo da me vagliate non
vedono Rosate come firmatario: quindi non era presente alla corte duca nei
giorni precedenti la sua morte. Le stesse lettere testimoniano invece
chiaramente come la salute di Gian Galeazzo non fosse buona da molto tempo e
come lui si curasse poco e fosse un paziente difficile. Se la morte del duca
sia stata accelerata sapientemente da Rosate o da uno speziale non si sa per
certo”. Certo è invece che la morte del ragazzo fece comodo a Ludovico, che
da duca de facto diventò duca con tutti i crismi.
Mancano ancora molti
tasselli per completare il puzzle e difficilmente si arriverà a capire se il
Moro si macchiò di quel delitto. Dopo la caduta di Ludovico Sforza, inoltre, le
vendette e i risentimenti che si scatenarono nei confronti del Moro e di
Ambrogio finirono col confondere le acque su questa oscura vicenda.
Articolo in gran parte
di Silvia Buchi pubblicato su Focus Storia n. 144. Altri testi e immagini da
Wikipedia.
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