lunedì 11 febbraio 2019

Scalata al potere.


Scalata al potere.
La corte degli Sforza ospitò le menti più brillanti del Rinascimento. Ma fu anche teatro di intrighi e congiure: Ludovico il Moro il titolo di duca se lo prese.


Pala Sforzesca - detail 01.jpg
Ludovico il Moro ritratto nella Pala Sforzesca, 1494-1495, oggi conservata nella Pinacoteca di Brera di MilanoDuca di Milano
Stemma
In carica1480  1494 de facto; 1494 1499 de jureIncoronazione1480PredecessoreGian Galeazzo SforzaSuccessoreDucato passato a Luigi XII di FranciaDuca di BariIn carica1479  1500PredecessoreSforza Maria SforzaSuccessoreIsabella d'AragonaNome completoLudovico Maria SforzaAltri titoliSignore di MilanoNascitaMilano, Ducato di Milano, 3 agosto 1452MorteLoches, Regno di Francia, 27 maggio 1508DinastiaSforzaPadreFrancesco SforzaMadreBianca Maria ViscontiConsorteBeatrice d'EsteFiglida Beatrice d'Este
da Bernardina de Corradis
da Cecilia Gallerani
da Lucrezia Crivelli
da Romana[1]
  • Leone
ReligioneCattolicesimoFirmaUnterschrift Ludovico Sforza.jpg



Gian Galeazzo II. Maria Sforza.jpg
Gian Galeazzo Sforza nelle vesti di San Sebastiano, Giovanni Ambrogio de Predis, 1483
Duca di Milano
In carica1476 – 1494
Incoronazione24 aprile 1478
PredecessoreGaleazzo Maria Sforza
SuccessoreLudovico Sforza
Altri titoliSignore di Milano
NascitaAbbiategrasso, 20 giugno 1469
MortePavia, 21 ottobre 1494[1]
Casa realeSforza
PadreGaleazzo Maria Sforza
MadreBona di Savoia
ConsorteIsabella d'Aragona


Motto “di veleno come un cane”. Niccolò Macchiavelli ne era convinto: il giovane duca di Milano Gian Galeazzo Sforza, il 21 ottobre 1494 non morì per cause naturali, ma fu assassinato. E, a leggere le cronache dell’epoca, quasi tutti i commentatori erano di questo parere. Molti si spingevano a indicare anche il nome del mandante: Ludovico il Moro, suo zio. Calunnie? Di nemici, il Moro ne aveva molti, è vero, ma anche se Bernardino Corio, fedele e coscienzioso storiografo alle sue dipendenze, accennava a questa voce infamante, forse l’ipotesi dell’assassinio non era poi così campata in aria. Scriveva infatti il Corio nella sua Storia di Milano che il ventiquattrenne duca “era vexato de grave infirmitate e non senza qualche suspecto a pocho a pocho declinando pareva incurabile”. Ma l’accusa più pericolosa per il Moro proveniva dalla sua stessa famiglia, ovvero da Isabella d’Aragona, la coraggiosa vedova di Gian Galeazzo. La duchessa fin dall’inizio puntò il dito su Ludovico come la mente dell’assassinio e su Ambrogio Varese da Rosate, famoso astrologo e medico di corte, oltre che fedelissimo di Moro, come esecutore. Ma perché il signore di Milano avrebbe dovuto macchiarsi di un delitto così odioso? In fondo, da molti anni aveva tutto il potere nelle sue mani e il duca Gian Galeazzo si limitava a porre la sua firma su qualche documento ufficiale. Francesco Guicciardini ci fornisce una possibile risposta: la sua ambizione infinita. Si tratta però di capire fino a che punto era pronto a spingersi.

Frontespizio Lamento del duca Galeazzo Maria -Sforza, 1444-1473-, 1476.jpg
Frontespizio del Lamento del duca Galeazzo Maria -Sforza raffigurante la scena dell'assassinio del duca all'ingresso della basilica milanese di Santo Stefano Maggiore.

MUORE IL FRATELLO. Una cosa è certa: il Moro pianificò abilmente la sua scalata al potere, costella di soprusi e vendette, per liberarsi della reggente Bona di Savoia e usurpare il potere del figlio, il legittimo duca Gian Galeazzo. Tutto cominciò dopo l’assassinio (organizzato da una congiura di altri nobili), il 26 dicembre 1476, del duca Galeazzo Maria Sforza, fratello di Ludovico e padre di Gian Galeazzo. Il Moro, dopo vari tentativi di appropriarsi del ducato, riuscì nel settembre 1479 a scalzare la vedova Bona di Savoia, reggente insieme al potente Cicco Simonetta, in quello che fu, di fatto, un colpo di Stato senza spargimento di sangue. A parte quello di Cicco, a cui fece tagliare la testa il 30 ottobre dopo un anno di prigionia. Il segretario ducale mise in guardia Bona di Savoia: “Duchessa illustrissima, a me sarà tagliato il capo, e voi in processo di tempo perderete lo Stato”, riporta il Corio. E così fu: il Moro si installò al Castello di Milano, divenne tutore del decenne duchino Gian Galeazzo e relegò Bona di Savoia nel castello di Abbiategrasso. Una decina d’anni solidamente al potere, rispettato e riverito da tutti, in Italia e oltralpe, Ludovico si circondò di pittori e architetti che cambiarono l’aspetto della città. E l’economia del ducato raggiunse risultati record. Lo stesso Gucciardini lo definì “Principe vigiliantissimo e di ingenio molto acuto, con invenzioni non pensate da altri”. E, pur ritenendolo responsabile della morte del nipote non gli attribuiva l’aggravante della “crudeltà e di molti altri vizi che sogliono avere i tiranni”. Altri testimoni del tempo, come il vento Priuli, lo accusavano al contrario di essere “il padre de ogni traditore che fo sempre mancatore di fede et sempre sarà”, col risultato, affermava lo storico, che tutti diffidavano di lui, compreso il re di Francia. Il Moro era quindi considerato da molti un Giano bifronte, geniale ma spregiudicato.

Anonimo lombardo, Bona di Savoia e una santa, 1470-71, Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano. Bona di Savoia si riconciliò, ingenuamente, con il cognato Ludovico, condannando di fatto il fedele Cicco Simonetta alla pena capitale.


Gli astri e le colpe di Ambrogio.

Ambrogio Varese da Rosate (1437-1522) fu un personaggio chiave alla corte di Ludovico Sforza: autorevole lettore all’Università di Pavia, medico personale del Moro e dei suoi figli, consigliere e soprattutto astrologo. Ludovico era superstizioso e consultava Ambrogio per sapere quale fosse la data propizia per fissare un incontro, un viaggio o qualsiasi altra cosa. E così succedeva che matrimoni e feste, che implicavano lunghi viaggi per gli invitati, si svolgessero in pieno inverno con grande disagio per tutti, perché così aveva deciso l’astrologo consultando le stelle. Aveva ragione una cortigiana quando scrisse che, senza di lui “non si fa niente”.
L’ARRESTO. Ma la caduta del Moro nel 1499 travolse anche Ambrogio, che fu catturato dai francesi mentre fuggiva. Fu poi portato nella casa di Alvise Trivulzio, dove fu interrogato da Pietro dal Verme e Giovanni Borromeo riguardo all’accusa dell’omicidio di Gian Galeazzo Sforza. Ma non c’è prova che abbia confessato e, di fatto non fu mai processato. Gli furono però confiscate tutte le proprietà, di cui solo nel 1513 ritornò in possesso, grazie all’intervento di Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro, a cui Ambrogio scrisse ricordandogli “i travagli, le veglie, i tormenti dell’animo da me sopportati in pace e in guerra al tempo dell’illmo e grande duca Ludovico”.

COPPIA SCOMODA. Nel 1489 si celebrò il matrimonio del duca Gian Galeazzo, allora ventenne, con Isabella d’Aragona (a cui seguì quello di Ludovico con Beatrice d’Este). Quasi subito dopo il Moro allontanò la coppia da Milano, fissando la loro residenza nel castello di Pavia, allo scopo di tenerli lontano dalle leve del potere. E non si occupò mai, com’era suo preciso dovere in quanto tutore, di provvedere alla formazione politica del nipote in vista dei compiti di governo che lo attendevano. Anzi, favoriva tutti i suoi divertimenti e vizi per manipolarlo a suo piacimento. Di fatto, Gian Galeazzo e Isabella dipendevano in tutto dallo zio e dovevano chiedergli il permesso anche solo per recarsi a Milano. E non sempre veniva loro concesso. L’appannaggio di 13000 ducati annui che il Moro passava era poi tiratissimo e insufficiente per una corte ducale così di rilievo. Di certo non era paragonabile per ricchezza e fasto a quella milanese di Ludovico e Beatrice d’Este. La moglie del duca, Isabella d’Aragona, intelligente e determinata, si rendeva conto che il Moro stava scippando il loro ducato e cercò di opporsi alla sua arroganza. Ma dovette fare i conti con l’arrendevolezza del marito “depresso e soffocato da Ludovico suo zio”, come scriveva il Guicciardini, e con i problemi di salute che tendevano a peggiorare. Già dal 1483, quasi dieci anni prima della sua morte, Gian Galeazzo soffriva di coliche ricorrenti, che gli procuravano vomito e febbri molto alte. E il vizio del bere non faceva che peggiorare le cose.

Castello Visconteo (Pavia).JPG
Veduta laterale del Castello Visc<<onteo


Il dolore di Isabella.


Kunsthistorisches Museum 09 04 2013 Female bust Francesco Laurana 3.jpg
Scultura di Isabella d´Aragona, di Francesco Laurana 1487-88Duchessa consorte di Milano
Stemma
In carica1488  1494PredecessoreBona di SavoiaSuccessoreBeatrice d'EsteDuchessa di BariIn carica1501  1524PredecessoreLudovico SforzaSuccessoreBona SforzaNascitaNapoli, 
2 ottobre 1470MorteNapoli, 11 febbraio 1524Luogo di sepolturaBasilica di San Domenico Maggiore (Napoli)DinastiaTrastámara-NapoliPadreAlfonso II di NapoliMadreIppolita Maria SforzaConsorteGian Galeazzo Maria SforzaFigli
ReligioneCattolicesimo
Isabella d'Aragona (Napoli2 ottobre 1470 – Napoli11 febbraio 1524) fu duchessa consorte di Milano, in seguito divenne duchessa sovrana di Bari (con Palo e Modugno), principessa di Rossano, signora di Ostuni e di Grottaglie. Secondogenita di Alfonso II, erede al trono di Napoli, e di Ippolita Maria Sforza, parve ereditare dal padre il carattere fiero, l'orgoglio per la propria dinastia, l'attitudine al comando; dalla madre apprese l'amore per l'arte e la cultura.

Per Isabella d’Aragona (1470-1524) la tragica morte del marito, il duca Gian Galeazzo Sforza, fu un colpo durissimo che la fece sprofondare nella depressione. Ne emerse a fatica solo per affrontare altri dolori: l’invasione da parte di Carlo VIII del regno paterno di Napoli e, per la seconda volta, l’usurpazione del trono ducale del suo primogenito Francesco da parte del solito Ludovico Sforza.
LA STORIA SI RIPETE. Nel 1497, Ludovico separò da Isabella anche Francesco, per poterlo meglio controllare. Ma non era ancora finita: il 9 ottobre 1499, con la caduta del Moro, Isabella baciò per l’ultima volta il figlio Francesco che il re Luigi XII di Francia portò con sé a Parigi e che non rivide mai più. (Francesco morì a 21 anni per una caduta da cavallo). Da allora si firmò sempre nelle sue lettere come “Isabella de Aragona Sforcia ducissa Mediolani unicha ne la desgracia”. Non le rimaneva che andarsene da Milano. E nel febbraio 1500 partì alla volta di Napoli, dove fu accolta con tutti gli onori dallo zio Federico d’Aragona. L’inizio di una nuova vita dopo l’esilio del Castello di Pavia dove erano stati confinati con il marito.


UN BAMBINO PERICOLOSO. Gian Galeazzo ci mise un anno per consumare il matrimonio, ma, grazie alle matrone inviate dal nonno aragonese e specializzate nel risolvere questi delicati problemi, il 30 gennaio 1491 nacque Francesco, l’atteso figlio primogenito della coppia ducale. Al di là delle manifestazioni di circostanza, questa non fu certo una buona notizia per il Moro, che vedeva nel bambino un ostacolo nei suoi progetti. Una cosa era orma certa, come scrisse l’ambasciatore estense Trotti il 21 marzo, tra Ludovico e i duchi di Milano “è pocho amore, se bene la non è cossa nuova”. Il 21 ottobre 1494, Gian Galeazzo, alle tre del mattino, morì nel castello di Pavia. Solo pochi giorni prima aveva ricevuto la visita del re francese Carlo VIII e della madre, Bona di Savoia, annichilita nel vederlo in quello stato.

ASSASSINO O MALATTIA? Una lettera del 18 settembre 1499, quindi cinque anni dopo i fatti, sembra incastrare il Moro e l’astrologo di corte Ambrogio da Rosate. L’ambasciatore Ettore Bellingeri riferiva infatti al duca di Ferrara quanto Giovanni Gonzaga seppe direttamente dalla vedova: “La illustrissima Dichessa Isabella gli disse che maistro Ambrosio da Roxate havea confessato havere dato il veneno al quandam illustrussimo signore suo consorte in uno syroppo cum saputa del spetiale ad instantia del signore Ludovico, e che sua signoria era per far formare uno processo” (in realtà mai avvenuto). Un documento importante, che ha bisogno però di alcune conferme, come spiega Monica Azzolini, docente all’Università di Bologna e autrice del libro The Duke and the Stars (Haward University Press), incentrato proprio su Ludovico il Moro: “Che Ambrogio da Rosate abbia confessato davvero è difficile da stabilire: si sa che tentò di fuggire e che i suoi beni furono confiscati, tant’è che i familiari più tardi tentarono di recuperarli, ma non mi risulta che ci siano documenti che attestino la confessione. Le lettere disponibili firmate dai medici di Gian Galeazzo da me vagliate non vedono Rosate come firmatario: quindi non era presente alla corte duca nei giorni precedenti la sua morte. Le stesse lettere testimoniano invece chiaramente come la salute di Gian Galeazzo non fosse buona da molto tempo e come lui si curasse poco e fosse un paziente difficile. Se la morte del duca sia stata accelerata sapientemente da Rosate o da uno speziale non si sa per certo”. Certo è invece che la morte del ragazzo fece comodo a Ludovico, che da duca de facto diventò duca con tutti i crismi.
Mancano ancora molti tasselli per completare il puzzle e difficilmente si arriverà a capire se il Moro si macchiò di quel delitto. Dopo la caduta di Ludovico Sforza, inoltre, le vendette e i risentimenti che si scatenarono nei confronti del Moro e di Ambrogio finirono col confondere le acque su questa oscura vicenda.

Articolo in gran parte di Silvia Buchi pubblicato su Focus Storia n. 144. Altri testi e immagini da Wikipedia.

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