sabato 29 febbraio 2020

Capitani di ventura.


Capitani di (s)ventura.
Potenti e crudeli, i signori della guerra si battevano per chi li pagava meglio. Tra Comuni, Signorie e Papato.

Oggi li chiameremmo, con malcelato disprezzo, “signori della guerra”. Eppure, al pari di artisti e letterati, furono tra i protagonisti del Rinascimento. Parliamo dei capitani di ventura, ambiziosi mercenari che per oltre due secoli scorazzarono per l’Italia in cerca di gloria, potere e denaro. Per ottenerli erano disposti a tutto, cambiando casacca al momento opportuno ricattando senza pudore i signori che li ingaggiavano.

Professionisti. Tra XIV e XV secolo l’Italia era un puzzle in cui convivevano realtà politiche in perenne contrasto: dai Comuni alle Signorie (in primis toscane, lombarde e venete), passando per il Regno di Napoli e il Papato. Piccole o grandi che fossero, si contendevano l’egemonia territoriale e politica a suon di guerre: un vero paradiso per mercenari, avventurieri e delinquenti d’ogni risma. “Per usare una terminologia moderna, potremmo dire che gli Stati italiani del Tre-Quattrocento “privatizzarono” la difesa, dandola in appalto a figure esterne, incaricate di badare al reclutamento, alla scelta delle armi e alla pianificazione delle campagne di guerra”, scrive lo storico Marco Scardigli in “Cavalieri, mercenari e cannoni. L’arte della guerra nell’Italia del Rinascimento (Mondadori)”. Si formarono così le prime compagnie di ventura, spesso comandate da nobili e signori e destinate a diventare sempre più professionali. L’obiettivo di questi “manager” della guerra era guadagnare titoli, terre e ricchezze mettendo la spada al servizio del miglior offerente. Alcuni furono particolarmente apprezzati per il coraggio e le doti strategiche, acquisendo un immenso potere. i nomi di John Hawkood (italianizzato in Giovanni Acuto), Muzio Attendolo Sforza, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Federico da Montefeltro, Bartolomeo Colleoni divennero presto celebri. Peraltro, quando due armate mercenarie si scontravano evitavano battaglie campali. Il motivo? Annientare il nemico significava rimanere disoccupati. Molto meglio comportarsi da predoni, devastando le campagne e taglieggiando le popolazioni civili. “La violenza era parte integrante della vita mercenaria: il saccheggio, i furti e gli stupri erano l’ambito premio della vita guerresca”, continua lo storico.

Giovanni Acuto

Feroci e  senza scrupoli. Persino i grandi comandanti non rinunciarono alla ferocia. Nei suoi commentari, papa Pio II descrive per esempio il celeberrimo condottiero Braccio da Montone (alias Andrea Fortebracci, 1368-1424) come un sadico torturatore, che “si divertiva a precipitare le sventurate sue vittime dalle sommità delle torri”. E quando ad Assisi alcuni frati del convento dei minori osarono contrastarlo, “gli fece ridurre i testicoli in poltiglia su un’incudine”. Non da meno era stato il capitano inglese John Hawkwood, che nel corso della Guerra degli Otto Stati (1375-1378) risolse malonicamente la controversia tra due soldati che si contendevano una monaca come preda di guerra. Come? Squartando personalmente la malcapitata a metà.



                                                                       Muzio Attendolo Sforza 









  


Criminali di guerra. In quello stesso conflitto, che vide il Papato contrapposto a una coalizione di città toscane e dell’Italia Centrale, le truppe di Acuto (al soldo del pontefice) si resero protagoniste di un terribile eccidio. Dopo aver devastato Faenza, nel febbraio del 1377 i mercenari entrarono a Cesena e, su ordine del cardinale Roberto di Ginevra (futuro antipapa Clemente VII), ne massacrarono gli abitanti, colpevoli di aver tentato dei ribellarsi contro il pontefice. Più di 5mila civili, comprese donne e bambini, furono passati a fil di spada e gettati in pozzi o fosse comuni, mentre le scorrerie nelle campagne continuarono fino all’estate. Un destino simile toccò nel 1388 ad Aquileia, stavolta a opera di un capitano “sbalestrato di cervello” (come lo definì lo storico Francesco Lomonaco) di nome Facino Cane. Figlio cadetto di nobili piemontesi, imperversò per anni nell’Italia del Nord, riuscendo a costruirsi un feudo personale. Stando alle cronache di Galeazzo Gatari, Facino mise a sacco Aquileia “pigliando huomini e donne, grandi e piccoli, e con grandissima crudeltà rubò le chiese de’ preti, e frati e monache di paramenti spogliò gli altari, commettendo molte cose scelerate”. Episodi simili coinvolsero tutte le compagnie di ventura, comprese le famose Bande Nere, fondate nel 1517 dal leggendario Giovanni de’ Medici. Nel maggio 1528, due anni dopo la morte del fondatore, queste furono coinvolte insieme alle armate francesi nella presa di Melfi, e “Pasqua di sangue”. I resoconti dell’epoca lasciano anche qui poco spazio all’immaginazione: forzate le difese, gli assedianti non risparmiarono nessuno “amazando tutti chi trovarono, fanti homeni et done, fino i putti … né alcun si salvò se non quelli se buttarono de’ muri”, scriveva lo storico Marino Sanuto.

ritratto di Bartolomeo Colleoni


Come funzionavano le Compagnie?
I primi gruppi di mercenari ad affacciarsi in Italia, tra il XIII e il XIV secolo, furono le masnade (dal provenzale maisnada, servitù), branchi di diseredati, reietti e reduce delle guerre, disorganizzati a livello militare. A inquadrarli ci pensarono, dall’inizio del XIV secolo, carismatici comandati (prima soprattutto stranieri, poi anche italiani) come Guarnieri d’Ursilingen, Ludrisio Visconti, John Hawkwood, Alberico da Barbiano, sotto le cui insegne si formarono le prime compagnie di ventura tra cui la Grande Compagnia della Colomba. Il numeri dei combattenti in genere non superava i 10mila uomini. Il nucleo fondamentale era costituito da cavalieri, con armature e lance. I capitani di ventura cominciarono così ad essere ingaggiati dai Comuni con apposti contratti a termine, detti “condotte” (da cui il nome condottieri) e potevano guadagnare cifre altissime, titoli e terre.
APOGEO E DECLINO. Nel corso del XV secolo, alcuni dei condottieri più importanti furono i ricchi signori che già disponevano di eserciti personali. La loro fortuna finì nel secolo successivo: le artiglierie resero obsolete il loro modo di combattere, basato sulla cavalleria pesante. Un’altra ragione fu il formarsi dei primi eserciti nazionali.

Voltagabbana. Se ai nostri occhi tali atrocità sarebbero degne del più severo tribunale internazionale sarebbero degne del più severo tribunale internazionale per crimini contro l’umanità, all’epoca l’ostentazione della ferocia aveva un fine strategico. “Più il terrore cresceva, più era facile che città e Stati si decidessero a pagare somme ingenti pur di non subire devastazioni. La crudeltà era anche un servizio richiesto dai committenti per tenere sottomesse le popolazioni e dar loro una lezione”scrive Scardigli. In cambio, ai mercenari spettava il diritto di saccheggio, ovvero l’appropriazione dei beni dei nemici concesso dalle leggi di guerra. Tranne in casi eccezionali, come quello di Bartolomeo Colleoni, fedelissimo alla Repubblica di Venezia, per i capitani di ventura era inoltre normale passare da uno schieramento all’altro a seconda della convenienza. Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini, fu temutissimo proprio perché imprevedibile nelle alleanze. A darne un ritratto inquietante è il solito Pio II, secondo cui si trattò del “peggiore degli uomini che abbiano vissuto e vivranno, vergogna d’Italia, disgrazia del nostro tempo”. Sigismondo si guadagnò il soprannome di “lupo di Rimini”, venendo ai ferri corti con lo stesso Pio II e tradendo con disinvoltura duchi, re e dogi. Uno dei suoi acerrimi nemici fu Federico da Montefeltro, altro formidabile condottiero asceso al Ducato di Urbino  dopo l’assassinio del fratellastro Oddantonio (1444). Sigismondo e Federico non potevano essere più diversi: impulsivo e irruente il primo, freddo e calcolatore il secondo. Ma qualcosa li accumunava: il rapporto con i maggiori artisti dell’epoca. Le loro corti ospitarono infatti scultori, architetti e pittori di fama tra cui Piero della Francesca, Paolo Uccello, Benozzo Gozzoli, Leon Battista Alberti. Il mecenatismo e la passione per la cultura furono un tratto distintivo di moltissimi signori della guerra, che amavano farsi ritrarre nelle sembianze di gloriosi generali antichi o devoti cristiani, costruendo sontuosi palazzi e raffinati sepolcri. Era un modo di guadagnare prestigio sociale e ripulire la propria reputazione agli occhi dei posteri a colpi di pennello e scalpello. L’arte avrebbe così gettato nell’oblio, con il suo splendore, il ricordo delle terribili violenze che avevano commesso.

Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 144 – altri testi e immagini da Wikipedia.

martedì 25 febbraio 2020

La forza delle antiche lame.


La forza delle antiche lame.
La più nota e temibile arma del mondo antico, vero simbolo dell’aggressività e dell’abilità del legionario romano, aveva un nome destinato a diventare leggenda: il gladio.

Le spade dei primi combattenti romani, come gli armamenti etruschi in uso tra l’VIII e il VI secolo a.C., erano in bronzo e derivano dalla cosiddetta Cultura di Hallstatt, sviluppatasi nelle regioni dell’Europa Centrale e  diffusasi in Etruria e in Italia durante la prima età del bronzo. Una delle prime fogge è la spada di Vetulonia, lunga 66 cm e quasi identica a un esemplare rinvenuto a Roma nelle tombe dell’Esquilino. Era d’uso comune anche una daga, o spada corta, o spada a T, in bronzo (raramente in ferro), di provenienza greco-micenea o comunque orientale. Il prolungamento della lama costituiva l’anima dell’impugnatura, che terminava allargandosi leggermente verso l’esterno. All’anima di ferro era assicurato con dei rivetti, o legato con un filo di bronzo, un rivestimento di legno, osso o corno, che costituiva l’impugnatura e terminava con un pomello o un segmento di cerchio. Per il combattente greco del periodo classico, la spada non svolgeva un ruolo primario nello scontro, che era affidato soprattutto all’uso dello scudo (hoplan, o aspis in latino) e lancia da urto: si ricorreva alla spada solo in caso di combattimento molto ravvicinato.

Il periodo oplitico. Il modello più diffuso tra i soldati romani fino al IV secolo a.C. era quello classico, di derivazione greca, lo xiphos, o phaganon: una spada in bronzo o ferro, lunga dai 50 o 60 cm, con il manico a forma di croce, in grado di colpire sia di punta che di taglio. La forma della lama, a foglia di salice allungata o leggermente lanceolata, aveva l’obbiettivo di aumentare l’effetto dei colpi di taglio, concentrando il peso dell’arma nel punto di più probabile impatto.
Un’altra lama molto usata era il kopis, piuttosto comune in Grecia nel V e IV secolo a.C. e prontamente adottata dagli Etruschi: era una spada a un solo taglio, di lunghezza variabile tra i 60 e gli 80 cm, con un profilo convesso molto pronunciato e una robusta parte terminale. Derivato probabilmente dall’antica khopesh egizia, molto simile a un’ascia, il kopis era in grado di assestare fendenti micidiali durante le mischie, aggirando i grandi scudi rotondi in virtù dello slancio favorito dalla massa della lama, spostata in direzione della punta. Tale caratteristica ne faceva un’arma ideale anche per la cavalleria (Senofonte consigliava esplicitamente ai cavalieri di adottare il kopis invece dello xiphos). L’impugnatura aveva una caratteristica forma avvolgente, spesso sagomata artisticamente a testa di uccello o di altro animale, e in alcuni casi completamente chiusa. In epoca successiva, i guerrieri iberici ne utilizzarono una versione più lunga e con un profilo sagomato a forma di “S” appena accennata, molto simile al kukri, il famoso coltello ricurvo dei Gurka. Quest’arma, chiamata con termine moderno “falcata” (ovvero a forma di falce), a differenza del kopis aveva la parte anteriore della lama a doppio filo, ed era quindi adatta a colpire anche di punta.

L’età repubblicana. A partire dal III secolo a.C., nonostante la sopravvivenza di qualche esemplare di xiphos e di falcata, si diffuse tra i legionari l’uso del cosiddetto gladius Hispaniensis, come viene chiamato da Polibio e da Livio, in riferimento alla sua origine spagnola. Introdotta forse dai mercenari celtiberi al seguito di Annibale, questa robusta spada in ferro derivava, con ogni probabilità, da modelli di spade celtiche importate nella Penisola Iberica qualche secolo prima della conquista romana, e modificate dagli artigiani locali. Scipione ne fece forgiare 100 mila esemplari per armare i suoi guerrieri durante la brillante campagna di Spagna. Adatta a colpire sia di punta che di taglio, con una lama lunga fino a 70 cm e lunga 5 o 6 cm, era considerata un’arma particolarmente efficace, dagli effetti devastanti sia nelle mischie che nei combattimenti individuali. Livio riferisce del terrore dei nemici alla vista delle orribili ferite che era in grado di infliggere. Publio la descrive come elemento fondamentale dell’armamento prescritto non solo ai fanti pesanti (hastati, principes e triarii), ma anche alla fanteria leggera, i cosiddetti velites. Si trattava di spade caratterizzate da una punta molto lunga e da tagli paralleli. Alcune ricostruzioni moderne ipotizzano per il gladius Hispaniensis un profilo leggermente a foglia di salice, a imitazione dello xiphos greco, ma gli esemplari finora ritrovati non lasciano supporre che tale foggia venisse realizzata sistematicamente e intenzionalmente.
Con la fine della Repubblica e nei primi anni dell’età augustea si registra un progressivo ma deciso accorciamento della lama del gladio. Si individuano due tipologie distinte di arma, che tendono a sostituire in successione il glaudius Hispaniensis: i tipi Mainz e Pompei.

Non di taglio, ma di punta.
L’abilità nel maneggio dei gladio fu sempre tenuta in grande considerazione nel bagaglio professionale e nella tecnica di combattimento dei legionari, perché costituiva il naturale completamento dell’azione dopo il lancio del giavellotto pesante (il pilum) sullo schieramento nemico. Non si dispone di fonti letterarie riguardo ai particolari della tecnica schermistica dell’epoca, ma è possibile ipotizzare l’uso dl gladio in funzione della necessità di affrontare efficacemente il nemico mentre si era inquadrati in una formazione compatta, dunque con i movimenti limitati.
Il gladio era un’arma decisamente offensiva, creata per colpire con rapide stoccate, senza ricorrere a quelle che, con termine moderno, si definiscono “parate”. L’obiettivo era chiudere il combattimento nel minor tempo possibile. Vegezio, nel V secolo d.C., consigliava di colpire di punta (punctim, anziché coesim, di taglio), in quanto bastava affondare la lama per pochi centimetri nel corpo dell’avversario (purché in punti vitali) per provocargli ferite mortali.

Il periodo di Augusto. La lunghezza della lama del tipo Mainz si riduce vistosamente, mentre il profilo appare caratterizzato da una base ancora piuttosto larga e da una più o meno pronunciata rientranza nella parte centrale. La punta conserva invece la forma lunga e aggressiva del periodo precedente. Il gladio Pompei prende nome dal luogo del ritrovamento di una serie di esemplari risalenti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Sostituisce gradualmente il Mainz a partire dalla metà del I secolo e sembra accentuare la tendenza all’accorciamento della lama, che misura mediamente attorno ai 50 cm e presenta fianchi rigorosamente paralleli. La lama, stretta (mediamente tra i 4 e i 5 cm) e meno imponente, lascia ipotizzare un uso dell’arma prevalentemente di punta: una tecnica utile soprattutto nelle mischie serrate. Le sue caratteristiche sono compatibili con un processo di fabbricazione molto semplice e uniforme, adatto per forgiare rapidamente grandi quantità di armi. Per essere maneggiati con leggerezza e rapidità, i gladi presentavano un pomello terminale piuttosto vistoso, di forma sferica o ellissoidale, che fungeva da contrappeso. La lunghezza contenuta del gladio, che risultava simile a un lungo pugnale, aveva lo scopo di agevolare il movimento dell’arma in spazi molto ristretti. Anche la consuetudine di portarlo sul lato destro, appeso alla cintura o a una tracolla (il balteus), trova spiegazione nel fatto che era l’unico modo per estrarlo senza interferire con lo scudo e senza disturbare i commilitoni schierati in formazione di combattimento. Verso la fine del II secolo, provenienti soprattutto dall’area sarmatica e transdanubiana, fecero la loro comparsa tra le file dell’esercito romano anche tipi molto diversi di spada. Tra queste le cosiddette “spade ad anello”, i cui primi esemplari presentavano una lama di lunghezza piuttosto limitata (40-50 cm) e un anello variamente decorato al posto del pomello terminale. La spada ad anello si diffuse soprattutto nell’occidente romano. Fino alla metà del II secolo d.C., il termine spartha indicava una lama lunga e stretta in dotazione alla cavalleria: lunghezza adeguata e peso limitato erano requisiti essenziali per un’arma destinata a essere usata prevalentemente a cavallo contro fanti isolati, con veloci fendenti menati dall’alto verso il basso.

Le altre armi da fianco.
Pugio second century.jpg
copia di pugio romano 
Durante il periodo alto imperiale, assieme al gladio, che veniva portato sul fianco destro, sul quello sinistro compare il pugio. Di origine iberica, ha una caratteristica lama a foglia non più lungo di 35 cm, spesso rinforzata da una vistosa nervatura centrale. Il pugio mantenne a lungo, fino al III secolo d.C. il ruolo di arma secondaria, spesso meramente ornamentale. Molti degli esemplari finora rinvenuti, e in particolari i loro foderi, presentano un livello di lavorazione e di qualità che il classico più come opere d’arte che come armi vere e proprie.
Il parazonium era invece un’arma di fattura pregiata, riservata ai generali e agli alti ufficiali, che veniva portata sul fianco sinistro. Più corta di un gladio ordinario, aveva il manico sagomato artisticamente, di solito a forma di testa d’aquila. Marziale la definì “arma trivuncium cingere digna latus” ovvero “un’arma degna di cingere al fianco di un tribuno”. Era considerata un oggetto simbolico segno di potere e di autorità, ma è probabile che venisse anche conferita come decorazione per ricompensare atti di particolare valore e audacia.

ricostruzioni di parazonium

Parole di Roma: Gladius.
Secondo lo storico Varrone (I secolo d.C), il termine gladius deriverebbe da cladis, che significa “disastro”, “distruzione”: un accostamento simbolico, significativo della terribile efficacia di quest’arma. In effetti, l’etimologia è probabilmente legata alla radice indoeuropea kal o kla, con il significato di “battere”, “rompere” o “spezzare”, da cui derivano parole come clava o claves (strage). Simili anche il lituano kalti (battere), lo slavo klali (spezzare) e il celtico claldeb (spada).
L’addestramento all’uso di un’arma così micidiale veniva condotta da specialisti, i cosiddetti campidoctores, usando una rudimentale versione in legno del gladio, detta rudis o clava, consistente in una sagoma semplificata ma del tutto simile all’arma originale. secondo la descrizione di Poliblo (II secolo a.C.), era pesante il doppio del gladio ordinario, per abituare i legionari a maneggiarla con facilità e rapidità, e aveva un’imbottatura di cuoio (o un bottone) sulla punta per non causare ferite. L’impiego di Lanistri, istruttori dei gladiatori, fu limitato e occasionale (vi ricorse il console Publio Rutilio, nel 105 d.C., per addestrare i legionari ad affrontare i Cimbri), finalizzato a sviluppare doti di aggressività e agilità piuttosto che a insegnare tecniche peculiari degli scontri nelle arene, inadatte al tipo di combattimento che il legionario era chiamato ad affrontare sul campo.

Le spade del tardo impero. A partire dal III secolo, la spatha, probabilmente anche per inflienza di modelli in uso presso i guerrieri germanici, diventò dotazione comune del legionario romano. In ragione del suo peso superiore e della notevole lunghezza rispetto al gladio, iniziò a essere portata sul fianco sinistro, sospesa a una bandoliera traversale regolabile. Il corto gladio di tipo Pompei scomparve quasi del tutto dalle rappresentazioni dell’epoca. L’aumento della lunghezza media dell’arma di fanteria rivela un utilizzo diverso da quello dei secoli precedenti: di sicuro si verificava un minore ricorso alle mischie serrate contro formazioni compatte, e probabilmente si manifestava con maggiore frequenza la necessità di affrontare nemici a cavallo. Nelle battaglie del periodo tardo antico si osserva anche un ritorno a formazioni di tipo falangitico, in cui l’arma offensiva primaria tornò a essere la lancia da urto: la spada veniva utilizzato quando, perdurando lo scontro, gli spazi si allargavano. Numerosi ritrovamenti archeologici, hanno evidenziato come la maggior parte delle caratteristiche estetiche di queste spade avesse origine germanica. La loro adozione da parte dei soldati romani era quindi, almeno in parte, effetto di un’influenza culturale molto forte. Anche le sparthae sono state classificate dagli studiosi secondo diverse tipologie. Per il periodo compreso tra il III e il IV secolo, i tipi sono due, ognuno con un certo numero di varianti: il tipo Lauriacum, caratterizzato da una lama più larga e diffuso tra il II e il III secolo, e il tipo Straubing-Nydam, caratterizzato da una lama particolarmente sottile e con una leggera tendenza alla rastremazione verso la punto, in uso fino a tutto il IV secolo e oltre.
Anche la foggia delle impugnature risentì dell’influenza esercitata dagli armaioli germanici: il classico profilo in legno, con guardia alta e pomello terminale circolare o ellittico, lasciò il posto a combinazioni piatte, spesso arricchite con parti di metalli, a volte caricate da decorazioni particolarmente ricche.
A partire dal IV secolo, la spartha di un fante o di un cavaliere in servizio nell’Impero Romano d’Occidente divenne di fatto indistinguibile da quella di un suo omologo germanico. Oggi, pertanto, appare impossibile tracciare una netta linea di demarcazione tra le due diverse tradizioni armiere.

Le varianti.

Le diverse armi da fianco usate dai soldati romani.

Spada ad antenne di età arcaica.

 Laténium-épées-bronze.jpg

Xphos
 Xiphos.jpg

Kopis

Iron machaira (sword) MET SF2001346.jpg

Gladius Hispaniensis

Espada íbera de frontón (M.A.N.) 01.jpg


Gladio tipo Mainz












Gladio tipo Pompei

 Uncrossed gladius.jpg
Spada ad anello
























Articolo in gran parte di Giuseppe Cascarino pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da Wikipedia.

sabato 22 febbraio 2020

Quando gli dei bevevano il sangue.


Quando gli dei bevevano il sangue.

Persino Roma, madre della legge, ricorse ai sacrifici umani per superare i momenti di maggior pericolo. Fin dalla notte dei tempi le divinità hanno richiesto all’uomo il sangue dei loro simili, secondo riti agghiaccianti a cui nessuna civiltà sembrò del tutto aliena.


 Il sacrificio umano: secondo la Passio S. Caesarii, nel I sec. d. C., ogni anno a Terracina era consuetudine sacrificare un giovane in onore del dio Apollo, facendolo precipitare dall'alto della rupe; il diacono Cesario protestò contro questa orribile usanza.


“Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo”. Rispose “Eccomi”. Riprese “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò!”. Lo racconta, al capitolo 22, il libro della Genesi il primo della Bibbia. Sappiamo come finì. Abramo non esitò a ubbidire a Dio. Il quale, però, all’ultimo momento diede il contrordine, e dopo aver testato la fedeltà di Abramo, sostituì il sacrificio umano con uno animale. Secondo gli esperti, questo passaggio biblico è un ricordo della pratica mediorientale dei sacrifici umani, e al contempo è una sua condanna. Il popolo ebraico infatti sembra non aver mai praticato questo tipo di rituale, accusandone anzi i pagani circostanti. Semmai nella religione ebraica si praticava la sostituzione della vittima umana, come in molte altre culture si offrivano delle vittime animali per riscattare i propri figli, specie i primogeniti, che appartenevano a Dio. Un mostro si aggira nel mondo antico, qualcosa di così terribile che si fa fatica a immaginarlo, e soprattutto ad abbinarlo ad alcune delle civiltà che sono alle radici della nostra cultura. È lo spettro dei sacrifici umani. Una materia complicata e velata anche da numerosi elementi di incertezza. Non c’è dubbio che molte se non tutte le culture antiche conoscessero questa pratica, tanto che ne compaiono spesso testimonianze mitologiche, letterarie e in certi casi anche archeologiche. È altrettanto vero che la pratica è considerata così orribile ed estrema che diventa facilmente un utile elemento di paragone e propaganda: “gli altri fanno così, nei tempi antichi si faceva così ma noi no”. Allo stesso tempo l’elemento del sacrificio umano si mescola con altre realtà, prima tra tutte l’esecuzione dei prigioni di guerra. È chiaro che nel mondo antico non c’era una distinzione così netta tra gesto sacro e gesto profano, per cui una uccisione, persino in guerra o come atto di giustizia violava l’ordine delle cose o serviva a ripristinarlo, e come tale era quindi un’azione che aveva sempre religiosi e sacrali. La condanna a morte avveniva a Roma attraverso la formala sacer esto, vale a dire “sia consacrato agli dei”, e in certi casi arcaici nelle culture mediterranee non veniva nemmeno eseguita direttamente, ma appunto il condannato era posto fuori dal mondo degli umani e collocato in quello delle divinità infere, e chiunque quindi poteva ucciderlo restando impunito. Così sono molti i casi in cui il vincitore metteva a morte i nemici vinti, ma non sempre si trattava di sacrifici umani propriamente detti. In Egitto, per esempio, l’immagine del faraone che cala implacabile la sua mazza sui prigionieri nemici è un’immagine costantemente presente attraverso i millenni, ma non c’è un riferimento diretto a un sacrificio agli dei. Così come a Roma, dall’epoca tardo-repubblicana in poi, i nemici vinti venivano messi a morte dopo averli portati in trionfo (come nel celebre caso del gallo Vercingetorige), ma si tratta di un’azione del tutto laica e persino residuale, anzi poco scenica rispetto alla pomposità del ruolo assunto nel trionfo.

La “pacifica” Creta.


Della Creta del II millennio a.C., quella della civiltà minoica, è stata tramandata un’immagine pacifica e perfino pacifista. Ma non fu così, come ricorda il mito del Minotauro, al quale venivano sacrificati giovani delle nazioni sottomesse a cui sfuggì Teseo, che uccise il mostro. Ora sono stati trovati anche riscontri archeologici della pratica del sacrificio umano in questa antica civiltà.
Nel palazzo reale di Cidonia sono venuti alla luce i resti del sacrificio di una giovane in relazione a un terremoto. Le ossa del cranio erano state aperte giusto lungo le linee di sutura. Il tutto, accompagnato anche dal sacrificio di capre e maiali, è datato al XIII secolo a.C. Presso Abenispiliam sempre a Creta, è avvenuto il ritrovamento di quattro scheletri umani, uno dei quali con una lama di circa quaranta centimetri all’altezza dell’addome.

Sangue propiziatore. Altra cosa sono i sacrifici umani veri e propri, quelli che si compivano uccidendo qualcuno per aver qualcosa in cambio dagli dei. Anche qui, per la verità. Si potrebbe distinguere tra chi sacrificava qualcuno che gli era caro e chi invece impiegava servi e nemici. È una bella differenza. I sacrifici umani maggiormente accertati e documentati riguardano la seconda tipologia. I ritrovamenti archeologici in molti contesti non lasciano dubbi sul fatto che persone venissero uccise ritualmente in circostanze particolari. E il primo di questi contesti è quello funerario, dove il ruolo delle vittime era quello di onorare il morto, dargli la propria forza ma anche e soprattutto accompagnarlo per servirlo anche nell’aldilà. Si trattava dunque soprattutto di persone dipendenti dal defunto. Un caso eclatante ci viene dall’antica civiltà dei sumeri, nel III millennio a.C. Nella potente città di Ur un ricchissimo cimitero reale conserva molte pregevoli tombe con lussuosi corredi, ma una in particolare ha sempre attirato l’attenzione degli archeologi e degli studiosi. Si tratta della fossa PG 12-1237, che conserva i resti di molteplici persone riccamente vestite e ordinatamente disposte, con oggetti caratterizzanti molti lussuosi. Nella tomba ci sono i resti di ben 74 persone; sei sono maschi, sono vicini all’entrata e portavano elmi e lance. Le altre sono donne, accanto ad alcune delle quali si trovavano tre arpe. È facile pensare che gli uomini avessero il compito di guardie, mentre le donne erano forse le ancelle e la corte di un personaggio importante, che non è certo figurasse tra i corpi della tomba o giacesse in un sepolcro adiacente lai ritrovato. Che a Ur si tratti di un sacrificio umano è difficilmente contestabile. Gli studiosi discutono su come siano morte le persone sepolte: c’è chi sostiene, data l’ordinata posizione delle vittime, che esse si siano tolte spontaneamente la vita per seguire il loro signore o la loro signora nell’aldilà. Qualcosa di simile è documentato anche in altre culture, e pare che molti guerrieri unni e mongoli si immolarono spontaneamente sulle tombe dei loro capi più grandi, come Attila e Gengis Khan. Certamente, nella maggior parte dei casi, ad essere uccisi per continuare a servire anche dopo la morte devono essere stati servi abbastanza riluttanti. In Egitto questa pratica è comparsa presto e scomparsa rapidamente: già dopo la I dinastia (l’unica che sembra aver praticato veri sacrifici umani funerari) centinaia di statuette (le più diffuse delle quali erano dette ushabti) entrarono a far parte dei corredi funerari per sostituire i servitori che dovevano svolgere nell’aldilà qualsasi lavoro per conto del padrone defunto.

Orrori nel Nuovo Mondo.
Analisi di laboratorio di una delle "mummie di Llullaillaco", bambini incas sacrificati sulla cima del vulcano Llullaillaco, nella provincia di Salta (Argentina).

Le civiltà precolombiane sono famose per sacrifici umane di livello industriale. In tutte le Americhe la pratica di uccidere esseri umani in onore delle divinità era diffusissima, e l’archeologia ha confermato abbondantemente tali pratiche, messe in atto da Inca, Maya e soprattutto Aztechi, ma anche dalle civiltà minori che li hanno preceduti e accompagnati. Sulle Ande i sacrifici erano di entità limitata, e spesso prevedevano che le vittime fossero abbandonate in grotte, dove venivano mummificate. In Centro America, poi, era diffuso il gioco della palla che si concludeva con il sacrificio di una delle due squadre.
Ma nulla ha mai raggiunto nella storia quello che seppero fare gli Aztechi. Questa popolazione mesoamericana arrivò a sterminare centinaia di migliaia di vittime, strappando loro il cuore sulle piramidi per sostenere la vitalità del dio sole (sotto), o anche per placare altri dei, o per consacrare edifici, secondo una prassi diffusa in tutte le civiltà, dalla Mesopotania a Roma: si narra che per la riconsacrazione di Teotihuacan furono immolate decine di migliaia di prigioni in un giorno. Gli Aztechi facevano guerre anche solo per catturare prigionieri da sacrificare. Recenti scoperte archeologiche, infine, hanno dimostrato che tutte le società precolombiane sacrificavano, oltre ai maschi adulti, anche donne e bambini.

Sangue per la salvezza di Roma. Sempre in ambito funerario va ricondotta la nascita dei giochi gladiatori, avvenuta fra gli italici e gli etruschi: lo scontro tra due guerrieri sulla tomba del defunto doveva assicurargli al vita eterna bagnando la terra della sua sepoltura con il sangue. L’uccisione in combattimento di un combattente professionale o servile potrebbe anche aver sostituito l’oroginaria morte di personaggi importanti. Proprio i gladiatori mostrano come la pratica della morte rituale si sia andata secolarizzando nel corso della storia di Roma. Ma l’Urbe non fu certo esente dalla pratica del sacrificio umano nelle sue diverse forme. E tanto più nella forma assai diffusa nell’antichità legata a cerimonie propiziatorie per la guerra. È una pratica che doveva essere molto diffusa, sia prima sia dopo i combattimenti. I miti greci ne sono pieni, anche se le controprove storiche invece mancano. La più celebre testimonianza di sacrifici umani in Grecia è proprio il mito di Ifigenia, la figlia di
Agamennone, il re dei re degli Achei, cui venne chiesto di uccidere la figlia per permettere alla flotta greca la traversata marina verso Troia, ma anche tutto quello che venne dopo, cioè l’odio dela moglie Clitemnestra per il re di Micene, che ella ucciderà quando tornerà vincitore dalla guerra, generando a sua volta la vendetta del figlio Oreste che compirà il matricidio. È da questa lunga scia di sangue che gli ateniesi fecero scaturire la fine delle faide con la nascita della giustizia statale e dei tribunali. Achille sacrificò prigionieri troiani al funerale di Patroclo. Eppure i miti omerici (ed altri che comprendono ad esempio il sacrificio di Polissena o quello di Meceneo) potrebbero non esaurire il tema dei sacrifici propiziatori nella civilissima Grecia. Gli antichi ne parlano poco e malvolentieri, eppure episodi molto cruenti sono citati ancora in piena età classica. Temistocle, vincitore della Guerra Persiana del 480 a.C., avrebbe sacrificato tre nobili nemici prigionieri a Dionisio Omestes, cioè “mangiatore di carne cruda”, e secondo Plutarco un sacrificio umano sarebbe stato compiuto anche dal generale tebano Pelopida prima della battaglia di Leuttra. Nella colonia greca di Marsiglia era praticato lo stesso rito ateniese dei pharmakoi, dei giovani usati come capri espiatori contro le epidemie che venivano allontanati dalla città: ma a differenza di Atene essi venivano infine uccisi. Rituali di sangue sono ricordati anche in Arcadia, ad Abdera, nonché a Sparta, dove la flagellazione dei bambini in onore di Artemide Orthia sarebbe stata decisa dal legislatore Licurgo per sostituire la precedente pratica dei sacrifici umani.
E arriviamo dunque a Roma, patria del diritto moderno. Ma prima di questo anch’essa è stata una civiltà arcaica. Ebbene, ci sono diversi riti di sangue celebrati per propiziare la vittoria in guerra. Ne è ricordato uno in particolare in piena età classica, durante le guerre puniche. In realtà anzi esso fu ripetuto almeno due volte: nella prima occasione nel 226 a.C. durante la guerra contro i Galli padani, nella seconda nel 216 a.C. in occorrenza della battaglia di Canne che vide il più grande trionfo di Annibale. In entrambi i casi furono sepolti vivi nel Foro due galli e due greci, evidentemente simbolo dei nemici del nord e del sud. ma non fu l’ultima occasione in cui questo avvenne. Sembra che la pratica dei sacrifici umani sia stata vietata nel 97 a.C., ma sarebbe continuata anche dopo, anche se nel giudizio bisogna usare le dovute cautele, a causa delle distorsioni interpretative dettate dalla propaganda e dall’ideologia: per esempio, Cicerone accusa il nemico giurato Catilina di aver propiziato la propria congiura con un sacrificio umano. Persino Augusto, si dice, avrebbe sacrificato 300 notabili nemici dopo la Guerra di Perugia contro gli alleati di Marco Antonio. Anche popolazioni come i Celti e i Germani (e in seguito i Longobardi e altri barbari) praticarono usualmente rituali che prevedevano sacrifici umani in varie circostanze. Riti che in certe parti del mondo (in Africa, ma non solo) esistono ancora oggi, con l’unica consolazione che più la civiltà avanza e meno la nostra sensibilità è disposta a tollerare questo terribile modo di onorare la divinità.

Il famelico Baal.
busto di Baal

Il sacrificio umano più famoso del mondo antico è quello dei bambini immolati in onore dei Moloch, Tanit e Baal, nella civiltà fenicia e nelle sue colonie, soprattutto la potente Cartagine, nonché presso i cananei, in relazione a questi riti sono stati ritrovati ovunque moltissimi Tophet, vale a dire cimiteri dedicati solo ai resti combusti di bambini, di solito conservati dentro dei vasi. Chi sostiene la veridicità di questa pratica sottolinea che le iscrizioni ritrovate nei Tophet sono tutte di carattere votivo e non funerario. Ma altri studiosi contestano queste conclusioni e anche la reale esistenza di questi sacrifici. Bisogna tener presente che le testimonianze arrivano tute da nemici giurati dei Fenici: Ebrei, Greci e Romani, tutti interessati a metterli in cattiva luce. Una differenza importante con altri sacrifici umani sarebbe che in questi casi i Fenici avrebbero ucciso i loro stessi figli, quanto di più caro avevano, e non solo in circostanze straordinarie ma d’abitudine. Quanto basta per avere dei dubbi. Ma non per escludere del tutto che davvero sia esistita la grande statua di bronzo di Moloch, il cui torace era costituito da un forno dove i  bambini venivano bruciati. 

Articolo in gran parte di Valerio Sofia pubblicato su Conoscere la Storia n. 48  - altri testi e immagini da Wikipedia.

lunedì 17 febbraio 2020

Parigi nella Belle Epoque.



Parigi nella Belle Epoque.
Alla fine del XIX secolo Parigi si lanciò in gran corsa verso la modernità che non avrebbe più avuto fine. L’elettricità, i moderni mezzi di trasporto e le nuove forme di intrattenimento fecero della capitale francese un emblema dell’epoca felice che l’Europa visse prima del 1914.

Moulin Rouge - La Goulue manifesto di Henri de Toulouse-Lautrec del 1891

L’odore di fumo che impregnava le strade fu la prima cosa a colpire Sarah Bernhardt quando tornò a Parigi, nel 1871. La città delle luci faceva il suo ingresso nella Belle Epoque immersa nell’oscurità: centinaia di edifici erano in rovina a causa dei bombardamenti dell’esercito prussiano, che l’aveva assediata per oltre quattro mesi, e per le strade si ergevano ancora le barricate della rivolta della Comune. In pochi potevano immaginare che questa Parigi mutilata sarebbe divenuta la prospera città che, nel 1914, avrebbe destato l’ammirazione di tutto il mondo. In quel periodo Parigi avrebbe brillato più che mai grazie al progresso nella tecnologia e ai vertiginosi mutamenti sociali, destinanti a trasformarla in modo radicale.
La città era abituata ai cambiamenti. L’ambizioso piano urbanistico del barone Haussmann l’aveva totalmente modificata durante il Secondo impero (1852-1870); aveva demolito gli antichi quartieri dalle stradine strette e dai palazzi sovraffollati per sostituirli in ampi viali che facevano penetrare la luce e favorivano la circolazione di persone e vetture. Nel suo anelito di abbellire e rendere pulita Parigi, Haussmann aveva predisposto pure una rete fognaria, l’illuminazione con fanali a gas e la creazione di spazi verdi; tra i suoi obiettivi c’era quello di evitare che si alzassero di nuovo le barricate, com’era successo nel 1848. Le classi popolari furono quindi costrette a spostarsi nelle periferie, perché non potevano più permettersi gli affitti dei rinnovati palazzi del centro.
Quando lo scrittore Victor Hugo tornò da un esilio di circa vent’anni, nel 1870, notò con rammarico come la sua amata Parigi medievali fosse scomparsa. Ma le più grandi innovazioni erano da lì da venire perché, una volta rappacificato il Paese dopo la guerra con la Prussia e la Comune, la città proseguì l’opera di Haussmanm. Il progresso stava rivoluzionando il mondo intero.


 Le Galeries Lafayette situate in boulevard Haussmann

Anni di progresso e novita’.
1871
Il 28 maggio l’esercito francese sconfigge la Comune di Parigi e lascia la città semidistrutta. Si impone la legge marziale.
1884
Ha termine l’ultima epidemia di colera di Parigi. Di lì in poi le misure igieniche ridurranno l’impatto di questa e di altre malattie.
1894
Ha luogo la prima corsa di auto, organizzata da Le Petit Journal, da Parigi a Rouen. Il vincitore il vincitore impiega sei ore per percorrere 126 km.
1897
Dopo vari anni di lotte femministe, la Scuola superiore di belle arti ammette le prime donne nelle aule.
1906
Si inaugura la prima linea di autobus a motore, che copre il tragitto tra Montmartre e Saint-Germain-des-Prés.
1915
Viene inaugurato il Théatre des Champs-Elysée. La prima della Sagra della primavera di Stravinsky suscita molto scalpore.



tipico cartello della metro di Parigi

La Ville Lumière. Il primo passo fu l’elettricità. Sebbene Parigi fosse già famosa per le migliaia di lampioni a gas che ne illuminavano le strade, dal 1878 ebbe ancor più motivi per chiamarsi la Ville Lumière, la Città della Luce. L’installazione dei lampioni elettrici sull’avenue de l’Opéra venne accolta con grande entusiasmo: i parigini rimasero impressionati dalla bellezza delle nuove luminarie e chiesero che venissero estese ad altri viali. L’Esposizione universale del 1881 sfolgorò anche grazie all’illuminazione elettrica dei maestosi boulevard, illuminazione che a mano a mano si sarebbe diffusa nel resto del centro urbano. Nel 1910 le insegne al neon conferivano una nuova nota di luce e colore alle notti parigine. Ma non era cambiato soltanto lo sfavillio della città; anche l’odore ormai era diverso. I palazzi venivano ora collegati al sempre più ampio sistema di tubature, e il prefetto della Senna, Eugène Poubelle, prescrisse che fossero collocati dei secchi della spazzatura davanti a ogni edificio. Poubelle poteva ritenersi orgoglioso per aver contribuito a migliorare l’igiene di Parigi, anche se poi gli inviperiti cittadini si vendicarono battezzando i cassonetti con il suo nome – e, in effetti, da allora si chiamano ancora così, Poubelle.
Tutto questo portò a un generale miglioramento della vita degli abitanti, sebbene il progresso avesse toccato prima i settori privilegiati e, solo in un secondo momento, il resto della popolazione. Non allungò quindi solo l’aspettativa di vita dei parigini, fino ad allora sotto la media francese, ma ridusse notevolmente la differenza tra i residenti delle zone alte e quelli dei quartieri più poveri. E così durante la Belle Epoque Parigi passò da 1,8 a 2,8 milioni di abitanti. Questa incredibile crescita demografica era dovuta pure al fatto che la città diveniva sempre più attraente agli occhi dei migranti, i quali arrivavano a frotte da ogni angolo del Paese. E ciò non sarebbe stato possibile senza una rete più estesa ed efficace di mezzi pubblici.

Fulgence Bienvenüe, ideatore del metrò di Parigi, in posa davanti all'ingresso in ferro battuto di una stazione, opera di Hector Guimard.

Trasporti per tutti.  Nei secoli precedenti le classi umili vivevano il più vicino possibile al luogo del lavoro di norma raggiungibile a piedi. Nel corso dell’ottocento, però, l’avviamento di una rete di omnibus e tram trainati da cavalli aveva permesso di risiedere anche in posti più lontani. A mano a mano che la città si ingrandiva e si popolava, cresceva la necessità di migliorare e intensificare i trasporti. Fu il progresso a permettere di venire incontro a un simile bisogno. L’elettricità che serviva per illuminare le strade venne impiegata per i mezzi di trasporto: il primo tram elettrico fu inaugurato nel 1898. I taxi cominciarono a girare per Parigi nel 1905, e dai 417 del 1906 si arrivò ai 7mila del 1914; la classe lavoratrice dovette accontentarsi degli omnibus a motore, che iniziarono a circolare nel 1906.
Parte dei parigini accolse con trepidazione questi nuovi mezzi di trasporto: erano veloci ed evitavano i fastidiosi e maleodoranti mucchi di sterco dei cavalli. Ciononostante, era pure preoccupata per gli effetti sulle persone dell’alta velocità delle macchine, e temeva di essere investita o fare incidente. Al crepuscolo della Belle Epoque, Parigi era comunque una città su ruote: l’omnibus a cavallo completò la sua ultima corsa nel 1913, lo stesso anno in cui il servizio di nettezza urbana cominciò a usare gli autofurgoni. Ma ci fu un mezzo, in particolare, che suscitò illusione, paura e perplessità: la metropolitana, le mètro. Doveva essere alimentata dall’elettricità, a cui si guardava ancora con diffidenza, o dal vapore, che avrebbe potuto asfissiare i passeggeri? Parigi sarebbe rimasta la stessa? I parigini paventavano i possibili danni causati dai lavori, tanto più se parte della metro fosse passata in superficie. Alla fine si optò per la metropolitana elettrica soprattutto sotterranea, che venne aperta al pubblico il 19 luglio del 1900. Nonostante il disagio dei cantieri, l’entusiasmo e le attese per l’apertura della metropolitana furono immensi. Migliaia di persone parteciparono alla cerimonia di inaugurazione, convinte di proiettarsi nel futuro; il giornale Le Radical salutò la metro “come agente del progresso morale”. Tuttavia il terribile incidente del 1903 infranse molte di quelle illusioni: un incendio portò alla morte di 84 persone. Il giornale conservatore La Croix affermò che si era trattato di un castigo divino per l’impertinente arroganza della città. Ma con il tempo la paura scemò e la metropolitana divenne la vera protagonista della vita quotidiana: nel 1914 trasportava 500 milioni di passeggeri all’anno.
La metro non accompagnava i parigino solo al lavoro, perché ormai Parigi era una città che non dormiva mai. Dopo la giornata lavorativa, infatti, arrivava il momento di divertirsi, che si prolungava per tutta la notte. L’aumento dei salari e la stabilizzazione degli orari permisero ai dipendenti di guadagnare più denaro e di avere più tempo per spenderlo. Gli imprenditori accorsero in massa a soddisfare tale domanda.

Schema di costruzione della prima linea.


Fine del cantiere di costruzione della linea 2sud fra Sèvres - Lecourbe e Pasteur e posa dei binari

Un boulevard agli inizi del secolo.
In un’immagine del boulevard Edgar-Quinet, scattata agli inizi del XX secolo, mostra quanto fossero gremite le strade dell’epoca, tra passanti e carri trainati da cavalli. A terra sono visibili i binari dei tram a trazione animale, veicoli che per un certo periodo condivisero le strade con i nuovi tram a trazione animale, veicoli che per un certo periodo condivisero le strade con i nuovi tra a trazione elettrica, introdotti a partire dal 1900. Sulla destra compaiono un lampione elettrico e l’ingresso della metro Edgar Quinet inaugurata il 24 aprile del 1906. Anche se molte persone criticarono la cosiddetta “esistenza a zig-zag”, ovvero il dover corre da un treno a un autobus e biasimarono la scomodità della metro – alcune linee ricevettero il soprannome di “scatole di sardine” – di sicuro era meglio che camminare per ore o traslocare per arrivare al lavoro in un tempo ragionevole. 
Al via il primo rally della storia.
Tra il 19 e il 22 luglio del 1894 in Francia ci fu una prova insolita, indetta dal rotocalco Le Petit Journal: una corsa di automobili tra Parigi e Rouen, per un totale di 126 chilometri. L’evento ricevette all’inizio una risposta entusiasta, e al giornale giunsero 102 richieste di iscrizione, anche se alla fine si presentarono all’appello solo 32 vetture. Dopo le eliminatorie dei giorni precedenti, la domenica a 22 furono ventuno le macchine alla linea di partenza. La corsa includeva diverse fermate programmate: una nella località di Mantes-la-Jolie, affinché i partecipanti potessero concedersi una colazione in tutta tranquillità.


« Une journée sanglante », da Le Matin del 31 luglio 1908: la costruzione del metrò causò importanti conflitti sociali. Sotto Georges Clemenceau, fu indetto uno sciopero a Draveil-Villeneuve-Saint-Georges da parte di alcuni operai coinvolti nella realizzazione della rete.


Le Chat Noir (1929)

Un’ampia offerta di divertimenti. Le nuove forme di intrattenimento erano all’insegna del progresso, e specialmente il cinema riuscì a sedurre l’immaginario dei contemporanei. Nel 1895 u fratelli Lumière ne approfittarono e cominciarono a far pagare il biglietto d’ingresso alle loro proiezioni nel Grand Café. L’emozione iniziale, però, si gonfiò  ben presto: non appena la gente si fu abituata alle immagini in movimento, si annoiò di vedere sempre gli stessi filmati brevi e ordinari. Ci pensarono persone come Georges Méliès a raccontare delle storie: nasceva così il cinema come lo conosciamo oggi. la possibilità di ottenere sostanziosi guadagni era più che evidente per alcuni, tra cui Léon Gaumont, che nel 1911 aprì al pubblico un enorme cinema da circa cinquemila poltrone a prezzi accessibili e trasformò la settima arte in uno svago alla portata di tutti. Come nel cinema, altri risultati del progresso segnarono l’ozio e l’intrattenimento. La febbre per le macchine – sia nei saloni automobilistici alle Tuileries sia nelle strade che si dipartivano dalla città – era paragonabile soltanto a quella per la bicicletta. Lo stesso anno del primo Tour de France, il 1903, venne inaugurato il Velodromo d’Inverno per ospitare uno sport che aveva già molti sostenitori. Anche le partite di tennis e di calcio riempivano gli stadi. Non solo la Belle Epoque fu anche l’età d’oro del cabaret, con l’apertura del Le Chat Noir nel 1901 e del Moulin Rouge nel 1889. Louise Weber, nota come La Goulue (la Golosa) e Jean Avril, ballerine di can can di questo noto locale, divennero molto famose dentro e fuori Parigi. Cabaret e taverne traboccavano sempre di clienti; e chi preferiva un intrattenimento più culturale si recava nei musei: quello delle cere, inaugurato nel 1882, era uno dei favoriti dei parigini. Tanta offerta poteva forse disorientare e, infatti, parte della popolazione preferiva passare il tempo libero nei parchi urbani o facendo delle gite in campagna.
Se molti parigini approfittavano dei momenti d’ozio per uscire dalla città. sempre più stranieri giungevano a visitarla. Le esposizioni universali divennero la principale attrazione di Parigi: 23 milioni di persone parteciparono a quella del 1889, in cui venne inaugurata al pubblico la tour Eiffel, e 48 milioni a quella del 1900. Per far fronte a un turismo di tale mole, tra un’esposizione e l’altra, furono ampliati hotel come il Ritz e le stazioni dei treni. Parigi allargava la sua fama come meta turistica.

Muse della Belle Epoque.
Irma Gramatica
La Belle Epoque fu testimone del boom di attrici famose che comparivano spesso sui mezzi di informazione. Ne è un esempio la grande attrice francese Sarah Bernhardt che, grazie al suo stile naturale, lontano dalle vecchie consuetudini del teatro francese trionfò non solo in patri, ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti. Tra le italiane, invece, si ricordano Irma Gramatica, Lyda Borelli ed Eleonora Duse, le quali non furono solo delle grandi attrici di fama mondiale, ma fondarono anche compagnie proprie. Un altro esempio di donna di successo fu Lole Fuller, artista poliedrica ma anche scrittrice e produttrice, Fuller suscitò molta impressione con la sua danza serpentina, in cui utilizzava tessuti vaporosi e luci colorate. La Belle Otero è forse la più famosa tra le vedette di cabaret dell’epoca. Di origine galiziana, divenne la star di Folies Bergère. Insieme ad altre due attrici, Liane de Pougy ed Emillienne d’Alencon erano soprannominate “le tre grazie”. Le donne trionfarono anche nell’opera, come la soprano Lina Cavalieri, che venne descritta quale “donna più bella del mondo”. Pure la contessa Anna de Noailles, aristocratica di origine rumena, ebbe un ruolo fondamentale nella vita letteraria fin de siècle. Noialles ebbe un grande successo con le sue poesie piene di allusioni erotiche, e venne ritratta da molti artisti dell’epoca. 

La febbre del consumo. Se, da un lato, aumentavano gli spettacoli, dall’altro crescevano i consumi. I centri commerciali, che brillavano di luce propria, si imposero come le principali attrazioni e i turisti, in genere di classe agiata, non potevano certo rinunciare a una visita alle Galeries Lafayette. Ma nel 1895 Georges Dufayel fondò in uno dei quartieri poveri i Grands Magasins Dufayel, rivolti a un pubblico modesto: il suo motto era “Vendere a poco per vendere di più”. Grazie a strategie come la vendita a rate e gli annunci che invitavano i lavoratori a consumare, i Grands Magasin Dufayel diventarono uno dei luoghi più frequentati della città. Anche lì ci si poteva divertire: si poteva camminare tra i vasti locali, assistere a concerti, vedere film nel cinema interno e persino, il martedì e il sabato, farsi delle radiografie – tecnologia all’epoca affascinante. E ovviamente, comprare oggetti che limitavano il lusso, un tempo prerogativa delle classi borghesi. Il miglioramento delle condizioni di vita per i meno privilegiati si irradiava in molti settori, tra cui l’istruzione. Nel 1882 una legge rese obbligatoria la scuola primaria, e l’analfabetismo si ridusse enormemente: a Parigi la percentuale di persone analfabete era minore del 20 percento nei quartieri più poveri. La maggior parte dei parigini sapeva quindi leggere, dettaglio fondamentale per lo straordinario sviluppo della stampa. Questa, va detto, non migliorava solo il livello culturale dei lettori; in realtà serviva pure per diffondere notizie false e generare paure collettive. Per vendere di più, i giornalisti farcivano le pagine di notizie che i parigini leggevano con morbosità; erano talmente tante che la gente iniziò a ritenere Parigi una città violenta e pericolosa, sensazione accresciuta dal fatto che la polizia era ancor più efficiente nel risolvere i crimini: nel 1902 aveva, infatti, adottato la tecnica delle impronte digitali. La stampa alimentava anche l’impressione che la società francese stesse degenerando, e perciò i resoconti di delitti e scandali convinsero molti che le tecnologie e i nuovi comportamenti distruggevano la società tradizionale. L’anonimato di una grande città, l’affievolirsi di punti di riferimento come, per esempio, il parroco, e l’allargamento dell’istruzione permisero alle nuove generazioni di sentirsi più libere: a Parigi presero forza movimenti come il femminismo e uscirono allo scoperto comportamenti che stridevano con le norme sociali, come l’omosessualità.

Libertà, ma con restrizioni
Sebbene Parigi fosse percorso da un’ondata di libertà per le donne, le resistenze al cambiamento furono notevoli. Una normativa parigina proibiva alle donne di indossare i pantaloni se non montavano in bicicletta e, nonostante gli sforzi della femminista Marie-Rose Astié de Valsayere, il divieto non venne abrogato. La famosa giornalista, critica teatrale, scrittrice e attrice passata alla storia come Colette, poi, scandalizzava la società vestendo abiti maschili e fumando. Il maggiore ostacolo al cambiamento risiedeva, però, nella mentalità: le donne che si azzardavano a turbare il costume nei luoghi pubblici erano spesso vittima di insulti e aggressioni.

Marie-Rose Astié de Valsayre-crop.jpeg


Parigi 1910: la grande inondazione.
Si dice che ogni cento anni Parigi sia vittima di una grande inondazione. Quella del XX secolo ebbe luogo nel 1910, alla fine della Belle Epoque. Il 21 gennaio le acque della Senna raggiunsero un’altezza record di 8,62 metri, e lo straripamento fu inarrestabile. Alcune conquiste del progresso contribuirono ad aggravare la situazione: l’acqua scese per la rete fognaria e attraverso i tunnel della metro, appena costruiti. Si inondarono pure le stazioni elettriche e tutta la città – la Città della Luce – rimase al buio per diversi giorni in mancanza di tram, si dovette ricorrere a barche e cavalli. Fortunatamente, la piena non causò la morte di persone, anche se lo stato di emergenza permise per quasi due mesi.

Tolleranza limitata. Le persone omosessuali approfittarono della maggiore libertà che offriva la Belle Epoque. Le vaste zone verdi e i numerosi locali notturni divennero luoghi di corteggiamento, e le autorità potevano ben poco contro quella che la società considerava un’aberrazione. Quando il proprietario di un caffè su rue Monge, in pieno centro, denunciò alla polizia che i suoi clienti avevano trasformato il locale in un ritrovo di omosessuali, la polizia rispose che, se aveva i documenti in regola, non avrebbe potuto fare niente per chiuderlo. Ma in pubblico la società si dimostrò ben poco tollerante. Nel 1907 le attrici Sidonie-Gabrielle Colette, in arte Colette, e Mathilde de Morny scandalizzarono a tal punto gli spettatori del Moulin Rouge con una scena lesbica che la polizia dovette intervenire per placare gli animi. L’opera Sogno d’Egitto fu messa al bando, e le donne, che erano amanti, non poterono più vivere assieme.
Spaventati o emozionati i parigini avevano ormai capito che il cambiamento sarebbe divenuto una regola. La città semidistrutta del 1871 aveva poco in comune con quella che nel 1914 brulicava di vita, con le sue strade piene di vetture, i suoi cinema, i parchi e i centri commerciali pieni di gente, le sue sale da esposizione e i musei che ospitavano l’arte del nuovo secolo. In pochi potevano prevedere che le tenebre sarebbero presto tornate su Parigi.

Articolo in gran parte di Ainhoa Campos Posada storica e autrice di breve storia della Belle Epoque, pubblicato su Storica National Geographic del mese di dicembre 2018 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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