sabato 29 febbraio 2020

Capitani di ventura.


Capitani di (s)ventura.
Potenti e crudeli, i signori della guerra si battevano per chi li pagava meglio. Tra Comuni, Signorie e Papato.

Oggi li chiameremmo, con malcelato disprezzo, “signori della guerra”. Eppure, al pari di artisti e letterati, furono tra i protagonisti del Rinascimento. Parliamo dei capitani di ventura, ambiziosi mercenari che per oltre due secoli scorazzarono per l’Italia in cerca di gloria, potere e denaro. Per ottenerli erano disposti a tutto, cambiando casacca al momento opportuno ricattando senza pudore i signori che li ingaggiavano.

Professionisti. Tra XIV e XV secolo l’Italia era un puzzle in cui convivevano realtà politiche in perenne contrasto: dai Comuni alle Signorie (in primis toscane, lombarde e venete), passando per il Regno di Napoli e il Papato. Piccole o grandi che fossero, si contendevano l’egemonia territoriale e politica a suon di guerre: un vero paradiso per mercenari, avventurieri e delinquenti d’ogni risma. “Per usare una terminologia moderna, potremmo dire che gli Stati italiani del Tre-Quattrocento “privatizzarono” la difesa, dandola in appalto a figure esterne, incaricate di badare al reclutamento, alla scelta delle armi e alla pianificazione delle campagne di guerra”, scrive lo storico Marco Scardigli in “Cavalieri, mercenari e cannoni. L’arte della guerra nell’Italia del Rinascimento (Mondadori)”. Si formarono così le prime compagnie di ventura, spesso comandate da nobili e signori e destinate a diventare sempre più professionali. L’obiettivo di questi “manager” della guerra era guadagnare titoli, terre e ricchezze mettendo la spada al servizio del miglior offerente. Alcuni furono particolarmente apprezzati per il coraggio e le doti strategiche, acquisendo un immenso potere. i nomi di John Hawkood (italianizzato in Giovanni Acuto), Muzio Attendolo Sforza, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Federico da Montefeltro, Bartolomeo Colleoni divennero presto celebri. Peraltro, quando due armate mercenarie si scontravano evitavano battaglie campali. Il motivo? Annientare il nemico significava rimanere disoccupati. Molto meglio comportarsi da predoni, devastando le campagne e taglieggiando le popolazioni civili. “La violenza era parte integrante della vita mercenaria: il saccheggio, i furti e gli stupri erano l’ambito premio della vita guerresca”, continua lo storico.

Giovanni Acuto

Feroci e  senza scrupoli. Persino i grandi comandanti non rinunciarono alla ferocia. Nei suoi commentari, papa Pio II descrive per esempio il celeberrimo condottiero Braccio da Montone (alias Andrea Fortebracci, 1368-1424) come un sadico torturatore, che “si divertiva a precipitare le sventurate sue vittime dalle sommità delle torri”. E quando ad Assisi alcuni frati del convento dei minori osarono contrastarlo, “gli fece ridurre i testicoli in poltiglia su un’incudine”. Non da meno era stato il capitano inglese John Hawkwood, che nel corso della Guerra degli Otto Stati (1375-1378) risolse malonicamente la controversia tra due soldati che si contendevano una monaca come preda di guerra. Come? Squartando personalmente la malcapitata a metà.



                                                                       Muzio Attendolo Sforza 









  


Criminali di guerra. In quello stesso conflitto, che vide il Papato contrapposto a una coalizione di città toscane e dell’Italia Centrale, le truppe di Acuto (al soldo del pontefice) si resero protagoniste di un terribile eccidio. Dopo aver devastato Faenza, nel febbraio del 1377 i mercenari entrarono a Cesena e, su ordine del cardinale Roberto di Ginevra (futuro antipapa Clemente VII), ne massacrarono gli abitanti, colpevoli di aver tentato dei ribellarsi contro il pontefice. Più di 5mila civili, comprese donne e bambini, furono passati a fil di spada e gettati in pozzi o fosse comuni, mentre le scorrerie nelle campagne continuarono fino all’estate. Un destino simile toccò nel 1388 ad Aquileia, stavolta a opera di un capitano “sbalestrato di cervello” (come lo definì lo storico Francesco Lomonaco) di nome Facino Cane. Figlio cadetto di nobili piemontesi, imperversò per anni nell’Italia del Nord, riuscendo a costruirsi un feudo personale. Stando alle cronache di Galeazzo Gatari, Facino mise a sacco Aquileia “pigliando huomini e donne, grandi e piccoli, e con grandissima crudeltà rubò le chiese de’ preti, e frati e monache di paramenti spogliò gli altari, commettendo molte cose scelerate”. Episodi simili coinvolsero tutte le compagnie di ventura, comprese le famose Bande Nere, fondate nel 1517 dal leggendario Giovanni de’ Medici. Nel maggio 1528, due anni dopo la morte del fondatore, queste furono coinvolte insieme alle armate francesi nella presa di Melfi, e “Pasqua di sangue”. I resoconti dell’epoca lasciano anche qui poco spazio all’immaginazione: forzate le difese, gli assedianti non risparmiarono nessuno “amazando tutti chi trovarono, fanti homeni et done, fino i putti … né alcun si salvò se non quelli se buttarono de’ muri”, scriveva lo storico Marino Sanuto.

ritratto di Bartolomeo Colleoni


Come funzionavano le Compagnie?
I primi gruppi di mercenari ad affacciarsi in Italia, tra il XIII e il XIV secolo, furono le masnade (dal provenzale maisnada, servitù), branchi di diseredati, reietti e reduce delle guerre, disorganizzati a livello militare. A inquadrarli ci pensarono, dall’inizio del XIV secolo, carismatici comandati (prima soprattutto stranieri, poi anche italiani) come Guarnieri d’Ursilingen, Ludrisio Visconti, John Hawkwood, Alberico da Barbiano, sotto le cui insegne si formarono le prime compagnie di ventura tra cui la Grande Compagnia della Colomba. Il numeri dei combattenti in genere non superava i 10mila uomini. Il nucleo fondamentale era costituito da cavalieri, con armature e lance. I capitani di ventura cominciarono così ad essere ingaggiati dai Comuni con apposti contratti a termine, detti “condotte” (da cui il nome condottieri) e potevano guadagnare cifre altissime, titoli e terre.
APOGEO E DECLINO. Nel corso del XV secolo, alcuni dei condottieri più importanti furono i ricchi signori che già disponevano di eserciti personali. La loro fortuna finì nel secolo successivo: le artiglierie resero obsolete il loro modo di combattere, basato sulla cavalleria pesante. Un’altra ragione fu il formarsi dei primi eserciti nazionali.

Voltagabbana. Se ai nostri occhi tali atrocità sarebbero degne del più severo tribunale internazionale sarebbero degne del più severo tribunale internazionale per crimini contro l’umanità, all’epoca l’ostentazione della ferocia aveva un fine strategico. “Più il terrore cresceva, più era facile che città e Stati si decidessero a pagare somme ingenti pur di non subire devastazioni. La crudeltà era anche un servizio richiesto dai committenti per tenere sottomesse le popolazioni e dar loro una lezione”scrive Scardigli. In cambio, ai mercenari spettava il diritto di saccheggio, ovvero l’appropriazione dei beni dei nemici concesso dalle leggi di guerra. Tranne in casi eccezionali, come quello di Bartolomeo Colleoni, fedelissimo alla Repubblica di Venezia, per i capitani di ventura era inoltre normale passare da uno schieramento all’altro a seconda della convenienza. Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini, fu temutissimo proprio perché imprevedibile nelle alleanze. A darne un ritratto inquietante è il solito Pio II, secondo cui si trattò del “peggiore degli uomini che abbiano vissuto e vivranno, vergogna d’Italia, disgrazia del nostro tempo”. Sigismondo si guadagnò il soprannome di “lupo di Rimini”, venendo ai ferri corti con lo stesso Pio II e tradendo con disinvoltura duchi, re e dogi. Uno dei suoi acerrimi nemici fu Federico da Montefeltro, altro formidabile condottiero asceso al Ducato di Urbino  dopo l’assassinio del fratellastro Oddantonio (1444). Sigismondo e Federico non potevano essere più diversi: impulsivo e irruente il primo, freddo e calcolatore il secondo. Ma qualcosa li accumunava: il rapporto con i maggiori artisti dell’epoca. Le loro corti ospitarono infatti scultori, architetti e pittori di fama tra cui Piero della Francesca, Paolo Uccello, Benozzo Gozzoli, Leon Battista Alberti. Il mecenatismo e la passione per la cultura furono un tratto distintivo di moltissimi signori della guerra, che amavano farsi ritrarre nelle sembianze di gloriosi generali antichi o devoti cristiani, costruendo sontuosi palazzi e raffinati sepolcri. Era un modo di guadagnare prestigio sociale e ripulire la propria reputazione agli occhi dei posteri a colpi di pennello e scalpello. L’arte avrebbe così gettato nell’oblio, con il suo splendore, il ricordo delle terribili violenze che avevano commesso.

Articolo in gran parte di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 144 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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