Capitani di (s)ventura.
Potenti e crudeli, i
signori della guerra si battevano per chi li pagava meglio. Tra Comuni,
Signorie e Papato.
Oggi
li chiameremmo, con malcelato disprezzo, “signori della guerra”. Eppure, al
pari di artisti e letterati, furono tra i protagonisti del Rinascimento.
Parliamo dei capitani di ventura, ambiziosi mercenari che per oltre due secoli
scorazzarono per l’Italia in cerca di gloria, potere e denaro. Per ottenerli
erano disposti a tutto, cambiando casacca al momento opportuno ricattando senza
pudore i signori che li ingaggiavano.
Professionisti. Tra XIV e XV secolo l’Italia era un
puzzle in cui convivevano realtà politiche in perenne contrasto: dai Comuni
alle Signorie (in primis toscane, lombarde e venete), passando per il Regno di
Napoli e il Papato. Piccole o grandi che fossero, si contendevano l’egemonia
territoriale e politica a suon di guerre: un vero paradiso per mercenari,
avventurieri e delinquenti d’ogni risma. “Per
usare una terminologia moderna, potremmo dire che gli Stati italiani del
Tre-Quattrocento “privatizzarono” la difesa, dandola in appalto a figure
esterne, incaricate di badare al reclutamento, alla scelta delle armi e alla
pianificazione delle campagne di guerra”, scrive lo storico Marco Scardigli
in “Cavalieri, mercenari e cannoni. L’arte della guerra nell’Italia del
Rinascimento (Mondadori)”. Si formarono così le prime compagnie di ventura,
spesso comandate da nobili e signori e destinate a diventare sempre più
professionali. L’obiettivo di questi “manager” della guerra era guadagnare
titoli, terre e ricchezze mettendo la spada al servizio del miglior offerente.
Alcuni furono particolarmente apprezzati per il coraggio e le doti strategiche,
acquisendo un immenso potere. i nomi di John Hawkood (italianizzato in Giovanni
Acuto), Muzio Attendolo Sforza, Sigismondo Pandolfo Malatesta, Federico da
Montefeltro, Bartolomeo Colleoni divennero presto celebri. Peraltro, quando due
armate mercenarie si scontravano evitavano battaglie campali. Il motivo?
Annientare il nemico significava rimanere disoccupati. Molto meglio comportarsi
da predoni, devastando le campagne e taglieggiando le popolazioni civili. “La violenza era parte integrante della vita
mercenaria: il saccheggio, i furti e gli stupri erano l’ambito premio della
vita guerresca”, continua lo storico.
Feroci e senza scrupoli. Persino
i grandi comandanti non rinunciarono alla ferocia. Nei suoi commentari, papa
Pio II descrive per esempio il celeberrimo condottiero Braccio da Montone
(alias Andrea Fortebracci, 1368-1424) come un sadico torturatore, che “si divertiva a precipitare le sventurate sue
vittime dalle sommità delle torri”. E quando ad Assisi alcuni frati del
convento dei minori osarono contrastarlo, “gli
fece ridurre i testicoli in poltiglia su un’incudine”. Non da meno era
stato il capitano inglese John Hawkwood, che nel corso della Guerra degli Otto
Stati (1375-1378) risolse malonicamente la controversia tra due soldati che si
contendevano una monaca come preda di guerra. Come? Squartando personalmente la
malcapitata a metà.
Muzio Attendolo Sforza
Criminali di guerra. In quello stesso
conflitto, che vide il Papato contrapposto a una coalizione di città toscane e
dell’Italia Centrale, le truppe di Acuto (al soldo del pontefice) si resero
protagoniste di un terribile eccidio. Dopo aver devastato Faenza, nel febbraio
del 1377 i mercenari entrarono a Cesena e, su ordine del cardinale Roberto di
Ginevra (futuro antipapa Clemente VII), ne massacrarono gli abitanti, colpevoli
di aver tentato dei ribellarsi contro il pontefice. Più di 5mila civili,
comprese donne e bambini, furono passati a fil di spada e gettati in pozzi o
fosse comuni, mentre le scorrerie nelle campagne continuarono fino all’estate.
Un destino simile toccò nel 1388 ad Aquileia, stavolta a opera di un capitano
“sbalestrato di cervello” (come lo definì lo storico Francesco Lomonaco) di
nome Facino Cane. Figlio cadetto di nobili piemontesi, imperversò per anni
nell’Italia del Nord, riuscendo a costruirsi un feudo personale. Stando alle
cronache di Galeazzo Gatari, Facino mise a sacco Aquileia “pigliando huomini e donne, grandi e piccoli, e con grandissima
crudeltà rubò le chiese de’ preti, e frati e monache di paramenti spogliò gli
altari, commettendo molte cose scelerate”. Episodi simili coinvolsero tutte
le compagnie di ventura, comprese le famose Bande Nere, fondate nel 1517 dal
leggendario Giovanni de’ Medici. Nel maggio 1528, due anni dopo la morte del
fondatore, queste furono coinvolte insieme alle armate francesi nella presa di
Melfi, e “Pasqua di sangue”. I resoconti dell’epoca lasciano anche qui poco
spazio all’immaginazione: forzate le difese, gli assedianti non risparmiarono
nessuno “amazando tutti chi trovarono,
fanti homeni et done, fino i putti … né alcun si salvò se non quelli se
buttarono de’ muri”, scriveva lo storico Marino Sanuto.
ritratto di Bartolomeo Colleoni
Come
funzionavano le Compagnie?
I
primi gruppi di mercenari ad affacciarsi in Italia, tra il XIII e il XIV
secolo, furono le masnade (dal provenzale maisnada, servitù), branchi di
diseredati, reietti e reduce delle guerre, disorganizzati a livello militare.
A inquadrarli ci pensarono, dall’inizio del XIV secolo, carismatici comandati
(prima soprattutto stranieri, poi anche italiani) come Guarnieri
d’Ursilingen, Ludrisio Visconti, John Hawkwood, Alberico da Barbiano, sotto
le cui insegne si formarono le prime compagnie di ventura tra cui la Grande
Compagnia della Colomba. Il numeri dei combattenti in genere non superava i
10mila uomini. Il nucleo fondamentale era costituito da cavalieri, con
armature e lance. I capitani di ventura cominciarono così ad essere
ingaggiati dai Comuni con apposti contratti a termine, detti “condotte” (da
cui il nome condottieri) e potevano guadagnare cifre altissime, titoli e
terre.
APOGEO
E DECLINO. Nel corso del XV secolo, alcuni dei condottieri più importanti
furono i ricchi signori che già disponevano di eserciti personali. La loro
fortuna finì nel secolo successivo: le artiglierie resero obsolete il loro
modo di combattere, basato sulla cavalleria pesante. Un’altra ragione fu il
formarsi dei primi eserciti nazionali.
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Voltagabbana. Se ai nostri occhi tali atrocità sarebbero
degne del più severo tribunale internazionale sarebbero degne del più severo
tribunale internazionale per crimini contro l’umanità, all’epoca l’ostentazione
della ferocia aveva un fine strategico. “Più
il terrore cresceva, più era facile che città e Stati si decidessero a pagare
somme ingenti pur di non subire devastazioni. La crudeltà era anche un servizio
richiesto dai committenti per tenere sottomesse le popolazioni e dar loro una
lezione”scrive Scardigli. In cambio, ai mercenari spettava il diritto di
saccheggio, ovvero l’appropriazione dei beni dei nemici concesso dalle leggi di
guerra. Tranne in casi eccezionali, come quello di Bartolomeo Colleoni,
fedelissimo alla Repubblica di Venezia, per i capitani di ventura era inoltre
normale passare da uno schieramento all’altro a seconda della convenienza.
Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), signore di Rimini, fu temutissimo
proprio perché imprevedibile nelle alleanze. A darne un ritratto inquietante è
il solito Pio II, secondo cui si trattò del “peggiore
degli uomini che abbiano vissuto e vivranno, vergogna d’Italia, disgrazia del
nostro tempo”. Sigismondo si guadagnò il soprannome di “lupo di Rimini”,
venendo ai ferri corti con lo stesso Pio II e tradendo con disinvoltura duchi,
re e dogi. Uno dei suoi acerrimi nemici fu Federico da Montefeltro, altro
formidabile condottiero asceso al Ducato di Urbino dopo l’assassinio del fratellastro Oddantonio
(1444). Sigismondo e Federico non potevano essere più diversi: impulsivo e
irruente il primo, freddo e calcolatore il secondo. Ma qualcosa li accumunava:
il rapporto con i maggiori artisti dell’epoca. Le loro corti ospitarono infatti
scultori, architetti e pittori di fama tra cui Piero della Francesca, Paolo
Uccello, Benozzo Gozzoli, Leon Battista Alberti. Il mecenatismo e la passione
per la cultura furono un tratto distintivo di moltissimi signori della guerra,
che amavano farsi ritrarre nelle sembianze di gloriosi generali antichi o
devoti cristiani, costruendo sontuosi palazzi e raffinati sepolcri. Era un modo
di guadagnare prestigio sociale e ripulire la propria reputazione agli occhi
dei posteri a colpi di pennello e scalpello. L’arte avrebbe così gettato
nell’oblio, con il suo splendore, il ricordo delle terribili violenze che
avevano commesso.
Articolo in gran parte
di Massimo Manzo pubblicato su Focus Storia n. 144 – altri testi e immagini da
Wikipedia.
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