I Lanzichenecchi. Il
braccio armato dell’impero.
A partire dalla fine
del Quattrocento i mercenari tedeschi furono la risposta degli Asburgo ai
picchieri svizzeri, nerbo dell’esercito francese. La loro comparsa rappresentò
la rivincita della fanteria sulla cavalleria, arma dominante durante tutto il
Medioevo.
“Sentivansi i gridi e le urla
miserabile delle donne romane e delle monache, condotte a forme da’ soldati per
saziare la loro libidine. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che
erano miserabilmente tormentati, parte per astringerli a fare la taglia parte
per manifestare le robe nascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le
reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro
ornamenti, erano gittate per terra”. Francesco
Guicciardini visitò Roma nei giorni successivi il 6 maggio 1527, data del
terribile saccheggio cui l’Urbe fu sottoposta dalle truppe mercenarie al soldo
dell’imperatore Carlo V, nella sua Storia d’Italia trascrisse il racconto
agghiacciante ascoltato direttamente dalle vittime. È la cronaca indignata
dell’azione più famosa, e insieme efferata, compiuta dai Lanzichenecchi,
soldati di professione reclutati nelle province tedesche a partire dal XV
secolo, che al di là di crudeltà ed eccessi, dal punto di vista strettamente
militare rappresentarono un passaggio decisivo per il successivo sviluppo della
fanteria.
Lanzichenecco con la moglie (una delle cosiddette vivandiere)
La
tattica.
Combattimento tra picchieri in un'incisione di Hans Holbein il Giovane
Metodo di impiego della picca in combattimento
Il
dispiegamento tattico dei Lanzichenecchi era organizzato su quadrati formati
da 6000-8000 uomini, disposti
generalmente a scalare su linee di tre: l’avanguardia, il corpo principale e
più numeroso e la retroguardia. Il quadrato di picchieri e alabardieri era
coperto sui lati o ai quattro angoli della formazione da unità di tiratori.
Quando l’avanguardia entrava in contatto con il nemico, gli altri due
contingenti potevano aspettare il momento opportuno per intervenire,
sfruttando la propria velocità e sorprendendo l’avversario là dove l’attacco
avrebbe ottenuto gli effetti decisivi sperati: di lato o alle spalle. La
forza d’urto della formazione era data dalla “spinta delle picche” esercitata
di norma dalle prime quattro file (una quinta rimaneva di riserva) che
iniziavano ad affondare la propria arma contro il nemico con ripetute
stoccate o semplicemente esercitando una pressione sui corpi degli avversari
così da fare loro perdere l’equilibrio e obbligarli a indietreggiare. Le file
posteriori tenevano la picca in posizione verticale e imprimevano all’arma un
movimento ondeggiante in modo che i legni proteggessero la formazione dal
lancio di oggetto. Nelle prime file operavano anche nuclei di alabardieri e
soldati armati di grande spada a due mani che menavano fendenti e puntate con
il preciso intento di falciare le picche nemiche e aprire squarci nei
quadrati avversari in cui i picchieri potevano inserirsi per spezzare la formazione
nemica.
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IL SACCO DI ROMA. Con l’indebolirsi dei
vincoli di servitù feudale le terre sovrappopolate della Germania meridionale
(Svevia, Vorarlberg, Tirolo), e le regioni lungo l’alto corso del Reno (Foresta
Nera, Alsazia), a partire dalla metà del Trecento diventarono fucina di milizia
irregolari composte, almeno inizialmente, da ex servitori rimasti organi dei
propri cavalieri (in tedesco Landsknecht, letteralmente “servitore del paese”),
soldati addetti alla cavalcatura che camminavano alla staffa del signore.
Questo gruppo primogenito di Lanzichenecchi andò via via irrobustendosi grazie
all’afflusso di figli di contadini e artigiani, in fuga dalla fame e spesso
dalla legge, ma anche di nobiltà terriera, questi ultimi alla ricerca più che
altro di una vita d’avventura. Una soldataglia rozza e violenta, accecata dal
facile guadagno, che nei periodi di disoccupazione, in assenza di conflitti e
quindi della possibilità di fare bottino, non disdegnava dedicarsi al
brigantaggio. A dare una forma istituzionale a queste milizie, seppur senza
eliminare la caratteristica indisciplina delle origini, sul finire del
Quattrocento pensò l’imperatore Massimiliano I, organizzandole in un corpo di
fanteria da contrapporre a quello svizzero che, nel contesto dello scontro per
il predominio europeo, costituiva il nerbo dell’esercito francese. Nacque così
una sanguinosa rivalità che per due secoli fu protagonista sui campi di
battaglia europei: da una parte i picchieri svizzeri, montanari al soldo del
sovrano di Francia, dall’altra i tedeschi di pianura, i Lanzichenecchi furono
spesso arruolati come mercenari. La contrapposizione sfociò ben presto in odio
aperto e non di rado Svizzeri e Tedeschi durante gli scontri si cercavano per
lanciarsi in combattimenti accaniti la cui posta non era tanto la vittoria del
proprio campo, quanto la morte dei rivali. Episodi di brutale efferatezza si
registrarono anche contro i soldati avversi caduti prigionieri.
Ultimi arrivati nel
campo della fanteria rinascimentale, i Lanzichenecchi inizialmente dovettero
subire cocenti sconfitte, ma non passò molto tempo prima che gli allievi si
portassero al livello dei detestati maestri svizzeri, finendo anche per
superarli. A paurose disfatte come quelle riportate durante la Guerra sveva del
1499, seguirono scontri più equilibrati nelle Guerre d’Italia dove i Lanzi
(così vennero battezzati gli alabardieri tedeschi a guardia dei duchi di
Toscana) riuscirono a colmare il divario e a contenere la furia svizzera, come
nella battaglia di Marignano del 1515. Infine l’agognato sorpasso tedesco si
ebbe nelle battaglie della Bicocca (1522) e di Pavia (1525) dove, seppur
aiutati da un buon utilizzo di fanti archibugieri, i Lanzichenecchi
massacrarono i rivali. La natura delle due milizie era simile, sia per quanto
riguarda l’armamento che le tecniche di combattimento, perfino nella modalità
d’arruolamento. Quando un signore della guerra – fosse un duca, una libera
città, oppure l’imperatore – aveva bisogno di soldati per risolvere con la
forza una questione dinastica o territoriale dava un incarico a un impresario,
generalmente un uomo d’armi ben conosciuto nell’ambiente militare, di arruolare
i mercenari necessari all’impresa. Ciò avveniva tramite la consegna di un
“brevetto” che autorizzava il condottiero, un figura assimilabile ai
contemporanei capitani di ventura operanti in Italia, a levare truppe in nome
del signore, un vero e proprio contratto nel quale si faceva esplicito
riferimento alle condizione e alla durata dell’ingaggio, alla paga spettante a
ogni singolo soldato e all’armamento con il quale doveva presentarsi
all’arruolamento. Tanto più l’impresario era conosciuto e ritenuto capace e
affidabile – tanto più i mercenari accorrevano numerosi alla Masterpaltz, il
luogo deputato al ritrovo del nascente esercito. Qui gli aspiranti combattenti
dovevano superare una selezione basata sull’idonietà fisica e la compatibilità
dell’armamento (che era a loro carico) e contemporaneamente verificare le
condizioni dell’arruolamento, contratto a cui l’impresario e il suo signore,
tanto quanto i soldati, si legavano attraverso un solenne giuramento.
Svizzeri e tedeschi: la diversa
impugnatura della picca.
Svizzeri e tedeschi combattevano
sostanzialmente alla stessa maniera, affidandosi per risolvere lo scontro tra
quadrati di fanti all’abilità nel maneggio della picca, specialità nella
quale non avevano pari, pur differenziandosi nell’impugnatura dell’arma. I
Lanzi facevano passare l’asta sopra la spalla destra afferrandola con la mano
sinistra e sorreggendola all’estremità posteriore con il braccio destro
piegato all’indietro: questa tecnica detta deutschen Stoss permetteva un più
facile “cambio della guardia”, ossia il passaggio della picca da un braccio
all’altro. inoltre, consentiva di sfruttare in battaglia l’intera lunghezza
dell’arma. Gli elvetici, invece, tenevano la picca afferrandola all’incirca
nel baricentro, spostato all’indietro rispetto alla mezzeria, e reggendola
all’altezza dell’anca o della spalla; una tecnica che permetteva ai picchieri
confederati di giocare più facilmente con le parate laterali e gli affondo.
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IL MESTIERE DELLE ARMI. A questo punto per i mercenari ritenuti idonei
era il momento di incassare il primo soldo, una sorta di anticipo sul
trattamento assicurato durante il periodo d’ingaggio che, al netto
dell’eventuale bottino di guerra, equivaleva al doppio di quanto percepito da
un qualunque lavoratore salariato del tempo. Un lanzichenecco riceveva
generalmente 4 fiorini al mese di paga; un sergente dai 10 ai 16, i veterani,
gli archibugieri, gli uomini armati della grande spada a due mani, guadagnavano
soldo doppio, cioè 8 fiorini al mese, ed erano per questo chiamati “Doppelsoldner”,
categoria cui apparteneva anche l’alfiere, il portabandiera della compagnia.
Una paga più alta veniva anche corrisposta a coloro che svolgevano uffici
particolari, come lo scrivano, il tamburino, il furiere, il suonatore di
piffero. Ai vertici della catena di comando l’impresario poteva spuntare un
ingaggio di 400 fiorini al mese, mentre i suoi ufficiali andavano da un minimo
di venti a un massimo di sessanta. A paragone di quanto guadagnava un artigiano
di città o un contadino la condizione economica del lanzichenecco poteva
apparire di favore, ma occorreva mettere in contro l’eventualità della morte in
battaglia, o di una ferita invalidante che l’avrebbe condannato a una vita di
stenti e, elemento non secondario, la scarsa solvibilità dei committenti che
spesso induceva i soldati al saccheggio più per fame che per bramosia di
ricchezza.
Di suo il mercenario
tedesco, strappato dal mestiere delle armi a un’esistenza in molte casi
miserabile, portava in dote forza fisica, coraggio, resistenza alla fatica e
abilità, affinata anche nel tempo di riposo, di usare la picca, l’arma simbolo
della nuova primavera della fanteria, capace di ribaltare i rapporti di forza
con la cavalleria, incontrastata dominatrice delle guerre medievali. Contro
l’impeto dei cavalieri muniti di pesanti armature nulla potevano, infatti, i
poveri fanti dell’età di mezzo, dotati com’erano della sola spada, finché
l’introduzione di un’arma semplice ma efficace come la picca – una punta
metallica inastata su un’asta di legno lunga in taluni casi fino a sette metri
– non cambiò radicalmente le prospettive di battaglia, non del singolo fante ma
della formazione di picchieri (da 1500 fino a 6000 unità a formare un quadrato
profondo anche decine di file) un’immensa siepe acuminata contro la quale i
cavalli si rifiutavano di avanzare e la cavalleria per quanto corazzata, scoprì
a sue spese di essere impotente. Queste formazioni traevano spunto dalla
composizione delle falangi macedoni, alle quali aggiungevano una maggiore
flessibilità e velocità di movimento, oltre alla possibilità del “quadrato” di
picchieri di difendersi contemporaneamente su ogni lato, al contrario delle
falange che invece risultava vulnerabile.
Lo scontro tra due
“quadrati” contrapposti avveniva facendo avanzare il più rapidamente possibile
i due fronti irti di picche, in modo che l’effetto perforante delle punte e la
spinta dei compagni dalle file interne su quelli della prima fila, generalmente
protetti da uno speciale corpetto, provocasse una pressione tale da far cedere
il nemico, destinato poi a essere travolto e ad abbandonare il campo. Mentre i
picchieri ingaggiavano il nemico con tanto di parate e affondi, agli
alabardieri e agli uomini armati di grandi spade a due mani, spesso dalla lame
a serpentino, posizionati nelle prime o ultime file del quadrato, spettava il
compito di falciare le armi avversarie e aprire così un varco nello
schieramento nemico, fosse esso di fanteria o cavalleria. A dar man forte al
quadrato, gli eserciti rinascimentali introdussero anche piccole squadre di
tiratori, armati prima di balestra poi, con l’evoluzione delle armi da fuoco,
di archibugio e, infine, a parte dagli anni Venti del Cinquecento di moschetto.
Dapprima il loro numero non superava il 10% degli effettivi e svolgevano azioni
al di fuori dello schieramento, come “battitori liberi”, successivamente
l’efficacia del tiro divenne così micidiale da consigliarne il raggruppamento
in reparti appositi denominati “maniche”, posizionati agli angoli dei quadrati
di fanteria. Per mantenere un fuoco continuo sugli avversari caricavano e
sparavano a righe alternate; se minacciati dalla cavalleria trovavano pronto
riparo sotto le picche del quadrato.
Le battaglie più famose.
CALLIANO 1487.
Nella battaglia del 10 agosto 1487
tra le truppe della Repubblica di Venezia e quelle trentine alleate dei conti
del Tirolo per la prima volta un contingente di Lanzichenecchi si scontrò con
un esercito italiano. Fatto costruire dai genieri di un ponte di barche
sull’Adige, il comandante veneziano Roberto Sanseverino d’Aragona alle prime
luci dell’alba portò le sue truppe all’attacco dei veneziani e lanciò
l’allarme alle truppe tirolesi di stanza a Trento.
I Lanzichenecchi al comando di
Friedrich Kappler piombarono sui fanti veneziani che, terrorizzati, si
diedero alla fuga verso il ponte di barche. Sanseverino rimase a combattere
con la cavalleria, ma un nuovo assalto di Lanzi indusse i veneziani alla
definitiva rotta. Presi dal ponte di barche che non resse al peso: a
centinaia morirono annegati e lo stesso Sanseverino cadde nella mischia.
RAVENNA 1512. La domenica di
Pasqua del 1512, era l’11 aprile, nella campagna ravennate si fronteggiarono l’esercito francese,
comandato dal ventitreenne Gaston De Foix, e quello della “Lega Santa”
formata da papa Giulio II, composto da spagnoli, italiani, e soldati del
Regno di Napoli. Circa 5mila Lanzichenecchi condotti dall’ufficiale tedesco
Jacob Empser combatterono tra le file francesi scontrandosi sanguinosamente
con la fanteria spagnola. L’impatto fra i quadrati di fanteria fu talmente
violento che le picche dei due schieramenti rimasero incastrate. I più agili
spagnoli si incunearono tra le fila dei tedeschi e, armati di coltello,
uccisero un gran numero di Lanzi. La lotta che ne seguì fu sanguinosa e
incerta, ma il sacrificio dei fanti tedeschi contribuì a fiaccare gli
spagnoli che, pur battendosi eroicamente, presero a indietreggiare. Dopo otto
ore di scontri la battaglia si concluse con la vittoria francese.
NOVARA 1513. Il 6 giugno 1513 le
truppe svizzere, parte della Lega Santa, sconfissero l’eercito francese
guidato da Louis de la Trémoille, costringendo i transalpini a ritirarsi da
Milano, dove venne restaurato il potere del duca Massimiliano Sforza. Fu una
battaglia lampo, in sole quattro ore i francesi furono sconfitti e lasciarono
sul campo oltre cinquemila morti. La furia dei picchieri svizzeri, la
tremenda pressione dei loro quadrati, ebbe la meglio sui Lanzichenecchi al
soldo del re di Francia.
MELEGNANO 1515. Combattuta il 13 e
il 14 settembre del 1515 a Meregnano, antico nome di Melegnano, località a
sud di Milano, la battaglia rappresentò la rivincita francese contro gli
svizzeri, vincitori due anni prima a Novara. Scesero in campo a fianco di Francesco
I re di Francia anche i Lanzichenecchi della cosiddetta Banda Nera: mercenari
tedeschi che servirono sotto altri eserciti nonostante il divieto di
Massimiliano d’Asburgo. Sospinti indietro dalla pressione dei quadrati
elvetici, riuscirono comunque a mantenere compatta la loro formazione,
sostenuti efficacemente dal fuoco dei cannoni francesi e dalle cariche
reiterate della cavalleria pesante.
PAVIA 1525. Lo scontro combattuto
il 24 febbraio 1525 segnò la netta vittoria degli imperiali Carlo V contro i
francesi di Francesco I che cade prigioniero. i Lanzichenecchi del fronte
imperiale furono protagonisti di uno scontro fratricida con i mercenari
tedeschi al soldo francese che vennero distrutti a colpi di picca e alabarda.
I Lanzi travolsero e catturarono anche parte dell’artiglieria transalpina.
GOVERNOLO 1526. Dodicimila
Lanzichenecchi guidati dall’esperto condottiero Georg von Frundsberg furono
spediti in Italia dall’imperatore Carlo V per punire papa Clemente, reo di
aver stretto l’alleanza con la Francia. Lungo il tragitto verso la capitale,
i tedeschi vennero intercettati dal condottiero Giovanni dalle Bande Nere che
ingaggiò contro gli imperiali una furiosa battaglia tra il 24 e il 25
novembre a Governolo, nel mantovano. Lo scontro si concluse con il ferimento
del capitano di ventura italiano, colpito a una gamba da un colpo di
falconetto: nonostante l’amputazione dell’arto il giovane condottiero morì il
30 novembre.
IL SACCO DI ROMA 1527. Orfano del
proprio condottiero Georg von Frundsberg, colpito da un infarto, i
Lanzichenecchi penetrarono a Roma il 6 maggio del 1527 sottoponendo la città
ad un tremendo saccheggio che si concluse con un tragico bilancio: 20mila
cittadini assassinati, almeno diecimila fuggiti dall’Urbe e altri trentamila
uccisi dalla peste portata dai mercenari tedeschi. L’occupazione di Roma
segnò il declino dell’Italia e l’umiliazione della Chiesa. L’esercito
imperiale responsabile del sacco non era composto soltanto da tedeschi, ma
anche da italiani e spagnoli, i quali non si risparmiarono in crudeltà ed
eccessi.
saccheggio di Roma di Benvenuto Cellini
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LA FORZA DEL GRUPPO. La presenza dei
Lanzichenecchi, come dei picchieri svizzeri, divenne una costante sui campi di
battaglia rinascimentali e cambiò radicalmente l’arte della guerra, anche da un
punto di vista culturale: all’ardimento del singolo cavaliere medievale si
sostituì la disciplina del gruppo di soldati, il cui valore non risiedeva tanto
nelle qualità individuali, quanto nella loro somma. Perché questo tipo di
tattica risultasse efficace, infatti, era necessario che i Lanzi fossero in
grado di formare velocemente un quadrato compatto e, una volta raggruppati, che
gli uomini evitassero di ostacolarsi a vicenda e rispondessero prontamente agli
ordini con assoluta disciplina. A questo scopo vennero introdotti sui campi di
battaglia pifferi e tamburi capaci con il loro suono di levarsi sopra il
canglore delle armi e coordinare i movimenti della truppa, scandire i ritmi
dello scontro e assecondare le necessarie evoluzioni dello schieramento. Per lo
stesso motivo, nacque la figura dell’ufficiale “basso”, del sergente che
fungesse da collegamento tra gli alti graduati e la truppa, provvedendo
all’immediata esecuzione degli ordini. Dalla velocità di formazione del
quadrato, dai suoi movimenti e dalla sua tenuta quanto caricato dipendeva,
infatti, la sopravvivenza del gruppo e ai sergenti toccava il compito di
evitare che singole negligenze o indiscipline potessero mettere a repentaglio l’esito
dello scontro. La catena di comando così completata comprendeva un capitano, da
cui dipendeva in genere la “bandiera” (Fhanlein), l’unità tattica più piccola
nella quale venivano inquadrati i Lanzi, formata dai 300 ai 500 uomini, più
bandiere, andavano a costituire un reggimento al comando di un colonnello
(Obrist) che il più delle volte corrispondeva alla figura dell’impresario
responsabile dell’arruolamento per conto del signore di turno intenzionato a
muovere guerra. Lo stato maggiore a disposizione del colonnello prevedeva oltre
al suo luogotenente e alle guardie del corpo, alcune figure amministrative come
scrivani, furieri, interpreti, addetti agli alloggi e alle salmerie. Ma al
seguito delle milizie tedesche trovava posto una vera e propria comunità nomade,
stipata su una lunga teoria di carriaggi, vi erano le famiglie dei soldati,
mercanti e avventurieri, ragazzi e molte donne, le vivandiere ufficialmente
addette alla cucina, ma non di rado anche prostitute, e poi barbieri e
cappellani. La vastità del numero dei civili in marcia imponeva una figura
responsabile (Trossweibel), pagato profumatamente per svolgere un compito
tutt’altro che facile. Il Reggimento aveva anche un “prevosto” (Profoss),
pubblico accusatore e contemporaneamente esecutore delle sentenze, mentre per i
reati più gravi era istituita una giuria composta da 41 soldati. Questa assise
popolare è soltanto uno degli esempi della gestione allargata che
contraddistingueva, almeno agli inizi, l’organizzazione militare dei
Lanzichenecchi. Anche l’ultimo fantaccino aveva diritto di voto all’interno
dell’Assemblea che nominava dei propri rappresentanti (messi) per discutere con
il reclutatore di ogni aspetto dell’ingaggio, dalla retribuzione fino alla
tattica da tenere in battaglia. Una gestione democratica della vita militare in
linea con la natura anomala di queste milizie, composte di mercenari che
avevano scelto la guerra come mestiere, senza sposare idealmente nessuna causa,
e che intendevano marcare questa mantenuta libertà partecipando alle decisioni
dalle quali dipendeva, spesso, anche la pripria sopravvivenza. Libertà che con
il tempo venne gradualmente compressa, a partire dal contratto che vincolava i
soldati al signore, agli inizi oggetto di un vero e proprio mercanteggiamento,
successivamente sempre più standardizzato e chiuso alla contrattazione; mentre
la vita stessa dei Lanzi divenne sempre più disciplinata da regolamenti e venne
allargandosi la distanza tra l’umile soldato e i suoi ufficiali. Un richiamo all’ordine figlio della sempre
maggiore specializzazione di questi fanti – tanto gli Svizzeri quanto i
Tedeschi – che avevano sviluppato un sistema di combattimento così efficace da
essere richiestissimi e lautamente compensanti da sovrani e principi di tutta
Europa. Ebbe il loro periodo d’oro a partire dalla conquista della Lombardia da
parte di Luigi XII di Francia nel 1500, quando le successive mire dello stesso
sovrano sul regno di Napoli scatenarono
la lunga serie di conflitti per la supremazia nella Penisola (Guerre d’Italia),
e per oltre un quarto di secolo nessun esercito in campo volle rinunciare alla
forza d’urto garantita dalle milizie mercenarie. Le formazioni di picchieri
resteranno in campo fino alla prima metà del Seicento, messe definitivamente in
crisi dall’arrivo dalle artiglieri sempre più precise e potenti, a dispetto
improvvisamente lenti e macchinosi, niente di più di un facile bersaglio.
Georg von Frundsberg, il padre dei
Lanzi.
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«Giorgio Fronspergh, affezionato alle cose di Cesare e alla gloria della sua nazione, e che due volte capitano di grosse bande di fanti era stato con somma laude in Italia per Cesare contro a' franzesi, deliberato con le facoltà private sostenere quello in che mancavano i príncipi, concitò con l'autorità sua molti fanti e col mostrare la occasione grande di predare e di arricchirsi in Italia, che, con ricevere da lui uno scudo per uno, lo seguitassino al soccorso di Cesare;....»
(Francesco Guicciardini - Storia d'Italia, lib. 17 cap. 14)
Georg von Frundsberg (Mindelheim, 24 settembre 1473 – Mindelheim, 20 agosto 1528) è stato un condottiero tedesco e comandante-riformatore dei lanzichenecchi al servizio della dinastia imperiale austriaca degli Asburgo.
Fedelissimo all’imperatore
Massimiliano I d’Asburgo prima, poi al nipote di questi, Carlo V, Georg von
Frundsberg (sotto in un ritratto), signore di Mindelheim (Baviera), convinto
della necessità di dotare l’esercito imperiale di un corpo scelto di
fanteria, contribuì alla nascita delle milizie dei Lanzichenecchi di cui
divenne comandante per i paesi meridionali dell’Impero. Considerato uno dei
più validi e crudeli capitani di ventura del Cinquecento, il nobile bavarese
passò la vita in battaglia, al comando dei suoi Lanzichenecchi, che guidò
anche nella spedizione in Italia, quella che si concluse con il sacco di
Roma. Sacchi a cui il condottiero non partecipò perché, colpito da infarto,
aveva già fatto ritorno nel suo castello in Baviera dove morì il 20 agosto
del 1528.
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Articolo
in gran parte di Mario Galloni pubblicato
Storie di guerre e guerrieri n. 21 Sprea editori. Altri testi e immagini
da Wikipedia.
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