La battaglia dei Piani
Palentini. Vincere con la riserva nascosta.
Questa strategia
astuta, adatta a ingannare il nemico e a coglierlo poi di sorpresa, è stata più
volte sfruttata con successo nel corso della storia. Nel XIII secolo si rivelò
cruciale. Per esempio, anche nella lotta tra Guelfi e Ghibellini e contribuì a
determinare il destino del Regno di Sicilia.
Non
era solo un uomo ambizioso, Carlo I d’Angiò, ma anche un abile politico. Nel
1252 papa Innocenzo IV aveva cercato di coinvolgerlo nel teatro italiano del
vasto conflitto europeo che da lungo tempo contrapponeva il papato alla
dinastia tedesca degli Hoenstaufen e divideva l’Italia: Guelfi contro
Ghibellini. Queste etichette politiche in quegli anni erano in uso nella sola
Toscana, ma oggi ci sono familiari e riassumono efficacemente i due
schieramenti: genericamente quello anti-impieriali in appoggio al papato
(guelfi) e quello filo-imperiale (ghibellini). Il papa offrì a Carlo la corona
del Regno di Sicilia, ovvero l’intero Mezzogiorno d’Italia, sottraendola a
Corrado IV Hoenstaufen, figlio del grande Federico II, scomunicato e quindi
indegno di questo onore. Nel disegno papale la mossa sarebbe servita a
sradicare una volta per tute dall’Italia l’influenza degli imperiali,
infliggendo un colo mortale ai loro sostenitori.
Carlo aveva però
rifiutato, soprattutto per l’opposizione del fratello Luigi IX, re di Francia.
Dieci anni dopo, nel 1262, un nuovo papa, Urbano IV, sottopose nuovamente
l’offerta, che questa fu accettata. Dopo la morte di Corrado IV, dal 1254
governava la Sicilia un altro figlio di Federico II Manfredi, anche lui
scomunicato dal papa per essersi autoproclamato re di Sicilia usurpando il
trono a quello che sarebbe stato il legittimo erede, suo nipote Corradino di
Svevia. Luigi IX non pose ostacoli, viste le speciali circostante, e Carlo
attraversò il Col di Tenda con un esercito di 30mila uomini, finanziato da un
altro papa ancora (l’ultimo che comparirà in questa storia), il francese
Clemente IV. Scendendo lungo la penisola si premurò di rovesciare i potentati
ghibellini che incontrava sulla sua strada, e a Benevento, il 26 febbraio 1266,
sconfisse e uccise Manfredi, conquistando con la forza il Regno di Sicilia.
Battaglia di Tagliacozzo parte battaglie tra Guelfi e Ghibellini | |||
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Scena della Battaglia di Tagliacozzo | |||
Data | 23 agosto 1268 | ||
Luogo | Piani Palentini (AQ) | ||
Esito | Vittoria angioina | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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La battaglia di Tagliacozzo, fu combattuta nei piani Palentini nei pressi di Tagliacozzo il 23 agosto 1268 tra i ghibellini sostenitori di Corradino di Svevia e le truppe angioine di Carlo I d'Angiò, di parte guelfa.
La battaglia di Tagliacozzo rappresenta l'ultimo atto della potenza sveva in Italia. La fine di Corradino segna infatti la caduta definitiva degli Hohenstaufen dal trono imperiale e da quello di Sicilia, aprendo, nel regno siciliano, il nuovo capitolo della dominazione angioina.
Carlo d’Angiò.
Nato nel 1266, Carlo d’Angiò era
il fratello più giovane del re di Francia Luigi IX. Ultimo in linea
ereditaria, non possiamo stupirci che una volta conquistato un regno tanto
prestigiose come quello di Sicilia non vi rinunciasse facilmente. E
l’ambizione fu il tratto dominante della sua personalità, insieme al rigore
di uno stile di vita quasi monacale e alla fredda determinazione in politica,
di cui diede prova sia durante la campagna militare contro Corradino sia
dopo, quando fu spietato nell’affidare al boia Corradino e tutti i capi
filo-imperiali, che riuscì a catturare. Con il tempo seppe costruirsi un
dominio enorme, esteso dalla Francia, all’Italia e ai Balcani, arrivando a
progettare la riedificazione di un impero Latino. Morì nel 1285, troppo
presto per realizzarlo, e le sue conquiste subito si sfaldarono una dopo
l’altra. Aveva saputo approfittare di ogni occasione per ampliare il proprio
dominio, aveva usato ogni mezzo per soddisfare la sua ambizione, ma non aveva
nemmeno cercato di comprendere come governare entità tanto diverse l’una
dall’altra.
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LA BATTAGLIA DI CORRADINO. La vicenda, però, non
era chiusa. Corrado, chiamato popolarmente “Corradino” per la sua giovane età
(era nato nel 1252), non intendeva e non poteva restare a guardare. In Baviera,
ad Augusta, dove risiedeva dall’età di due anni sotto la protezione dello zio
Ludovico, e in compagnia della madre Elisabetta e del secondo marito di lei,
Mainardo di Gorizia, progettava la rivincita. Lo avevano raggiunto esuli di
tutta Italia, compresi gli scampati alla sconfitta di Manfredi, che lo
sollecitavano a intervenire, garantendogli l’appoggio dei filo-imperiali
italiani. Particolare rilevanza assunse la presenza di Galvano Lancia, che dopo
essere stato stretto collaborati di Manfredi divenne anche il principale
consigliere di Corradino. Con questi uomini il giovane formò una specie di
governo in esilio: nel segno della tradizione iniziata da Federico II,
progettava di governare il proprio regno basandosi principalmente su forze e
personalità locali. Le risorse necessarie alla spedizione Corradino le racimolò
vendendo alcuni suoi possedimenti allo zio Ludovico, che non volle finanziarlo
senza una contropartita: non proprio un incoraggiamento, né segno di fiducia,
da parte di un uomo che gli aveva fatto praticamente da padre. Al momento aveva
con sé poche truppe: un migliaio di uomini tra bavaresi, svevi, franconi
comandati dal maresciallo Kropf von Fluglingen. Altre contava si sarebbero
aggiunte in Italia.
Appena avuta notizia
della spedizione, come immaginabile, papa Clemente IV scomunicò anche il
ragazzo, ormai l’unico (anche perché l’ultimo) degli Hoenstaufen ancora privo
della condanna papale, ma Corradino, incurante, rimase fermo sulla sua
intenzione di riprendersi il regno.
Dalla Baviera, la
marcia del giovane avrebbe puntato su Roma e poi, con l’esercito rinforzato
lungo la strada chiamando a raccolta i suoi sostenitori, avrebbe affrontato
Carlo in battaglia. La spedizione partì da Augusta l’8 settembre 1267,
raggiungendo il 21 ottobre la ghibellina Verona, città di cui era mangravio (titolo
nobiliare derivato dal tedesco, simile a marchese) il suo amico personale, e
alleato nell’impresa, Federico I di Baden, di tre anni più anziano di lui. A
Verona lo zio Ludovico e il patrigno Mainaro abbandonarono Corradino e
tornarono in Germania, dopo avergli consigliato un’analoga decisione.
Dall’Italia la situazione sembrava a Corradino di quanto apparisse dalla
Baviera. Tra le città lombarde, per esempio, la sola Pavia era disposta ad
abbracciare la causa degli Hoenstaufen e il papa non era minimamente
intenzionato a rivedere il proprio sostegno a Carlo d’Angiò o a ritirare la
scomunica. Da questo momento in poi le decisioni di Corradino furono fortemente
influenzate dai suoi partigiani italiani e in particolare da quelli del
Mezzogiorno.
Corradino di Svevia.
Corradino di Svevia
Nato nel l252 e rimasto orfano del
padre, il re di Germania Corrado IV, ad appena due anni, Corradino di Svevia
trascorse gran parte dell’infanzia in Bavuera sotto la protezione dello zio
Ludovico, della madre Elisabetta di Wittelsbach e del patrigno conte Mainardo
di Gorizia. Conosciamo poco di lui e del suo carattere. Aveva ricevuto una
buona istruzione e conosceva il latino. Sappiamo che era bello, e possiamo
dedurre dal suo comportamento che fosse anche molto determinato. Aveva solo
16 anni quando incontrò in battaglia Carlo d’Angiò, uomo di grande esperienza.
Condusse la parte principale della campagna senza il consiglio della sua
famiglia, che lo abbandonò a Verona per tornarsene in Germania, e questo è
indubbiamente un ulteriore indice del suo coraggio, ma anche di indipendenza
di giudizio. Non possiamo dire quanto incise la sua inesperienza sulla
sfortunata conduzione della battaglia: peraltro la sua prima, unica e anche
ultima. Certo la coalizione che guidava era troppo composita e avrebbe
richiesto un polso fermo e una autorevolezza che forse Corradino, almeno per
la sua giovane età non possedeva.
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La lezione militare delle crociate.
Molti professionisti della
guerra del Medioevo trassero importanti lezioni di tattica dalle sconfitte
subite per mano delle armate musulmane in Terrasanta. Più elastiche e mobili,
queste sapevano approfittare di ogni minimo errore e di ogni difetto delle
armate europee con il sistematico impiego di stratagemmi per lo meno
inusuali, se non del tutto sconosciuto.
Tornando in Occidente, i
guerrieri medievali non sempre fecero tesoro di quanto imparato, e non solo
per la difficoltà che all’epoca si aveva nella trasmissione delle conoscenze,
ma anche perché alcune tattiche si adattavano in realtà solo allo scenario
originario. Il contributo delle Crociate in sé furono una prova durissima per
il sistema militare feudale: eserciti abituati a combattere per brevi periodi
di tempo – settimane, al massimo pochi mesi – dovevano affrontare un viaggio
e una campagna che li avrebbe tenuti lontani dai loro feudi e dai loro
interessi per almeno un anno. Il territorio era sconosciuto e presentava
caratteristiche climatiche pesantissime e assolutamente estranee alle
popolazioni europee; la necessità di un comando unificato che dirigesse le
operazioni era resa praticamente impossibile e dalla stessa natura
dell’organizzazione feudale; la necessità di un comando unificato che
dirigesse le operazioni era resa praticamente impossibile dalla stessa natura
dell’organizzazione feudale; i problemi logistici erano immensi, sia per
quanto riguardava le campagne sul terreno sia per i collegamenti con la madrepatria.
Nonostante questo enorme carico di circostanze negative, le Crociate ebbero
luogo e l’Europa maturò nel suo complesso un’attitudine alla soluzione di
problemi che a prima vista sembrano insuperabili e costruì un sistema
militare più organizzato, in particolare a opera degli ordini religiosi e
militari: come per esempio fece l’ordine dei Templari con i suoi Statuti.
Anche l’Islam, però, aveva una lezione da imparare dall’Occidente, e fu forse
strategicamente altrettanto importante: senza il vantaggio schiacciante delle
flotte cristiane (in larga parte italiane), le Crociate sarebbero finite
ancora prima di cominciare. E gli ottomani fecero della flotta un punto di
forza per la loro espansione territoriale.
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L’INGRESSO A ROMA. Con il nuovo anno la
spedizione lasciò Verona in direzione di Pisa, dove ottenne nuovi uomini e
aiuto economico. In febbraio la guarnigione di Lucera, composta da saraceni dai
tempi di Federico II, si era ribellata a Carlo d’Angiò e resisteva assediata
dalle sue truppe: per Corradino era una buona notizia perché il suo nemico
sarebbe stato troppo impegnato per impedirgli di raggiungere Roma. In primavera
attraversò la Toscana, poi entrò nei domini papali, sfilando con le sue truppe
sotto Viterbo, dove risiedeva papa Clemente IV, ma senza riuscire a intimidirlo
e, finalmente, il 24 luglio entrò a Roma. Qui fu accolto con favore dalla
popolazione ma molto meno dalla nobiltà, che era in buona parte fedele al papa
e sostenitrice di Carlo. La rivolta dei Saraceni di Lucera gli suggerì la
strategia da seguire: avrebbe puntato sulla città pugliese per liberare la
guarnigione dall’assedio e così facendo avrebbe costretto Carlo alla battaglia.
tra l’altro, al suo esercito si era aggregato anche un contingente di quegli
stessi soldati saraceni, e quindi l’obiettivo appariva denso di positive
conseguenze militari. La strada più veloce e più semplice da percorrere sarebbe
stata la Via Latina, che passava per la Campania, ma questa era bloccata dagli
angioini. Rimaneva solo la Via Valeria che da Tivoli si inerpicava sugli
Appennini abruzzesi, e fu quindi deciso di prendere questa. Corradino lasciò
Roma il 18 agosto: ormai la sua avventura era giunta alla fase cruciale.
Carlo nel frattempo non
era rimasto inerte. A Roma disponeva di un’efficiente rete di spie, che lo
informò con largo anticipo delle intenzioni del suo avversario, tanto per
permettergli di essere in Abruzzo a inizio agosto. Nell’aspro territorio
appenninico avrebbe facilmente trovato un punto idoneo a un a battaglia che lo
vedeva in lieve svantaggio numerico: circa 4500 cavalieri per Corradino e 4000
per lui. Ma ciò di cui aveva bisogno era una battaglia decisiva, una vittoria schiacciante
che ponesse fine per sempre alle minacce contro il suo regno. Un obiettivo non
facile vista la sproporzione di forze.
Ad aiutarlo a ottenerlo
era giunto da poche settimane dalla Terrasanta, dove aveva combattuto a difesa
di Acri, un amico di lunga data della famiglia reale francese: Alardo di
Valéry, veterano di molte guerre e stimato consigliere militare. Fu con il suo
apporto che Carlo progettò la battaglia che di lì a poco avrebbe deciso il
destino del suo regno e non solo quello.
Il
protagonista Alardo di Valéry.
La
fama di Erard de Valéry (italianizzato in Araldo) fu così vasta nel Medioevo
che gli valse addirittura una citazione nell’inferno di Dante (verso XXVIII,
18): “,,,E là da Tagliacozzo/ove
senz’arme vinse il vecchio Alardo”. Avendo l’età di 48 anni quando
combatté ai Piani Palateni, non era poi così vecchio, ance per gli standard
medioevali. Sicuramente, invece, poteva vantare una rimarchevole esperienza militare:
al suo attivo la partecipazione a grandi eventi bellici, tra cui la Crociata
in Egitto (la settima, 1248-1254), la Guerra di successione fiamminga
(1244-1254), la Crociata in Tunisia (l’ottava, 1270) e la difesa di Acri in
Terrasanta fino al luglio del 1268, poco prima di raggiungere Carlo in
Italia. La tattica che suggerì a quest’ultimo risente indubbiamente delle
esperienze maturate (e delle lezioni ben assimiliate) nelle guerre contro i
mussulmani, in particolare la strategia della finta rotta associata con un
aggiramento, impiegata per esempio dal Saladino con successo alla battaglia
dei Corni di Hattin nel 1187.
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Un piano in tre mosse.
La battaglia dei Piani Palatini,
detta anche di Tagliacozzo (23 agosto 1268), fu una di quelle che più influì
sul corso della storia d’Italia. Segnò la fine del potere degli Hohenstaufen
nella penisola, inflisse un pesante colpo alle speranze dei partigiani
imperiali, diede inizio al dominio angioino nel Mezzogiorno. La vittoria di
Carlo I d’Angiò fu indubbiamente dovuta al piano di battaglia architettato
dal suo esperto stratega Alardo di Valéry. Alardo, anziano uomo d’arme e
veterano delle crociate, voleva dare al suo re una vittoria decisiva, ma era
ben conscio che l’inferiorità numerica delle truppe angioine rispetto a
quelle di Corradino poteva rispetto a quelle di Corradino poteva essere
compensata solo da un piano di battaglia molto ben studiato. Fu la
conformazione frastagliata e boscosa del territorio dei Piani Palatini a
suggerire al cavaliere francese e boscosa del territorio dei Piani Palatini a
suggerire al cavaliere francese la possibilità di ricorrere allo stratagemma
della riserva nascosta, per la possibilità di trovare nella zona abbandona di
luoghi in cui occultarla. Mediante una riserva nascosta, infatti, si
ottengono due scopi immediati: ci si garantisce un elemento di manovra di cui
il nemico non è a conoscenza e, contemporaneamente, lo si confonde sulla
reale entità delle proprie truppe. Lo studio del terreno per il suo proficuo
utilizzo tattico è dunque il principale caposaldo di questo piano di
battaglia: l’arrivo anticipato ai Piani Palatini dell’armata angioina servì
appunto a permettere ad Alardo e a Carlo d’Angiò una meticolosa ricognizione.
Gli stessi Piani Palatini, in questo modo, sarebbero stati la chiave della
vittoria.
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LA SCELTA DEL LUOGO.
La sorpresa è uno dei
principi cardine dell’arte militare e, nascondendo una riserva, gli angioini
volevano appunto prendere di sorpresa in modo decisivo l’armata di Corradino
per portarla alla completa disfatta. Stabilito il luogo più opportuno per
l’occultamento, ci si doveva garantire che il nemico cadesse nell’inganno. La
prima misura adottata da Alardo fu lo schieramento scaglionato delle
formazioni, perché costrinse i nemici a uno schieramento speculare, e quindi
a esporre in posizione avanzata il fianco bersaglio dell’attacco della
riserva nascosta. Dalla collocazione di quest’ultima dipese la scelta della
stessa posizione di schieramento dell’armata angioina.
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INGANNARE IL NEMICO.
A ulteriore garanzia della
riuscita dello stratagemma, venne sacrificata la vita di Henry de Cousances,
che con coraggio indossò le insegne reali e sfidò temerariamente il nemico
cercando e ottenendo la morte per illuderlo di aver vinto un una battaglia
che invece era ancora tutta da combattere. Probabilmente la battaglia sarebbe
stata ugualmente vinta ricorrendo semplicemente a una finta rotta, espediente
usato spesso in unione con una riserva nascosta. Tuttavia il sacrificio di
Henry de Cousances servì indubbiamente a dare maggiore cedibilità all’intera
operazione e sbilanciare e disordinare il nemico.
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IL TEMPO GIUSTO.
La fase più delicata
dell’operazione, però, è proprio quella finale: la scelta del momento in cui
far uscire la riserva dal suo nascondiglio. Un’azione anticipata potrebbe far
mancare completamente l’effetto sorpresa, una troppo ritardata consegnerebbe
solo un successo parziale. La finestra temporale per intervenire è stretta, e
il colpo d’occhio di chi è al comando della riserva è il vero fattore
decisivo. Indubbiamente la tattica della riserva nascosta nella battaglia dei
Piani Palentini fu adottata in modo complesso eppure impeccabile e l’effetto
sulle impetuose truppe di Corradino non avrebbe potuto essere più devastante.
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UN’AMARA SORPRESA. Il 23 agosto 1268 Carlo
e Corradino si incontrarono ai Piani Palentini tra Magliano dei Marsi e
Avezzano: per la cronaca, oggi l’autostrada A25 scorre poco a nord del campo di
battaglia. i due eserciti si fronteggiavano sulle opposte rive di un ruscello che,
scendendo verso sud dal monte Velino, si gettava nel fiume Imele: Corradino di
fronte a sé vide due sole formazioni di cavalleria in posizione lievemente
sfalsata l’una rispetto all’altra, e il vantaggio numerico di almeno 3 a 2 lo
rassicurò sull’esito dello scontro imminente. Alla sua destra, al centro della
formazione nemica più avanzata, poté vedere Carlo ostentare le proprie insegne,
pronto alla lotta. era solo illusione: in realtà chi indossava le insegne di
Carlo era il cavaliere Henry de Coiusances, per ingannare gli avversari mentre
Carlo guidava personalmente 800 tra i suoi migliori cavalieri nascosti tra le
colline.
Le schiere imperiali
attraversarono il ruscello senza che gli angioini opponessero resistenza e
quindi attaccarono impetuosamente. La superiorità numerica degli imperi si fece
valere e Carlo (o meglio Henry) venne abbattuto. Le sue truppe
indietreggiarono, evidentemente scoraggiate dalla perdita del loro capo.
Sembrava finita, ma Carlo e la sua riserva nascosta emersero dal nulla e colpirono
alle spalle gli avversari, ormai stanchi e disordinati: stretti tra due fuochi,
ne fecero strage. Corradino riuscì a fuggire insieme all’amico Federico di
Baden. Giunti sulla costa tirrenica presso Anzio i due giovani furono traditi e
consegnati a Carlo, che li decapitò a Napoli, nuova capitale del suo regno.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato su guerre Anthology n. 1 di Storie di Guerre e
Guerrieri, altri testi e immagini da wikipedia.
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