martedì 30 ottobre 2018

Le vestali, le madri di Roma, le sacerdotesse più venerate.


Le vestali, le madri di Roma, le sacerdotesse più venerate.

RECLUTATE QUANDO ERANO ANCORA BAMBINE, LE SACERDOTESSE DI VESTA RIMANEVANO IN CARICA TRENT’ANNI. ERANO IL MODELLO DELLA MATER FAMILIAS, ANCHE SE RISPETTO ALLE ALTRE DONNE, ERANO

la vestale maxima. era la sacerdotessa più importante di Roma e aveva la responsabilità di sorvegliare le altre.
Marco Licinio Crasso era uno dei più ricchi e potenti cittadini romani del I secolo a.C. Eppure perse quasi tutto quando venne accusato di essere troppo intimo con la vestale Licinia. Questa non p una storia romantica: Crasso voleva sedurre Licinia per riuscire a mettere le mani su una villa che le apparteneva. Crasso fu assolto ed entrambi ebbero salva la vita. Uno degli elementi sorprendenti di questa storia è il fatto che Licinia avesse delle proprietà, dato che nella Roma antica non era una pratica comune per le donne possederne. Ma non è una circostanza casuale: Licinia aveva il diritto di avere proprietà proprio perché era una vestale. La storia del suo processo dimostra anche il fatto che questa prerogativa avesse un prezzo: una vestale doveva rimanere vergine. Il calendario dell’antica Roma era segnato da numerose festività religiose, che venivano officiate da un’ampia varietà di sacerdoti: pontefici, auguri, flamini, feziali, salii… Ma a Roma c’era anche un sacerdozio di esclusiva competenza femminile: quello consacrato alla dea del focolare, Vesta (l’equivalente della greca Estia). Le sacerdotesse vestali, e in parte la Vestalis maxima, la più eminente di loro, erano le matrone di stato per eccellenza, modello di ogni mater familias. La loro carriera iniziava tra i sei e i dieci anni, quando le bambine erano captae, cioè arruolate, dal pontefice massimo. Il verbo capio significa prendere o rapire, retaggio dell’arcaico rapimento vero e proprio della sposa. Le sacerdotesse erano selezionate all’interno delle migliori famiglie romane: dovevano essere libere per nascita, patrizie (nei primi secoli), con i genitori in vita, il padre residente in Italia ed esenti da imperfezioni fisiche. Vi erano alcuni impedimenti, poi, legati all’appartenenza a gentes in cui fossero presenti personaggi con determinati incarichi politici o religiosi. Le vergini venivano investite del ruolo durante una cerimonia pubblica, attraverso una formula rituale pronunciata dal pontefice massimo e rimanevano in carica per trent’anni. Durante questo periodo avevano appunto l’obbligo di rimanere vergini.
Il ruolo delle sacerdotesse vestali non era solo religioso, ma anche politico. A Roma l’intera organizzazione collettiva e statale era vista come un’emanazione della famiglia: lo stato era concepito come un’unica grande stirpe che comprendeva tutti i lignaggi della città, le cosiddette gentes. Ecco perché al centro di Roma ardeva un fuoco sacro, in analogia con l’organizzazione della domus, che gravitava attorno a un focolare originariamente situato nell’atrio (termine che deriva dal lativo ater, “scuro”a causa del fumo, anche se questo ambiente divenne in seguito una specie di cortile interno). Il fuoco sacro della città era ospitato nel tempio di Vesta, dove le sacerdotesse della dea erano incaricate di custodirlo. Il parallelismo tra lo stato e la famiglia spiega anche le similitudini esistenti tra il comportamento delle vestali e quello delle donne che si ispiravano all’ideale della matrona romana.


il culto delle vestali 

Un culto millenario.

717-674 a.C. le fonti classiche fanno risalire la fondazione dell’ordine delle vestali al re Numa Pompilio, che consacra le prime quattro sacerdotesse di Roma.
578-534 a.C. Servio Tullio aumenta due unità il numero delle vestali, che resteranno sei per tutta la successiva storia dell’ordine sacedortale.
I secolo a.C. circa il processo di selezione delle vestali inizia a cambiare. Con la Lex Papia non è più il pontefice massimo a sceglierle direttamente, ma vengono estratte a sorte tra venti fanciulle durante una riunione (contio).
391 d.C. L’imperatore Teodosio proibisce i culti e i rituali pagani e fa chiudere il tempio di Vesta. La fiamma sacra viene spenta (forse dallo stesso imperatore) e le ultime vestali sono esonerate dal servizio.
I vantaggi di essere vestali.
Nonostante gli stretti doveri connessi alla funzione sacerdotale, le vestali godevano di maggiori privilegi rispetto alle altre donne romane. Oltre a ricevere una cospicua indennità statale, erano affrancate dalla patria podestà e dalla tutela di fratelli, mariti e figli, cui invece erano soggette le donne comuni.
Le vestali potevano poi fare testamento (inoltre custodivano quelli degli altri cittadini), testimoniare senza giuramento ai processi e amministrare autonomamente i propri beni. Se le sacerdotesse si imbattevano per strada in un condannato a morte, potevano chiedere la grazia in suo favore.
Durante le apparizioni pubbliche erano trattate con il massimo rispetto: avevano diritto alla protezione dei littori – i funzionari pubblici incaricati di scortare i magistrati più importanti di Roma – e si spostavano per la città sul carpentum, un elegante carro a due ruote che veniva usato in occasioni solenni.



SPOSATE CON LO STATO. La stretta relazione tra sacerdotesse e matrone è evidente nell’aspetto delle une e delle altre: moglie e madri romane dovevano essere immediatamente riconoscibili dal loro abbigliamento in quanto donne honestae, e così anche le vestali. Inoltre, allo stesso modo in cui la novella sposa abbandonava l’abitudine dei capelli sciolti, alle vestali i capelli venivano recisi in un rito pubblico, per poi essere appesi a un alberto, forse un loto. Ancora, queste due tipologie femminili erano accumunate dalla vitta crinalis, una benda o nastro che aiutava a tener ferma la pettinatura. Anche la divisione dei calli in sei ciocche o trecce, i seni crines posti sul capo delle vestali dopo la tonsura rituale (sulla cui forma e concetto tanto hanno disquisito storici e archeologi°), fu usuale anche per le matrone. Era identico perfino l’uso della stola, veste lunga fino ai piedi, annodata in vita con un particolare nodo detto erculeo per le vestali. L’elemento distintivo era il suffibulum, un lembo di stoffa quadrangolare posto sul capo durante i sacrifici per le vestali, mentre alle spose spettava il flammeum, il velo nuziale arancio-rosso, colore simbolo del matrimonio anche per la sua affinità con quello del fuoco, che risplendeva nelle case e nel tempio di Vesta. Perfette donne di casa – sia che quest’ultima fosse la domus privata per le donne maritate o la casa di Roma, cioè l’aedes Vestae per le vestali – dovevano osservare gli antichi usi e costumi delle romane, cercando di evitare nel modo più assoluto di uscire dal solco della tradizione: per i romani la trasgressione femminile era una colpa tremenda, punita severamente. Anche le sacerdotesse avevano obblighi precisi. Il primo era quello di fare in modo che il fuoco di stato non si estinguesse mai a parte lo spegnimento rituale, voluto, del 1° marzo, primo giorno dell’anno romuleo. Il secondo, custodire nella parte più intima del tempio della dea (penus) alcuni talismani segreti e preziosissimi, tra cui un fallo sacro, il fascinus, beneaugurante come quelli all’esterno dei negozi di pompei. Nel penus erano conservati anche i penati di Roma, e forse il Palladio – la statua di Pallade Atena che Enea, fuggito da Troia, aveva portato con sé in Italia e che garantiva la protezione degli dei. Infine, le vestali dovevano realizzare la mola salsa, una preparazione a bvase di farro e sale utilizzata tre volte all’anno durante le feste ufficiale e la muries, condimento sacro cotto in forno, sempre di uso rituale.


Cerimonie per sole donne.
Le Vestali intervenivano nelle celebrazioni ufficiali, come le lupercalia (festività connesse alla fertilità), le Vestalia, dedicate alla dea Vesta, e l’Epulum lovis, in onore di Giove, durante la quale le sacerdotesse preparavano la mola salsa, un alimento sacro a base di farro e sale. Ai primi di dicembre le vestali partecipavano anche ai misteri notturni della Bona Dea, divinità per eccellenza della salute femminile. Assolutamente interdetti agli uomini, questi riti segreti si celebravano in casa del magistrato cum imperio della città ed erano diretti da sua moglie, che veniva aiutata dalle vestali. Non si sa molto di queste celebrazioni segrete, ma si ritiene che fossero originariamente legate all’agricoltura. 
 Il tempio e la casa delle vestali.

Resti della Casa delle Vestali nel Foro Romano

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Il cortile centrale della Casa delle Vestali.

Le sei vestali incaricate del culto della dea Vesta vivevano in una grande casa a pianta rettangolare situata nel foro romano, l’atrium vestae. L’edificio era disposto su tre piani di 50 stanze ciascuno. Al centro si apriva un ampio cortile allungato di 69 metri di lunghezza, decorato con le statue delle donne che avevano ricoperto la carica di vestale massima. Sul lato orientale del complesso c’era un’edicola sostenuta da colonne ioniche che si ritiene contenesse la statua di Vesta. Nello stesso settore sorgeva il tempio della dea, dove le sacerdotesse custodivano il fuoco sacro. Si trattava di un edificio circolare (tholos) circondato da venti colonne corinzie e al cui interno era probabilmente conservato il Palladio, la statua di Pallade Atena che il principe troiano Enea aveva portato con sé dalla patria in fiamme.  

Ricostruzione grafica da Christian HülsenIl Foro Romano. Storia e Monumenti, Roma 1905


PUNIZIONI ESEMPLARI. Donne di casa e vestali si somigliano anche nella durezza delle punizioni che ricevevano. Il diritto romano prevedeva vari tipi di punizioni per le mogli che non mantenevano un comportamento onorevole, come il ripudio o il divorzio. Nel caso delle vestali i castighi erano molto più severi dato che, secondo la mentalità romana, la loro trasgressione avrebbe certamente compromesso il buon andamento dello stato. se una vestale lasciava che il fuoco sacro di Roma si spegnesse, veniva meno al suo compito originario di custodire la casa, il primo dovere di ogni donna sposata. La punizione in casi simili era la fustigazione, che veniva inflitta in un luogo appartato e sul corpo coperto, per rispetto nei confronti del suo pudore verginale.
Ancora più grave era la violazione dell’obbligo di castità. La relazione sessuale tra una vestale e un uomo veniva definita incestum, un termine che diventa comprensibile solo se si considera che le vestali erano ritenute le madri di ogni cittadino romano. Qui era la virtù matronale a essere violata, il casta fuit con cui erano elogiate le donne defunte, e la castità di una vestale valeva molto di più!
La sanzione fu terribile a partire dagli ultimi re etruschi e consisteva nel venire sepolta viva nel cosiddetto Campus Sceleratus, a Roma, presso porta Collina (attuale area di via XX Settembre). La punizione fu inflitta per prima a Pinaria, forse personaggio leggendario dell’epoca di Tarquinio Prisco. Il pontefice massimo, contraltare pubblico del pater familis privato, aveva il potere indiscusso di giudicare e punire le vestali ree, poiché erano parte del collegio pontificale che lui dirigeva. È degno di nota osservare che tale luogo del supplizio fosse collocato entro il pomerium di Roma – contro ogni regola giuridica – e che alla vestale non era torto un capello. Ciò si spiega con la sacralità delle sacerdotesse, che non potevano essere uccise perché appartenenti agli dei. Il complice uomo, invece, misero essere soltanto umano, veniva fustigato a morte, nudo, nel foro.
Pagarono amaramente l’appagamento del loro desiderio sessuale, ad esempio, Opimia, che frequentò addirittura duo uomini secondo le accuse, Minucia denunciata da uno schiavo, o Cornelia, accusata da Domiziano. Tutte furono mandate a morte defossa viva.
Quando l’ufficio trentennale della vestale si concludeva (undici anni da apprendista, dieci come custode del fuoco e dieci come formatrice delle giovani) – pur avendo un’età decisamente avanzata per i tempi e considerato il fatto straordinario che restava comunque priva della tutela maschile – la ex sacerdotessa poteva addirittura sposarsi. Dunque, finché era in servizio prevaleva il suo dovere verso la patria. Invece, cessata la carica poteva diventare una sposa qualunque; testimonianza ulteriore dello stretto legame tra le mogli e le ex vergini sacre. In un’antica cerimonia di cui si sa poco, le vestali si rivolgevano alla massima autorità religiosa di Roma, il rex sacro rum, così: “allora, re, vigili o no sullo stato?”. Il tono familiare, molto simile a quello di una moglie verso il marito, ben illustra l’analogia esistente tra le antiche vestali e le matrone romane.

Candidate involontarie.
Dapprima le vestali erano scelte dai re di Roma, poi dal rex sacrorum, ovvero colui il quale ereditò le funzioni religiose dei re per l’articolazione sempre più precisa dei compiti di governo, e infine, a partire dall’età repubblicana, dal pontefice massimo. Le bambine con le caratteristiche giuste per diventare vestali erano captae (prese, rapite) dal pontefice massimo e chi veniva scelta era come una “prigioniera di guerra”. Dunque un atto di forza. La volontà delle candidate non era tenuta in conto, trattandosi, appunto, di bambine ancora inconsapevoli. E le famiglie? C’erano quelle che ambivano al sacerdozio per le proprie figlie, come le due che offrirono in contemporanea a Tiberio le proprie figlie per sostituire l’anziana vestale Occia, e quelle che, al contrario, esitavano, per cui Augusto in persona dovette assicurare che avrebbe dato sua nipote se lei avesse avuto l’età giusta per divenire vestale. 

Sepolte vive: il tragico destino delle vestali.
gli storici antichi menzionano vari casi di vestali accusate di immoralità e sepolte vive nel Campus Sceleratus.
Oppia (483 a.C.).
Nella sua opera Antichità romane lo storico e retore greco Dionigi di Alicarnasso narra del castigo che venne inflitto alla vestale Oppia per aver offeso gli dei: “Tutto indicava, secondo quanto rivelarono gli indovini e gli interpreti di prodigi, che alcuni si sentivano disonorati perché le loro cerimonie erano compiute senza purezza né devozione (…). Qualcuno denunciò che una delle vergini che custodivano il fuoco sacro, di nome Oppia, aveva perso la verginità e stava contaminando i rituali (…). I pontefici le tolsero i nastri dalla testa e la condussero in processione attraverso il foro, quindi la seppellirono viva dentro le mura, e i due uomini condannati per lo stupro furono pubblicamente fustigati a morte. Successivamente, i presagi e gli auguri furono nuovamente favorevoli”.
Minucia (337 a.C.)
Nella storia di Roma dalla sua fondazione Tito Livio narra il caso di Minucia, ritenuta colpevole di vestirsi in modo improprio e di condurre uno stile di vita lussuoso. “Quell’anno la vestale Minucia, sospettata in prima istanza per un abbigliamento non adeguato alla posizione occupata, e poi accusata di fronte ai pontefici in base alla testimonianza di un servo, venne costretta, da un decreto pontificale ad astenersi dai riti sacri e a tenere sotto la sua potestà gli schiavi. Processata e condannata, fu sepolta viva nei pressi della porta Collina, a destra della strada lastricata nel campo Scellerato (il cui nome credo derivi dalla trasgressione al voto di castità perpetrata dalla vestale)”. 
Colpa e innocenza delle altre vestali.
471 a.C.
Urbinia è accusata di aver perduto la verginità. Uno dei due uomini ritenuti responsabili si suicida, mentre l’altro viene giustiziato. La vestale viene flagellata e poi sepolta viva. 
271 a.C.
Caparronia è condannata per incestum, ma si suicida impiccandosi con una corda. Secondo Orosio, l’uomo che l’ha corrotta e il suo complice vengono entrambi giustiziati.
216 a.C.
Opimia e Floronia sono ritenute responsabili di aver rotto i voti, fatto considerato di cattivo auspicio per Roma, sconfitta da Annibale a Canne. Floronia si suicida prima di essere sepolta viva.
73  a.C.
Fabia (sorrelastra di Terenzia, moglie di Cicerone), è accusata di avere relazioni sessuali con Catilia. I due sono difesi da Catone, Pisone e Catulo e vengono assolti.
83 d.C.
Domiziano accusa tre vestali – Varonilla e due sorelle entrambe di nome Oculata – di avere avuto rapporti sessuali, ma gli consente di scegliere come morire.
220 d. C.
Giulia Aquilia Severa è violentata dall’imperatore Eliogabalo, che la sposa per avere da lei dei figli degni di un dio. La vestale diventa così imperatrice.  

Articolo in gran parte di Elda Biggi storica del mondo romano antico pubblicato su Storica National Geographic del mese agosto 2018. Altri testi e foto da Wikipedia.

domenica 28 ottobre 2018

La battaglia di Meloria (1284)


La battaglia di Meloria (1284)

Da molti ritenuto il più imponente scontro navale del medioevo vide contrapporsi le flotte genovesi e pisane, in lotta per contendersi il ricco commercio marittimo.

Al culmine di due secoli di continue lotte sui mari combattute con le armi della guerra di corsa e la razzia delle coste, giunte ormai all’apice della propria potenza politica, Genova e Pisa si scontrarono il 6 agosto del 1284 presso le secche della Meloria, una zona di bassifondi e rocce affioranti al largo del Porto Pisano (oggi interrato e situato alla periferia nord di Livorno) in quella che molti storici ritengono che sia stata la più grande battaglia navale del Medioevo. Duecento anni prima le due città avevano condiviso e vinto la comune guerra contro Mujahid al-Amiri, il pirata mussulmano conosciuto in Italia con il nome di Musetto, che aveva tentato la conquista della Sardegna. Ma da allora le flotte pisane e genovesi avevano ripreso a rivaleggiare nel braccio di mare racchiuso tra le coste ligure e toscane e quelle della Sardegna e della Corsica. In palio c’era il predominio sul commercio navale e in quest’ottica le due isole maggiori, il cui controllo di per sé garantiva ingenti dazi portuali, funzionavano da naturale protezione dei rispettivi traffici marittimi verso l’Africa e l’Oriente.
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                                                                      La Torre della Meloria



LIQUIDARE GENOVA. Nel XIII secolo l’orizzonte dei marinai e dei mercanti italiani si era fatto infinito. Il traffico di sete e spezie aveva spinto le Repubbliche marinare a fondare colonie in Oriente, ma quello pisano si era ristretto a causa della costituzione dell’Impero latino d’Oriente (1204, a seguito della Quarta Crociata), appoggiato da genovesi e veneziani, che contrasse non poco i commerci della città toscana. Stretta tra l’aggressività via terra di Lucca e Firenze e quella genovese sul mare, Pisa si trovò nella necessità di trovare nuovi spazi alla sua espansione, un’urgenza che imponeva di liquidare la potenza della Superba. Dal canto suo, Genova partiva invece da una situazione di vantaggio: padrona dell’intera Liguria, non aveva nemici in terra e poteva concentrarsi interamente sul mare.
Il casus belli che riaccese il conflitto viene fatto risalire alla decisione di un signorotto della Corsica, tale Simoncello di Cinarca, il quale, volendosi sottrarre al controllo di Genova, scelse la protezione pisana facendosi vassallo della repubblica Toscana. Uno sgarbo che indusse la superba a far valere le proprie ragioni e a scatenare la guerra sui mari. In realtà esistevano tanti precedenti da vendicare. Nel 1241 i genovesi erano stati sconfitti dall’esercito pisano e da quello imperiale, sotto il comando di Federico II, presso l’isola del Giglio: i liguri 2mila tra morti e feriti e 4mila prigionieri vennero condotti in catene a Napoli. Le scaramucce davanti alle coste sarde e lungo le rotte del medio Oriente erano pressoché continue, ma i genovesi sembravano avere un vantaggio importante: l’uso di carte nautiche dettagliate e precise che permettevano di evitare il cabotaggio lungo le coste. Un importante scontro avvenne ad aprile del 1284 nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de’ Mari capitano di una scorta del convoglio genovese, e una flottiglia pisana, agli ordini di Guido Zacchia, che vide la perdita di dieci galee pisane: una sconfitta bruciante per vendicare la quale Pisa affidò il comando della flotta al veneziano Alberto Morosini, già podestà (da lancio carichi di pietre fasciate di rosso che, si diceva, avrebbero dovuto essere scagliate contro il molo di Genova.



UN SEGNO DI CATTIVO AUSPICIO. Il progetto del Morosini era semplice ma efficace: neutralizzare la flotta di Benedetto Zaccaria (futuro doge di Genova) che con trenta galee si era nel frattempo data ad una guerra di corsa incrociando tra Corsica e Sardegna e interrompendo i rifornimenti pisani, tanto da ridurre la città alla fame; sconfitto il corsaro genovese, i pisani avrebbero poi portato il definitivo attacco a Genova. Con questo piano in testa, l’ammiraglio veneziano mosse dal Porto Pisano il 24 luglio 1284 facendo rotta verso la Corsica per tagliare la strada allo Zaccaria che in quei giorni si trovava in Sardegna. I pisani non potevano sapere che le spie genovesi avevano già reso edotto la Superba dei loro propositi bellicosi e che l’allarme aveva indotto i capitani del popolo Oberto Doria e Oberto Spinola a ordinare di armare in tutta fretta 58 galee e otto panfili, e che avevano inviato varie missive allo Zaccaria perché facesse immediatamente ritorno in città.
Dopo il vano tentativo di incrociare il nemico nelle acque di Albenga, Morosini veleggiò dunque verso nord-est fino a presentarsi il 31 luglio di fronte a Genova per chiamare i rivali alla battaglia. Il blitz non andò a buon fine perché le navi dello Zaccaria rientrarono alla base prima del previsto e costrinsero i pisani a disimpegnarsi facendo un lungo giro prima di riparare in città. A questo punto furono i genovesi con la flotta al completo a presentarsi di fronte al Porto Pisano. Il  6 agosto era una domenica di caldo afoso, il mare era calmo, i venti deboli, soltanto un po’ di foschia schermava l’orizzonte. Forse per questo motivo la flotta genovese fu avvistata dai pisani quando già si trovava alle secche della Meloria, ad appena sei chilometri dalla costa. Da terra si poteva scorgere soltanto la prima linea della flotta al comando di Oberto Doria: oltre alle 58 galee e otto panfili, una galea sottile di origine orientale. L’ammiraglio genovese stava al centro dello schieramento, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia; a destra si trovavano le galee della famiglia Spinola. Per trarre in inganno i pisani, il Doria aveva disposto che le trenta galee al comando di Benedetto Zaccaria rimanessero in posizione defilata, facendo abbattere gli alberi che sostenevano le imponenti galee latine, cosicché i nemici potessero valutarle in lontananza come semplici navigli d’appoggio e così, sentendosi forti dell’apparente superiorità, si convincessero ad ingaggiare battaglia. E così accadde. D’altronde il 6 agosto era per Pisa una data fausta: nel giorno dedicato a San Sisto, la città aveva sempre ottenuto grandi vittorie militari. E pazienza se quella domenica, al momento della benedizione delle navi, la croce d’argento dell’Arcivescovo di Pisa, si staccò dal pastorale: nonostante il cattivo auspicio i pisani, convinti della loro superiorità, uscirono dal porto e si prepararono alla battaglia. Al comando del podestà Morosini e dei suoi luogotenenti,  il conte Ugolino della Gherardesca e Andreotto Saraceno, le navi pisane si schierarono con una formazione in linea che copriva il braccio di mare di due chilometri e mezzo. Le navi posizionati al principio e alla fine della fila erano leggermente avanzate, così da formare un mezzo arco, disposizione speculare rispetto a quella genovese. Le tattiche dell’epoca prevedevano infatti la cosiddetta formazione lunata, che permetteva alle galee poste alle estremità, e quindi più vicine alla linea nemica, di intercettare eventuali attacchi verso l’ammiraglia, posta invece al centro dello schieramento; in tal modo potevano chiudersi a tenaglia e prendere di lato le navi attaccanti  nella parte più vulnerabile, la fiancata, che aveva in effetti la più ampia superficie esposta. Si cercava in tal modo di offrire al nemico soltanto la prua, dove era collocato lo sperone, capace di penetrare gli scafi: le battaglie si risolvevano di solito in un incontro controbordo con le galee rivali che procedevano sulla stessa linea, ma da direzioni opposte fino all’arrembaggio finale.
Alla Meloria lo scontro ebbe inizio nel primo pomeriggio e i pisani partirono subito con il piede sbagliato. Allo svantaggio del sole in faccia sommarono infatti il fastidio degli equipaggiamenti pesanti, cotte di cuoio che impedivano i movimenti e sotto il sole cocente si trasformarono ben presto in calotte opprimenti. Al contrario, gli equipaggi genovesi avevano vestiti leggeri adatti all’afa agostana che li lasciavano liberi di muoversi agilmente. Durante l’avvicinamento, le due flotte presero a lanciarsi frecce e verrettoni. Arcieri e balestrieri furono quindi i protagonisti di questa prima fase, che nelle tecniche della guerra per mare medievale, aveva l’obiettivo di provocare alle navi nemiche più danni possibili, prima dell’arrembaggio e di uccidere  ferire il maggior numero di vogatori, danneggiare le vele e sartiame e permetteva di rendere la nave nemica lenta e ingovernabile, quindi una preda più facile da conquistare. Si procedeva anche al lancio delle misture incendiare a base di pece, zolfo e canfora, e quando ci si accostava all’avversario e quando si accostava all’avversario, di sapone e calce. In questa prima fase, il tiro dei micidiali balestrieri genovesi – divenuti poi un corpo d’elite tanto che durante il Trecento molti sovrani li ingaggiarono nelle battaglie di terra – prevalse su quello degli arcieri pisani, che, per colpire, non potevano rimanere al riparo dietro i castelli o i grandi scudi pavesi e appoggiare l’arma sul parapetto, ma dovevano esporsi con tutto il corpo al tiro nemico.
Alla Meloria andò in scena uno scontro fra due concezioni opposte di intendere la battaglia navale: da un lato le lente e pesanti navi pisane, dall’altro le robuste ma agili e veloci galee genovesi; le prime con uomini ingabbiati da armamenti pesanti e gli ormai superati arcieri, le seconde con equipaggi dotati di armature leggere e dei più moderni ed efficaci balestrieri.


Affresco di Lazzaro Tavaronepresso il Palazzo Cattaneo-Adorno di Genova raffigurante i balestrieri genovesi durante la Presa di Gerusalemme
Distintisi in molte battaglie, sia a difesa della Repubblica di Genova, che come mercenari al soldo di altre nazioni, i balestrieri genovesi furono uno dei corpi scelti più celebri del Medioevo, essendo stimati e schierati in battaglia da molti eserciti.
Utilizzando la balestra, costruita dai balistai della Repubblica, i balestrieri genovesi potevano essere impiegati sia sulla terra (durante gli assedi, ma anche in battaglie campali), che durante le battaglie navali come nella battaglia della Meloria e in quella di Curzola. I balestrieri venivano reclutati da ogni parte della Liguria, e allenati nel capoluogo, dove potevano approfondire l'arte bellica in questa potente arma.

LE FASI DELLA BATTAGLIA.
FASE 1: Posizionamento delle flotte: i pisani e i genovesi si fronteggiano su due linee speculari in formazione lunata, con le navi poste alle estremità leggermente avanzate e le ammiraglie al centro della linea. I pisani schierano 72 galee i genovesi 63 e altre trenta navi che rimangono nascoste e pronte a intervenire.

FASE 2: Manovra di avvicinamento: Mentre le due linee contrapposte si avvicinano, partono lanci di frecce e berrettoni da parte di arcieri e balestrieri; segue il tiro di materiale incendiario, sapone e calce viva. L’obiettivo è quello di arrecare ai navigli nemici il massimo di danno prima dell’arrembaggio.

FASE 3: Arrembaggio: la battaglia entra nel vivo, le navi sono ormai in contatto e lo scontro si trasforma in una pluralità di duelli a due tra le galee poste al centro dello schieramento. Prosegue per ore la sfida tra l’ammiraglia genovese condotta da Oberto Doria e quella pisana al comando di Alberto Morosini.

FASE 4: Accerchiamento dello Zaccaria: Entrano in scena le trenta galee condotte da Benedetto Zaccaria che accerchiano il lato scoperto, quello sotto il comando di Andreotto Saraceno. I pisani sono colti di sorpresa e si preparano a una strenua resistenza.

FASE 5: Conquista dello stendardo e rotta dei pisani: Zaccaria muove contro l’ammiraglia pisana con due galee, tra le quali ha fatto passare una catena fissata ai rispettivi alberi. La catena investe la nave pisana e trancia l’asta che regge lo stendardo. La linea pisana si rompe e comincia una fuga disordinata. Soltanto Ugolino della Gherardesca riuscirà a riportare in porto trenta galee.
Il conte Ugolino.
Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine longobarda, della Gherardesca, che grazie alle connessioni con la casata degli Hohenstaufen godeva di possedimenti e titoli in quella regione (allora territorio della Repubblica di Pisa) e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia.


Nonostante al termine della battaglia della Meloria fosse riuscito a riportare in porto trenta galee, garantendo a Pisa il mantenimento di una seppur minima flotta, il conte Ugolino della Gherardesca non riuscì mai a cancellare dalla sua persona il sospetto del tradimento. A indignare i suoi detrattori furono alcuni comportamenti poco chiari tenuti proprio nello scontro con Genova, alla quale partecipò come luogotenente del podestà Morosini. Alcune manovre attendiste fecero nascere il sospetto che non fosse così determinato a impegnare battaglia e che soltanto il precipitare degli eventi l’avesse costretto a combattere. Accuse che non impedirono al nobile pisano di diventare podestà della città e di rimanere per molti anni un punto di riferimento nel quadro della rissosa politica toscana. Fino al tragico epilogo della morte di inedia nella torre della Muda, dove venne chiuso con i figli e i nipoti, episodio ripreso da Dante nella Commedia che eternò la fama, seppure sinistra, del conte pisano.

LA DISFATTA PISANA. La battaglia infuriava anche al centro dello schieramento, dove particolarmente cruento era il duello tra le galee del Morosini e del Doria. A risolvere lo scontro a favore dei genovesi fu l’intervento delle trenta navi dello Zaccaria, rimaste fino in quel momento in disparte, che issate le vele piombarono sul fianco pisano scoperto, quello comandato da Andreotto Saraceno, incapace di sottrarsi all’accerchiamento. Colti completamente impreparati dalla manovra nemica e ormai impossibilitati a ritirarsi, i toscani resistettero con la forza della disperazione, non più per conquistare la vittoria ma per garantirsi la salvezza. La loro resistenza ebbe fine quando lo Zaccaria si avvicinò alla capitana pisana con due galee e, stesa una catena legata ai loro due alberi, la prese in mezzo tranciandole l’asta che reggeva lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. Fu il segno tangibile della disfatta: la linea pisana si spezzò e cominciò una fuga disordinata, inseguita dai navigli dei genovesi che ne fecero strage. Soltanto la perizia di Ugolino della Gherardesca permise all’ala sinistra toscana uno sganciamento ordinato e il rientro in porto di trenta galee, le uniche che Pisa riuscì a sottrarre alla disfatta. Al calar della sera, il mare intorno allo scoglio della Meloria era rosso sangue, ingombro di cadaveri: ovunque galleggiavano remi spezzati, vele strappate e gomene recise. Altre trenta galee pisane furono catturate dai genovesi, sette vennero affondate e altrettante si incagliarono nelle secche. I pisani uccisi furono 5mila, alto ma ignoto il tributo di vite da parte di Genova, che infatti non fu in grado di forzare il Porto Pisano e prendere la città, ma ciò che arrecò più danno alla potenza di Pisa fu la cattura di oltre novemila uomini, tra cui il podestà Morosini e il figlio di Ugolino della Gherardesca. Condotti in catene a Genova, la maggior parte morirà in prigionia tanto da dover battezzare con il nome di Campo Pisano il luogo in cui furono seppelliti i loro corpi. Unitamente alla distruzione della flotta, la deportazione forzata di una così ingente parte della popolazione maschile e dell’esercito rese Pisa indifesa e la condannò a una lenta decadenza, accelerata ulteriormente dalla perdita, negli anni venti del Trecento, delle postazioni sarde per mano degli Aragonesi.

La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle VigneSan Salvatore di SarzanoSanta Maria MaddalenaSant'AmbrogioSan DonatoSan Giovanni in Borgo di PrèSan TorpeteSanta Maria di CastelloSan Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); solo dopo l'Unità d'Italia le catene furono restituite a Pisa, dove sono conservate nel Camposanto Monumentale
Altri anelli sono ancora a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia, e nel borgo di Murta, sede della chiesa di San Martino in Val Polcevera (donato alla famiglia Marcenaro).

Articolo in gran parte di Mario Galloni, pubblicato su Le Grandi battaglie navali, Sprea Edizioni, altri testi e foto da Wikipedia.   

sabato 27 ottobre 2018

Fu la RAF a vincere la guerra?


Fu la RAF a vincere la guerra?
In Inghilterra è in corso un dibattito, tutto inglese, su quale sia la forza che più fu decisiva nella vittoria contro la Germania di Hitler. È interessante anche la constatazione di come Regno Unito e USA, “cugini” e alleati, fossero divisi da una sostanziale disistima reciproca e un’acerrima rivalità.

L'aereo da caccia britannico Spitfire.

Nel 1944 l’ufficiale responsabile dell’informazione presso la delegazione permanente della Royal Air Force a Washington, un giorno riferì ai suoi capi a Londra l’opinione che gli americani avevano della Raf: “Anche volendo, non potremmo aumentare il prestigio di cui godiamo, perché il nome della RAF è noto ovunque, e negli Stati Uniti è circondato da una stima talmente elevata che a volte l’aviazione britannica viene considerata qualcosa di separato dal resto della Gran Bretagna; di separato e di superiore”. Considerando che fu indubbiamente l’Inghilterra il baluardo contro il quale Hitler dovette fermare la sua invasione, è lecito chiedersi chi tra l’esercito, la Marina e l’aviazione britannici abbia contribuito maggiormente alla resistenza all’aggressione nazista e quindi della vittoria finale nella Seconda guerra mondiale? Partendo da approfondite ricerche storiche, la risposta non lascia dubbi in proposito: è stata la Raf a fermare le mire espansionistiche di Hitler, con la sua preminenza nello scontro decisivo nei cieli d’Inghilterra. Li è cominciata la parabola discendente della Germania, che avrebbe portato alla sua sconfitta.

Winston Churcill primo ministro inglese 

DA “CUGINI DELLE COLONIE” A MAESTRI SUPPONENTI. Senza ovviamente togliere nulla ai successi e ai sacrifici della Marina e dell’esercito della Gran Bretagna, il ruolo più significativo nel conflitto, nel momento in cui Hitler stava per divorare quello che restava dell’Europa e chiudere la partita, lo hanno giocato gli uomini e le donne dell’aviazione. Lo dimostra l’analisi di vari elementi propri della Raf, tra cui l’efficienza, il senso di prospettiva, la leadership e la flessibilità concettuale e operativa. Tenendo anche conto della poca stima di cui le forze armate britanniche godevano negli Stati Uniti, ad eccezione dell’aviazione.
Quest’ultimo è un dato non trascurabile; dopo il loro ingresso in guerra, gli americani divennero rapidamente l’elemento preponderante nell’alleanza. Si presentarono alla Gran Bretagna non come “i vecchi cugini delle colonie” ma come i nuovi dominatori del mondo libero, portando con loro un’idea ben precisa di come si dovessero gestire le cose. Erano loro a valutare e decidere, questo costituiva il prezzo del loro intervento salvifico. Da tempo gli americani non ritenevano di avere granché da imparare da un Paese che stava perdendo il suo status di potenza internazionale e che, si era visto costretto a chiedere aiuto per salvare se stesso ben due volte nello spazio di una sola generazione. In altre parole, erano inclini a giudicare gli alleati britannici con sguardo severo e per nulla sentimentale, e i loro atteggiamenti spaziavano da un formale rispetto, alla condiscendenza, aperta ostilità. Ad esempio, il comandante della Marina americana Ernst King, era, secondo il giudizio di Winston Churchill, Pug Ismay, vale a dire un individuo intollerante e sospettoso verso Dwight Eisenhower, il comandante supremo degli Alleati in Europa, aveva un genere di opinioni più miti, ma nemmeno lui mancò di criticare in più occasioni i generali britannici con cui dovette collaborare, trovando particolarmente esasperante, e non a torto, l’egocentrico e insubordinato Bernard Montgomery.
Nonostante questa prevenzione di fondo però, la prima impressione che gli americani ricevettero dalla Raf fu assolutamente favorevole. Già nell’autunno del 1940, più di un anno prima di Pearl Harbor e con gli Stati Uniti in piena neutralità, il colonnello dell’aviazione militare americana Harvey S. Burwell, che si trovava assieme a una delegazione in Egitto, rimase molto ben impressionato sia dai piloti sia dal personale di terra della Raf con cui entrò in contatto, ed ebbe solo parole di lode per il loro “grandioso morale, la straordinaria pazienza e l’ammirevole coraggio”. Quando fece la conoscenza del marescialle Arthur Tedder, il capo del Comando per il Medio Oriente, e dei suoi ufficiali, si dichiarò sollevato nel constatare che “il senso di superiorità tipicamente britannico che infastidisce così tanto gli americani in realtà si vede assai di rado”.
Queste prime impressioni non mutarono con il tempo, al punto che l’ufficiale responsabile dell’informazione a Washington, nel suo rapporto del 1944, poteva affermare che persino “persino molti di quelli che non sopportano i britannici non hanno nulla da obiettare contro la Raf”. Nell’aviazione britannica gli americani vedevano le stesse qualità che valorizzavano in se stessi: energia, efficienza, senso pratico. Quando Eisenhower ricevette l’incarico di guidare l’invasione del nord-ovest europeo, scelse proprio Tedder della Raf come suo secondo in comando.

La mappa mostra le basi inglesi e tedesche e la zona coperta dai radar

GLI ERRORI DELL’ESERCITO BRITANNICO. Per quanto riguarda l’esercito britannico, invece, qualunque esame obiettivo degli eventi deve necessariamente far concludere che, nella prima fase della guerra, le forze di terra non avevano brillato sotto nessun aspetto. I suoi comandanti avrebbero potuto obiettare che la colpa era almeno in parte del Governo, che li aveva sotto-finanziati pesantemente per dare invece priorità di budget all’aviazione, ma, quale che ne fosse il motivo, i primi 10 mesi del conflitto si risolsero in una serie di disfatte, dal mal organizzato intervento in Norvegia alla vergogna di Dunkerque, ai disastro tentennamenti della campagna contro gli italiani in nord Africa, dove l’esercito britannico perse numerose ottime occasioni di prendere in mano la situazione prima dell’arrivo degli Afrika Korps di Rommel. La celebre vittoria di El Alamein del 1942 fu solo il risultato di una schiacciante superiorità numerica in termini tanto di uomini quanto di armi e veicoli, nonché l’unica occasione in cui un forza del Commonwealth riuscì da sola a sconfiggere i tedeschi in Africa. Da quel momento in poi gran parte degli sforzi dell’esercito britannico in Europa occidentale avrebbero avuto luogo in congiunzione con gli alleati americani e spesso con questi ultimi alla guida. Nelle campagne in Europa, le forze di terra britanniche ottennero risultati variabili : nella battaglia di Normandia del 1944 Montgomery impiegò sei settimane per prendere Caen, un obbiettivo fondamentale che il generale si era vantato di poter conquistare in pochi giorni. E l’operazione Market Garden del settembre 1944, che mirava ad accelerare la conquista di una seri di ponti sul Reno nei Paesi Bassi, fu un fallimento  spettacolare.
Quanto alla Royal Navy, per secoli vanto della Gran Bretagna, nella Seconda guerra mondiale non ottenne i brillanti risultati che l’Ammiragliato aveva pianificato dopo l’affondamento della Bismark, nel maggio 1941 (vedi articolo la battaglia dello Jutland su questo blog) le cose non andarono meglio, e negli scontri diretti con la Kriegsmarine i risultati furono deludenti, a dispetto dell’enorme quantitativo di uomini e mezzi servito per approntare le costosissime navi da combattimento che gli ammiragli avevano preteso.
Ciò detto, il fondamentale contributo della Marina allo sforzo bellico non può essere messo in dubbio: senza la Royal Navy, la Gran Bretagna avrebbe perso la battaglia dell’Atlantico e sarebbe stata ridotta alla resa per fame. Le sue navi furono essenziali anche nella campagna nel Mediterraneo e nell’estremo Oriente, nonché nella difesa dei convogli artici e nell’appoggio al massiccio sbarco sulle coste francesi delle forze impegnate nel D-Day. Tuttavia,  la maggior parte di questi sforzi non fu un progresso verso la vittoria ma una lotta per la sopravvivenza, che occupò per intero il tempo della Royal Navy, al punto che le navi da guerra britanniche non poterono contribuire alle campagne degli Stati Uniti nel Pacifico prima del gennaio 1945.

Operation Overlord (the Normandy Landings)- D-day 6 June 1944- Personalities CH14706.jpg

Arthur William Tedder (Glengoyne11 luglio 1890 – Banstead3 giugno 1967) è stato un militare britannicoMaresciallo dell'Aria della Royal Air Force durante la seconda guerra mondiale.

Grande esperto di tattica e strategia aerea, Tedder si distinse inizialmente sul Fronte del Medio Oriente e del Nordafrica dove guidò con grande abilità le formazioni aeree della RAF dal 1941 fino alla conclusione vittoriosa della campagna di Tunisia del 1943. Dopo aver assunto il comando supremo delle forze aeree alleate nel Teatro del Mediterraneo, venne richiamato in Gran Bretagna nel gennaio 1944 e divenne il vice-comandante in capo, sottoposto solo al generale Dwight Eisenhower, delle forze di spedizione alleate destinate all'operazione Overlord. Tedder mantenne questo prestigioso incarico fino alla vittoria sulla Germania e partecipò alla cerimonia di resa di Berlino dell'8 maggio 1945.

LA BATTAGLIA D’INGHILTERRA CAMBIO’ IL FUTURO DELLA GUERRA. Sappiamo tutti che l’avvento dell’aviazione trasformò il modo di fare la guerra in misura non inferiore all’avvento della polvere da sparo: entro il 1939 era già divenuto impossibile conseguire una qualsiasi vittoria in terra e in mare senza il sostegno di adeguate forze aeree. Anche in campo avverso, la potenza della Lutvaffe fu un elemento fondamentale per il successo del Blitzkrieg tedesco, come per contro la debolezza dell’Armée de l’Air accelerò la caduta della Francia. Dunque, per poter prendere significativamente parte al conflitto, anche la Gran Bretagna necessitva di una forza aerea adeguata. Si è spesso detto, non senza ragione, che l’estrema linea di difesa britannica contro un’eventuale invasione tedesca sarebbe stata la Royal Navy e non la Raf, ma, con la posizione di Churcill ancora tutt’altro che salda, un devastante attacco aereo preliminare avrebbe potuto causare un collasso politico tale da causare nel Paese a un accordo stile Vichy con i tedeschi, il che avrebbe reso inutile un’invasione dell’isola: la Gran Bretagna sarebbe diventata un protettorato tedesco e i giochi di Hitler si sarebbero conclusi.
Vincendo la Battaglia d’Inghilterra, la Raf conquistò un trionfo grandioso da poter confrontare con gli storici successi della Marina e dell’esercito a Trafalgar e a Waterloo. Il merito di tutto ciò va attribuito a due fattori: da un lato l’abilità a la risolutezza dei piloti del Comando caccia, e dall’altro l’organizzazione e la lungimiranza dei comandanti, che si assicurarono poter disporre non solo di ottimi piloti, ma anche di un efficiente sistema di rilevazione radar per massimizzare le risorse tecnologiche a disposizione. Va detto che all’inizio del suo coinvolgimento nella guerra, la Raf era partita male esattamente quanto la Marina e l’esercito, con svariati esempi di equipaggiamento inadeguato e pessima tattica che portarono a sacrifici umani forse evitabili. Dopo la battaglia d’Inghilterra, tuttavia, la Raf divenne l’elemento che dava maggiore sicurezza alla nazione: la sensazione che la popolazione inglese durante quegli anni bui era infatti che almeno in un settore della guerra fosse la Gran Bretagna ad avere la superiorità sui nazisti, contribuendo a combattere il pessimismo generato dalle continue sconfitte in terra e in mare. Era proprio la lungimiranza dei comandati una delle maggiori risorse della Raf. In Africa settentrionale Tedder incontrò non poche difficoltà a far capire alle sue controparti delle truppe di terra che il successo della guerra dipedneva dal riuscire a integrare il più possibile il lavoro delle due forze armate.
Ma Tedder tenne per sé le amarezze e le contrarietà e nel trattare con i colleghi fu sempre un modello di pazienza, al punto da venir citato anche in seguito come esempio perfetto di cooperazione tra settori diversi delle forze armate. Al termine delle sue operazioni in Africa, la Raf aveva creato assieme agli americani una metodologia di combattimento terra-aria che gli Alleati avrebbero continuato ad applicare nello sbarco in Sicilia. La forza schiacciante dell’aviazione si rivelò fondamentale per il successo del D-Day. Nei mesi precedenti gli squadroni di bombardieri britannici e americani avevano preparato il terreno tagliando le linee di comunicazione nemiche su strada e su rotaia, con l’intenzione di impedire il rapido arrivo di rinforzi nemici quando l’operazione fosse cominciata. A questo scopo vennero lanciate più di 3200 missioni di ricognizione fotografica. Quando le truppe di terra cominciarono ad avanzare, non dovettero preoccuparsi delle minacce dal cielo: una situazione ben diversa rispetto a quello che era accaduto a Dunkerque quattro anni prima. Questa volta la Raf ricevette solo lodi e ammirazione, mentre l’esercito si spingeva sempre più avanti coperto dai Typhoon e dagli Spitfire del reparto Secondo Avazione Tattica, azzannando i tedeschi in ritirata e aprendosi la strada verso Berlino.



I BOMBARDAMENTI, COLPO DI GRAZIA PER LA GERMANIA. Anche in Oriente la vittoria in Birmania sarebbe stata impossibile senza l’appoggio aereo, che provvide a rifornire le truppe che combattevano nel folto della giungla. E, a dispetto del ruolo gigantesco della Royal Navy nel mantenere i traffici sull’Atlantico, senza gli sforzi del Comando costiero i sottomarini tedeschi avrebbero potuto avere la meglio. In tutti questi scenari l’aviazione ebbe una parte imprescindibile, pur sempre in congiunzione con gli altri settore delle forze armate: la vittoria finale fu il risultato di uno sforzo di cooperazione. Tuttavia, c’è un’impresa che l’aviazione affrontò da sola: il bombardamento strategico del territorio tedesco. Fu più di una semplice campagna: fu la pianificazione e la messa in pratica della precisa teoria sulla guerra aerea portata avanti dai comandanti della Raf (che si adoperarono con successo per inculcarla anche nelle coscienze dei governi successivi), secondo la quale una vasta flotta di bombardieri sarebbe stata in grado di azzoppare l’industria bellica tedesca minando irrimediabilmente la capacità della Germania a sottrarre enormi risorse dal fronte russo per impiegarle sul fronte interno. In questo senso i russi furono agevolati nella loro travolgente avanzata verso Berlino.
In questa prospettiva, il successo della Raf travalica persino il suo contributo alla vittoria militare, poiché su di esso si regge il fondamento della pace duratura di cui godiamo ancora oggi.

Articolo in gran parte di Patrick Bishop, storico militare della Gran Bretagna, pubblicato su BBC History del mese di settembre 2018 altri testi e foto da wikipedia.     

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