La battaglia di Meloria (1284)
Da molti ritenuto il più imponente scontro navale del medioevo vide
contrapporsi le flotte genovesi e pisane, in lotta per contendersi il ricco
commercio marittimo.
Al
culmine di due secoli di continue lotte sui mari combattute con le armi della
guerra di corsa e la razzia delle coste, giunte ormai all’apice della propria
potenza politica, Genova e Pisa si scontrarono il 6 agosto del 1284 presso le
secche della Meloria, una zona di bassifondi e rocce affioranti al largo del
Porto Pisano (oggi interrato e situato alla periferia nord di Livorno) in
quella che molti storici ritengono che sia stata la più grande battaglia navale
del Medioevo. Duecento anni prima le due città avevano condiviso e vinto la
comune guerra contro Mujahid al-Amiri, il pirata mussulmano conosciuto in
Italia con il nome di Musetto, che aveva tentato la conquista della Sardegna. Ma
da allora le flotte pisane e genovesi avevano ripreso a rivaleggiare nel
braccio di mare racchiuso tra le coste ligure e toscane e quelle della Sardegna
e della Corsica. In palio c’era il predominio sul commercio navale e in
quest’ottica le due isole maggiori, il cui controllo di per sé garantiva
ingenti dazi portuali, funzionavano da naturale protezione dei rispettivi
traffici marittimi verso l’Africa e l’Oriente.
LIQUIDARE GENOVA. Nel XIII secolo
l’orizzonte dei marinai e dei mercanti italiani si era fatto infinito. Il
traffico di sete e spezie aveva spinto le Repubbliche marinare a fondare
colonie in Oriente, ma quello pisano si era ristretto a causa della
costituzione dell’Impero latino d’Oriente (1204, a seguito della Quarta
Crociata), appoggiato da genovesi e veneziani, che contrasse non poco i
commerci della città toscana. Stretta tra l’aggressività via terra di Lucca e
Firenze e quella genovese sul mare, Pisa si trovò nella necessità di trovare
nuovi spazi alla sua espansione, un’urgenza che imponeva di liquidare la
potenza della Superba. Dal canto suo, Genova partiva invece da una situazione
di vantaggio: padrona dell’intera Liguria, non aveva nemici in terra e poteva
concentrarsi interamente sul mare.
Il casus belli che
riaccese il conflitto viene fatto risalire alla decisione di un signorotto
della Corsica, tale Simoncello di Cinarca, il quale, volendosi sottrarre al
controllo di Genova, scelse la protezione pisana facendosi vassallo della
repubblica Toscana. Uno sgarbo che indusse la superba a far valere le proprie
ragioni e a scatenare la guerra sui mari. In realtà esistevano tanti precedenti
da vendicare. Nel 1241 i genovesi erano stati sconfitti dall’esercito pisano e
da quello imperiale, sotto il comando di Federico II, presso l’isola del
Giglio: i liguri 2mila tra morti e feriti e 4mila prigionieri vennero condotti
in catene a Napoli. Le scaramucce davanti alle coste sarde e lungo le rotte del
medio Oriente erano pressoché continue, ma i genovesi sembravano avere un
vantaggio importante: l’uso di carte nautiche dettagliate e precise che
permettevano di evitare il cabotaggio lungo le coste. Un importante scontro
avvenne ad aprile del 1284 nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de’
Mari capitano di una scorta del convoglio genovese, e una flottiglia pisana,
agli ordini di Guido Zacchia, che vide la perdita di dieci galee pisane: una
sconfitta bruciante per vendicare la quale Pisa affidò il comando della flotta
al veneziano Alberto Morosini, già podestà (da lancio carichi di pietre
fasciate di rosso che, si diceva, avrebbero dovuto essere scagliate contro il
molo di Genova.
UN SEGNO DI CATTIVO AUSPICIO. Il progetto del
Morosini era semplice ma efficace: neutralizzare la flotta di Benedetto
Zaccaria (futuro doge di Genova) che con trenta galee si era nel frattempo data
ad una guerra di corsa incrociando tra Corsica e Sardegna e interrompendo i
rifornimenti pisani, tanto da ridurre la città alla fame; sconfitto il corsaro
genovese, i pisani avrebbero poi portato il definitivo attacco a Genova. Con
questo piano in testa, l’ammiraglio veneziano mosse dal Porto Pisano il 24
luglio 1284 facendo rotta verso la Corsica per tagliare la strada allo Zaccaria
che in quei giorni si trovava in Sardegna. I pisani non potevano sapere che le
spie genovesi avevano già reso edotto la Superba dei loro propositi bellicosi e
che l’allarme aveva indotto i capitani del popolo Oberto Doria e Oberto Spinola
a ordinare di armare in tutta fretta 58 galee e otto panfili, e che avevano
inviato varie missive allo Zaccaria perché facesse immediatamente ritorno in
città.
Dopo il vano tentativo
di incrociare il nemico nelle acque di Albenga, Morosini veleggiò dunque verso
nord-est fino a presentarsi il 31 luglio di fronte a Genova per chiamare i
rivali alla battaglia. Il blitz non andò a buon fine perché le navi dello
Zaccaria rientrarono alla base prima del previsto e costrinsero i pisani a
disimpegnarsi facendo un lungo giro prima di riparare in città. A questo punto
furono i genovesi con la flotta al completo a presentarsi di fronte al Porto
Pisano. Il 6 agosto era una domenica di
caldo afoso, il mare era calmo, i venti deboli, soltanto un po’ di foschia
schermava l’orizzonte. Forse per questo motivo la flotta genovese fu avvistata
dai pisani quando già si trovava alle secche della Meloria, ad appena sei
chilometri dalla costa. Da terra si poteva scorgere soltanto la prima linea
della flotta al comando di Oberto Doria: oltre alle 58 galee e otto panfili,
una galea sottile di origine orientale. L’ammiraglio genovese stava al centro dello
schieramento, imbarcato sulla San Matteo, la galea di famiglia; a destra si
trovavano le galee della famiglia Spinola. Per trarre in inganno i pisani, il
Doria aveva disposto che le trenta galee al comando di Benedetto Zaccaria
rimanessero in posizione defilata, facendo abbattere gli alberi che sostenevano
le imponenti galee latine, cosicché i nemici potessero valutarle in lontananza come
semplici navigli d’appoggio e così, sentendosi forti dell’apparente
superiorità, si convincessero ad ingaggiare battaglia. E così accadde.
D’altronde il 6 agosto era per Pisa una data fausta: nel giorno dedicato a San
Sisto, la città aveva sempre ottenuto grandi vittorie militari. E pazienza se
quella domenica, al momento della benedizione delle navi, la croce d’argento
dell’Arcivescovo di Pisa, si staccò dal pastorale: nonostante il cattivo
auspicio i pisani, convinti della loro superiorità, uscirono dal porto e si
prepararono alla battaglia. Al comando del podestà Morosini e dei suoi
luogotenenti, il conte Ugolino della
Gherardesca e Andreotto Saraceno, le navi pisane si schierarono con una
formazione in linea che copriva il braccio di mare di due chilometri e mezzo.
Le navi posizionati al principio e alla fine della fila erano leggermente
avanzate, così da formare un mezzo arco, disposizione speculare rispetto a
quella genovese. Le tattiche dell’epoca prevedevano infatti la cosiddetta
formazione lunata, che permetteva alle galee poste alle estremità, e quindi più
vicine alla linea nemica, di intercettare eventuali attacchi verso
l’ammiraglia, posta invece al centro dello schieramento; in tal modo potevano
chiudersi a tenaglia e prendere di lato le navi attaccanti nella parte più vulnerabile, la fiancata, che
aveva in effetti la più ampia superficie esposta. Si cercava in tal modo di
offrire al nemico soltanto la prua, dove era collocato lo sperone, capace di
penetrare gli scafi: le battaglie si risolvevano di solito in un incontro
controbordo con le galee rivali che procedevano sulla stessa linea, ma da
direzioni opposte fino all’arrembaggio finale.
Alla Meloria lo scontro
ebbe inizio nel primo pomeriggio e i pisani partirono subito con il piede
sbagliato. Allo svantaggio del sole in faccia sommarono infatti il fastidio
degli equipaggiamenti pesanti, cotte di cuoio che impedivano i movimenti e
sotto il sole cocente si trasformarono ben presto in calotte opprimenti. Al
contrario, gli equipaggi genovesi avevano vestiti leggeri adatti all’afa
agostana che li lasciavano liberi di muoversi agilmente. Durante
l’avvicinamento, le due flotte presero a lanciarsi frecce e verrettoni. Arcieri
e balestrieri furono quindi i protagonisti di questa prima fase, che nelle
tecniche della guerra per mare medievale, aveva l’obiettivo di provocare alle navi
nemiche più danni possibili, prima dell’arrembaggio e di uccidere ferire il maggior numero di vogatori,
danneggiare le vele e sartiame e permetteva di rendere la nave nemica lenta e
ingovernabile, quindi una preda più facile da conquistare. Si procedeva anche
al lancio delle misture incendiare a base di pece, zolfo e canfora, e quando ci
si accostava all’avversario e quando si accostava all’avversario, di sapone e
calce. In questa prima fase, il tiro dei micidiali balestrieri genovesi –
divenuti poi un corpo d’elite tanto che durante il Trecento molti sovrani li
ingaggiarono nelle battaglie di terra – prevalse su quello degli arcieri
pisani, che, per colpire, non potevano rimanere al riparo dietro i castelli o i
grandi scudi pavesi e appoggiare l’arma sul parapetto, ma dovevano esporsi con
tutto il corpo al tiro nemico.
Alla Meloria andò in
scena uno scontro fra due concezioni opposte di intendere la battaglia navale:
da un lato le lente e pesanti navi pisane, dall’altro le robuste ma agili e
veloci galee genovesi; le prime con uomini ingabbiati da armamenti pesanti e
gli ormai superati arcieri, le seconde con equipaggi dotati di armature leggere
e dei più moderni ed efficaci balestrieri.
Affresco di Lazzaro Tavaronepresso il Palazzo Cattaneo-Adorno di Genova raffigurante i balestrieri genovesi durante la Presa di Gerusalemme
Distintisi in molte battaglie, sia a difesa della Repubblica di Genova, che come mercenari al soldo di altre nazioni, i balestrieri genovesi furono uno dei corpi scelti più celebri del Medioevo, essendo stimati e schierati in battaglia da molti eserciti.
Utilizzando la balestra, costruita dai balistai della Repubblica, i balestrieri genovesi potevano essere impiegati sia sulla terra (durante gli assedi, ma anche in battaglie campali), che durante le battaglie navali come nella battaglia della Meloria e in quella di Curzola. I balestrieri venivano reclutati da ogni parte della Liguria, e allenati nel capoluogo, dove potevano approfondire l'arte bellica in questa potente arma.
LE FASI DELLA BATTAGLIA.
FASE 1: Posizionamento delle flotte: i pisani e i
genovesi si fronteggiano su due linee speculari in formazione lunata, con le
navi poste alle estremità leggermente avanzate e le ammiraglie al centro
della linea. I pisani schierano 72 galee i genovesi 63 e altre trenta navi
che rimangono nascoste e pronte a intervenire.
FASE 2: Manovra di avvicinamento: Mentre le due linee
contrapposte si avvicinano, partono lanci di frecce e berrettoni da parte di
arcieri e balestrieri; segue il tiro di materiale incendiario, sapone e calce
viva. L’obiettivo è quello di arrecare ai navigli nemici il massimo di danno
prima dell’arrembaggio.
FASE 3: Arrembaggio: la battaglia entra nel vivo, le
navi sono ormai in contatto e lo scontro si trasforma in una pluralità di
duelli a due tra le galee poste al centro dello schieramento. Prosegue per
ore la sfida tra l’ammiraglia genovese condotta da Oberto Doria e quella
pisana al comando di Alberto Morosini.
FASE 4: Accerchiamento dello Zaccaria: Entrano in
scena le trenta galee condotte da Benedetto Zaccaria che accerchiano il lato
scoperto, quello sotto il comando di Andreotto Saraceno. I pisani sono colti
di sorpresa e si preparano a una strenua resistenza.
FASE 5: Conquista dello stendardo e rotta dei pisani:
Zaccaria muove contro l’ammiraglia pisana con due galee, tra le quali ha
fatto passare una catena fissata ai rispettivi alberi. La catena investe la
nave pisana e trancia l’asta che regge lo stendardo. La linea pisana si rompe
e comincia una fuga disordinata. Soltanto Ugolino della Gherardesca riuscirà
a riportare in porto trenta galee.
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Il conte Ugolino.
Ugolino nacque a Pisa da una famiglia di origine longobarda, della Gherardesca, che grazie alle connessioni con la casata degli Hohenstaufen godeva di possedimenti e titoli in quella regione (allora territorio della Repubblica di Pisa) e difendeva le posizioni dei ghibellini in Italia.
Nonostante al
termine della battaglia della Meloria fosse riuscito a riportare in porto
trenta galee, garantendo a Pisa il mantenimento di una seppur minima flotta,
il conte Ugolino della Gherardesca non riuscì mai a cancellare dalla sua
persona il sospetto del tradimento. A indignare i suoi detrattori furono
alcuni comportamenti poco chiari tenuti proprio nello scontro con Genova,
alla quale partecipò come luogotenente del podestà Morosini. Alcune manovre
attendiste fecero nascere il sospetto che non fosse così determinato a
impegnare battaglia e che soltanto il precipitare degli eventi l’avesse
costretto a combattere. Accuse che non impedirono al nobile pisano di
diventare podestà della città e di rimanere per molti anni un punto di
riferimento nel quadro della rissosa politica toscana. Fino al tragico
epilogo della morte di inedia nella torre della Muda, dove venne chiuso con i
figli e i nipoti, episodio ripreso da Dante nella Commedia che eternò la
fama, seppure sinistra, del conte pisano.
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LA DISFATTA PISANA. La battaglia infuriava
anche al centro dello schieramento, dove particolarmente cruento era il duello
tra le galee del Morosini e del Doria. A risolvere lo scontro a favore dei
genovesi fu l’intervento delle trenta navi dello Zaccaria, rimaste fino in quel
momento in disparte, che issate le vele piombarono sul fianco pisano scoperto,
quello comandato da Andreotto Saraceno, incapace di sottrarsi all’accerchiamento.
Colti completamente impreparati dalla manovra nemica e ormai impossibilitati a
ritirarsi, i toscani resistettero con la forza della disperazione, non più per
conquistare la vittoria ma per garantirsi la salvezza. La loro resistenza ebbe
fine quando lo Zaccaria si avvicinò alla capitana pisana con due galee e, stesa
una catena legata ai loro due alberi, la prese in mezzo tranciandole l’asta che
reggeva lo stendardo bianco con l’immagine della Vergine. Fu il segno tangibile
della disfatta: la linea pisana si spezzò e cominciò una fuga disordinata,
inseguita dai navigli dei genovesi che ne fecero strage. Soltanto la perizia di
Ugolino della Gherardesca permise all’ala sinistra toscana uno sganciamento ordinato
e il rientro in porto di trenta galee, le uniche che Pisa riuscì a sottrarre
alla disfatta. Al calar della sera, il mare intorno allo scoglio della Meloria
era rosso sangue, ingombro di cadaveri: ovunque galleggiavano remi spezzati,
vele strappate e gomene recise. Altre trenta galee pisane furono catturate dai
genovesi, sette vennero affondate e altrettante si incagliarono nelle secche. I
pisani uccisi furono 5mila, alto ma ignoto il tributo di vite da parte di
Genova, che infatti non fu in grado di forzare il Porto Pisano e prendere la
città, ma ciò che arrecò più danno alla potenza di Pisa fu la cattura di oltre
novemila uomini, tra cui il podestà Morosini e il figlio di Ugolino della
Gherardesca. Condotti in catene a Genova, la maggior parte morirà in prigionia
tanto da dover battezzare con il nome di Campo Pisano il luogo in cui furono
seppelliti i loro corpi. Unitamente alla distruzione della flotta, la
deportazione forzata di una così ingente parte della popolazione maschile e
dell’esercito rese Pisa indifesa e la condannò a una lenta decadenza,
accelerata ulteriormente dalla perdita, negli anni venti del Trecento, delle
postazioni sarde per mano degli Aragonesi.
La grande catena del porto di Pisa fu portata a Genova, spezzata in varie parti che furono appese come monito a Porta Soprana e in varie chiese e palazzi della città (chiese di Santa Maria delle Vigne, San Salvatore di Sarzano, Santa Maria Maddalena, Sant'Ambrogio, San Donato, San Giovanni in Borgo di Prè, San Torpete, Santa Maria di Castello, San Martino in Val Polcevera, Santa Croce di Riviera di Levante; ponte di Sant'Andrea, Porta di Vacca, Palazzo del Banco di San Giorgio, Piazza Ponticello); solo dopo l'Unità d'Italia le catene furono restituite a Pisa, dove sono conservate nel Camposanto Monumentale.
Altri anelli sono ancora a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia, e nel borgo di Murta, sede della chiesa di San Martino in Val Polcevera (donato alla famiglia Marcenaro).
Altri anelli sono ancora a Moneglia, borgo ligure, che partecipò con sue imbarcazioni alla battaglia, e nel borgo di Murta, sede della chiesa di San Martino in Val Polcevera (donato alla famiglia Marcenaro).
Articolo in gran parte
di Mario Galloni, pubblicato su Le Grandi battaglie navali, Sprea Edizioni,
altri testi e foto da Wikipedia.
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