lunedì 19 agosto 2019

Lavrentij Berija


Lavrentij Berija
Feroce e inflessibile, il braccio destro del dittatore soveitico fece la stessa atroce fine delle sue innumerevoli  e disgraziate vittime.
Лаврентий Берия, 1920-е годы.jpg
Negli ultimi mesi del 1953, tutti gli abbonati alla monumentale Bol’saja Sovetskaija, Enciklopedija, la Grande enciclopedia sovietica in 55 volumi, ricevettero a domicilio un plico contenente quattro pagine dell’opera e una lettera d’accompagnamento “La casa editrice sciendeija raccomanda di togliere dal 5° volume le pagine 21, 22, 23, e 24, nonché il ritratto inserito tra le pagine 22 e 23. In sostituzione, vengono fornite nuove pagine con il nuovo testo. Le suddette pagine vanno tagliate con le forbici o con una lametta da barba, lasciando vicino alla cucitura un margine a cui incollare le nuove pagine”. Le pagine da sostituire erano dedicate a Lavrentij Berija, che il vecchio testo definiva “come dei più eminenti dirigenti del Partito e dello Stato sovietico, fedele seguace e tra i più stretti collaboratori di I.V. Stalin, membro del Politbjuro del Comitato centrale del Partito, vicepresidente del Consiglio dei ministri dell’Urrs” nonché, si sarebbe dovuto aggiungere, capo dei servizi segreti sovietici. Nell’estate di quello stesso 1853 Berija era morto, per mano dello stesso partito che aveva servito fedelmente per trent’anni. Non poteva più figurare nell’enciclopedia di Stato, per cui il suo posto fu preso da un accurato articolo sul Mare di Berling.
La prassi, benché inquietante agli occhi dell’Occidente, non era inconsueta in Unione Sovietica. i personaggi divenuti scomodi scomparivano dalle pagine dell’enciclopedia e dalle fotografie, modificando la memoria pubblica e la storia dell’Urss, proprio come descritto da George Orwell nel suo romanzo dispotico 1984. Ma che cosa aveva fatto Berija, il fedelissimo di Stalin, per meritarsi un simile trattamento?

Lettera in cui Berija chiede a Stalin e al Politburo il permesso di far giustiziare 346 "nemici del PCUS e del potere sovietico" (gennaio 1940)

UNA CARRIERA FOLGORANTE. Stalin lo chiamava “il nostro Himmler”, e non senza ragione. A parte un’indubbia e singolare somiglianza fisica con il Reichsfuhrer delle SS, Berija fu per la Russia sovietica quello che Himmler fu per la Germania nazista: un funzionario rigido e incorruttibile, un pianificatore cinico ed efficiente, un perfetto burocrate dello sterminio.
Nato nel 1899 in Georgia (come Stalin ma più giovane di lui di vent’anni), Lavrentij Pavlovic Berija era ancora un ragazzo quando la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 spazzò via il secolare imper o degli zar per sostituirgli un’autocrazia altrettanto oppressiva. La Storia è avara d’informazione sui suoi primi anni; si sa che era figlio di contadini, che studiò in una scuola tecnica e che, ancora ragazzo, si iscrisse al partito bolscevico, il PCUS, forse nel marzo 1917, quando era studente d’ingegneria a Baku (o forse nel 1919, a rivoluzione conclusa, come suggeriscono altre fonti). Si dice che in quel periodo si fosse arruolato nell’Armata Rossa per poi disertare, ma anche questo dato non è verificabile. Di sicuro era giovanissimo quando, tra il 1920 e il 1921, entrò nella polizia politica dell’Urss, la “Commissione straordinaria di tutte le Russie per combattere la controrivoluzione, la speculazione e l’abuso di potere” o Ceka, bruciando le tappe. Nel 1922, il giovane Lavrentij occupava già un posto di rilievo nella sezione georgiana della Gpu, il “Direttore principale per la sicurezza dello Stato” che aveva sostituito la Ceka. Nel 1925 fu lui a guidare la repressione della rivolta nazionalista scoppiata nella capitale georgiana Tbilisi, mettendosi in luce e per spietatezza. Stalin, favorevolmente impressionato, nel 1926 gli affidò la direzione della Gpu in Trancaucasia. Berija venne nominato segretario del Pcus in Georgia nel 1931 e per l’intera regione trans caucasica nel 1932; nel 1934, divenne membro del Comitato centrale del Partito Comunista. La sua ascesa era compiuta.
Berija con Stalin (sullo sfondo) e la figlia di Stalin, Svetlana

LE MARCE DELLA MORTE. In quello stesso 1934 venne istituito un nuovo organismo, il “Commissariato del popolo per gli affari interni”, o Nkvd, responsabile delle strutture detentive (carceri e campi di lavoro forzato) e del corpo di polizia. Ben presto fu chiaro che l’Nkvd era in realtà una polizia segreta, dotata di poteri straordinari che la sottraevano al normale controllo esercitato dall’apparato statale. Il suo ruolo divenne centrale nel drammatico periodo del Grande Terrore: il biennio 1936-1938, in cui una spietata repressione di massa colpì, oltre agli oppositori del regime, chiunque fosse anche soltanto vagamente sospettato di antistalinismo, espressione generica nella quale poteva rientrare di tutto, da una battuta fraintesa a un gesto male interpretato. Berija, che ormai era un fedelissimo di Stalin, applicò le purghe in Transcaucasia con particolare accanimento, imponendosi come il più feroce esecutore degli ordini provenienti dal Cremlino. Di fatto, il responsabile materiale delle spaventose purghe che devastarono l’Urss in quegli anni fu Nikolaj Ezov, capo dell’Nkvd, come dimostra che in Russia quel periodo sanguinoso è ricordato con il nome di Ezovscina, “era di Ezvo”. Sotto di lui, furono arrestati circa 7 milioni di russi, tra civili e militari, poi internati nel gulag; vennero espulsi dall’esercito 35mila ufficiali su 80mila, e fucilate oltre 680mila persone. Nel novembre 1938, fu lo stesso Stalin a criticare i metodi dell’Nkvd, sostituendo Ezov con Berija. Nel 1939 Ezov, arrestato con l’accusa di spionaggio e tradimento, venne giustiziato e la sua figura scomparve dalla storia sovietica. La decisione di rimuovere Ezov dall’incarico fu dettata a Stalin da considerazioni di carattere pragmatico e non certo etico: le epurazioni avevano raggiunto un’estensione tale da compromettere seriamente le infrastrutture dello Stato, ed era necessario porvi un freno. Sotto Berija, al contrario, la morsa repressiva si allentò e la situazione divenne relativamente più distesa.
Nel frattempo, però, era scoppiata la Seconda guerra mondiale, che diede a Berija l’occasione di rinverdire la propria triste fama. In una lettera del 5 marzo 1940 indirizzata a Stalin, fu lui a proporre l’eliminazione fisica di 25.700 polacchi: intellettuali, imprenditori, preti, oltre a 14700 prigionieri di guerra. Tra loro figuravano anche i 4500 ufficiali sterminati nel bosco di Katyn, la cui esecuzione fu per decenni attribuita alle truppe tedesche. Nel corso del conflitto, le responsabilità di Berija cambiarono. Nel giugno 1941, con l’invasione tedesca dell’Urss, egli entrò nel Comitato di difesa dello Stato e procedette alla riorganizzazione della produzione bellica. Nel 1944 fu incaricato della deportazione in Asia centrale delle minoranze etniche accusate di collaborazionismo: oltre mezzo milione di persone tra ceceni, ingusci, tatari e italiani (di origine genovese) di Crimea e tedeschi del Volga dovettero affrontare una “marcia della morte”, che li decimò ancor prima di arrivare a destinazione. Finita la guerra, si aprì la lotta alla successione tra i delfini di Stalin. il leader sovietico era ormai prossimo alla settantina, e occorreva pensare al futuro dell’Urss. Il nome più papabile era quello di Andrej Berija, ormai divenuto vice primo ministro, che ben presto cominciò a perdere consensi. A peggiorare la situazione intervenne il crescente antisemitismo di Stalin, e poiché l’entourage personale di Berija comprendeva un numero consistente di ebrei la sua posizione si fece delicata. Negli anni seguenti gli scontri, aperti o striscianti, tra Berija e i suoi detrattori si susseguirono senza posa, mentre lo dipingevano come un sadico pervertito, che amava torturare giovani donne e perfino bambine dopo averle stuprate. Dal canto suo, Berija continuava a operare con i metodi consueti delle epurazioni e violenze.
Numero del luglio 1953 della rivista statunitense TIME con Berija in copertina. Sotto la sua immagine si legge la scritta: "Nemico del popolo

DA PERSECUTORE A PERSEGUITATO. Il 5 marzo 1953, dopo quattro giorni di agonia, Stalin morì, vittima di un collasso dopo una cena alla quale aveva partecipato, tra gli altri, lo stesso Berija. Secondo le dichiarazioni rese quarant’anni più tardi dal ministro del Esteri Vjaceslv Molotov, Berija si sarebbe vantato con lui di aver avvelenato Stalin; non esistono prove che confermino questa testimonianza, mentre sembra certo che fu Berija a ritardare i soccorsi al leader moribondo, con la tacita approvazione dei presenti. In ogni caso, dopo la morte di Stalin, l’Urss conobbe un periodo d’inattesa liberalizzazione, di cui fu proprio Berija l’artefice: ordinò il rilascio di 1 milione di prigionieri dai gulag, firmò nell’aprile del 1953 un decreto che proibiva la tortura nelle carceri sovietiche, invitò il regime comunista della Germania dell’Est all’adozione di politiche più morbide e cercò di ridimensionare il ruolo politico del PCUS.
Forse Berija agì per un sincero desiderio di migliorare le condizioni del popolo, o forse per semplice propaganda in vista della scalata al potere. in ogni caso, i vertici del partito non approvarono, e il declino di Berija fu più rapido della folgorante ascesa. Il 26 giugno 1953, Nikita Chruscev lo accusò di essere al soldo dei servizi segreti britannici, facendolo arrestare ed eliminare immediatamente. Altri sostengono che fu imprigionato e giustiziato in un secondo, dopo aver implorato inutilmente pietà ai suoi carnefici, come dovevano aver fatto gli innumerevoli innocenti mandati a morte per suo ordine. Non lo rimpianse nessuno.

Articolo in gran pare di Amelia A. Badalà pubblicato su Conoscere la Storia n. 50. Altri testi e immagini da Wikipedia.



venerdì 9 agosto 2019

Offensiva di Gorlice-Tarnow, 1915 il capolavoro austro-tedesco.

Offensiva di Gorlice-Tarnow, 1915 il capolavoro austro-tedesco.
Maggio 1915: mentre sul fronte occidentale la guerra sprofonda nel fango delle trincee, l’offensiva degli imperi centrali provoca il crollo russo in Galizia e in Polonia. Il generale Von Mackensen, astro nascente dell’esercito del Kaiser, surclassa il rivale Dimitriev che finirà fucilato dai bolscevichi.

EasternFront1915b.jpg
Il Fronte orientale nel 1915
Data1º maggio – 18 settembre, 1915
LuogoZone circostanti Gorlice e Tarnów, vicino a Cracovia
EsitoVittoria austro-ungarica e tedesca

Sbaragliati a Tanneberg e ai Laghi Masuri – le battaglie che cominciarono a edificare il mito del Fedelmaresciallo Paul von Hinderburg e del suo luogotenente Erich Ludendorff – i russi, grazie al loro immenso potenziale umano, continuavano a rappresentare una minaccia, non soltanto potenziale, per le estreme regioni orientali della Germania (la Prussia e la Slesia) e ancor più per i traballanti confini dell’Impero austro-ungarico. Fu così che, nel 1915, mentre sul fronte occidentale gli eserciti sprofondavano nelle trincee, in una situazione di sostanziale stallo, venne concepito e attuato il piano che avrebbe permesso agli Imperi centrali di riconquistare la Galizia austriaca – strappata a Vienna dalle armante dello zar Nicola II nell’autunno 1913, durante le prime fasi della guerra – e gran parte della Polonia, oltre alle quattro città fortezza di Kovno, Novogeorgievsk, Brest-Litovsk e Grodno. Il primo a proporre quella che sarebbe stata poi definita l’offensiva di Gorlice-Tarnow (per lo storico militare inglese Basil Liddel Hart “la più brillante vittoria di tedeschi e austriaci a est”) fu il generale Franz Conrad von Hotzendorf, capo di Stato Maggiore dell’esercito austro-ungarico, nemico giurato degli italiani (contro cui avrebbe scagliato la Strafexpedition, la spedizione punitiva del 1916 in Trentino, invocando poi, inutilmente, la necessità di un secondo attacco dal fronte alpino durante l’offensiva di Caporetto). Egli intuì le potenzialità insite in una manovra avvolgente nella zona a sud est di Cracovia, al limite meridionale del fronte orientale, con una partecipazione congiunta di reparti tedeschi e austriaci. Inizialmente, il suo omologo germanico, il generale Erich von Falkenhayn, respinse questa idea, perché contrario a distogliere uomini e risorse dal fronte occidentale, da lui ritenuto decisivo per l’esito del conflitto. Ma successivamente cambiò opinione e fu lui stesso a concepire il piano esecutivo dell’operazione, concepire il piano esecutivo dell’operazione, affidandone la messa in atto al generale August von Mackensen. Nato il 6 dicembre 1849 ad Hans Leibnitz, in Sassonia, volontario nel secondo reggimento ussari, sottotenente durante la guerra franco-prussiana del 1870, decorato con la Croce di Ferro di seconda classe, Mackensen si era distinto nelle vittoriose campagne in Prussia orientale nel 1914. Gli venne affidato il comando dell’11° Armata, comprendente dieci divisioni di fanteria e una di cavalleria, affiancata dalla 4a Armata austro-ungarica, guidata dall’arciduca Giuseppe Ferdinando e forte di nove divisioni. Come capo di stato maggiore aveva Hans von Seekt, futuro comandante della Reichswehr durante la repubblicani Weimar che sarà artefice della rinascita dell’esercito tedesco dopo la resa del 1918. Scrive John Keegan, a lungo docente di storia militare alla prestigiosa accademia reale inglese di Sandhurst: “Gli ordini operativi di Mackensen sottolineavano l’importanza di una penetrazione rapida e sufficientemente profonda da impedire ai russi di portare avanti riserve per arginare la piena”. Una profonda penetrazione di fanteria e un supporto rapido da parte dell’artiglieria erano essenziali per Mackensen, che concentrò 126mila uomini, 460 pezzi di artiglieria leggera e oltre 150 di artiglieria pesante, oltre a un centinaio di mortai, su un fronte di appena 35 chilometri. Erano “in nuce” i metodi che sarebbero stati applicati poi con altrettanto successo a Caporetto e, su scala ancora più vasta, nelle offensive del 1918 sul fronte occidentale, abbinati alla tecnica dell’infiltrazione nelle linee nemiche, che consisteva nell’aggirare i punti di resistenza e nel continuare ad avanzare, non curandosi dei reparti avversari lasciati alle spalle. A est, come a ovest, c’erano grandi concentrazione di fanteria, ma gli spazi erano immensi e le difese meno organizzate; più rado era inoltre lo sbarramento di filo spinato, come pure la densità delle mitragliatrici, l’arma regina della Prima guerra mondiale, nella quale i tedeschi vantavano una netta superiorità per numero ed efficienza tecnica rispetto alle armate zariste.
Di fronte, gli austro tedeschi avevano la Terza armata russa, forte di 18 divisioni di fanteria, 5 di cavalleria e una mista. In assoluto, i russi erano addirittura superiori al nemico, ma nella zona scelta da Falkenhayn e Mackensen per lo sfondamento schieravano solo 5 deboli divisioni, circa 60mila uomini, con appena 140 pezzi di artiglieria pesante e 4 obici campali: la superiorità tedesca e austriaca in quel settore era quindi di due a uno per il numero di uomini e di quattro a uno per l’artiglieria. La Terza armata era agli ordini del generale Radko Dimitriev, un personaggio enigmatico e controverso. Di origini bulgare, classe 1859 – quindi di dieci anni più giovane del rivale Mackensen – si era messo in evidenza nella guerra serbo-bulgara del 1895, sbaragliando il nemico a Slivnica (dove gli fu dedicato un busto in marmo). Ma i tedeschi erano avversari di tempra ben diversa e Dimitriev se ne sarebbe presto accorto amaramente.

Von Seeckt, il perfetto braccio destro.
Bundesarchiv Bild 102-10883, Hans von Seeckt und Otto Geßler retouched.jpg
Il Generaloberst Hans von Seeckt a colloquio con il ministro tedesco Otto Geßler, 1931
“Dove c’è Mackensen c’è Seeckt. Dove c’è Seeckt, c’è vittoria”. Questo detto si diffuse nell’esercito tedesco dopo la travolgente offensiva di Gorlice, che aveva sbaragliato i russi. Un sodalizio, quello tra l’ex cadetto degli ussari e il suo braccio destro, cominciato nel marzo 1915, quando Hans von Seeckt era stato nominato capo di stato maggiore dell’11a armata. In questa veste, aveva contribuito a pianificare l’attacco del maggio successivo, che si sarebbe tradotto in una delle maggiori vittorie austro tedesche della Prima guerra mondiale. Seeckt, che si era fatto le ossa sul fronte occidentale, contribuì a elaborare il metodo offensivo che avrebbe posto le premesse della tattica di infiltrazione, spingendo le riserve contro i punti di minor resistenza e facendole penetrare quanto più profondamente possibile, anziché utilizzarle per eliminare le sacche di resistenza più forti. Il fortunato sodalizio con von Mackensen proseguì nelle vittoriose campagne contro Serbia e Romania, oltre che nelle manovre organizzate per fermare il contrattacco russo nella Galizia austriaca (offensiva Brusilov). In seguito, Seeckt fu inviato in Turchia, con la carica di capo di stato maggiore dell’esercito ottomano. Dopo l’armistizio, la non compromissione della disastrosa conclusione delle operazioni sul fronte occidentale, la fame di ottimo organizzatore e le capacità di mediazione con la politica ne fecero il candidato naturale ad assumere la guida dell’esercito tedesco, fortemente ridimensionato dal trattato di Versailles, che vietava alla Germania di possedere un’aviazione e di avere più di 100mila uomini sotto le armi. Seect, che alla conferenza di pace aveva cercato, inutilmente, di ottenere condizioni più miti per il suo Paese, fu comandante in capo della Reichswehr dal 1920 al 1926, ponendo le basi della rinascita delle forze armate. Quando venne collocato a riposo, la Reichsehr possedeva una chiara e standardizzata dottrina operativa, nonché una precisa teoria sul futuro modo di combattere, che influenzò notevolmente le campagne militari della Wehrmacht nel 1939 e 1940. Cruciale, per la organizzazione dell’esercito e lo sviluppo delle nuove armi, come quella corazzata, che avrebbero gradualmente contribuito ai successi tedeschi nei primi anni della Seconda guerra mondiale, fu anche il riavvicinamento alla Russia sovietica, nel periodo della repubblica di Weimar, fortemente voluto proprio da Seeckt. Sollevato dall’incarico dopo le polemiche suscitate dalla sua decisione di invitare un principe Hohenzollern – la casata dell’imperatore Guglielmo II, deposto nel 1918 – ad assistere alle manovre autunnali, Seeckt fu deputato al Reichsta per il Deutsche Volkspartei dal 1930 al 1932. Con l’avvento del nazismo, venne inviato in Cina a dirigere la missione militare tedesca e qui collaborò con il generalissimo nazionalista Chiag-Kai-Sheck. Tornato in patria, morì a Berlino il 27 dicembre 1936. 
La battaglia in breve.

La cartina evidenzia lo sviluppo delle operazioni sul Fronte Orientale, dallo scoppio della Prima guerra mondiale (luglio-agosto 1914) fino alla pace di Brest Litovsk (3 marzo 1918), tra gli imperi centrali e la Russia sovietica. una prima fase è caratterizzata dall’avanzata russa nella Galizia austriaca (1914-1915), a cui i tedeschi e austroungarici risposero con l’offensiva di Gorlice-Tarnow e l’attacco a nord, che portò alla riconquista della Galizia e all’occupazione di buona parte della Polonia russa  (1915-1916); dopo la controffensiva del generale Brusilov, che si esaurì rapidamente senza durature conquiste territoriali (1916), la crisi dell’esercito zarista consentì ai tedeschi di penetrare profondamente in Ucraina, Bielorussia e nelle repubbliche baltiche.

 COME UNO TSUNAMI. L’attacco della fanteria scattò la mattina del 2 maggio 1915, dopo che, dalla sera precedente, il bombardamento preparatorio dell’artiglieria aveva scompaginato le linee russe. L’urto violento della massa di manovra tedesca travolse rapidamente i reparti di Dimitriev. In alcuni tratti mancava una seconda linea di trincee e gli sbarramenti di filo spinato erano poco profondi, mentre in altri ondate di fanti russi, presi dal panico, si riversarono nelle retrovie abbandonando le armi e l’equipaggiamento pensando solo a mettersi in salvo. Già il 4 maggio l’Undicesima armata si aprì la strada per un’avanzata in profondità in campagna, mentre 140mila prigionieri russi marciavano in lunghe colonne verso le retrovie tedesche. L’armata di Dimitriev, di fatto, aveva cessato di esistere – basti pensare che il terzo corpo d’armata del Caucaso, rispetto a un organico iniziale di 40mila unità, aveva visto la sua consistenza ridotta a circa 8mila – anche se lo Stavka, l’alto comando zarista, inizialmente sottovalutò la portata del disastro, ritenendo che il principale colpo tedesco sarebbe stato sferrato a nord. Un contrattacco russo al passo di Dokra (7 maggio) non fermò lo tsunami nemico e si risolse in un massacro inutile. Il 10 maggio, un disperato Dimitriev ordinò la ritirata, ma era ormai troppo tardi per evitare il quasi totale annientamento della Terza armata. Solo 40mila soldati, un quinto della forza iniziale della grande unità zarista, raggiunsero il fiume San, guadagnando un po’ di respiro.
La breccia, intanto, si allargava e si approfondiva. Il 14 maggio, il fronte austro tedesco era giunto a Przemysl, città fortezza strappata dai russi agli austroungarici nel corso dell’offensiva in Galizia dell’anno precedente e, che lo stesso Dimitriev aveva contribuito a conquistare. Lo sfortunato generale, in un rapporto ai suoi superiori, non nascose lo sfacelo della sua armata, chiedendo ingenti rinforzi per fermare il rullo compressore tedesco ma per tutta risposta, il 2 giugno, venne rimosso dal comando. Continuò comunque a servire la causa dello zar, malgrado l’entrata in guerra della Bulgaria, suo Paese natale, al Banco degli Imperi centrali, venne mandato nel Caucaso, per punizione dopo il crollo di Gorlice e per evitargli l’imbarazzo di dover combattere contro i suoi ex compatrioti, e quindi guidò la Dodicesima armata sul fronte di Riga, ma nell’estate del 1917 venne nuovamente destituito, anche per la debolezza dimostrata nei confronti dei comitati di soldati sorti dopo la rivoluzione di febbraio. Congedato, si concesse una vacanza con la famiglia nel Caucaso, ma venne catturato dai bolscevichi e fucilato con un altro centinaio di ufficiali zaristi il 18 ottobre 1918.
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August von Mackensen in tenuta da ussaro della morte in una fotografia del 1915.

LA CADUTA DELLE FORTEZZE ZARISTE. Ben diversa la sorte del rivale Mackensen. Dopo aver ripreso Przemysl ed essersi impossessati della città polacca di Lodz, il 4 agosto gli austro tedeschi entrarono nella capitale Varsavia, sgomberata dai russi. Anche questa vittoria portava il timbro del comandate dell’Undicesima armata. Mackensen, spalleggiato da Falkenhayn, aveva, infatti, chiesto e ottenuto, in un incontro presieduto dal kaiser Guglielmo II a Pless il 3 giugno, che l’offensiva continuasse, dopo la voragine aperta nello schieramento russo al sud e al centro del fronte orientale, mentre venne respinta la proposta di Ludendorff, comandante a nord, basata su un movimento avvolgente dalle coste del Baltico verso sud che, così riteneva, avrebbe tagliato la strada all’esercito russo in ripiegamento, determinando la fine della guerra sul fronte orientale. Tra il 17 agosto e il 4 settembre, le quattro storiche fortezze di frontiera zariste – Kovno, Novogeorgievsk, Brest Litowsk e Grodno – si arresero. Il numero dei prigionieri russi salì a 325mila, mila i cannoni finiti nelle mani di tedeschi e austriaci. Tuttavia, l’impeto dell’offensiva si stava esaurendo. Entro il mese di settembre i russi, abbandonato saggiamente il saliente polacco, avevano accorciato il fronte da 1500 a 900 chilometri, un’economia di spazio – come la definisce lo storico Keegan – che permise allo Stavka di liberare riserve da opporre risorse da opporre all’avanzata di Ludendorff lungo la costa baltica e nel centro, e addirittura di contrattaccare a sud contro gli austriaci nella zona di Lutsz. Il tenace e impaziente Ludendorff avrebbe voluto scagliare le armate tedesche in una nuova manovra d’attacco che, nel suo disegno, le avrebbe portate dal fiume Niemen sul Baltico alle paludi di Pripet nel centro del fronte orientale, intrappolando i russi in ritirata e provocandone la capitolazione, ma dovette accontentarsi di entrare a Vilnius, nella Lituania russa, a settembre, pagando un prezzo elevato in morti e feriti. Con l’autunno, e le prime abbondanti piogge, arrivò anche la raspuputisa, che in russo indica il terreno trasformato in una distesa di fango in cui si affondava fino al ginocchio, ostacolando ogni movimento di uomini, cavalli e mezzi (i tedeschi ne avrebbero fatte le spese anche durante l’operazione Barbarossa del 1941). Il fronte orientale si stabilizzò così lungo una linea che correva quasi perpendicolarmente dal golfo di Riga nel Baltico a Czernowitz nei Carpazi.

Erich von Falkenhayn, luci e ombre di un grande generale.
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Oggetto di giudizi controversi – per taluni, come Winston Churchill, fu il miglior generale tedesco della Prima guerra mondiale, per altri, il metodo della “battaglia d’attrito” da lui sperimentato a Verdun indicò all’Intesa, che con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti disponeva di più uomini e risorse, la strada de seguire per sconfiggere la Germania – Erich von Falkenhayn nacque a Graudenz, in Pomerania, l’11 settembre 1861, da una famiglia di junker, l’aristocrazia terriera prussiana. Entrato nell’esercito, servì in Cina tra il 1896 e il 1903, con la missione militare tedesca, distinguendosi nella repressione della rivolta dei Boxer. Ministro della guerra nel 1913, nel settembre 1914 succedette a Moltke come capo di stato Maggiore generale, dopo la battaglia della Marna, la sconfitta tedesca e il fallimento del piano Schlieffen di attacco a Occidente. Il successivo tentativo di aggirare le armate francesi e inglesi, raggiungendo la costa del mare del Nord, fu bloccato a Ypres. Come il suo predecessore, Falkenhayn continuò a dare maggior peso al fronte occidentale rispetto al quello orientale, entrando così in contrasto con Hindenburg e Ludendorff, che volevano invece una massiccia offensiva a Est per costringere la Russia zarista alla pace separata. Tuttavia, la battaglia di Verdun da lui pianificata da lui pianificata per mettere in ginocchio l’esercito francese, si concluse con un fallimento ed enormi perdite anche per i tedeschi; il Kaiser Guglielmo II decise quindi di sostituirlo con lo stesso Hindenburg. Falkenhayn si rifece conducendo insieme al generale Mackensn, la brillante campagna contro la Romania, che si concluse con la distruzione dell’esercito romeno e la conquista della capitale Bucarest (5 dicembre 1916). In seguito a questo successo, gli fu affidato il comando militare della Palestina (allora dominio ottomano), ma, anche a causa della grave disparità di mezzi rispetto ai britannici, fu costretto ad abbandonare Gerusalemme nel dicembre 1917. Si oppose però alla cacciata degli ebrei dalla Terra promessa. Nel febbraio 1918 divenne comandante della 10a armata, impegnata in Bielorussia. Dopo l’armistizio e la pace di Versailles, fu collocato a riposo e si ritirò a vita privata, scrivendo numerosi libri sulla guerra, saggi di strategia e un’autobiografia. Morì a Postam l’8 aprile 1922.

TRAVOLGENTE AVANZATA. La Russia zarista aveva perso gran parte della Polonia e il suo esercito aveva subito un vero e proprio salasso: quasi un milione tra morti, feriti e dispersi, oltre a 750mila prigionieri ed enormi quantità di materiale perduto. Gravissima era anche la perdita della rete di fortezza di frontiera, realizzate per ostacolare l’attraversamento dei fiumi che formavano una barriera naturale. Ma Nicola II, che dal 1° settembre aveva assunto il comando supremo esecutivo dell’esercito con Alekseev come capo di stato maggiore e il granduca Nicola richiamato dal Caucaso disponeva ancora di immense riserve umane e il cuore dell’impero era rimasto intatto. Dal punto di vista austro tedesco, in ogni caso, Gorlice era stato un trionfo. Falkenhayn aveva resistito alla tentazione di distogliere truppe per inviarle sul cruciale fronte occidentale, e non si era fatto distrarre dalle sirene di gloria degli ambiziosi progetti di Lundendoff, sostenendo fino in fondo Mackensen. Il risultato fu un’impetuosa e travolgente avanzata quali non se ne sarebbero mai viste a ovest e che ebbe una replica ancora più spettacolare a est solo dopo il definitivo collasso dei russi  - che spostò il fronte verso oriente di diverse centinaia di chilometri, allontanando per il resto della guerra la minaccia zarista sulla Galizia e consegnando a Berlino e Vienna le pianure polacche. Il generale vittorioso passò, logicamente all’incasso. A ottobre, fu messo a capo dell’Heeresgruppe Mackensen, formato dalla fedele Undicesima armata tedesca, dalla Terza armata austriaca e da reparti bulgari, protagonista di una con nuova operazione congiunta, che si concluse con la conquista di Belgrado e la resa della Serbia. Mackensen rese onore al valor dei soldati serbi facendo erigere un monumento dedicato ai caduti in combattimento. Nel 1916, coordinò la campagna contro la Romania e stavolta ai suoi ordini c’erano anche turchi e bulgari, in un’armata multinazionale che condusse a un nuovo, brillante successo, che gli valse la Schwarzer Adler (Aquila Nera), alta onorificenza prussiana, aggiunta all’ambitissima Pour le Mérite conferitagli dopo la conquista di Przemysl, e la promozione al grado di Fedelmaresciallo. Dalla fine 1917 alla conclusione della guerra, von Mackensen fu governatore militare della Romania.
La sua ultima campagna, mirata a distruggere il ricostituito esercito romeno, terminò con uno scacco. Alla resa tedesca, venne catturato dall’armata francese del generale D’Esperey e internato come prigioniero di guerra fino al dicembre 1919. Nel periodo di Weimar, Mackensen, convinto monarchico, appoggiò gruppi conservatori e l’organizzazione militarista di estrema tedesca Stahlhelm (Elmetto d’acciaio), che vagheggiava il ritorno del Kaiser e la denuncia del trattato di Versailles. Tiepido sostenitore del regime nazista, dopo essersi schierato per l’elezione a presidente di von Hindenburg nel 1932, protestò tuttavia energicamente per l’assassinio dei generali Ferdinand von Bredow e Kurt von Schleicher, e per le atrocità commesse in Polonia dopo l’invasione del settembre 1939. Hitler e Goebbels sospettavano della sua lealtà, ma non lo fecero arrestare. Il Fedelmaresciallo partecipò, tutto impettito, nell’alta uniforme degli ussari “teste di morto”, con il caratteristico copricapo, un paio di baffoni a incorniciargli il volto rugoso, le decorazioni di guerra sfoggiate orgogliosamente sul petto, ai funerali di Guglielmo II, svoltisi nel giugno 1941 a Doorn, in Olanda (dove l’imperatore era riparato in esilio dopo l’abdicazione), insieme ad altri esponenti dell’élite militare, come l’ammiraglio Wilhelm Canaris, capo dell’Abwehr, il servizio segreto della Wehrmacht. Fece in tempo ad assistere al crollo del Terzo Reich, alla nuova disfatta della Germania e alla fine della Seconda guerra mondiale, prima della morte che lo colse l’8 novembre 1945. Ebbe due figli: Hans Georg, ambasciatore tedesco in Italia dal 1938 al 1943, generale delle SS, ed Eberhard, comandante di reparti corazzati nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale, poi a capo della Quattordicesima armata che fronteggiava i reparti alleati sbarcati ad Anzio, condannato alla pena di morte (commutata in carcere a vita, ma fu rimesso in libertà nel 1952) per l’implicazione nell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Articolo in gran parte di Roberto Lodigiani pubblicato su Storie di Guerre e Guerriere n. 22 Sprea editore – altri testi e articoli da Wikipedia. 

giovedì 1 agosto 2019

Un arco per Tito. Distruttore di Gerusalemme.

Un arco per Tito. Distruttore di Gerusalemme.
Costruito alla fine del I secolo d.C., l’arco di Tito è uno dei monumenti più rappresentativi della prima arte imperiale e ci restituisce la preziosa testimonianza di un tragico ed epocale evento storico.

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Il 9 agosto del 70 d.C., l’esercito romano guidato da Tito, figlio dell’imperatore Vespasiano, appiccò il fuoco al Tempio di Gerusalemme. Anche se gli scontri si protrassero ancora per alcuni anni, era l’ultimo atto della Guerra giudaica, un conflitto costato agli Ebrei più di 1 milione di morti (almeno stando alle testimonianze dello storico ebreo Giuseppe Flavio) e ai Romani circa 20mila uomini. L’anno successivo, il condottiero vittorioso festeggiò il suo trionfo a Roma insieme al padre, che prima di tornare nella capitale per essere acclamato imperatore aveva a sua volta condotto la campagna militare. Fece sfilare per le vie dell’Urbe, affollate di gente, 700 prigionieri giudei scelti fra i più prestanti, che furono trascinati in catene; insieme a loro, alcuni dei loro capi e tutti gli arredi del Tempio, razziati dopo la vittoria. Del tesoro portato a Roma faceva parte il candelabro a sette bracci (la famosa Memorah), usato dagli Ebrei durante le loro celebrazioni, oltre a trombe d’argento e, pare, ai rivestimenti d’oro del Tempio. Un tesoro tanto importante che, recentemente, in base alla ricostruzione di un’iscrizione dell’epoca, si è ipotizzato che lo stesso Colosseo sia stato edificato grazie al bottino raccolto durante la campagna in Giudea. Tra i beni razziati dai Romani non ci sarebbe stata invece l’Arca dell’Alleanza, nonostante una tradizione affermi che l’imperatore l’abbia donata alla principessa Berenice, figlia di Erode Agrippa II: secondo gli archeologi, il sacro manufatto era già scomparso da tempo.

 
Rilievo della processione sull'Arco di Tito

DEDICHE E RILIEVI. Tito, che lo storico Svetonio definisce “amor ac deliciae generis humani”, (amore e delizia del genere umano), salì al trono imperiale il 24 giugno del 79 d.C., succedendo al padre Vespasiano. Il suo regno durò poco più di due anni: Tito morì il 13 settembre dell’81, colpito da una letale febbre malarica o forse  avvelenato per ordine del fratello, Domiziano, che gli succedette come imperatore. Fu proprio Domiziano, qualche anno dopo, la morte di Tito, a far edificare in sua memoria l’arco che ancora sorge nella parte occidentale del Foro Romano, sulle pendici del colle Palatino. Si tratta di un monumento a una sola arcata, solido e compatto, costruito in marmo bianco. Lo zoccolo, invece, è di robusto travertino, il lapis tiburtinus, che veniva scavato nella zona di Tivoli e rappresentava una delle principali risorse edilizie dei Romani. Ai fianchi dell’arcata dell’arcata, su ogni facciata, due semicolonne reggono una trabeazione. Sopra quest’ultima, s’innalza il cosiddetto “attico”, su cui campeggia l’iscrizione dedicatoria:
“SENATUS POPULUSQUE ROMANUS DIVO TITO DIVI VESPASIANI F(ILIO) VESPASIANO AUGUSTO”

(“Il Senato e il popolo di Roma al divino Tito Vespasiano Augusto, figlio del divino Vespasiano). Il fatto che Tito sia citato come divo (“divino”) indica che la costruzione è successiva alla sua morte, poiché l’apoteosi degli imperatori, ossia la divinizzazione, avveniva soltanto dopo la loro scomparsa. L’interno del monumento è di cementizio (calcestruzzo composto di calce, cenere vulcanica e polvere di tufo legate con acqua di mare), ampiamente usato a Roma fin dal III secolo a.C.: un materiale economico e andato ai cosiddetti riempimenti. Le semicolonne sono chiuse da capitelli composti, anch’essi tipici dell’architettura romana, caratterizzati dalla sintesi degli ordini greci ionico (con le sue eleganti volute) e corinzio (di cui sono propri i decori e a foglia d’acanto). Il fregio della trabeazione, piuttosto semplice, rappresenta una scena di sacrificio, i suovetaurilia, che consisteva nell’immolazione alle divinità di tre animali: un maiale (sus), un montone (ovis) e un toro (taurus). Il sacrificio era genericamente rivolto a Marte, a cui veniva dedicato espressamente il toro, mentre il montone spettava a Quirino (protettore del popolo romano) e il maiale alle divinità infere. Sempre in alto, al centro della volta, si trova una piccola scultura rappresentante Tito portato in cielo da un’aquila, allusione evidente alla sua divinizzazione.


Ricostruzione del rilievo dell'Arco di Tito

IL TESORO DEL TEMPIO. Le due realizzazioni scultoree più interessanti sono poste all’interno del fornice, sui due lati contrapposti, e rappresentano i motivi del trionfo decretato in onore di Tito. Il rilievo sulla parete nord raffigura l’imperatore in trionfo su una quadriga, mentre viene incoronato dalla dea Vittoria. Forse si riferisce a una scena realmente vissuta da Tito dopo il ritorno vittorioso da Gerusalemme; in origine, gli archi di trionfo altro non erano che costruzioni vegetali, costituire da rami intrecciati, addobbati con fronde di quercia e lauro, sotto cui venivano fatti passare i vincitori, come se si trattasse di numi capaci, grazie alle loro forza vittoriosa, d’infondere fertilità nella terra patria. Il passaggio di Tito sulla quadriga, guidata da piedi dalla dea Virtù, che precede il corteo del popolo dei Quiriti e di Roma stessa, ha probabilmente la stessa funzione: l’imperatore, in quanto padre della Patria, ne è anche il vivificatore. Questo significato è accentuato dalla presenza dei littori che, con i fasci fra le mani, danno al corteo un significato sacro e religioso.
Sul lato opposto, cioè quello sud della costruzione, alla dimensione “spirituale” dell’evento viene contrapposta quella “materiale”. Vi si vedono i soldati reduci dalla guerra, con le loro insegne, che trasportano le ricchezze conquistate grazie all’ultima vittoriosa battaglia, seguita dal saccheggio di Gerusalemme. In bella mostra ci sono il candelabro a sette bracci e le trombe d’argento, che durante l’esodo erano utilizzate per segnalare al popolo di Mosè che era il momento di rimettersi in marci o per convocare l’assemblea popolare dei capi tribù. Erano le stesse trombe che ogni giorni, nel Beit Hamikdash, il Santuario di Gerusalemme, venivano suonate durante i sacrifici, ma anche per indicare l’apertura del Tempio, la fine del lavoro quotidiano e l’inizio del Sabato, giorno sacro agli Ebrei. Completava il bottino la tavola su cui ogni giorno veniva presentato a Dio il pane che gli officianti preparavano per lui.
Il rilievo di queste figure è talmente vivido, e i loro profili resi con tale accurato realismo, da dare l’impressione, ancora oggi, di assistere al corteo trionfale del divino Tito.

Rilievo con la quadriga

Articolo in gran parte di Stefano Bandera pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da wikipedia. 

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...