venerdì 9 agosto 2019

Offensiva di Gorlice-Tarnow, 1915 il capolavoro austro-tedesco.

Offensiva di Gorlice-Tarnow, 1915 il capolavoro austro-tedesco.
Maggio 1915: mentre sul fronte occidentale la guerra sprofonda nel fango delle trincee, l’offensiva degli imperi centrali provoca il crollo russo in Galizia e in Polonia. Il generale Von Mackensen, astro nascente dell’esercito del Kaiser, surclassa il rivale Dimitriev che finirà fucilato dai bolscevichi.

EasternFront1915b.jpg
Il Fronte orientale nel 1915
Data1º maggio – 18 settembre, 1915
LuogoZone circostanti Gorlice e Tarnów, vicino a Cracovia
EsitoVittoria austro-ungarica e tedesca

Sbaragliati a Tanneberg e ai Laghi Masuri – le battaglie che cominciarono a edificare il mito del Fedelmaresciallo Paul von Hinderburg e del suo luogotenente Erich Ludendorff – i russi, grazie al loro immenso potenziale umano, continuavano a rappresentare una minaccia, non soltanto potenziale, per le estreme regioni orientali della Germania (la Prussia e la Slesia) e ancor più per i traballanti confini dell’Impero austro-ungarico. Fu così che, nel 1915, mentre sul fronte occidentale gli eserciti sprofondavano nelle trincee, in una situazione di sostanziale stallo, venne concepito e attuato il piano che avrebbe permesso agli Imperi centrali di riconquistare la Galizia austriaca – strappata a Vienna dalle armante dello zar Nicola II nell’autunno 1913, durante le prime fasi della guerra – e gran parte della Polonia, oltre alle quattro città fortezza di Kovno, Novogeorgievsk, Brest-Litovsk e Grodno. Il primo a proporre quella che sarebbe stata poi definita l’offensiva di Gorlice-Tarnow (per lo storico militare inglese Basil Liddel Hart “la più brillante vittoria di tedeschi e austriaci a est”) fu il generale Franz Conrad von Hotzendorf, capo di Stato Maggiore dell’esercito austro-ungarico, nemico giurato degli italiani (contro cui avrebbe scagliato la Strafexpedition, la spedizione punitiva del 1916 in Trentino, invocando poi, inutilmente, la necessità di un secondo attacco dal fronte alpino durante l’offensiva di Caporetto). Egli intuì le potenzialità insite in una manovra avvolgente nella zona a sud est di Cracovia, al limite meridionale del fronte orientale, con una partecipazione congiunta di reparti tedeschi e austriaci. Inizialmente, il suo omologo germanico, il generale Erich von Falkenhayn, respinse questa idea, perché contrario a distogliere uomini e risorse dal fronte occidentale, da lui ritenuto decisivo per l’esito del conflitto. Ma successivamente cambiò opinione e fu lui stesso a concepire il piano esecutivo dell’operazione, concepire il piano esecutivo dell’operazione, affidandone la messa in atto al generale August von Mackensen. Nato il 6 dicembre 1849 ad Hans Leibnitz, in Sassonia, volontario nel secondo reggimento ussari, sottotenente durante la guerra franco-prussiana del 1870, decorato con la Croce di Ferro di seconda classe, Mackensen si era distinto nelle vittoriose campagne in Prussia orientale nel 1914. Gli venne affidato il comando dell’11° Armata, comprendente dieci divisioni di fanteria e una di cavalleria, affiancata dalla 4a Armata austro-ungarica, guidata dall’arciduca Giuseppe Ferdinando e forte di nove divisioni. Come capo di stato maggiore aveva Hans von Seekt, futuro comandante della Reichswehr durante la repubblicani Weimar che sarà artefice della rinascita dell’esercito tedesco dopo la resa del 1918. Scrive John Keegan, a lungo docente di storia militare alla prestigiosa accademia reale inglese di Sandhurst: “Gli ordini operativi di Mackensen sottolineavano l’importanza di una penetrazione rapida e sufficientemente profonda da impedire ai russi di portare avanti riserve per arginare la piena”. Una profonda penetrazione di fanteria e un supporto rapido da parte dell’artiglieria erano essenziali per Mackensen, che concentrò 126mila uomini, 460 pezzi di artiglieria leggera e oltre 150 di artiglieria pesante, oltre a un centinaio di mortai, su un fronte di appena 35 chilometri. Erano “in nuce” i metodi che sarebbero stati applicati poi con altrettanto successo a Caporetto e, su scala ancora più vasta, nelle offensive del 1918 sul fronte occidentale, abbinati alla tecnica dell’infiltrazione nelle linee nemiche, che consisteva nell’aggirare i punti di resistenza e nel continuare ad avanzare, non curandosi dei reparti avversari lasciati alle spalle. A est, come a ovest, c’erano grandi concentrazione di fanteria, ma gli spazi erano immensi e le difese meno organizzate; più rado era inoltre lo sbarramento di filo spinato, come pure la densità delle mitragliatrici, l’arma regina della Prima guerra mondiale, nella quale i tedeschi vantavano una netta superiorità per numero ed efficienza tecnica rispetto alle armate zariste.
Di fronte, gli austro tedeschi avevano la Terza armata russa, forte di 18 divisioni di fanteria, 5 di cavalleria e una mista. In assoluto, i russi erano addirittura superiori al nemico, ma nella zona scelta da Falkenhayn e Mackensen per lo sfondamento schieravano solo 5 deboli divisioni, circa 60mila uomini, con appena 140 pezzi di artiglieria pesante e 4 obici campali: la superiorità tedesca e austriaca in quel settore era quindi di due a uno per il numero di uomini e di quattro a uno per l’artiglieria. La Terza armata era agli ordini del generale Radko Dimitriev, un personaggio enigmatico e controverso. Di origini bulgare, classe 1859 – quindi di dieci anni più giovane del rivale Mackensen – si era messo in evidenza nella guerra serbo-bulgara del 1895, sbaragliando il nemico a Slivnica (dove gli fu dedicato un busto in marmo). Ma i tedeschi erano avversari di tempra ben diversa e Dimitriev se ne sarebbe presto accorto amaramente.

Von Seeckt, il perfetto braccio destro.
Bundesarchiv Bild 102-10883, Hans von Seeckt und Otto Geßler retouched.jpg
Il Generaloberst Hans von Seeckt a colloquio con il ministro tedesco Otto Geßler, 1931
“Dove c’è Mackensen c’è Seeckt. Dove c’è Seeckt, c’è vittoria”. Questo detto si diffuse nell’esercito tedesco dopo la travolgente offensiva di Gorlice, che aveva sbaragliato i russi. Un sodalizio, quello tra l’ex cadetto degli ussari e il suo braccio destro, cominciato nel marzo 1915, quando Hans von Seeckt era stato nominato capo di stato maggiore dell’11a armata. In questa veste, aveva contribuito a pianificare l’attacco del maggio successivo, che si sarebbe tradotto in una delle maggiori vittorie austro tedesche della Prima guerra mondiale. Seeckt, che si era fatto le ossa sul fronte occidentale, contribuì a elaborare il metodo offensivo che avrebbe posto le premesse della tattica di infiltrazione, spingendo le riserve contro i punti di minor resistenza e facendole penetrare quanto più profondamente possibile, anziché utilizzarle per eliminare le sacche di resistenza più forti. Il fortunato sodalizio con von Mackensen proseguì nelle vittoriose campagne contro Serbia e Romania, oltre che nelle manovre organizzate per fermare il contrattacco russo nella Galizia austriaca (offensiva Brusilov). In seguito, Seeckt fu inviato in Turchia, con la carica di capo di stato maggiore dell’esercito ottomano. Dopo l’armistizio, la non compromissione della disastrosa conclusione delle operazioni sul fronte occidentale, la fame di ottimo organizzatore e le capacità di mediazione con la politica ne fecero il candidato naturale ad assumere la guida dell’esercito tedesco, fortemente ridimensionato dal trattato di Versailles, che vietava alla Germania di possedere un’aviazione e di avere più di 100mila uomini sotto le armi. Seect, che alla conferenza di pace aveva cercato, inutilmente, di ottenere condizioni più miti per il suo Paese, fu comandante in capo della Reichswehr dal 1920 al 1926, ponendo le basi della rinascita delle forze armate. Quando venne collocato a riposo, la Reichsehr possedeva una chiara e standardizzata dottrina operativa, nonché una precisa teoria sul futuro modo di combattere, che influenzò notevolmente le campagne militari della Wehrmacht nel 1939 e 1940. Cruciale, per la organizzazione dell’esercito e lo sviluppo delle nuove armi, come quella corazzata, che avrebbero gradualmente contribuito ai successi tedeschi nei primi anni della Seconda guerra mondiale, fu anche il riavvicinamento alla Russia sovietica, nel periodo della repubblica di Weimar, fortemente voluto proprio da Seeckt. Sollevato dall’incarico dopo le polemiche suscitate dalla sua decisione di invitare un principe Hohenzollern – la casata dell’imperatore Guglielmo II, deposto nel 1918 – ad assistere alle manovre autunnali, Seeckt fu deputato al Reichsta per il Deutsche Volkspartei dal 1930 al 1932. Con l’avvento del nazismo, venne inviato in Cina a dirigere la missione militare tedesca e qui collaborò con il generalissimo nazionalista Chiag-Kai-Sheck. Tornato in patria, morì a Berlino il 27 dicembre 1936. 
La battaglia in breve.

La cartina evidenzia lo sviluppo delle operazioni sul Fronte Orientale, dallo scoppio della Prima guerra mondiale (luglio-agosto 1914) fino alla pace di Brest Litovsk (3 marzo 1918), tra gli imperi centrali e la Russia sovietica. una prima fase è caratterizzata dall’avanzata russa nella Galizia austriaca (1914-1915), a cui i tedeschi e austroungarici risposero con l’offensiva di Gorlice-Tarnow e l’attacco a nord, che portò alla riconquista della Galizia e all’occupazione di buona parte della Polonia russa  (1915-1916); dopo la controffensiva del generale Brusilov, che si esaurì rapidamente senza durature conquiste territoriali (1916), la crisi dell’esercito zarista consentì ai tedeschi di penetrare profondamente in Ucraina, Bielorussia e nelle repubbliche baltiche.

 COME UNO TSUNAMI. L’attacco della fanteria scattò la mattina del 2 maggio 1915, dopo che, dalla sera precedente, il bombardamento preparatorio dell’artiglieria aveva scompaginato le linee russe. L’urto violento della massa di manovra tedesca travolse rapidamente i reparti di Dimitriev. In alcuni tratti mancava una seconda linea di trincee e gli sbarramenti di filo spinato erano poco profondi, mentre in altri ondate di fanti russi, presi dal panico, si riversarono nelle retrovie abbandonando le armi e l’equipaggiamento pensando solo a mettersi in salvo. Già il 4 maggio l’Undicesima armata si aprì la strada per un’avanzata in profondità in campagna, mentre 140mila prigionieri russi marciavano in lunghe colonne verso le retrovie tedesche. L’armata di Dimitriev, di fatto, aveva cessato di esistere – basti pensare che il terzo corpo d’armata del Caucaso, rispetto a un organico iniziale di 40mila unità, aveva visto la sua consistenza ridotta a circa 8mila – anche se lo Stavka, l’alto comando zarista, inizialmente sottovalutò la portata del disastro, ritenendo che il principale colpo tedesco sarebbe stato sferrato a nord. Un contrattacco russo al passo di Dokra (7 maggio) non fermò lo tsunami nemico e si risolse in un massacro inutile. Il 10 maggio, un disperato Dimitriev ordinò la ritirata, ma era ormai troppo tardi per evitare il quasi totale annientamento della Terza armata. Solo 40mila soldati, un quinto della forza iniziale della grande unità zarista, raggiunsero il fiume San, guadagnando un po’ di respiro.
La breccia, intanto, si allargava e si approfondiva. Il 14 maggio, il fronte austro tedesco era giunto a Przemysl, città fortezza strappata dai russi agli austroungarici nel corso dell’offensiva in Galizia dell’anno precedente e, che lo stesso Dimitriev aveva contribuito a conquistare. Lo sfortunato generale, in un rapporto ai suoi superiori, non nascose lo sfacelo della sua armata, chiedendo ingenti rinforzi per fermare il rullo compressore tedesco ma per tutta risposta, il 2 giugno, venne rimosso dal comando. Continuò comunque a servire la causa dello zar, malgrado l’entrata in guerra della Bulgaria, suo Paese natale, al Banco degli Imperi centrali, venne mandato nel Caucaso, per punizione dopo il crollo di Gorlice e per evitargli l’imbarazzo di dover combattere contro i suoi ex compatrioti, e quindi guidò la Dodicesima armata sul fronte di Riga, ma nell’estate del 1917 venne nuovamente destituito, anche per la debolezza dimostrata nei confronti dei comitati di soldati sorti dopo la rivoluzione di febbraio. Congedato, si concesse una vacanza con la famiglia nel Caucaso, ma venne catturato dai bolscevichi e fucilato con un altro centinaio di ufficiali zaristi il 18 ottobre 1918.
AugustvonMackensen.jpg

August von Mackensen in tenuta da ussaro della morte in una fotografia del 1915.

LA CADUTA DELLE FORTEZZE ZARISTE. Ben diversa la sorte del rivale Mackensen. Dopo aver ripreso Przemysl ed essersi impossessati della città polacca di Lodz, il 4 agosto gli austro tedeschi entrarono nella capitale Varsavia, sgomberata dai russi. Anche questa vittoria portava il timbro del comandate dell’Undicesima armata. Mackensen, spalleggiato da Falkenhayn, aveva, infatti, chiesto e ottenuto, in un incontro presieduto dal kaiser Guglielmo II a Pless il 3 giugno, che l’offensiva continuasse, dopo la voragine aperta nello schieramento russo al sud e al centro del fronte orientale, mentre venne respinta la proposta di Ludendorff, comandante a nord, basata su un movimento avvolgente dalle coste del Baltico verso sud che, così riteneva, avrebbe tagliato la strada all’esercito russo in ripiegamento, determinando la fine della guerra sul fronte orientale. Tra il 17 agosto e il 4 settembre, le quattro storiche fortezze di frontiera zariste – Kovno, Novogeorgievsk, Brest Litowsk e Grodno – si arresero. Il numero dei prigionieri russi salì a 325mila, mila i cannoni finiti nelle mani di tedeschi e austriaci. Tuttavia, l’impeto dell’offensiva si stava esaurendo. Entro il mese di settembre i russi, abbandonato saggiamente il saliente polacco, avevano accorciato il fronte da 1500 a 900 chilometri, un’economia di spazio – come la definisce lo storico Keegan – che permise allo Stavka di liberare riserve da opporre risorse da opporre all’avanzata di Ludendorff lungo la costa baltica e nel centro, e addirittura di contrattaccare a sud contro gli austriaci nella zona di Lutsz. Il tenace e impaziente Ludendorff avrebbe voluto scagliare le armate tedesche in una nuova manovra d’attacco che, nel suo disegno, le avrebbe portate dal fiume Niemen sul Baltico alle paludi di Pripet nel centro del fronte orientale, intrappolando i russi in ritirata e provocandone la capitolazione, ma dovette accontentarsi di entrare a Vilnius, nella Lituania russa, a settembre, pagando un prezzo elevato in morti e feriti. Con l’autunno, e le prime abbondanti piogge, arrivò anche la raspuputisa, che in russo indica il terreno trasformato in una distesa di fango in cui si affondava fino al ginocchio, ostacolando ogni movimento di uomini, cavalli e mezzi (i tedeschi ne avrebbero fatte le spese anche durante l’operazione Barbarossa del 1941). Il fronte orientale si stabilizzò così lungo una linea che correva quasi perpendicolarmente dal golfo di Riga nel Baltico a Czernowitz nei Carpazi.

Erich von Falkenhayn, luci e ombre di un grande generale.
Erich von Falkenhayn-retouched.jpg
Oggetto di giudizi controversi – per taluni, come Winston Churchill, fu il miglior generale tedesco della Prima guerra mondiale, per altri, il metodo della “battaglia d’attrito” da lui sperimentato a Verdun indicò all’Intesa, che con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti disponeva di più uomini e risorse, la strada de seguire per sconfiggere la Germania – Erich von Falkenhayn nacque a Graudenz, in Pomerania, l’11 settembre 1861, da una famiglia di junker, l’aristocrazia terriera prussiana. Entrato nell’esercito, servì in Cina tra il 1896 e il 1903, con la missione militare tedesca, distinguendosi nella repressione della rivolta dei Boxer. Ministro della guerra nel 1913, nel settembre 1914 succedette a Moltke come capo di stato Maggiore generale, dopo la battaglia della Marna, la sconfitta tedesca e il fallimento del piano Schlieffen di attacco a Occidente. Il successivo tentativo di aggirare le armate francesi e inglesi, raggiungendo la costa del mare del Nord, fu bloccato a Ypres. Come il suo predecessore, Falkenhayn continuò a dare maggior peso al fronte occidentale rispetto al quello orientale, entrando così in contrasto con Hindenburg e Ludendorff, che volevano invece una massiccia offensiva a Est per costringere la Russia zarista alla pace separata. Tuttavia, la battaglia di Verdun da lui pianificata da lui pianificata per mettere in ginocchio l’esercito francese, si concluse con un fallimento ed enormi perdite anche per i tedeschi; il Kaiser Guglielmo II decise quindi di sostituirlo con lo stesso Hindenburg. Falkenhayn si rifece conducendo insieme al generale Mackensn, la brillante campagna contro la Romania, che si concluse con la distruzione dell’esercito romeno e la conquista della capitale Bucarest (5 dicembre 1916). In seguito a questo successo, gli fu affidato il comando militare della Palestina (allora dominio ottomano), ma, anche a causa della grave disparità di mezzi rispetto ai britannici, fu costretto ad abbandonare Gerusalemme nel dicembre 1917. Si oppose però alla cacciata degli ebrei dalla Terra promessa. Nel febbraio 1918 divenne comandante della 10a armata, impegnata in Bielorussia. Dopo l’armistizio e la pace di Versailles, fu collocato a riposo e si ritirò a vita privata, scrivendo numerosi libri sulla guerra, saggi di strategia e un’autobiografia. Morì a Postam l’8 aprile 1922.

TRAVOLGENTE AVANZATA. La Russia zarista aveva perso gran parte della Polonia e il suo esercito aveva subito un vero e proprio salasso: quasi un milione tra morti, feriti e dispersi, oltre a 750mila prigionieri ed enormi quantità di materiale perduto. Gravissima era anche la perdita della rete di fortezza di frontiera, realizzate per ostacolare l’attraversamento dei fiumi che formavano una barriera naturale. Ma Nicola II, che dal 1° settembre aveva assunto il comando supremo esecutivo dell’esercito con Alekseev come capo di stato maggiore e il granduca Nicola richiamato dal Caucaso disponeva ancora di immense riserve umane e il cuore dell’impero era rimasto intatto. Dal punto di vista austro tedesco, in ogni caso, Gorlice era stato un trionfo. Falkenhayn aveva resistito alla tentazione di distogliere truppe per inviarle sul cruciale fronte occidentale, e non si era fatto distrarre dalle sirene di gloria degli ambiziosi progetti di Lundendoff, sostenendo fino in fondo Mackensen. Il risultato fu un’impetuosa e travolgente avanzata quali non se ne sarebbero mai viste a ovest e che ebbe una replica ancora più spettacolare a est solo dopo il definitivo collasso dei russi  - che spostò il fronte verso oriente di diverse centinaia di chilometri, allontanando per il resto della guerra la minaccia zarista sulla Galizia e consegnando a Berlino e Vienna le pianure polacche. Il generale vittorioso passò, logicamente all’incasso. A ottobre, fu messo a capo dell’Heeresgruppe Mackensen, formato dalla fedele Undicesima armata tedesca, dalla Terza armata austriaca e da reparti bulgari, protagonista di una con nuova operazione congiunta, che si concluse con la conquista di Belgrado e la resa della Serbia. Mackensen rese onore al valor dei soldati serbi facendo erigere un monumento dedicato ai caduti in combattimento. Nel 1916, coordinò la campagna contro la Romania e stavolta ai suoi ordini c’erano anche turchi e bulgari, in un’armata multinazionale che condusse a un nuovo, brillante successo, che gli valse la Schwarzer Adler (Aquila Nera), alta onorificenza prussiana, aggiunta all’ambitissima Pour le Mérite conferitagli dopo la conquista di Przemysl, e la promozione al grado di Fedelmaresciallo. Dalla fine 1917 alla conclusione della guerra, von Mackensen fu governatore militare della Romania.
La sua ultima campagna, mirata a distruggere il ricostituito esercito romeno, terminò con uno scacco. Alla resa tedesca, venne catturato dall’armata francese del generale D’Esperey e internato come prigioniero di guerra fino al dicembre 1919. Nel periodo di Weimar, Mackensen, convinto monarchico, appoggiò gruppi conservatori e l’organizzazione militarista di estrema tedesca Stahlhelm (Elmetto d’acciaio), che vagheggiava il ritorno del Kaiser e la denuncia del trattato di Versailles. Tiepido sostenitore del regime nazista, dopo essersi schierato per l’elezione a presidente di von Hindenburg nel 1932, protestò tuttavia energicamente per l’assassinio dei generali Ferdinand von Bredow e Kurt von Schleicher, e per le atrocità commesse in Polonia dopo l’invasione del settembre 1939. Hitler e Goebbels sospettavano della sua lealtà, ma non lo fecero arrestare. Il Fedelmaresciallo partecipò, tutto impettito, nell’alta uniforme degli ussari “teste di morto”, con il caratteristico copricapo, un paio di baffoni a incorniciargli il volto rugoso, le decorazioni di guerra sfoggiate orgogliosamente sul petto, ai funerali di Guglielmo II, svoltisi nel giugno 1941 a Doorn, in Olanda (dove l’imperatore era riparato in esilio dopo l’abdicazione), insieme ad altri esponenti dell’élite militare, come l’ammiraglio Wilhelm Canaris, capo dell’Abwehr, il servizio segreto della Wehrmacht. Fece in tempo ad assistere al crollo del Terzo Reich, alla nuova disfatta della Germania e alla fine della Seconda guerra mondiale, prima della morte che lo colse l’8 novembre 1945. Ebbe due figli: Hans Georg, ambasciatore tedesco in Italia dal 1938 al 1943, generale delle SS, ed Eberhard, comandante di reparti corazzati nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale, poi a capo della Quattordicesima armata che fronteggiava i reparti alleati sbarcati ad Anzio, condannato alla pena di morte (commutata in carcere a vita, ma fu rimesso in libertà nel 1952) per l’implicazione nell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Articolo in gran parte di Roberto Lodigiani pubblicato su Storie di Guerre e Guerriere n. 22 Sprea editore – altri testi e articoli da Wikipedia. 

Nessun commento:

Posta un commento

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...