Offensiva di
Gorlice-Tarnow, 1915 il capolavoro austro-tedesco.
Maggio 1915: mentre sul
fronte occidentale la guerra sprofonda nel fango delle trincee, l’offensiva
degli imperi centrali provoca il crollo russo in Galizia e in Polonia. Il
generale Von Mackensen, astro nascente dell’esercito del Kaiser, surclassa il
rivale Dimitriev che finirà fucilato dai bolscevichi.
Il Fronte orientale nel 1915 | |
Data | 1º maggio – 18 settembre, 1915 |
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Luogo | Zone circostanti Gorlice e Tarnów, vicino a Cracovia |
Esito | Vittoria austro-ungarica e tedesca |
Sbaragliati
a Tanneberg e ai Laghi Masuri – le battaglie che cominciarono a edificare il
mito del Fedelmaresciallo Paul von Hinderburg e del suo luogotenente Erich
Ludendorff – i russi, grazie al loro immenso potenziale umano, continuavano a
rappresentare una minaccia, non soltanto potenziale, per le estreme regioni
orientali della Germania (la Prussia e la Slesia) e ancor più per i traballanti
confini dell’Impero austro-ungarico. Fu così che, nel 1915, mentre sul fronte
occidentale gli eserciti sprofondavano nelle trincee, in una situazione di
sostanziale stallo, venne concepito e attuato il piano che avrebbe permesso
agli Imperi centrali di riconquistare la Galizia austriaca – strappata a Vienna
dalle armante dello zar Nicola II nell’autunno 1913, durante le prime fasi
della guerra – e gran parte della Polonia, oltre alle quattro città fortezza di
Kovno, Novogeorgievsk, Brest-Litovsk e Grodno. Il primo a proporre quella che
sarebbe stata poi definita l’offensiva di Gorlice-Tarnow (per lo storico
militare inglese Basil Liddel Hart “la più brillante vittoria di tedeschi e
austriaci a est”) fu il generale Franz Conrad von Hotzendorf, capo di Stato
Maggiore dell’esercito austro-ungarico, nemico giurato degli italiani (contro
cui avrebbe scagliato la Strafexpedition, la spedizione punitiva del 1916 in
Trentino, invocando poi, inutilmente, la necessità di un secondo attacco dal
fronte alpino durante l’offensiva di Caporetto). Egli intuì le potenzialità
insite in una manovra avvolgente nella zona a sud est di Cracovia, al limite
meridionale del fronte orientale, con una partecipazione congiunta di reparti
tedeschi e austriaci. Inizialmente, il suo omologo germanico, il generale Erich
von Falkenhayn, respinse questa idea, perché contrario a distogliere uomini e
risorse dal fronte occidentale, da lui ritenuto decisivo per l’esito del
conflitto. Ma successivamente cambiò opinione e fu lui stesso a concepire il
piano esecutivo dell’operazione, concepire il piano esecutivo dell’operazione,
affidandone la messa in atto al generale August von Mackensen. Nato il 6
dicembre 1849 ad Hans Leibnitz, in Sassonia, volontario nel secondo reggimento
ussari, sottotenente durante la guerra franco-prussiana del 1870, decorato con
la Croce di Ferro di seconda classe, Mackensen si era distinto nelle vittoriose
campagne in Prussia orientale nel 1914. Gli venne affidato il comando dell’11°
Armata, comprendente dieci divisioni di fanteria e una di cavalleria,
affiancata dalla 4a Armata austro-ungarica, guidata dall’arciduca Giuseppe
Ferdinando e forte di nove divisioni. Come capo di stato maggiore aveva Hans
von Seekt, futuro comandante della Reichswehr durante la repubblicani Weimar
che sarà artefice della rinascita dell’esercito tedesco dopo la resa del 1918.
Scrive John Keegan, a lungo docente di storia militare alla prestigiosa
accademia reale inglese di Sandhurst: “Gli
ordini operativi di Mackensen sottolineavano l’importanza di una penetrazione
rapida e sufficientemente profonda da impedire ai russi di portare avanti
riserve per arginare la piena”. Una profonda penetrazione di fanteria e un
supporto rapido da parte dell’artiglieria erano essenziali per Mackensen, che
concentrò 126mila uomini, 460 pezzi di artiglieria leggera e oltre 150 di
artiglieria pesante, oltre a un centinaio di mortai, su un fronte di appena 35
chilometri. Erano “in nuce” i metodi che sarebbero stati applicati poi con
altrettanto successo a Caporetto e, su scala ancora più vasta, nelle offensive
del 1918 sul fronte occidentale, abbinati alla tecnica dell’infiltrazione nelle
linee nemiche, che consisteva nell’aggirare i punti di resistenza e nel
continuare ad avanzare, non curandosi dei reparti avversari lasciati alle
spalle. A est, come a ovest, c’erano grandi concentrazione di fanteria, ma gli
spazi erano immensi e le difese meno organizzate; più rado era inoltre lo
sbarramento di filo spinato, come pure la densità delle mitragliatrici, l’arma
regina della Prima guerra mondiale, nella quale i tedeschi vantavano una netta
superiorità per numero ed efficienza tecnica rispetto alle armate zariste.
Di fronte, gli austro
tedeschi avevano la Terza armata russa, forte di 18 divisioni di fanteria, 5 di
cavalleria e una mista. In assoluto, i russi erano addirittura superiori al
nemico, ma nella zona scelta da Falkenhayn e Mackensen per lo sfondamento schieravano
solo 5 deboli divisioni, circa 60mila uomini, con appena 140 pezzi di
artiglieria pesante e 4 obici campali: la superiorità tedesca e austriaca in
quel settore era quindi di due a uno per il numero di uomini e di quattro a uno
per l’artiglieria. La Terza armata era agli ordini del generale Radko
Dimitriev, un personaggio enigmatico e controverso. Di origini bulgare, classe
1859 – quindi di dieci anni più giovane del rivale Mackensen – si era messo in
evidenza nella guerra serbo-bulgara del 1895, sbaragliando il nemico a Slivnica
(dove gli fu dedicato un busto in marmo). Ma i tedeschi erano avversari di
tempra ben diversa e Dimitriev se ne sarebbe presto accorto amaramente.
Von Seeckt, il perfetto braccio
destro.
“Dove c’è Mackensen c’è Seeckt.
Dove c’è Seeckt, c’è vittoria”. Questo detto si diffuse nell’esercito tedesco
dopo la travolgente offensiva di Gorlice, che aveva sbaragliato i russi. Un
sodalizio, quello tra l’ex cadetto degli ussari e il suo braccio destro,
cominciato nel marzo 1915, quando Hans von Seeckt era stato nominato capo di
stato maggiore dell’11a armata. In questa veste, aveva contribuito a
pianificare l’attacco del maggio successivo, che si sarebbe tradotto in una
delle maggiori vittorie austro tedesche della Prima guerra mondiale. Seeckt,
che si era fatto le ossa sul fronte occidentale, contribuì a elaborare il
metodo offensivo che avrebbe posto le premesse della tattica di
infiltrazione, spingendo le riserve contro i punti di minor resistenza e
facendole penetrare quanto più profondamente possibile, anziché utilizzarle
per eliminare le sacche di resistenza più forti. Il fortunato sodalizio con
von Mackensen proseguì nelle vittoriose campagne contro Serbia e Romania,
oltre che nelle manovre organizzate per fermare il contrattacco russo nella
Galizia austriaca (offensiva Brusilov). In seguito, Seeckt fu inviato in
Turchia, con la carica di capo di stato maggiore dell’esercito ottomano. Dopo
l’armistizio, la non compromissione della disastrosa conclusione delle
operazioni sul fronte occidentale, la fame di ottimo organizzatore e le
capacità di mediazione con la politica ne fecero il candidato naturale ad
assumere la guida dell’esercito tedesco, fortemente ridimensionato dal
trattato di Versailles, che vietava alla Germania di possedere un’aviazione e
di avere più di 100mila uomini sotto le armi. Seect, che alla conferenza di
pace aveva cercato, inutilmente, di ottenere condizioni più miti per il suo
Paese, fu comandante in capo della Reichswehr dal 1920 al 1926, ponendo le
basi della rinascita delle forze armate. Quando venne collocato a riposo, la
Reichsehr possedeva una chiara e standardizzata dottrina operativa, nonché
una precisa teoria sul futuro modo di combattere, che influenzò notevolmente
le campagne militari della Wehrmacht nel 1939 e 1940. Cruciale, per la
organizzazione dell’esercito e lo sviluppo delle nuove armi, come quella
corazzata, che avrebbero gradualmente contribuito ai successi tedeschi nei
primi anni della Seconda guerra mondiale, fu anche il riavvicinamento alla Russia
sovietica, nel periodo della repubblica di Weimar, fortemente voluto proprio
da Seeckt. Sollevato dall’incarico dopo le polemiche suscitate dalla sua
decisione di invitare un principe Hohenzollern – la casata dell’imperatore
Guglielmo II, deposto nel 1918 – ad assistere alle manovre autunnali, Seeckt
fu deputato al Reichsta per il Deutsche Volkspartei dal 1930 al 1932. Con
l’avvento del nazismo, venne inviato in Cina a dirigere la missione militare
tedesca e qui collaborò con il generalissimo nazionalista Chiag-Kai-Sheck.
Tornato in patria, morì a Berlino il 27 dicembre 1936.
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La battaglia in breve.
La cartina evidenzia lo sviluppo
delle operazioni sul Fronte Orientale, dallo scoppio della Prima guerra
mondiale (luglio-agosto 1914) fino alla pace di Brest Litovsk (3 marzo 1918),
tra gli imperi centrali e la Russia sovietica. una prima fase è
caratterizzata dall’avanzata russa nella Galizia austriaca (1914-1915), a cui
i tedeschi e austroungarici risposero con l’offensiva di Gorlice-Tarnow e
l’attacco a nord, che portò alla riconquista della Galizia e all’occupazione
di buona parte della Polonia russa (1915-1916);
dopo la controffensiva del generale Brusilov, che si esaurì rapidamente senza
durature conquiste territoriali (1916), la crisi dell’esercito zarista
consentì ai tedeschi di penetrare profondamente in Ucraina, Bielorussia e
nelle repubbliche baltiche.
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COME UNO TSUNAMI. L’attacco della fanteria scattò
la mattina del 2 maggio 1915, dopo che, dalla sera precedente, il bombardamento
preparatorio dell’artiglieria aveva scompaginato le linee russe. L’urto
violento della massa di manovra tedesca travolse rapidamente i reparti di
Dimitriev. In alcuni tratti mancava una seconda linea di trincee e gli
sbarramenti di filo spinato erano poco profondi, mentre in altri ondate di
fanti russi, presi dal panico, si riversarono nelle retrovie abbandonando le armi
e l’equipaggiamento pensando solo a mettersi in salvo. Già il 4 maggio
l’Undicesima armata si aprì la strada per un’avanzata in profondità in
campagna, mentre 140mila prigionieri russi marciavano in lunghe colonne verso
le retrovie tedesche. L’armata di Dimitriev, di fatto, aveva cessato di
esistere – basti pensare che il terzo corpo d’armata del Caucaso, rispetto a un
organico iniziale di 40mila unità, aveva visto la sua consistenza ridotta a
circa 8mila – anche se lo Stavka, l’alto comando zarista, inizialmente
sottovalutò la portata del disastro, ritenendo che il principale colpo tedesco
sarebbe stato sferrato a nord. Un contrattacco russo al passo di Dokra (7
maggio) non fermò lo tsunami nemico e si risolse in un massacro inutile. Il 10
maggio, un disperato Dimitriev ordinò la ritirata, ma era ormai troppo tardi
per evitare il quasi totale annientamento della Terza armata. Solo 40mila
soldati, un quinto della forza iniziale della grande unità zarista, raggiunsero
il fiume San, guadagnando un po’ di respiro.
La breccia, intanto, si
allargava e si approfondiva. Il 14 maggio, il fronte austro tedesco era giunto
a Przemysl, città fortezza strappata dai russi agli austroungarici nel corso
dell’offensiva in Galizia dell’anno precedente e, che lo stesso Dimitriev aveva
contribuito a conquistare. Lo sfortunato generale, in un rapporto ai suoi
superiori, non nascose lo sfacelo della sua armata, chiedendo ingenti rinforzi
per fermare il rullo compressore tedesco ma per tutta risposta, il 2 giugno,
venne rimosso dal comando. Continuò comunque a servire la causa dello zar,
malgrado l’entrata in guerra della Bulgaria, suo Paese natale, al Banco degli
Imperi centrali, venne mandato nel Caucaso, per punizione dopo il crollo di
Gorlice e per evitargli l’imbarazzo di dover combattere contro i suoi ex
compatrioti, e quindi guidò la Dodicesima armata sul fronte di Riga, ma
nell’estate del 1917 venne nuovamente destituito, anche per la debolezza
dimostrata nei confronti dei comitati di soldati sorti dopo la rivoluzione di febbraio.
Congedato, si concesse una vacanza con la famiglia nel Caucaso, ma venne
catturato dai bolscevichi e fucilato con un altro centinaio di ufficiali
zaristi il 18 ottobre 1918.
August von Mackensen in tenuta da ussaro della morte in una fotografia del 1915.
LA CADUTA DELLE FORTEZZE ZARISTE. Ben diversa la
sorte del rivale Mackensen. Dopo aver ripreso Przemysl ed essersi impossessati
della città polacca di Lodz, il 4 agosto gli austro tedeschi entrarono nella
capitale Varsavia, sgomberata dai russi. Anche questa vittoria portava il
timbro del comandate dell’Undicesima armata. Mackensen, spalleggiato da
Falkenhayn, aveva, infatti, chiesto e ottenuto, in un incontro presieduto dal
kaiser Guglielmo II a Pless il 3 giugno, che l’offensiva continuasse, dopo la
voragine aperta nello schieramento russo al sud e al centro del fronte orientale,
mentre venne respinta la proposta di Ludendorff, comandante a nord, basata su
un movimento avvolgente dalle coste del Baltico verso sud che, così riteneva,
avrebbe tagliato la strada all’esercito russo in ripiegamento, determinando la
fine della guerra sul fronte orientale. Tra il 17 agosto e il 4 settembre, le
quattro storiche fortezze di frontiera zariste – Kovno, Novogeorgievsk, Brest
Litowsk e Grodno – si arresero. Il numero dei prigionieri russi salì a 325mila,
mila i cannoni finiti nelle mani di tedeschi e austriaci. Tuttavia, l’impeto
dell’offensiva si stava esaurendo. Entro il mese di settembre i russi,
abbandonato saggiamente il saliente polacco, avevano accorciato il fronte da
1500 a 900 chilometri, un’economia di spazio – come la definisce lo storico
Keegan – che permise allo Stavka di liberare riserve da opporre risorse da
opporre all’avanzata di Ludendorff lungo la costa baltica e nel centro, e
addirittura di contrattaccare a sud contro gli austriaci nella zona di Lutsz.
Il tenace e impaziente Ludendorff avrebbe voluto scagliare le armate tedesche
in una nuova manovra d’attacco che, nel suo disegno, le avrebbe portate dal
fiume Niemen sul Baltico alle paludi di Pripet nel centro del fronte orientale,
intrappolando i russi in ritirata e provocandone la capitolazione, ma dovette
accontentarsi di entrare a Vilnius, nella Lituania russa, a settembre, pagando
un prezzo elevato in morti e feriti. Con l’autunno, e le prime abbondanti
piogge, arrivò anche la raspuputisa, che in russo indica il terreno trasformato
in una distesa di fango in cui si affondava fino al ginocchio, ostacolando ogni
movimento di uomini, cavalli e mezzi (i tedeschi ne avrebbero fatte le spese
anche durante l’operazione Barbarossa del 1941). Il fronte orientale si stabilizzò
così lungo una linea che correva quasi perpendicolarmente dal golfo di Riga nel
Baltico a Czernowitz nei Carpazi.
Erich von Falkenhayn, luci e ombre
di un grande generale.
Oggetto di giudizi controversi –
per taluni, come Winston Churchill, fu il miglior generale tedesco della
Prima guerra mondiale, per altri, il metodo della “battaglia d’attrito” da
lui sperimentato a Verdun indicò all’Intesa, che con l’ingresso nel conflitto
degli Stati Uniti disponeva di più uomini e risorse, la strada de seguire per
sconfiggere la Germania – Erich von Falkenhayn nacque a Graudenz, in
Pomerania, l’11 settembre 1861, da una famiglia di junker, l’aristocrazia
terriera prussiana. Entrato nell’esercito, servì in Cina tra il 1896 e il
1903, con la missione militare tedesca, distinguendosi nella repressione
della rivolta dei Boxer. Ministro della guerra nel 1913, nel settembre 1914
succedette a Moltke come capo di stato Maggiore generale, dopo la battaglia
della Marna, la sconfitta tedesca e il fallimento del piano Schlieffen di
attacco a Occidente. Il successivo tentativo di aggirare le armate francesi e
inglesi, raggiungendo la costa del mare del Nord, fu bloccato a Ypres. Come
il suo predecessore, Falkenhayn continuò a dare maggior peso al fronte
occidentale rispetto al quello orientale, entrando così in contrasto con
Hindenburg e Ludendorff, che volevano invece una massiccia offensiva a Est
per costringere la Russia zarista alla pace separata. Tuttavia, la battaglia
di Verdun da lui pianificata da lui pianificata per mettere in ginocchio
l’esercito francese, si concluse con un fallimento ed enormi perdite anche
per i tedeschi; il Kaiser Guglielmo II decise quindi di sostituirlo con lo
stesso Hindenburg. Falkenhayn si rifece conducendo insieme al generale
Mackensn, la brillante campagna contro la Romania, che si concluse con la
distruzione dell’esercito romeno e la conquista della capitale Bucarest (5
dicembre 1916). In seguito a questo successo, gli fu affidato il comando
militare della Palestina (allora dominio ottomano), ma, anche a causa della
grave disparità di mezzi rispetto ai britannici, fu costretto ad abbandonare
Gerusalemme nel dicembre 1917. Si oppose però alla cacciata degli ebrei dalla
Terra promessa. Nel febbraio 1918 divenne comandante della 10a armata, impegnata
in Bielorussia. Dopo l’armistizio e la pace di Versailles, fu collocato a
riposo e si ritirò a vita privata, scrivendo numerosi libri sulla guerra,
saggi di strategia e un’autobiografia. Morì a Postam l’8 aprile 1922.
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TRAVOLGENTE AVANZATA. La Russia zarista aveva
perso gran parte della Polonia e il suo esercito aveva subito un vero e proprio
salasso: quasi un milione tra morti, feriti e dispersi, oltre a 750mila
prigionieri ed enormi quantità di materiale perduto. Gravissima era anche la
perdita della rete di fortezza di frontiera, realizzate per ostacolare
l’attraversamento dei fiumi che formavano una barriera naturale. Ma Nicola II,
che dal 1° settembre aveva assunto il comando supremo esecutivo dell’esercito
con Alekseev come capo di stato maggiore e il granduca Nicola richiamato dal
Caucaso disponeva ancora di immense riserve umane e il cuore dell’impero era
rimasto intatto. Dal punto di vista austro tedesco, in ogni caso, Gorlice era
stato un trionfo. Falkenhayn aveva resistito alla tentazione di distogliere
truppe per inviarle sul cruciale fronte occidentale, e non si era fatto
distrarre dalle sirene di gloria degli ambiziosi progetti di Lundendoff,
sostenendo fino in fondo Mackensen. Il risultato fu un’impetuosa e travolgente
avanzata quali non se ne sarebbero mai viste a ovest e che ebbe una replica
ancora più spettacolare a est solo dopo il definitivo collasso dei russi - che spostò il fronte verso oriente di
diverse centinaia di chilometri, allontanando per il resto della guerra la
minaccia zarista sulla Galizia e consegnando a Berlino e Vienna le pianure
polacche. Il generale vittorioso passò, logicamente all’incasso. A ottobre, fu
messo a capo dell’Heeresgruppe Mackensen, formato dalla fedele Undicesima
armata tedesca, dalla Terza armata austriaca e da reparti bulgari, protagonista
di una con nuova operazione congiunta, che si concluse con la conquista di
Belgrado e la resa della Serbia. Mackensen rese onore al valor dei soldati serbi
facendo erigere un monumento dedicato ai caduti in combattimento. Nel 1916,
coordinò la campagna contro la Romania e stavolta ai suoi ordini c’erano anche
turchi e bulgari, in un’armata multinazionale che condusse a un nuovo,
brillante successo, che gli valse la Schwarzer Adler (Aquila Nera), alta
onorificenza prussiana, aggiunta all’ambitissima Pour le Mérite conferitagli
dopo la conquista di Przemysl, e la promozione al grado di Fedelmaresciallo.
Dalla fine 1917 alla conclusione della guerra, von Mackensen fu governatore
militare della Romania.
La sua ultima campagna,
mirata a distruggere il ricostituito esercito romeno, terminò con uno scacco.
Alla resa tedesca, venne catturato dall’armata francese del generale D’Esperey
e internato come prigioniero di guerra fino al dicembre 1919. Nel periodo di
Weimar, Mackensen, convinto monarchico, appoggiò gruppi conservatori e
l’organizzazione militarista di estrema tedesca Stahlhelm (Elmetto d’acciaio),
che vagheggiava il ritorno del Kaiser e la denuncia del trattato di Versailles.
Tiepido sostenitore del regime nazista, dopo essersi schierato per l’elezione a
presidente di von Hindenburg nel 1932, protestò tuttavia energicamente per
l’assassinio dei generali Ferdinand von Bredow e Kurt von Schleicher, e per le
atrocità commesse in Polonia dopo l’invasione del settembre 1939. Hitler e
Goebbels sospettavano della sua lealtà, ma non lo fecero arrestare. Il
Fedelmaresciallo partecipò, tutto impettito, nell’alta uniforme degli ussari
“teste di morto”, con il caratteristico copricapo, un paio di baffoni a
incorniciargli il volto rugoso, le decorazioni di guerra sfoggiate
orgogliosamente sul petto, ai funerali di Guglielmo II, svoltisi nel giugno
1941 a Doorn, in Olanda (dove l’imperatore era riparato in esilio dopo l’abdicazione),
insieme ad altri esponenti dell’élite militare, come l’ammiraglio Wilhelm
Canaris, capo dell’Abwehr, il servizio segreto della Wehrmacht. Fece in tempo
ad assistere al crollo del Terzo Reich, alla nuova disfatta della Germania e
alla fine della Seconda guerra mondiale, prima della morte che lo colse l’8
novembre 1945. Ebbe due figli: Hans Georg, ambasciatore tedesco in Italia dal
1938 al 1943, generale delle SS, ed Eberhard, comandante di reparti corazzati
nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale, poi a capo della
Quattordicesima armata che fronteggiava i reparti alleati sbarcati ad Anzio,
condannato alla pena di morte (commutata in carcere a vita, ma fu rimesso in
libertà nel 1952) per l’implicazione nell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Articolo in gran parte
di Roberto Lodigiani pubblicato su Storie di Guerre e Guerriere n. 22 Sprea
editore – altri testi e articoli da Wikipedia.
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