mercoledì 6 gennaio 2021

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

 

I  vichinghi gli eroi delle saghe.

I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. Tra il XII e il XIII secolo furono messe per iscritto e sono pervenute fino ai nostri giorni.

Ragnar Loðbrók in un'illustrazione delle cronache di Norimberga del 1495.
 

Chi non conosce le divinità nordiche? Forse non tutte, ma sicuramente le più famose del pantheon:
Odino, Thor e Loki sono divenuti popolari grazie alle varie rappresentazioni che ne sono state fatte dall’opera, dai fumetti e dal cinema, mentre gli eroi vichinghi, ovvero i protagonisti delle saghe che ricostruiscono la storia degli antichi popoli scandinavi, sono sempre rimaste in secondo piano. Almeno fino a quando la recente serie Vikings, che ha portato sullo schermo le vicende della stirpe di Ragnarr Lodbrok, ha risvegliato l’interesse per i personaggi in carne e ossa.

Gli eroi combattono nella bruma che unisce in modo misterioso e ancestrale il mondo degli dei e quello degli uomini, e proprio in virtù di tale unione dobbiamo chiederci se possiamo considerarli figure umane oppure divine. Questi eroi sono soltanto la versione umana delle divinità? Fino a che punto costituiscono, nel carattere, un esemplare perfetto di essere umano? Di sicuro nelle saghe nordiche gli eroi hanno un ruolo di prototipo, o modello, e per questo sono rappresentati in modo idealizzato. Non dobbiamo quindi commettere l’errore di considerare le storie scritte su di loro alla stregua di un semplice racconto biografico. Basta prendere come esempio la saga dell’ero Sigurdr e della sua stirpe, in cui figura il già menzionato Ragnarr Lodbrok. Narrata già nel X secolo, viene ripresa in La Saga dei Volsunghi, e nel suo seguito, la Saga di Ragnarr, redatta, al pri della precedente, nel XIII secolo. Secondo il racconti, Aslaug – che diventerà la terza moglie di Ragnarr – nasce dall’uccisore dei draghi Sigurdr e dall’eroina Brynhlldr, o Brunilde. Le avventure dell’eroe leggendario Ragnarr avvengono nella Svezia del IX secolo, e in una di queste l’eroe si fa confezionare uno strano vestito per il quale sarà chiamato “Brache pelose”, costituito appunto da brache pelose con cui, assieme a un manto di cotone, si protegge dagli attacchi di un serpente,che poi trapasserà a fil di lancia. Per questa gloriosa impresa diverrà molto celebre in tutti Paesi scandinavi.

 


La morte di Ragnarr Loðbrók causata da Aelle II di Northumbria. Illustrazione pubblicata nel 1830.

 

L’epoca delle saghe.

872-930 circa

Sotto Harald I Bellachioma, primo re della Norvegia, molti nobili realizzano delle spedizioni per mare.

995

Olaf I di Norvegia, le cui gesta saranno celebrare in molte saghe, sale al trono dopo essersi convertito al cristianesimo.

874

Il norvegese Ingolfur Arnason arriva a Reykjavik, dando così inizio alla colonizzazione dell’Islanda, descritta nel Landnamabok.

1000 circa

Leif Eriksson giunge in Vinlandia, forse l’isola di Teranove, com’è raccontato in La Saga di Eril il Rosso.

930-934

Regno di Erik Ascia Insanguinata. Uccise quasi tutti i suoi fratelli guadagnandosi il soprannome di fratrum interfector

1056

Isleifur Gissurarson diventa il primo vescovo islandese mezzo secolo dopo l’adozione ufficiale del cristianesimo.

 

Sigaror il Volsungo. Tutti gli eroi condividono la caratteristica di avere una qualche relazione con gli dei o ne sono discendenti o possono entrarci in contatto. In molte occasioni le divinità li favoriscono ma in altre li fanno cadere in disgrazia come nel caso di uno dei protagonisti di La Saga di Volsunghi: Sigmund, il padre di Sigur. Ormai vecchio ma ancora valoroso, va in battaglia contro le schiere dei suoi nemici e si lancia alla carica. Non viene ferito da nessuna delle molte lance e frecce che gli piovono addosso ma “quando la battaglia durava già da tempo, si presentò un uomo che indossava un cappello dalla tesa larga e un mantello blu. Era guercio e in mano reggeva una lancia. Quest’uomo si diresse verso Sigmund e brandì la lancia contro di lui. Quando il re Sigmund gli assestò un colpo fermo con la spada, questa, nel colpire la lancia, si ruppe in due pezzi. Da quel momento cambiò l’esito dello scontro. La buona stella abbandonò Sigmund e molti dei suoi guerrieri gli morirono davanti.”. La saga non rivela l’identità del misterioso personaggi, ma il pubblico dell’epoca poteva facilmente riconoscervi il dio Odino.

La Saga dei Volsunghi e quella di Ragnarr Lodbrok fanno parte di un sottogenere delle saghe conosciuto come “saghe dei tempi antichi”. Gli eventi di questi racconti leggendari o mitico-eroici si svolgono spesso in luoghi remoti e immaginari. Le gesta sono accompagnate da descrizioni di oggetti magici e creature fantastiche, così da suscitare nel lettore moderno l’impressione di trovarsi davanti a un racconto di finzione. Eppure sicuramente molte delle saghe combinano questi elementi fittizi e soprannaturali con dati storici. Oggi abbiamo a disposizione una trentina di saghe leggendarie che sviluppano la propria trama prima della colonizzazione dell’Islanda nel IX secolo.

 


Ragnarr incontra Kráka (figlia di Sigurðr Fáfnisbani), illustrazione di August Malmström.

Donne che preferiscono la guerra.

Nel suo Gesta Danorum, il cronista medievale Saxo Grammaticus, descriveva cosi le skjalmzer, o fanciulle guerriere vichinghe: “Anticamente tra i danesi ci furono donne che, trasformando la bellezza in modi da uomo, consacravano quasi tutti i momenti del loro tempo alle pratiche militari …. Quelle che possedevano o forza di carattere o una taglia fisica adeguata cercavano le lotte invece dei baci … consegnavano alla disciplina delle lance le mani che avrebbero dovuto porre sui telati e si esponevano ai dardi che avrebbero potuto far cadere a terra con il loro fascino”.

Sigurdr e il drago.

La Saga dei Volsunghi racconta come l’eroe Siguror decise d’intraprendere un viaggio alla ricerca del drago Fafnir per ucciderlo e toglierlo ‘l’elmo del terrore’. Addentratosi in un bosco incontrò un vecchio che gli consigliò di scavare molte buche e nascondersi in una di quelle finché non fosse comparso il mostro. “Quando il drago giunse strisciando per andare a bere, tutta la terra si mise a tremare cosicché pure la terra attorno a lui tremava. Soffiava veleno davanti a sé, ma Sigoror non si spaventò né ebbe paura dello strepito. Quando il drago passò sopra la buca in cui si trovava, Siguror gli assestò un colpo con l a spada all’altezza della scapola sinistra conficcandogliela fino all’impugnatura. Allora Siguror uscì fuori dalla buca e tirò con la spada. Aveva le braccia insanguinate fino alle spalle. Ferito a morte, il drago cominciò a dar colpi con la testa e la coda”.

La maga e l’eroe.

Dopo essersi scontrato con il re Hringr il guerriero Bosi finì incatenato dentro una segreta in attesa della morte. La notte prima della sua esecuzione giunse una vecchia maga, Busta che gli recitò una maledizione: “Che troll ed elfi / e norne fattucchiere / abitanti giganti della montagna / brucino le tue stanze / che ti odino i giganti delle brine / che i cavalli ti lascino a piedi / che la paglia ti pizzichi / e che le tormente ti facciano impazzire / e povero te / a meno che tu faccia la mia volontà”. Poi recitò altre strofe e concluse con questi versi: “I cani ti morderanno fino a farti morire, e che la tua anima sprofondi all’inferno”. Nel manoscritto sono presenti anche una serie di rune che sicuramente avevano l’effetto di stregare chiunque le guardasse.

Ragnarr Lodbrok, storia e leggenda.

Reso popolare dalla serie Vikings, Ragnarr Lodbrok fu forse una figura storica. Alcuni autori hanno posto le sue avventure in relazione con le incursioni vichinghe nei territori del Northumbria, nella parte occidentale dell’attuale Gran Bretagna, verso la fine dell’VIII secolo. Secondo altri studiosi il suo personaggio può ispirarsi a Reginheri, un guerriero che serviva alla corte del re Horik I di Danimarca (827-854). Gli Annali di Xanten dicono di lui che “saccheggiava i cristiani e i luoghi santi, e si specifica che morì nell’845, vittima di un castigo divino per i suoi sacrilegi”.

Lagertha da scudiera a sposa.

Saxo Grammatica racconta che Ragnarr Lodbrok giunse in Norvegia con il proposito di vendicare le mogli del re defunto oltraggiate da Fre, a quel tempo sovrano in Svizia. Molte di queste donne si unirono alla sua lotta. Tra loro figurava Lagertha, “donna esperta nella guerra che portando nel corpo di vergine un coraggio virile, lottava per prima tra i più agguerriti, con i capelli sciolti sulle spalle”. Una volta compiuta la sua missione ed eliminato il re di Svezia, Ragnarr pretese la giovane in sposa, ma riuscì a conquistarla solo dopo aver ucciso con le proprie mani un orso e un cane che erano a guardia della sua stanza.

Aslaug, la principessa contadina.

Un’altra delle compagne di Ragnarr fu Aslaug. I genitori, Siguror e Brynhildr, morirono quando lei aveva appena tre anni, per cui venne adottata dallo zio Heimer. La Saga di Ragnarr racconta che Heimer fece costruire un’enorme arpa per nascondervi Aslaug, “E quando la bambina piangeva, lui suonava l’arpa e lei taceva, perché Heimer era molto abile nelle arti”. Heimer la consegnò poi a una coppia di contadini, che la chiamarono Kraka. In tale stato l’avrebbe trovata Ragnarr tempo dopo. Innamoratosi di lei, la portò su una barca e la fece diventare sua concubina, finché ne scoprì l’ascendenza reale.

Gli altri protagonisti.

Le più di 130 saghe conservatesi sino a oggi, e scritte principalmente in Islanda, raccontano la storia di numerose eroine ed eroi come Egill, Ragnar Lodbrok, gli amici Bosi e Herrauor, o altri qui menzionati.

 

Freydis Eiriksdottir la figlia di Erik il Rosso, era nella spedizione che giunse in Vinlandia durante il X secolo. Si fece notare per la bravura nella lotta contro gli skraelingjar, i nativi, com’è scritto in la Saga di Erik il Rosso. Per spaventare i nemici Freyds batté l’elsa della spada contro il suo petto nudo.

 

Oddr l’arciere, protagonista di La saga di Oddr l’arciere, possedeva delle frecce magiche con cui aveva sconfitto numerosi nemici. Morì inciampando nel cranio di un cavallo dal quale era strisciato fuori un serpente che lo morse. Così si compì la profezia formulata anni prima, al momento della sua nascita.

 

Grettir il forte era un eroe intrepido e sempre di malumore. Il suo leggendario coraggio lo portò ad affrontare il draugr Glam, un non-morto che massacrava il popolo di una valle. Prima di morire, Glam maledisse Grettir alla luce della luna e quella fu la causa delle sue posteriore sventure.

 


Citazione della Njáls saga nel Möðruvallabók (AM 132 folio 13r) scritto intorno al 1350.

La saga della fanciulla guerriera. È il caso di La Saga di Hervor, la cui trama può essere collocata durante le battaglie tra goti e unni nel IV secolo. L’eroina Hervor, come Brynhildr, è una skjaldmaer  ovvero una fanciulla guerriera. La Saga di Hervor, l’unica a contenere nel titolo il nome di una donna, venne scritta nel XIII secolo e narra la vita dell’eroina e di tutta la sua stirpe. La protagonista è descritta come una ragazza di grande bellezza e dalla forza pari a quella degli uomini. Ben presto si esercita nel tiro con l’arco, nello scudo e nella spada, che nelle mansioni femminili, quali tessere e cucire. Dopo aver indossato i panni di un uomo ed essersi fatta chiamare Hervard, assume il comando di un gruppo di vichinghi per recarsi presso la tomba del padre Angantyr, un berserkr, o guerriero devoto a Odino. Qui recita la Hervararkvida, il Canto di Hervor, esortando il padre ad alzarsi e a consegnarli Tyrfing, la spada che le spetta in eredità e che era stata forgiata e maledetta dai nani Dvalinn e Dulinn. La saga ha ispirato J.R.R. Tolkein per la creazione di personaggi e situazioni della Terra di Mezzo in Il Signore degli anelli: ne è un esempio Eowyn, la principessa del regno di Rohan.

Tuttavia nel Medioevo scandinavo vennero redatti altri tipi di saghe nelle quali gli eroi non provengono dai poemi antichi e in cui le gesta non hanno luogo in scenari mitici. All’interno di tali testi raramente appaiono essere sovrannaturali, e gli dei non vengono quasi menzionati. Chi sono allora, e come sono, questi eroi che non affondano le loro radici nel mondo mitologico?

Una risposta ce la possono dare le quaranta islendingasogur, o Saghe degli Islandesi, giunte sino a noi. I loro protagonisti vivono nell’intervallo di tempo compreso tra la colonizzazione dell’Islanda, nel IX secolo, e l’adozione del cristianesimo, due secoli più tardi. Non a caso questo periodo è conosciuto come l’epoca delle saghe, la maggior parte dei personaggi e molti degli eventi descritti sono fedeli alla realtà storica e, poiché le saghe vengono messe per iscritto nei secoli XIII e XIV ma si riferiscono a fatti risalenti perfino a tre secoli prima, sono state paragonate ai romanzi storici. Possiamo inoltre notare come gli autori abbiano verosimilmente cercato ricostruire la storia in modo tale che il pubblico la percepisse come verosimile, e per questo nei testi abbondano genealogie e racconti biografici: molte saghe iniziano proprio con la descrizione dettagliata degli antenati del protagonista, con dati sui sovrani, riferimenti alle colonizzazioni di nuovi territori e alle battaglie che qui si combatterono.

Tali saghe, inoltre, possono strutturarsi attorno alla vita di un individuo, come nel caso di La Saga di Egill Skallagrimsson, La Saga di Gisli Sursson o la Saga di Grettor Asmundarson, ma possono anche includere diverse generazioni della stessa famiglia o degli abitanti di un luogo, come nel caso di La Saga degli abitanti della Valle dei Salmoni o di La Saga degli uomini di Eyr. Cionostate,i protagonisti continuano ad apparire come modelli idealizzati di comportamento e per questo sono inevitabilmente condannati, come gli eroi mitici delle saghe leggendarie, a un tragico destino.

 

Fratelli di sangue. Gli autori di queste saghe hanno ben a cuore il fondo storico della vicenda. E, infatti, il prologo di La Sagadi Bosi e Herraudr ci avverte che la storia narrata non è un mero racconto volto a intrattenere, bensì l’esposizione di eventi realmente accaduti. La storia ripercorre le avventure di Bosi e del fratello di sangue Herraudr, due giovani guerrieri in lotta contro il padre del secondo, il re Hringr. Nel testo sono particolarmente interessanti le scene erotiche, che non compaiono altrove. In una di queste, Bosi si rivolge ad una donna con una curiosa metafora dell’ambito metallurgico: “Voglio indurire il mi guerriero al tuo fianco. È giovane e non è ancora stato forgiato, e un guerriero deve essere temprato al più presto”. Lei gli chiede dove sia questo guerriero e lui glielo mostra, guidandola con la mano. La giovane si ritrae domandandogli perché porti con sé un oggetto duro quanto un albero. Lui risponde che si ammorbidirà nel buco oscuro, e così rimangono a intrattenersi tutta la notte. Assieme alla descrizione di questo tipo di divertimenti notturni, appaiono anche delle formule magiche.

I protagonisti delle saghe incarnano l’onore, la forza fisica e il coraggio; sono alti, di robusta costituzione e forti. Non solo: tutti hanno partecipato a molte spedizioni e battaglie, e quindi sono uomini celebri dall’enorme ricchezza. La Saga di Egill Skallagrimsson, scritta nel XIII secolo, ci offre questa precisa ed esaurente descrizione del protagonista: “I tratti di Egill richiamavano l’attenzione. Fronte estesa, ciglia folte, naso corto ma incredibilmente piatto, scucchia lunga, mento grande come la mandibola, collo massiccio e spalle più ampie di qualsiasi altro uomo, capelli grigi come quelli di un lupo, e spessi, anche se era rimasto ben presto calvo; mentre era seduto, come scritto prima, un sopracciglio scendeva fino al mento, e l’altro s’inarcava fino alla radice dei capelli: Egill era olivastro, con gli occhi neri”.

Il carattere di Egill è irritabile e violento. A dodici anni pochi uomini lo superano in possanza e altezza. È un grande guerriero, ma anche un magnifico poeta. I suoi versi scaldici – dal non egli scaldi, o skald, i poeti guerriei delle corti scandinave . sono vere e proprie opere d’arte. Skalla-Grimir, il padre, è anche lui poeta oltre che fabbro, mentre il nonno viene chiamato Kveldulfr, “il lupo della sera”: è un uomo molto saggio che di sera va in collera e, grazie ai poteri magici, può cambiare aspetto a suo piacimento. Egill si salva recitando il poema Hofuolausn (Riscatto della testa) davanti al re Erik Ascia Insanguinata. Tuttavia non muore in battaglia ma a 80 anni, e questo comporta un grande disonore. L’autore della saga racconta che, in vecchiaia, Egill si muove con difficoltà, la vista gli viene meno e cos’ l’udito, e le donne lo prendono in giro.

 


Grettir pronto a combattere in un'illustrazione di un manoscritto (AM 426 fol.), islandese del XVII secolo.

Coppie di eroi. Nella descrizione del fisico e delle abilità di certi eroi delle saghe compare un chiaro contrappunto tra fratelli. In La Saga di Bosi e Herraudr il protagonista Bosi è corpulento, moro, non troppo bello e rude, ma abile con le parole. Al contrario, suo fratello Smid non è massiccio ma affascinante e pieno di risorse. Anche il La Saga di Egill Skallagrimsson risulta evidente il contrasto tra i fratelli Egill e porolfr: Egill eredita il carattere del padre, Skalla-Grimr, e del nonno. Entrambi sono mori, brutti e dal temperamento irritabile; il fratelli Porolfr, invece, acquisisce  il proprio carattere dalla famiglia della madre: è generoso, coraggioso, allegro e molto popolare. Come se non bastasse, a differenza di Egill, porolfr è un giovane di bell’aspetto. Quando Egill inizia a crescere, sin da subito appare chiaro che diventerà brutto e moro come il padre; è, però piuttosto intelligente, e già bambino ha composto le sue prime poesie. Molti eroi della saghe sono di fatto grandi poeti. Un esempio è proprio Egill, che dopo la morte dei figli recita il Sonatorrek, con i vertici scaldici più belli della poesia norrena: “Amara pena mi stringe la gola, / pigra è la lingua, / bilancia del canto / Più non riesco dal fondo del cuore / il mio tesoro di strofe a evocare”. Le saghe degli islandesi sono scritte come se fossero storie, e non solo perché includono genealogie e dati storici, ma anche per la trama, più centrata sull’azione e il racconto degli eventi. L’intreccio ripete quasi sempre la stessa sequenza: il protagonista abbandona la Norvegia per un litigio con il re e si stabilisce in Islanda, dove nascono conflitti per terre o eredità a causa di assassinii che devono essere puniti. La concatenazione delle vendette finisce quasi sempre in un bagno di sangue e il protagonista viene dichiarato utlagi, o proscritto. Da quel momento è costretto a nascondersi perché perseguitato e chiunque può dargli la morte.

 

 

Egill Skallagrímsson in un manoscritto dell'Egils saga del XVII secolo

L’eroe tragico. L’eroe delle saghe deve morire in battaglia. Come già indicato, è per lui un enorme disonore morire da vecchio, al pari Egill, o per malattia, poiché significa che l’eroe non si è battuto con coraggio e ha evitato lo scontro pur di non soccombere. La Saga di Gisli Sursson descrive il prototipo di una morte eroica: i nemici di Gisli, proscritto, hanno trovato il suo nascondiglio e si preparano ad ucciderlo. L’eroe è attaccato da dodici uomini che lo feriscono con la lancia in più parti del corpo, ma lui si difende valorosamente, senza mai retrocedere, e nessuno degli assalitori ne uscirà illeso. Gli altri lo attaccano con forza ancora maggiore e uno di loro lo colpisce in modo tale da fargli uscire le viscere. Gisli però se le riprende e le infila dentro la camicia, tenendole ferme con il cordone dei pantaloni. Poco prima di morire recita dei versi e dà un ultimo colpo di spada a uno dei nemici. Infine soccombe agli assalitori, spirando in combattimento. Tra la cronaca e il romanzo, le saghe plasmarono in questo modo l’immaginario dei guerrieri nordici della Scandinavia proprio nel momento in cui questi scomparivano dal primo piano della storia.

Articolo di Ines Garcia Lopez, università di Barcellona pubblicato su Storica National Geographic n. 123 – altri testi e immagini da Wikipedia.

mercoledì 30 dicembre 2020

Adriano un grande imperatore che preferiva l’amore alla guerra.

 

Adriano un grande imperatore che preferiva l’amore alla guerra.

Iniziò il suo regno da tiranno spietato e vendicativo, ma ben presto si rivelò un uomo colto, tollerante, illuminato gestore dell’Impero, regalando a Roma una lunga stagione di pace e prosperità. Questo gli permise di riorganizzare lo stato, di occuparsi di arte e poesia, oltre a dedicarsi alle sue passioni, forse non tutte lodevoli.

 


Busto dell'imperatore Adriano
(Musei CapitoliniRoma)

Adriano era nipote di Traiano (figlio di un fratello), che diventò il suo tutore spiando il padre si spense per morte prematura e il bambino aveva appena 10 anni. Erano arrivati entrambi dalla città Romana di Italica, nella Spagna meridionale, in corrispondenza della moderna Santiponce, vicino a Siviglia. Perché Traiano abbia scelto proprio Adriano come successore al trono resta difficile da capire. Nonostante la comune origine ispanica e la stretta parentela, erano infatti molto diversi tra loro. Traiano era soprattutt2o un soldato, avido di gloria militare. Dopo la conquista della Dacia – l’attuale Romania – si era lanciato in una guerra contro i Parti, sognando di emulare le gesta di Alessandro Magno e rammaricandosi del fatto che l’età avanzata gli avrebbe impedito di ottenere gli stessi risultati del grande macedone. In effetti aveva conquistato la Mesopotamia e raggiunto le sponde del Golfo Persico: era stato il primo e l’ultimo generale romano a navigare in quel mare lontano e le sue flotte avevano devastato le coste dell’Arabia.

Ma il suo orgoglio per aver portato i confini dell’impero agli estremi limiti orientali fu di breve durata. Mantenere il controllo di quelle regioni desertiche, lontane migliaia di chilometri dalle basi di rifornimento della Sira, era impossibile. Lo aveva capito lui stesso, che morì in Cilicia di un colpo apoplettico mentre faceva ritorno a Roma. E lo capì ancora meglio Adriano, che come primo atto del suo governo rinunciò a quelle terre appena conquistate, ritirò le guarnigioni dall’Armenia, dall’Assiria, dalla Mesopotamia e riportò il confine dell’impero alle sponde dell’Eufrate, là dove aveva voluto Augusto.

 

Una travagliata successione al trono. Traiano prevedeva che il nipote avrebbe disfatto quello che lui andava costruendo. Lo conosceva, sapeva che Adriano non amava la guerra, anche se quando era stato chiamato a farla aveva combattuto con onore e si era conquistato il favore dei soldati. Preferiva le arti sottili della diplomazia alla forza brutale della armi. Non condivideva la politica ispanistica e, con tutta probabilità, non avrebbe proseguito su quella strada quando fosse stato investito del potere. Per questo Traiano non si decideva ad adottarlo, nonostante le insistenze di sua moglie, Plotina, che invece aveva una grande considerazione per il nipote ed era la sua più convinta sostenitrice. Traiano tenne duro fino agli ultimi giorni di vita resta da chiedersi che cosa gli fece cambiare idea in punto di morte.

Secondo quanto racconta la “Historia Augusta” – una controversa raccolta di biografie imperiali – Traiano morì senza aver fatto il nome dell’erede. Ma la furba Plotina, aiutata dalla nipote Matilda, ordì una messinscena che trasse tutti in inganno: un loro servo imitò la voce dell’imperatore appena deceduto per annunciare agli astanti, nella stanza in penombra che impediva di vedere i volti e le persone, di avere scelto Adriano come successore. Anche il ben più attendibile storico Cassio Dione assegna alla moglie dell’imperatore un ruolo decisivo nella nomina del nipote. Plotina avrebbe tenuto segreta la notizia del decesso di Traiano per alcuni giorni, il tempo di preparare che annunciava al senato l’adozione del nipote. Il senato non ebbe nulla da eccepire, meno che mai l’esercito, legatissimo sia all’imperatore defunto per le battaglie combattute insieme, sia al suo successore per i generosi donativi da lui ricevuti. Tutti d’accordo, quindi, a parte forse il defunto imperatore.

Comunque sia andata la successione, Plotina tornò a Roma con le ceneri del marito chiuse in un’urna tutta d’oro, che fece sotterrare alla base della Colonna Traiana. In quanto ad Adriano, pagò il suo debito di riconoscenza nei confronti dello zio facendo mirabilmente decoare quella stessa colonna con un bassorilievo che copriva per tutta la lunghezza e che ancora oggi illustra le imprese della guerra in Dacia.

Era l’anno 117 quando Publio Elio Traiano (acquisì il nome dello zio con l’adozione) assunse anche il titolo di Augusto, che qualificava gli imperatori. Appena salito al trono, Adriano regolò i conti con i suoi nemici, reali o immaginari. Allontanò dalla gestione del potere tutti quelli che avevano avuto a che fare con l’amministrazione di Traino, per non essere intralciato nei suoi progetti di riforma. Non ebbe scrupoli nel mandare a morte 4 senatori che considerava avversari e possibili concorrenti al trono. “Cominciamo bene”, commentarono gli altri membri del senato temendo un ritorno al terrore di Nerone e Domiziano. Ancora più fosche furono le previsioni quando il nuovo imperatore si prese una tardiva e crudele rivincita sul più grande architetto di quel tempo, Appolodoro di Damasco, che aveva edificato per Traiano le opere più insigni: il foro, la celebre colonna e i mercati traianei. La vecchia ruggine tra i due risaliva a un episodio in cui Adriano, che aveva la passione dell’architettura, criticò Apollodoro mentre illustrava un suo progetto a Traiano. Il grande architetto, punto sul vivo, gli rispose: “Non parlare di cose che non sai, pensa alle tue zucche” (il riferimento sprezzante era alle cupole orientaleggianti che tanto piacevano al giovane nipote dell’imperatore e di cui farà ampio uso nelle sue costruzioni). Adriano, uomo di tenaci rancori, non dimenticò quell’affronto e, una volta sul trono, mandò Apollodoro in esilio. Quando gli riferirono che l’architetto aveva criticato il più grande tempio della città, dedicato a Venere e Roma, fatto erigere da Adriano sulla Via Sacra con dispendio di fatica e risorse (furono ingaggiati 24 elefanti solo per spostare il Colosso, cioè la gigantesca statua di Nerone che diede il nome al Colosseo), ordinò di giustiziarlo. Roma perse un grande artista e si convinse ancora di più di essere tornata sotto il giogo di un imperatore tiranno e crudele.

 

 



Contro gli ebrei usò il pugno di ferro.

L'antica provincia romana di Giudea al tempo di Adriano.



Adriano visitò la Giudea nel 130 e decise che quel territorio, conquistato da Tito nel 70 d.C., ma di nuovo ribellatosi nel 115, dovesse essere uniformato – nella vita, nella cultura e nella pratica religiosa – alla civiltà ellenistica estesa a tutto il mondo romano. Cominciò dunque col vietare il sabato festivo, lo studio della Torah, cioè la legge di Mosè, l’uso del calendario giudaico e le cerimonie di culto. Ordinò che i rotoli con le Scritture fossero bruciati. Proibì la circoncisione rituale, considerata una mutilazione incivile esattamente come la castrazione, peraltro già bandita da Domiziano. Soprattutto, impose che dove sorgeva Gerusalemme si costrusse una città tutta nuova, che si sarebbe chiamata Aelia Capitolina, e un tempio a Giove sarebbe stato costruito sui resti del tempio di Erode. Finché Adriano restò nelle vicinanze, prima in Egitto e poi in Siria, gli Ebrei subirono senza reagire, ma appena si allontanò per tornare nell’amata Grecia e a Roma esplose la rivolta. Era la fine del 132: ammaestrati dai precedenti conflitti, i ribelli si guardarono bene dall’attaccare i Romani in campo aperto. Come racconta Cassio Dione: “Occuparono le posizioni vantaggiose del paese e le fortificarono scavando tunnel alzando muri, per avere luoghi dove rifugiarsi nel caso si fossero trovati sotto forte pressione e potersi incontrare senza essere visti, sotto terra. E praticarono dei fori dall’alto su questi passaggi sotterranei per assicurare aria e luce”. Li guidava un certo Simone, detto Bar Kokhba, che aveva, oltre che un indubbio talento militare, grandi doti di comando. A tutti i suoi uomini chiese di dimostrare il loro coraggio tagliandosi un dito. Non risulta che qualcuno si sia tirato indietro. Simone creò un vero e proprio stato indipendente, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue monete. Alla fine Adriano perse la pazienza e inviò il suo migliore generale, Giulio Severo, che nel 135 riuscì a soffocare la rivolta nel sangue. È ancora Cassio Dione a fornirci il lugubre conteggio dei morti: “in realtà pochissimi sopravvissero, 50 dei loro avamposti più importanti e 985 dei loro villaggi più famosi furono rasi al suolo. 500mila uomini furono trucidate nelle varie incursioni e battaglie, il numero di quelli che morirono di fame, di malattie e per incendi non si poté calcolare. Così quasi l’intera Giudea fu resa una desolazione”.

Le truppe vittoriose si accanirono contro Gerusalemme. La zona delle sepolture, dove secondo la tradizione era stato deposto il corpo di Gesù, fu ricoperta di terra e sopra fu eretto un tempio a Venere (questo in seguito faciliterà l’individuazione del Santo Sepolcro). Venne favorito l’insediamento di nuovi abitanti, mentre agli Ebrei era vietato anche avvicinarsi alla città. Infine, come era stato cancellato il nome di Gerusalemme, si cambiò anche quello della regione: non più Giudea, ma Palestina, derivato da quei Filistei contro i quali aveva combattuto e vinto re David.

Un poeta sul trono di Roma.

È una poesiola breve e facile. Ne proponiamo i 4 versi, che sono un’ininterrotta successione di vezzeggiativi, al punto da far pensare che sia stata scritta da una mano femminile. Invece è di Adriano che, da fine artista e letterato quale era, amava la poesia e si dilettava a comporre versi. Questa è l’unica rimastaci, riportata in quella “Historia Augusta” che ci fornisce anche molte informazioni sulla vita dell’imperatore. Adriano l’ha composta sul letto di morte, come a prendere congedo dalla sua anima. La scrittrice francese Marguerite Yourcenar la colloca in apertura delle sue imperdibili “Memorie di Adriano”, quasi un’istantanea capace di illustrarci meglio di mille parole il vero animo del suo personaggio. La proponiamo con la traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, che è anche la traduttrice del libro.

 

Animula vagula, blandula,

hospes comesque corporis,

quae nunc abbis in loca pallidula,

rigida nudula,

nec, ut soles, dabis iocos…

 

piccola anima smarrita e soave

compagna e ospite del corpo

ora ti appresti a scendere in luoghi

incolori, ardui e spogli,

ove non avrai più gli svaghi consueti …

 


La Porta di Adriano, ad AdaliaTurchia meridionale, costruita per celebrare la visita dell'imperatore avvenuta nel 130.

 Un imperatore itinerante. Invece si sbagliava, almeno per la seconda parte della cupa previsione. Primo. Primo perché Adriano non esercitò mai più il suo potere di morte, secondo, perché dei 21 anni passati sul trono trascorse la maggior parte lontano dalla capitale dell’impero. Il successore di Traiano è infatti l’imperatore che ha viaggiato più di ogni altro. Non per necessità belliche, visto che di guerre non ne fece neanche una, se si esclude quella contro gli Ebrei, ma perché spinto dal bisogno di sapere, dal desiderio di vedere le cose con i propri occhi, dalla necessità di intervenire in prima persona. Adriano è un imperatore in continuo movimento, seguito da uno stuolo di funzionari che tutto registrano e a tutto provvedono. Dalla Britannia alla Siria, dall’Africa alla Pannonia, dalla Bitinia all’Egitto, non c’è provincia che Adriano non abbia visitato, e dove non abbia edificato fortificazioni e monumenti, templi e città. Mai l’impero romano ha avuto un’amministrazione così attenta ai bisogni delle provincie, anche le più lontane da Roma, così solerte nel rafforzamento delle frontiere (un esempio per tutti, la costruzione del celebre Vallo che separava l’odierna Inghilterra dalla Scozia), così accorta nella gestione delle imposte. “il suo spirito aperto e attivo era ugualmente portato alle più larghe vedute, come ai più minuti particolari del governo”, sottolinea lo storico inglese Edward Gibbon nella sua “Decadenza e caduta dell’Impero romano”. Questi continui spostamenti, se da una parte dimostravano quanto fosse saldo il suo potere, dall’altra assicurava il senato e le più alte magistrature: no, Adriano non era il tiranno che essi temevano. Al contrario, la sua figura si andava delineando come quella di un imperatore non solo giusto, ma anche autorevole e risoluto, contro il quale nessuno mai avrebbe osato congiurare e nessuno, dopo Apollodoro, avrebbe avuto ragione di temere per la sua vita. Infatti sotto il suo regno, l’impero fiorì in pace e prosperità. Quelli che parlavano di lui come un nuovo Augusto non lo facevano solo per adulazione o per sollecitare la sua vanità, che pure era grande, a giudicare dalla enorme quantità di ritratti che si fece fare. Le loro lodi erano il riconoscimento di una condizione di pace, di benessere e di prosperità, che a Roma non si vedeva dai tempi del fondatore dell’impero.

Non basterebbe un trattato di Storia dell’Arte per illustrare la magnificenza dei suoi monumenti. Oltre al già citato tempio di Venere e Roma e alla decorazione in bassorilievo della colonna Traiana, va almeno ricordata la ricostruzione del Pantheon, edificato al tempo di Augusto e poi crollato, con la magnifica cupola che ispirerà gli architetti del Rinascimento, e soprattutto il suo maestoso mausoleo, che i papi avrebbero poi trasformato nell’inespugnabile Castel Sant’Angelo, il più grande e più ricco di quello di Augusto che lo fronteggiava sull’altra riva del Tevere. Ma l’edificio che meglio rispecchia il suo animo di artista e la sia ammirazione per la civiltà ellenistica è la grande Villa Adriana, in prossimità di Tivoli. Depredata di marmi e statue nel 1500 dal cardinale Ippolito d’Este, che li utilizzò per costruire la sia Villa d’Este, Villa Adriana conserva ancora una parte degli arredi e degli elementi architettonici, come nel Senapeo e nel Canopo, che abbellivano i rari ozi romani dell’imperatore e gli davano l’illusione di vivere in un angolo dell’amatissima Grecia o dell’esotico Egitto.

Adriano ebbe una sola moglie, Vibia Sabina, figlia di quella Matilda che aveva complottato con Plotina per metterlo sul trono. Secondo alcune fonti, il matrimonio con Sabina sarebbe stato il favore che doveva ricambiare la complicità di Plotina. I rapporti tra loro furono improntati a una formale correttezza e ad una sostanziale freddezza. L’unione durò quasi 40 anni, fino alla morte di lei, durante i quali Sabina ottenne tutti gli onori che le erano dovuti, a cominciare dal titolo di Augusta. Accompagnò il marito in alcuni dei suoi lunghi viaggi in Oriente, ma per lo più stava da sola a Roma. Secondo la “Historia Augusta”, durante le assenze del marito Sabina avrebbe intrattenuto rapporti di eccesiva familiarità con alcuni personaggi del palazzo, come il prefetto del pretorio e lo storico Svetonio, i quali per questa ragione sarebbero stati allontanati. Certo è che non diede un figlio all’imperatore, perché era infeconda o forse perché i contatti con l’augusto consorte, ammesso che ci fossero, erano troppo saltuari.

 


 
Vibia Sabina

La cultura greca come modello di vita. Assai più della moglie, Adriano amava la Grecia, la sua storia, la sia arte, il suo pensiero. Ai Greci volle assomigliare anche nell’aspetto, lasciandosi crescere la barba come usavano gli antichi filosofi. Introdusse così a Roma una moda che sarà seguita dai suoi successori (prima di lui nessun imperatore aveva portato la barba se si esclude Nerone, che pure si atteggiava a cultore della civiltà greca). Inoltre, mostrò di apprezzare la pratica tutta greca della pederastia, cioè quello stretto legame che univa il maestro al discepolo e che spesso assumeva connotazioni apertamente critiche. Questo genere di omosessualità era ampiamente diffuso a Roma sin dai tempi della conquista della Grecia, quando la lingua, la cultura, i costumi di quel paese cominciarono a influenzare potentemente lo stile di vita dei romani. La disinvoltura sessuale di Cesare, per fare un esempio illustre, era così nota che i suoi soldati la celebravano nelle sfilate dei trionfi. Tiberio nella sua villa di Capri era solito nuotare in mezzo aschiere di adolescenti che chiamava ‘i miei pesciolini’. Anche un personaggio apparentemente austero come Traiano non disdegnava questo genere di legami. Ma a differenza di loro, che ne facevano un uso occasionale, per il passionale Adriano l’omosessualità diventò una scelta totalizzante quando incontrò il poco più che adolescente Antinoo. Nato in Bitinia, ma di origine greca, era giunto a Roma per completare l’istruzione superiore. Introdotto a corte, diventò subito il favorito dell’imperatore, che non se ne separò più.  Soggiogato dalla sua bellezza davvero statuaria, come documentano i tanti ritratti che ci rimangono di lui, oltre che dalla sua esuberanza giovanile, Adriano lo portò con sé in Africa, in Grecia e in Oriente. Lo introdusse alla conoscenza dei Misteri Eleusini (riti religiosi proveniente dall’antica Grecia), lo enne al suo fianco nelle battute di caccia in Asia Minore, lo volle accanto nella visita ai monumenti della Siria e dell’Egitto. Finché, nell’ottobre del 130, mentre navigavano sul Nilo, Antinoo cadde in acqua e annegò. Aveva solo 19 anni. Un incidente, si disse. Ma si parlò anche di suicidio legato al timore di perdere i favori dell’imperatore, ora che stava diventando un uomo, oppure di un sacrificio rituale per restituire al maturo amante la salute che stava declinando.

Andriano, travolto dal dolore, volle trasformare il favorito in divinità. In Egitto gli dedicò un’intera città, Antinopoli, dove Antinoo era rappresentato e venerato come un antico dio egizio. In ogni angolo dell’Impero furono erette statue cui erano riservati gli stessi onori dei membri della famiglia imperiale. Non bastandogli la terra ad esaltare il suo protetto, sostenne di averi visto la stella di Antinoo brillare in cielo e ordinò che una costellazione, prossima a quella dell’Aquila, avesse il suo nome. Follie d’amore di un uomo a cui restavano solo 8 anni da vivere, in gran parte dedicati alla memoria di quel ragazzo che, pur essendogli stato accanto per non più di 3 anni, aveva segnato in maniera indelebile la sua vita la sua figura nella Storia.

Passata, o meglio attenuatasi, la disperazione per la perdita dell’amante Adriano si dedicò alla ricerca di un successore, in vista di una fine che sentiva non lontana. Dopo aver passato in rassegna molti uomini meritevoli, nel 136 decise di adottare Elio Vero, un giovanotto frivolo e inconcludente che ai suoi occhi aveva però una dote decisiva: la straordinaria bellezza, paragonabile a quella di Antinoo. Adriano gli attribuì il titolo di Cesare, destinato al successore designato, e ne fece il suo amante. Ma anche Elio Vero morì prematuramente, il 1° gennaio del 138. Il giorno dopo avrebbe dovuto tenere un discorso al Senato per sancire il suo ruolo come erede di Adriano.

L’imperatore, sempre più malato, ripiegò su un senatore di circa 50 anni, da tutti ammirato per la sua condotta irreprensibile. Si chiamava Antonino e fu detto Pio per la sua pietas. Adriano lo proclamò figlio e successore a condizione a adottasse a sua volta Marco Aurelio, un ragazzo di 17 anni figlio di Faustina, la figlia di Antonino. Mai scelta si rivelò più azzeccata. I due Antonini regnarono complessivamente per 42 anni e questo periodo è forse stato “il solo della Storia nel quale la felicità di un grande popolo sia stata l’unico scopo di chi lo governava” parole del già citato Gibbon, da ascrivere anche a merito di chi quella scelta, sia pure di ripiego, l’aveva fatta. Pochi mesi dopo aver passato il potere ad Antonino, il 62 imperatore morì a Baia, dove si era ritirato, il 10 luglio del 138, dopo aver regnato per 21 anni e 12 mesi.

 


Antinoo come Osiride, con il nemes e l'ureo.

Articolo di Gianna Bragato (giornalista e scrittore di storia) pubblicato su BBC History n. 22 – altri testi e immagini da Wikipedia.

venerdì 25 dicembre 2020

Michael Wittmann La leggenda del Barone nero.

 

La leggenda del Barone nero.

Quattordici tank, dieci veicoli corazzati e quattro per il trasporto truppe distrutti n poco più di un quarto d’ora da un solo carro armato. È l’eclatante impresa di Michael Wittmann, il più celebre comandante di panzer del secondo conflitto mondiale.

 

Michael Wittmann

Verso le 12,30 del 13 giugno 1944 fu ben presto evidente che l’Operazione Perch, pianificata con cura dal generale inglese Bernard Montgomery, stava fallendo. E con essa il progetto dell’Alto comando alleato di eliminare la resistenza tedesca a sud di Caen, dopo il clamoroso successo dello sbarco in Normandia, avvenuto poco più di una settimana prima. L’esperta 22a Brigata corazzata britannica, i famosi “Desert Rats” (i Topi del Deserto), reduce dei successi in Nordafrica, appoggiata dal 1° Battaglione Fucilieri della “Rifle Brigade”, aveva fallito il compito assegnatole: occupare il villaggio strategico di Villerss-Bocage, alle spalle del nemico, per potergli tagliare ogni via di fuga e chiuderlo in una trappola mortale. Monty, com’era chiamato con rispetto Montgomery dai suoi uomini, fu immediatamente informato che le sue unità non solo erano state ricacciate indietro, ma avevano subito pesanti perdite: almeno trenta carri armati, decine di veicoli corrazzati e oltre duecento caduti. Un bagno di sangue che complicava maledettamente le cose sul campo. Come abbia reagito, a mano a mano che le notizie prendevano forma, è difficile a dirsi, ma possiamo immaginare lo sconcerto quando fu chiaro che il principale responsabile di quest’inaspettata débacle era un solo carro tedesco. Un temibile panzerkampfwagen VI Tiger della 2a Compagnia del Schwere SS-Panzer-Abteilung 101, comandato dal tenente Michel Wittmann, veterano del Fronte orientale e con un incredibile stato di servizio alle spalle. Eppure ciò che era riuscito a fare a Villers-Bocage ridimensionava ogni impresa precedente. Per i suoi uomini, gli ufficiali dello stato maggiore e Hitler in persona, Wittmann sarebbe diventato una vera leggenda, tanto da ricevere il soprannome da Barone Nero, in omaggio alla sua indiscussa abilità sul campo di battaglia.

Prima di lui solo un altro uomo era stato in grado d’infiammare l’immaginazione popolare a tal punto quel Manfred von Richthofen, l’asso degli assi della Prima guerra mondiale, che in virtù dell’originale colorazione del suo triplano si era tramutato nel leggendario Barone Rosso. Nel caso di Wittmann il nero era un chiaro riferimento alla divisa delle temibili Waffen SS, l’ala combattente del famigerato corpo delle Schutz-staffeln (SS) di Himmler. Ma, a prescindere dall’adesione all’ideologia nazista, egli è stato uno dei più abili e risoluti comandanti di panzer della Seconda guerra mondiale: l’eco delle sue imprese ha travalicato gli stessi confini tedeschi, meritandosi anche il rispetto delle truppe avversarie.

 

Gli assi dei panzer.

Può sembrare singolare che nella classifica dei maggiori carristi tedeschi del Secondo conflitto mondiale Wittmann figuri solo al quinto posto con la bellezza di 138 carri nemici distrutti. A quanto pare nella graduatoria altri quattro comandanti hanno fatto meglio di lui: Kurt Knispel con 168, Martin Schroif 161, Otto Carlos 150 e Johannes Bolter 139.

Va sottolineato che questa classifica, come per l’aviazione, tiene in conto le vittorie accertate e tralascia quelle solo rivendicate, ma non provate. Perché in tal caso la lista sarebbe ancora più nutrita. È una graduatoria pura e semplice, che non prende in considerazione fattori come la tipologia dei carri armati messi fuori combattimento o in quale teatro sia stato registrato il successo.

Nel caso di Wittmann va puntualizzato infatti che si aggiudicò le sue vittorie proprio nelle fasi conclusive della guerra, quando l’esercito tedesco era ormai in grossa difficoltà. In molti altri casi invece furono ottenute all’inizio del conflitto contro formazioni corazzate meno agguerrite o in forte inferiorità numerica e tecnologica come durante la Campagna contro la Francia, l’invasione della Polonia e l’inizio dell’Operazione Barbarossa in Unione Sovietica. nel 1944 il quadro era completamente mutato e gli avversari non erano solo superiori in numero, ma disponevano di carri avanzati ed equipaggi ben addestrati e preparati. In tal senso le straordinarie affermazioni di Wittmann assumono maggiore rilevanza. A prescindere comunque da questa doverosa precisazione, il valore dei carristi tedeschi nel Secondo conflitto mondiale è oggi universalmente riconosciuto anche tra le file degli eserciti nemici. Per preparazione, addestramento e doti tattiche si dimostrarono di regola superiori agli avversari, sapendo spesso ovviare a problemi progettuali e strutturali dei loro mezzi, non sempre all’altezza della situazione. Un mito, quello della superiorità tecnologica nazista in fatto di carri armati, che va ampiamente sfatato.

 

Il battesimo del fuoco. A dispetto del titolo affibbiatoli, e a differenza di von Richthofen, che poteva vantare origini nobili, il futuro SS-Obreersturmfuhrer aveva dovuto fare la gavetta per poter emergere come ufficiale delle truppe corazzate. Secondi i documenti disponibili aderì fin dal 1937 al corpo delle Waffen SS, entrando a far parte della divisione corazzata Leibstandarte Adolf Hitler, e dimostrando fin da subito notevoli doti tattiche e una prestanza fisica fuori dal comune. L’abilità messa in luce ala comando di un reparto di autoblindo da ricognizione, nelle fasi iniziali del conflitto, gli aprì le porte di uno dei primi reparti dotati di Sturmgeschutz III, cannoni d’assalto derivati dallo scafo dei Panzer III e dotati di cannone Stuk L/24 da 75 millimetri, impiegati sul fronte russo all’indomani dell’inizio dell’Operazione Barbarossa (giugno 1941). E il battesimo del fuoco non sarebbe potuto essere più incisivo. Secondo i rapporti stilati dai suoi superiori, durante una delle prime missioni rimase isolato dal resto del reparto nel bel mezzo dell’avanzata di una colonna corazzata nemica, cosa  che non sembra averlo messo in particolare difficoltà, perché senza che venisse individuato riuscì a occultare il suo StuG III quanto bastava per tendere un’imboscata. Dopodiché, con calma glaciale, diede ordine al suo cannoniere di aprire il fuoco, prima di riuscire a sganciarsi e a rientrare tra le linee tedesche. Tre carri nemici non fecero ritorno alla base. Fu solo l’inizio di una serie brillante di azioni in cui Wittmann dimostrò lucidità e determinazione, ma anche coraggio ai limiti del suicidio. E infatti nel corso dei furiosi combattimenti che precedettero la conquisto del nodo strategico di Rostov, rimase ferito seriamente almeno due volte. il suo valore non passò inosservato e fu premiato con l’ammissione alla scuola ufficiali SS-Junkerschule di Bad Tolz, dalla quale sarebbe uscito un sottotenente dell’esercito regolare. Dopodiché fu riassegnato al fronte orientale, prima su carri Panzer III dell’SS Panzer-Regiment I e successivamente, come capo plotone, nei ranghi della Leibdstanderte, che in quel periodo era stata equipaggiata con mezzi più moderni ed efficaci, i potenti e temibili PanzerVI Tiger. Carri di ultima generazione che, per quanto soffrissero di non pochi problemi progettuali (in particolare i primi modelli) erano comunque dotati di un potente cannone da 88 millimetri in grado di perforare la corazza di qualsiasi mezzo avversario. Proprio in questo frangente Wittmann fu destinato al Schwere SS-/Panzer Abteilung 101, reparto in cui si distinse fin da subito come il più abile e letale comandante. Come leader di un’unità da ricognizione, costituita da quattro Tiger, prese parte alla battaglia di Kursk (luglio 1943), il più grande scontro di carri della storia, riuscendo a mettere fuori combattimento almeno trenta T-34 (il carro più avanzato a disposizione dell’Armata Rossa) e altrettanti cannoni anticarro sovietici. E tutto questo nel giro di soli cinque giorni di scontri. Risultati eccezionali, se si pensa che in quella fase della guerra l’Armata Rossa era già riuscita a prendere il sopravvento, il corso del conflitto mutato e per tutto il resto del 1943 la Wehrmacht fu costretta a continue e dispendiose ritirate. Eppure all’inizio del 1944, nonostante le difficoltà sempre crescenti, Wittmann riuscì ad ottenere risultati sbalorditivi: il 9 gennaio celebrò la sessantaseiesima vittoria, il 13 l’ottantottesima e il 29 giunse alla sbalorditiva quota di centodiciassette carri nemici distrutti.

 

Resti di un carro Cromwell tra le rovine di Villers-Bocage.

I retroscena della sua morte.

A chi attribuire la distruzione del Tiger del Barone Nero? Può sembrare incredibile ma sull’argomento sono stati spesi fiumi d’inchiostro. Per alcuni fu centrato da uno Sherman della 33a Brigata corazzata britannica, per altri invece da un razzo lanciato da un velivolo. La controversia si è protratta fino al 2000, quando la pubblicazione di un articolo, A Fine Night for Tanks, ha fatto chiarezza una volta per tutte, o almeno così si spera. Secondo l’autore, Brian Reid, quel fatidico 8 agosto del 1944, Wittmann si sarebbe salvato da una prima imboscata (in cui caddero gli atre tre carri del suo reparto), che gli fu tesa dai tanks della 33a Brigata, perché si trovava troppo lontano dal punto di fuoco (oltre mille metri). Infatti, per l’efficacia del cannone dello Sherman sulla corazzatura dei Tiger era praticamente nulla sopra gli 800 metri. Anche la tesi di un razzo sparato da un velivoli è stata ampiamente contestata, perché le immagini scattate subito dopo lo scontro non sono compatibili con il tipo di danno inferto. Se quel tipo d’arma, la cui potenza era paragonabile a un proiettile d’artiglieria navale, avesse centrato il bersaglio, avrebbe dovuto causare una distruzione ben maggiore. Inoltre, le foto dimostrano che il colpo non arrivò dall’alto. L’ipotesi di Reid invece è un’altra: fu un carro canadese, comandato dal maggiore Sydney Walters, della 2a Brigata corazzata del The Sherbrooke Fusilier Regiment, nascosto dietro il muro di un castello, a colpirlo da poco più di 150 metri: una distanza minima che spiega come la corazzatura sia stata perforata con facilità, facendo esplodere il locale deposito di munizioni e condannando l’intero equipaggio.

 


Carri armati tedeschi Tiger durante la battaglia di Villers-Bocage

Il miracolo di Villers-Bocage. Nell’aprile 1944 voci di un sempre più imminente sbarco alleato in Normandia costrinsero l’Alto comando tedesco a dirottare una parte delle sue forze a ridosso del Vallo atlantico, nella speranza di ributtare in mare il nemico. Tra queste figurava anche la 2a Compagnia del Schwere SS Panzer Abteilung 101, che fu assegnata al 1° SS Panzer Corps in qualità di unità di supporto, senza esser comunque inglobata. E a Wittmann fu affidato il comando del secondo battaglione con il grado di tenente. Quando il 6 giugno prese il via l’Operazione Overlord, cogliendo totalmente impreparate le difese tedesche, fu subito chiaro che, con gli Alleati ormai padroni della costa e in fase di dispiegamento nell’entroterra, la sproporzione di forze in campo sarebbe stata incolmabile. Eppure il 7 giugno Wittmann ricevette l’ordine di spostare il suo battaglione da Beauvais, dov’era distaccato a sud di Caen in Normandia per cercare di dare man forte alle deboli forze tedesche in zona. In cinque giorni, minacciato continuamente dall’aviazione nemica, riuscì a coprire i centosessantacinque chilometri che lo separavano dal fronte. E proprio nella tarda serata del 12 giugno arrivò in prossimità del villaggio di Villers-Bocage, ricevendo disposizioni di presidiare la colina 213 a poca distanza dall’abitato compito che avrebbe dovuto svolgere con i dodici Tiger a sua disposizione. Questo solo in teoria, perché la realtà era ben diversa, visto che metà dei suoi carri era stata danneggiata o soffriva di gravi problemi meccanici. Il mattino seguente, con l’inizio dell’Operazione Perch, e dopo un pesante bombardamento navale alleato che costrinse Wittmann a riposizionarsi almeno tre volte, la situazione sembrava disperata e senza via d’uscita. Quando poi, poco prima delle nove, le avanguardie della 7a Divisione corazzata britannica entrarono nel villaggio francese con l’intenzione di occupare il ponte che avrebbe tagliato la ritirata di tutte le forse avversarie più a nord, l’ufficiale tedesco, colto di sorpresa, capì di avere un’unica soluzione. Come avrebbe ricordato più tardi “Non ebbi il tempo di assemblare la mia compagnia e dovetti agire velocemente, perché dovetti supporre che il nemico mi aveva già sotto tiro … partii con il carro e diedi ordine agli altri di non ritirarsi, ma di tenere la posizione a tutti i costi”. Il messaggio era chiaro: ogni carro avrebbe dovuto attaccare singolarmente, cercando di portare scompiglio tra le fila avversarie. È stato possibile ricostruire queste drammatiche fasi con una certa precisione, anche se alcuni dettagli, forniti dai vari storici che si sono interessati al caso, non combaciano perfettamente. Comunque sia, intorno alle 9.00 Wittmann uscì dal suo nascondiglio, ingaggiando con i carri leggeri della retroguardia nemica e distruggendoli uno dopo l’altro. all’entrata del Paese fu la volta di vari veicoli da trasporto  parcheggiati lungo la strada principale, dopodiché, nella parte est dell’abitato, si scagliò contro numerosi carri leggeri e medi, cogliendoli di sorpresa. La maggior parte fu distrutta, chi invece riuscì a salvarsi cercò scampo nella campagna circostante. Nella confusione che si venne a creare il Tiger tedesco continuò a martellare le unità nemiche, mettendo fuori uso tutto ciò che si muoveva o gli si parava di fronte: caddero uno dopo l’altro postazioni anticarro, veicoli corazzati e centri di osservazioni, tutto mentre i restanti carri tedeschi si muovevano a loro piacimento tra le forze britanniche, incapaci di abbozzare la benché minima difesa. Solo quando le munizioni cominciarono a scarseggiare Witmann diede l’ordine di sganciamento, ma un improvviso colpo sparato da un cannone anticarro ben occultato costrinse il carro temporaneamente fuori uso. Perciò l’intero equipaggio, illeso, fu costretto a rientrare a piedi tra le linee amiche, dove poté riunirsi con ciò che restava delle esigue forze che aveva sferrato l’assalto.



30 gennaio 1944: Wittmann a Berlino con Adolf Hitler

La leggenda. A conti fatti per gli Alleati il bilancio fu un vero disastro, in meno di un quarto d’ora l’Operazione Perch poteva dirsi fallita, le perdite furono elevatissime e gran parte di queste erano imputabili proprio a Wittmann. Per la propaganda tedesca gli avvenimenti di Villlers-Bocage ebbero un tale risalto da trasformare il Barone Nero in una celebrità. Tanto che la stampa tedesca finì con l’attribuirgli la quasi totalità delle vittorie di quel giorno: ben ventisette dei trenta carri distrutti. Solo in seguito il numero sarebbe stato ridimensionato: tredici tank (cinque Cromwell, cinque Sherman e tre Stuart), dieci veicoli corazzati e quattro mezzi da trasporto. Un exploit clamoroso che galvanizzò Hitler in persona: il 25 giugno infatti l’ufficiale tedesco ricevette dalle sue mani la Croce di Cavaliere con Fronde di Quercia e Spade, la massima onorificenza a cui un comandate di carri potesse aspirare. Ancora una volta era riuscito a stupire, dimostrando un incredibile coraggio, determinazione e un intuito fuori dal comune. Villers-Bocage sarebbe stata però la sua ultima impresa, anche se la più sensazionale.

Forse aveva chiesto troppo alla buona sorte, perché dopo alcune settimane trovò la morte in uno scontro a fuoco in un modo del tutto normale. L’8 agosto, nei pressi del villaggio di Gaumesnil in Francia, mentre avanzava con il resto della sua unità per cercare d’intercettare le forze  britanniche impegnate nell’Operazione Totalise, il suo Tiger matricola 007 si trovò nel bel mezzo di un’imboscata e fu raggiunto da un proiettile nella parte posteriore, che fece esplodere il deposito munizioni e scagliò la torretta a decine di metri di distanza. Un unico colpo ma letale. L’intero equipaggio morì sul colpo, senza probabilmente rendersi neppure conto di cosa fosse successo realmente, e questa volta per il Barone Nero non ci fu scampo.


 


La tomba di Wittmann e dell'equipaggio del Tiger 007 a La Cambe

Articolo di Michael Wittmann pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 6 – altri testi e immagini da Wikipedia

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