giovedì 25 luglio 2019

Divisione Acqui storia di una carneficina.


Divisione Acqui storia di una carneficina.
Dopo l’8 settembre 1843 nulla fu come prima. A Cefalonia, in Grecia, la divisione Acqui si trova a combattere con il nuovo nemico tedesco. Superiore in armamento e mezzi. Per gli italiani sarà una strage.



Dopo l’esautorazione di Benito Mussolini, avvenuta nel luglio 1943 a Roma, il Maresciallo Pietro Badoglio, nuovo capo del governo, avvia contatti segreti con gli Alleati al fine di favorire l’uscita dell’Italia dalle ostilità. Dal canto suo l’OKW, il Comando supremo della Wehrmacht, si è preparato fin dal maggio 1943 a una probabile uscita dell’Italia dal conflitto. Il piano, nome in codice Achse, prevede una reazione fulminea, al fine di disarmare e internare le forza armate ubicate nei vari teatri del Mediterraneo e occupare il territorio metropolitano, la Francia meridionale e i Balcani. Dopo lunghe trattative, il 3 settembre 1943 il generale Castellano, plenipotenziario italiano, sigla l’armistizio. Gli accordi stabiliscono che il patto diverrà effettivo dal suo annuncio pubblico. Eisenhower, il comandante in capo americano, parla da radio Algeri alle 18,30 dell’8 settembre 1943, dopo oltre un’ora gli fa eco Badoglio dai microfoni dell’Eiar, la radio italiana. A Cefalonia, isola greca nello Ionio a sud di Corfù, la stazione della Marina italiana apprende la notizia da Radio Londra. Alle 19,45 arriva la conferma, con la lettura del proclama da parte di Badoglio.

Kephalonia Names.jpg

L'isola di CefaloniaTipoCaduti in combattimento, fucilazioni sommarie, rappresaglieData23 - 28 settembre 1943LuogoCefaloniaStatoGrecia Grecia
Coordinate38°15′00″N 20°35′24″ECoordinate: 38°15′00″N 20°35′24″E (Mappa)Responsabili1. Gebirgs-Division (Wehrmacht); 104. Jäger-DivisionMotivazioneResistenza italiana[1]all'attuazione, da parte dell'esercito tedesco, dell'operazione Achse[2], volta al disarmo e deportazione delle truppe italiane a seguito dell'armistizio di Cassibile.ConseguenzeMortiLe stime delle vittime sono incerte, a seconda delle fonti e delle circostanze rientranti nel computo, da 1.700 a 9.400Feriti163 accertati (poi deportati)


UNA CONVIVENZA QUASI TRANQUILLA. Sull’isola si trovano truppe italiane e germaniche. La disposizione sul terreno, per grandi linee, è la seguente: la penisola di Paliki, a ovest, ai tedeschi, la restante parte del territorio agli italiani della Divisione Acqui. Dal 20 giugno l’unità ha un nuovo comandante, il generale di brigata Antonio Gandin. Già coordinatore della segreteria di Badoglio nel 1938, Gandin ha poi diretto il prestigioso Reparto pianificazione generale dell’Ufficio operazioni del Comando supremo. Il suo incarico, fino ai primi del 1943, lo vede frequentemente al seguito di Mussolini. Decorato con la Croce di ferro di 1a classe e favorito dalla perfetta conoscenza della lingua, svolge compiti di collegamento con i comandi tedeschi. La Divisione ai suoi ordini presidia le isole Ionie. Il 18° Reggimento a Corfù, altri reparti sono a Lefkada e a Zante, mentre il grosso, circa 12 mila uomini, è schierato a Cefalonia. Quello nell’isola è un presidio di tutto rispetto, supporto da batterie di artiglieria di vario calibro, anche antinave.
Il contingente tedesco, costituito inizialmente da pochi effettivi, dopo il 5 agosto 1943, data di recepimento del piano Achse da parte della 1a Divisione Gebirgsjager in Epiro, viene portato a circa duemila uomini al comando del tenente colonnello Hans Barge, raggruppati nel 966° reggimento di granatieri da fortezza composto dal 909° e dal 910° battaglione. In questo periodo a Cefalonia il clima fra i contingenti contrapposti resta tutto sommato disteso. Le voci che si diffondono fra le truppe italiane circa un’uscita di scena del Duce sono avvalorate dal cambio di denominazione della caserma di Argostoli, da Mussolini a Vittorio Emanuele. Più che a vere e proprie manifestazioni di giubilo per la caduta del Duce, si può assistere a una diffusa sensazione di euforia dovuta a quello che sembra essere il preludio alla fine della guerra e all’agognato rientro a casa. Molto più degni di nota sono invece i riposizionamenti di truppa tedeschi. Viene rafforzato il presidio nella stessa Argostoli, con organici del 909° battaglione appoggiati dalla seconda batteria del 201° Sturmartillerieabteilung, battaglione di artiglieri d’assalto con cannoni semoventi, complessivamente otto StuG III da 75 mm e uno Stuff 42 da 105 mm. un distaccamento e una batteria antinave germanici si spostano a sud, a Capo Munda, da cui si controlla il lungo tratto sabbioso e dai bassi fondali di Katelios, adatto agli sbarchi.



Il generale della LuftwaffeAlexander Löhr, comandante dello Heeresgruppe E

Le forze italiane a Cefalonia.
L'ordine inviato da Brindisi a Antonio Gandin l'11 settembre 1943
Quello della Acqui a Cefalonia è un dispositivo assai articolato. Accanto a due reggimenti di Fanteria, 17° e 317° (il 18° è a Corfù e sarà anch’esso protagonista di sanguinosi scontri), ciascuno con tre battaglioni, una compagnia mortai da 81 mm e una batteria di accompagnamento da 65/17, vi sono diverse truppe di supporto. Troviamo la 2a e la 4a compagnia del 110° Battaglione Mitraglieri di Corpo d’Armata, la 76a sezione fotoelettriche e fonosacolto, la 33a sezione auto carette, la 31a compagnia Genio artieri e la 33a Genio Radiogratelegrafisti. Inoltre, sono presenti la 186a e la 251a compagnia lavoratori del Genio. È presente anche la 44a sezione Sanità, con tre ospedali da campo e un nucleo chirurgico, la 56a sezione di Sussitenza e la 9a squadra Panettieri. Aggregate alla Acqui poi la 2a compagnia del 7° Battaglione della Guardia di Finanza. La ragguardevole componente artiglieria della Divisione è formata dal 7° gruppo di Corpo d’Armata (cannoni da 195/28), dal 94° gruppo di Corpo d’Armata (cannoni da 155/36), dal 188° gruppo di Corpo d’Armata (obici da 155/14), dal 3° gruppo contraerei di Corpo d’Armata da 75/27, da un gruppo contraerei di Corpo d’Armata da 75/27, da un gruppo obici da 100/17, dalla 33a compagnia cannoni da 47/32 e dalla 5a batteria del 2° gruppo obici da 75/13 del 33° Reggimento Artiglieria. La parte antiaerea è affidata a due sezioni di mitragliere da 20 mm, quella anticarro a due sezioni di cannoni da 75 mm. A Cefalonia è presente anche il Comando Marina Argostoli, da cui dipendono una flottiglia di dragaggio, la 37a, una squadriglia di siluranti MAS, il 10° gruppo antisommergibili e il 3° gruppo motovelieri per la vigilanza foranea. Tutte queste unità lasceranno l’isola prima dell’inizio dei combattimenti. L’ultima imbarcazione a salpare per l’Italia sarà. Nella notte fra il 18 e il 19 settembre, un motoscafo veloce della Croce Rossa con l’obbiettivo di chiedere aiuti. La Marina dispone inoltre di un proprio dispositivo di artiglieria, costituiti da una batteria contraerei da 76/40, una batteria antinave da 152/40 e una da 120/50, in allestimento. L’Aviazione ha due idrovolanti, i trimotori da ricognizione a lungo raggio Cant Z.506. Anch’essi lasceranno l’isola prima dei combattimenti.
  

Una motozattera, la F456, simile a quelle coinvolte nel combattimento di Argostoli

LA TENSIONE CRESCE. È il reduce delle Acqui Giovanni Capanna a descrivere l’8 settembre a Cefalonia: “Si udì il suono delle campane provenienti da Argostoli e dai paesi vicini. L’incredulità lasciò il posto a un entusiasmo indescrivibile: si tornava a casa! Era semplicemente questo per noi il significato della parola armistizio. Poco dopo trapelò qualcosa in più anche sul testo letto da Badoglio alla radio. Avremmo imparato a nostre spese il senso della frase: le forze italiane reagiranno ad altri attacchi da qualsiasi provenienza essi giungano”.
La mattina del 9 settembre, mentre Vittorio Emanuele III, Badoglio e tutto lo Stato Maggiore sono in fuga, diretti in auto verso l’Abruzzo, per imbarcarsi da Ortona alla volta dell’Italia del Sud, in mani alleate, Gandin riceve a Cefalonia gli ordini dal Comando italiano di Atene, dipendono le altre 30 Divisioni schierati nei Balcani. Si tratta del cosiddetto Promemoria 2, diramato dal Comando supremo italiano il 7 settembre. Il documento stabilisce una sorta di passaggio di consegne graduale con le truppe tedesche, in accordo con i rispettivi comandi, al fine di presidiare le postazioni di artiglieria e quelle difensive, “sempre che da parte tedesche non vi siano atti di forza”. Si ribadisce nel testo di non fare causa comune con i ribelli né tantomeno con gli angloamericani. Nelle ore seguenti, ad alimentare l’indecisione, Gandin riceve da Atene un secondo ordine del Comando d’Armata, che ribadisce di non opporre resistenza agli angloamericani e di reagire a eventuali attacchi dei partigiani. Differenti invece le disposizioni verso i tedeschi, con cui bisogna collaborare, cedendo loro i presidi costieri entro il 10 settembre e consegnando le armi pesanti e collettive. Con solo l’armamento individuale al seguito, inoltre, le nostre truppe dovranno concentrarsi in zone specifiche in attesa dell’imbarco per l’Italia. Gandin non si fida di questo secondo ordine. conclude che probabilmente il Comando d’Armata, sotto pressione tedesca, è stato costretto a diramarlo. Da ufficiale esperto analizza la situazione. Il nuovo governo Badoglio ha scarsa autorità, quindi è difficile aspettarsi aiuti dall’Italia. Gli alleati, dopo la Calabria, sono appena sbarcati anche a Salerno, ed è molto improbabile per loro l’ipotesi dell’apertura di un nuovo fronte a Cefalonia. In ultima analisi, la Acqui può confidare soltanto sulle proprie forze. Essa potrebbe inizialmente prevalere ma, non potendo contare su rinforzi e rifornimenti, non avrebbe poi alcuna possibilità di mantenere le posizioni contro sbarchi in forze nemici e attacchi aerei. Gandin convoca i comandanti divisionali per tastare loro il polso. Il grosso dei suoi subalterni si dice disposto a seguire le indicazioni del generale Vecchiarelli. Fanno eccezione alcuni ufficiali della marina e dell’artiglieria, propensi invece allo scontro con i tedeschi. in questa fase Gandin probabilmente è ancora convinto che un confronto armato con l’ex alleato si possa evitare. Confidando nei buoni rapporti con i tedeschi che aveva stabilito negli anni passati e nel suo ascendente personale, decide di avviare una serie di trattative per una resa onorevole e, probabilmente, anche per guadagnare tempo.
Processo di NorimbergaLanz è il terzo da destra nel banco degli imputa

L'eccidio di Cefalonia ha tuttora un solo colpevole: il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d'armata truppe da montagna della Wehrmacht dall'agosto 1943 all'8 maggio 1945[7], venne infatti condannato dal tribunale di Norimberga a 12 anni di reclusione, sebbene ne abbia poi scontati solo tre (la pena fu così mite perché, incredibilmente, nessuno si presentò da parte Italiana a testimoniare al processo). Nel 1957 in Italia furono prosciolti (secondo alcuni per non danneggiare l'immagine dell'esercito[62]) degli ufficiali della Acqui accusati di aver aizzato gli uomini contro i tedeschi dando così origine ai combattimenti e sempre nello stesso anno si iniziò un altro processo nei confronti di 30 ex soldati tedeschi, risoltosi un anno dopo con un nulla di fatto[63].

Nel 1964 anche la Germania aprì un'inchiesta sulla vicenda una volta ricevuto del materiale da Simon Wiesenthal, ma quattro anni dopo la procura di Dortmund archiviò il caso per riaprirlo nel 2001, prendendo in esame sette ex ufficiali della Wehrmacht. Tra questi figurava anche Otmar Muhlhauser, capo del plotone di esecuzione che fucilò Gandin, prosciolto dalla procura di Monaco di Baviera nel settembre del 2007 perché reo di aver commesso un omicidio "semplice", non rientrante nella categoria di crimini di guerra; stessa sorte subirono gli altri sei imputati[63]. Dietro la segnalazione di due donne italiane che persero il padre a Cefalonia, la procura militare di Roma aprì un nuovo fascicolo il 2 gennaio 2009 chiamando al banco degli imputati il solo Muhlhauser, ma non si poté fare molto perché il 1º luglio dello stesso anno l'ex militare tedesco, ormai ottantanovenne, morì, e così il processo terminò il 5 novembre (data del rinvio per accertare le condizioni di salute dell'imputato)[63].
All'inizio del 2010 il tribunale militare di Roma ha iniziato una nuova azione legale nei confronti di Gregor Steffens e Peter Werner, entrambi ottantaseienni ed appartenuti al 966º Reggimento Granatieri da fortezza, accusati di aver ucciso 170 soldati italiani che si erano arresi. Sentiti già dalla procura di Dortmund nel 1965 e nel 1966 alla quale si erano dichiarati innocenti, i due ex militari hanno fatto altrettanto a Roma e al momento le indagini sono ancora in corso[64].
Il 18 ottobre 2013 il Tribunale militare di Roma ha riconosciuto la responsabilità penale del caporale della Edelweiss Alfred Stork condannandolo all'ergastolo per il massacro compiuto nel settembre del 1943 sull'isola di Cefalonia in esecuzione dello specifico ordine di Hitler e in spregio delle convenzioni internazionali che, anche all'epoca dei fatti, imponevano un trattamento umano dei militari che avevano ormai deposto le armi; Stork a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943.


La battaglia di Cefalonia in 4 fasi.

Prima fase: la disposizione dei reparti a Cefalonia alla proclamazione dell’armistizio. La penisola di Paliki, a ovest, è occupata dai tedeschi, 2mila uomini in tutto. Il Comando germanico ha sede a Lixouri, il secondo centro dell’isola. Contingenti tedeschi si trovano anche a nord, a presidiare il porticciolo di Fiskardo e a sud, con una batteria a Capo Munda. Ad Argostoli, il capoluogo, ci sono altri tedeschi e il gruppo semoventi. Il grosso dell’isola è in mano italiana, 12mila uomini circa. Il Comando di Gardin verrà avanzato all’inizio degli scontri da Argostoli a Prokopoata, bandiera tricolore triangolare.

Seconda fase: Dopo i primi successi italiani del 15 e 16 settembre 1943, la superiorità aerea e i rinforzi sbarcati a nord, Aghia Kiriaki, e in altre zone, cambiano radicalmente i rapporti di forze a favore dei tedeschi. Gli italiani si battono duramente per cercare inutilmente di riconquistare il nodo strategico di Kardakata a nord, sotto la baia di Aghia Kiriaki, e il monte Kutzuli più a est, ma vengono sopraffatti e respinti dai tedeschi, i quali cominciano a muoversi su due direttrici principali di marcia per intercettare il massimo degli uomini di Gandin.

Terza fase: la manovra tedesca è ordita in modo perfetto e supportata egregiamente dagli Stuka. Nel vano tentativo di proteggere Argostoli, devastata dai bombardamenti, nonché la piana di San Gerasimo, fra Frankata, Valsamata e Troianata, dove sono ubicati gli ospedali da campo e gli altri reparti non combattenti, gli ultimi resti dei battaglioni di fanteria itlaiana si immolano contro il 910° da Fortezza e le tre colonne di Gebirgsjager agli ordini del maggiore Von Hirschfeld, che scendono da nord. Gandin intanto ha arretrato il suo Comando a Villa Valianos, nell’abitato di Keramiés.

Quarta fase: siamo all’epilogo. Il 910° il 1°/724° battaglione Gebirgsiahger arrivano ad Argostoli lungo la direttrice costiera da Kardakata, nonché dal passo Kolumi, difeso fino alla fine dal II battaglione del 17° reggimento di fanteria italiano. Gli altri reparti germanici, provenienti da Troianata, chiudono la tenaglia, catturando Gandin a Keramiés. Sono le 16 del 22 settembre 1943. Dirigendosi verso Argostoli, i tedeschi completano l’opera di rastrellamento degli italiani dislocati a ovest del capoluogo dell’isola.

IL FATTACCIO COMPIUTO. Gandin in questi giorni sarà terribilmente sotto pressione, stretto fra la sua valutazione strategica circa l’esito di uno scontro diretto con i tedeschi, le pressanti richieste germaniche tese a una risoluzione rapida della situazione e il sempre crescente malumore proveniente soprattutto da alcuni ufficiali, desiderosi di battersi. I giorni della trattativa, dal 10 al 13 settembre, scorrono febbrili, dominati da un crescente nervosismo. La cessione ai tedeschi del nodo stradale strategico di Kardakata, avvenuta in segno di collaborazione all’avvio dei negoziati, alimenta le voci che descrivono il generale addirittura come tedescofilo. Si verificano forti episodi di intolleranza. Non aiuta la pretesa tedesca dell’11 settembre della consegna delle armi da parte dei nostri reparti schierati in piazza Valianos, in pieno centro di Argostoli, umiliandoli così davanti ai civili greci. La tensione è altissima. Il capitano Gazzetti, del Comando di Divisione, viene ucciso da un maresciallo di marina. Un carabiniere getta come atto intimidatorio una bomba a mano, che non esplode, nell’auto dello stesso Gandin durante un’ispezione. In queste febbrili giornate il Generale consulta anche i cappellani militari della Divisione per avere sentore dello spirito del grosso della truppa. I ripetuti tentativi di insubordinazione non sfuggono però ai tedeschi, i quali temono che la situazione possa scappare di mano a Gandin. All’alba del 13 settembre avviene il cosiddetto fattaccio compiuto, cioè l’apertura del fuoco su due motozattere tedesche dirette ad Argostoli a opera di ufficiali di Artiglieria e della Marina. Ancora oggi l’evento genera forti dispute tra chi sostiene che esso vada inteso come l’atto di insubordinazione e di aggressione alla base degli avvenimenti che portarono alla reazione tedesca e alla rappresaglia, o, al contrario, come il primo atto della resistenza al Tedesco.
Poco dopo il grave episodio giunge in volo personalmente il generale Humbert Lanz comandante del 22° Corpo d’Armata tedesco. Perdurando il clima di euforia dei nostri artiglieri, anche Lanz viene accolto a cannonate e il suo idrovolante ripara non senza difficoltà a Lixouri, in mano germanica. Il tedesco, furioso, chiama Gandin per chiedere spiegazioni circa l’evidente atto di ostilità costituto dal cannoneggiamento ai natanti, con l’affondamento di uno di loro e diverse perdite. Gandin avrebbe risposto di aver perso l’autorità nei confronti di alcuni ufficiali e asserito, comunque, di considerarsi legato al giuramento del Re. Lanz rinnova alle 12 del 14 settembre l’ultimatum per la consegna delle armi. Nella notte il comando di Brindisi invia a Gandin l’ordine di resistere a ogni tentativo di disarmo da parte dei tedeschi (da rimarcare che il governo Badoglio aspetterà fino al 13 ottobre per dichiarare guerra alla Germania). Gandin, i suoi e migliaia di altri soldati nei vari fronti, senza un formale atto di guerra, verranno considerati dai tedeschi franchi tiratori, e quindi ribelli, con tutte le conseguenze del caso, compresa la condanna a morte. Il 14 settembre gli Stuka sorvolano Cefalonia lanciando volantini che invitano gli italiani alla resa, “chi non si arrenderà non potrà fare ritorno”. È l’ultimo avviso.

L’ANNIENTAMENTO DELLA ACQUI. La lotta che si sussegue a Cefalonia dal 15 al 22 settembre 1943 vede nei primi due giorni una iniziale supremazia italiana, soprattutto per attacchi notturni, durante i quali i tedeschi non possono contare solo sugli aerei. I battaglioni del 966° da fortezza sono in estrema difficoltà. Ad Argostoli vengono catturate diverse centinaia di tedeschi e l’intera squadra semoventi. Le fotoelettriche e l’artiglieria delle batterie di Esercito e Marina neutralizzino un tentativo di sbarco germanico nel capoluogo. Gli italiani si prodigano per trarre a riva naufraghi e feriti. I tedeschi recuperati, insieme a quelli catturati ad Argostoli, vengono sistemati in un campo di prigionia ai lati del quale, per evitare che gli Stuka possano bersagliare i loro camerati, sono sistemate delle vistose bandiere naziste. Il colonnello Barge, comandante della guarnigione, è costretto a chiedere rinforzi. Li ottiene, ma viene di fatto destituito dal generale d’Armata Lohr. Come aveva previsto Gandin, alla Acqui, priva di appoggio aereo e nell’impossibilità di ricostruire le scorte di materiale e rimpiazzare le perdite, la Wehrmacht, i Gebirgsjager, fanteria leggera da montagna, truppe agili e ben armate, in grado di muoversi velocemente su un terreno aspro come quello di Cefalonia. Essi appartengono a due Gebirgs-Divisionen. Della 1a “Edelweiss” sono il 3° battaglione del 98° Reggimento artiglieria da montagna e il 1° battaglione del 724° Reggimento cacciatori sono inquadrati nella 104a Jager-Division. Dal 16 al 18 settembre 1943, dopo i violenti scontri nel nord dell’isola, fra il nodo di Kardakata, il monte Kutzuli e la direttrice da ponte Kimonico a Divarata, l’iniziativa passa ai tedeschi. fra il 18 e il 19 settembre il generale Gandin, forse temendo altri sbarchi a sud, invia due compagnie del 17° Fanteria per un attacco notturno alle postazioni tedesche di Capo Munda. L’assalto non ottiene i risultati sperati. I tedeschi, artiglieri di marina, resistono dietro ben tre linee di difesa. Al mattino, a combattimenti ancora in corso, arrivano anche gli Stuka. Agli italiani non resta che la ritirata. Lasciano sul terreno una sessantina fra morti e feriti, i quali saranno passati per le armi dati tedeschi. La relativa calma del 20 prelude all’attacco finale germanico, una manovra a tenaglia eseguita alla perfezione. Il 910° battaglione da fortezza si dirige verso Argostoli lungo la principale strada costiera, mentre gli Jager, in due colonne, scendono veloci lungo i costoni centrali dell’isola e la vallata interna di San Gerasimo, distruggendo ogni reparto si opponga ad essi. Il 22 settembre le truppe da montagna germaniche completano l’accerchiamento, catturando a Keramiés il generale Gandin e tutto il suo comando, ubicato a Villa Valianos. Su un balcone, come bandiera bianca, sventola una tovaglia da cucina. La resa viene firmata da Gandin nel salone, su un grande tavolo di marmo bianco. Subito dopo, in una Argostoli devastata dagli incendi e dai bombardamenti, i germanici si ricongiungono ai camerati provenienti dal nord: la Acqui ha cessato di esistere. In maniera davvero singolare: i tedeschi annotano che “durante gli scontri tutti gli italiani sono stati uccisi in combattimento, tranne quelli adibiti al trasporto di munizioni”.

UN AFFRONTO IMPERDONABILE. Le cifre sulle fucilazioni ed esecuzioni sommarie sono ancora oggi oggetto di dibattito, ma nulla tolgono alla gravità del comportamento tenuto dai tedeschi. Oltre questo, restano aperti altri interrogativi. Possiamo intendere nella vicenda e nel suo tragico epilogo l’esaltazione del patriottismo e dello spirito antidesco? E ancora, i Gebirsjager presenti a Cefalonia, molti dei quali austriaci, sono le truppe alpine della Wehrmacht, non delle spietate SS. Possono bastare il sentimento anti-italiano e l’odio per l’ex alleato traditore a farne dei criminali di guerra?
La lettura dei fatti da parte italiana, vale a dire la reazione per spirito patrio, appare altrettanto schematica almeno quanto l’interpretare il comportamento dei tedeschi come standardizzate espressione della ferocia nazista. L’analisi è senz’altro più complessa. Per gli italiani è necessario scindere il punto di vista degli ufficiali da quello dei soldati. Se per i primi valgono il rispetto del giuramento al re e il senso dell’onore, quest’ultimo tanto forte per alcuni di loro da indurli a gravi insubordinazioni, nulla di tutto ciò si può affermare per la truppa, dove prevale il semplice desiderio di tornare a casa, con le proprie armi e intatto l’onore dei soldati. La massa della Divisione quindi combatte perché vuole abbattere l’unico ostacolo che si frappone fra essa e il rientro in Italia: i tedeschi. I Gebirgsjager invece sono convinti di sbrigare velocemente la questione, persuasi di trovarsi di fronte a truppe che si lasceranno disarmare facilmente, o al massimo, in caso di reazione si sfalderanno rapidamente. Lo scontro invece si rivela difficile perché tutta la Acqui combatte duramente. Interi reparti attaccano e si lasciano decimare con i loro ufficiali in testa. Gli italiani a Cefalonia non cedono, anzi contrattaccano! Ciò rappresenta un precedente pericoloso in una potenziale polveriera come i Balcani, dove sono centinaia di migliaia i soldati italiani ancora inquadrati e in armi. Ecco quindi disvelarsi forse la chiave di tutto. Gli italiani si battono, nella speranza di tornare a casa, tanto duramente da mettere in difficoltà il nemico. Un affronto che la Wehrmacht non può permettersi di accettare. Quegli uomini in grigioverde che hanno osato tanto vanno eliminati.

 Articolo in gran parte di Francesco Fagnani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 22 sprea editori. Altri testi e articoli da Wikipedia.

martedì 16 luglio 2019

I trionfi di Cesare


I trionfi di Cesare.
Roma accoglie il suo nuovo padrone.
Ansioso di superare il suo nemico Pompeo e diventare il generale romano di maggior successo, Giulio Cesare celebrò cinque sontuosi trionfi tra il 46 e il 45 a.C. per commemorare le sue vittorie militari.

I trionfi di Cesare di Andrea Mantegna



Prima tela, Trombettieri e portatori di insegne               Seconda tela, Carri trionfali, trofei e macchine belliche

Terza tela, Carro con trofei e portatori di bottino                Quarta scena, Portatori di vasi, tori sacrificali e trombettieri  


Quinta scena, Trombettieri, tori sacrificali ed elefanti             Sesta scena, Portatori di corsaletti, di trofei e di  armature  



                          Settima scena, Prigionieri, buffoni e un portainsegna       

 

Ottava tela, Portatori di corsaletti, di trofei e di armature       Decima scena, Senatori


Nona tela, Giulio Cesare sul carro trionfale
Il 28 settembre del 61 a.C. una gigantografia del mondo varcava la porta Triumphalis. I romani, che attendevano trepidanti lo spettacolo, sapevano bene cosa significava: il generale trionfatore che stava per oltrepassare a sua volta la porta, Gneo Pompeo Magno, era giovane, ma già al suo terzo trionfo e, dopo la Spagna e l’Africa, ne celebrava uno sull’Asia; agli occhi dei contemporanei era come se avesse conquistato tutti e tre i continenti conosciuti, ovvero il mondo intero. E il suo nuovo trionfo, ovvero la cerimonia in cui i generali vittoriosi sfilavano per le vie della città esibendo i bottini e i prigionieri catturati nelle proprie campagne, era il più fastoso nella storia dell’Urbe. Pompeo si vantava infatti di aver conquistato 1538 città e di aver soggiogato 12178 persone. Aveva inoltre fondato 39 città dando loro il suo nome e seguito le orme di Alessandro Magno fino al mare d’Azov. E del condottiero macedone, adesso, il trionfatore indossava il mantello, mentre procedeva su un cocchio tempestato di pietre preziose. Erano cifre, le sue che andava ben oltre i requisiti minimi che un generale doveva rispettare per richiedere al senato un trionfo. Innanzitutto, era una questione di morti: perché si potesse inoltrare la richiesta, la guerra doveva aver fatto almeno cinquemila vittime tra i nemici. Ed era la sola occasione in cui un esercito era autorizzato a entrare in città. le regole della celebrazione, codificate da secoli, prevedevano che il trionfatore entrasse dalla porta Triumphalis in Campo Marzio e procedesse fino al Campidoglio, su un cocchio trainato da quattro cavalli, indossando una corona d’alloro, una tunica di porpora bordata d’oro e una toga tempestata di stelle dorate; nella mano destra doveva tenere uno scettro d’avorio, mentre il suo viso era dipinto di rosso minio quale rappresentazione di Giove Ottimo Massimo. E, a scanso di equivoci, uno schiavo accanto a lui, incaricato di tenergli una corno d’oro sulla testa, aveva anche il compito di ricordargli che non era un dio ma solo un uomo, sebbene in quel momento impersonasse il padre degli dei.
Il corteo si apriva al suono delle trombe, che introduceva i cartelloni con le raffigurazioni delle imprese del trionfatore e poi il bottino, le spoglie di guerra e i prigionieri, cui seguivano magistrati e senatori, in processione davanti al vincitore. Alle spalle della quadriga, infine, procedevano i soldati, autorizzati, per l’occasione a fare battute irriverenti nei confronti del loro comandante. La cerimonia si chiudeva con il sacrificio rituale del condottiero di fronte al tempio di Giove Capitolino, utilizzando come vittime i tori con le corna dorate che avevano sfilato nel corteo. Seguiva solitamente qualche giorno di feste, banchetti, giochi nel circo. In epoca imperiale, Traiano si sarebbe lasciato prendere decisamente la mano, concedendo a Roma 123 giorni di festa durante i quali avrebbero combattuto 10mila gladiatori e sarebbero stati uccisi 11mila animali.

Vincitore di mille battaglie.

L'arco di Tito, presso cui inizia la via Sacra.

51 a.C.
Dopo la vittoria ad Alesia e la resa dei conti con Vercingetorige, Cesare impone il dominio romano sulle Gallie. Vercingetorige venne portato a Roma come prigioniero.

48 a.C.
Dopo essere arrivato in Egitto, Cesare appoggia Cleopatra nello scontro con i fratelli e contribuisce a rafforzarne il potere. Le loro truppe sconfiggono Arsinoe e Tolomeo XIII nella Battaglia del Nilo
47 a.C.
Il re Farnace del Ponto invade il territorio romano. In giugno Cesare lascia l’Egitto con una legione e sconfigge il sovrano nella Battaglia di Zela. Farnace fugge, ma viene ucciso da uno dei suoi ufficiali.

Aprile del 46 a.C.
Le truppe cesariane e i resti dell’esercito pompeiano sostenuto dal re Giuba di Mauritania si scontrano nella Battaglia di Tapso, nell’odierna Tunisia. Sconfitti da Cesare i suoi nemici si suicidano.
Settembre del 46 a.C.
Cesare celebra a Roma quattro trionfi. Scoppia una rivolta in Spagna, guidata dai figli di Pompeo. Nel 45 a.C. il generale festeggia la sua vittoria su di loro con un altro trionfo.

Un’ovazione di serie B.
Per chi vinceva in guerra senza raggiungere i requisiti minimi del trionfo, era prevista l’ovatio, senza quadriga né scettro né soldati, con una corona di mirto al posto dell’alloro, indosso la toga praetexta dei magistrati (con una striscia viola anziché una veste totalmente viola con stelle dorate com’era la toga picta, che si usava normalmente nei trionfi) e una pecora sacrificato in luogo del toro. Di un tale trionfo “blando” dovette accontentarsi, per esempio, il terzo membro del triumvirato costituito con Cesare e Pompeo, ovvero Marco Licinio Crasso dopo aver sconfitto nel 71 a.C. Spartaco: temibile e capace di infliggere numerose sconfitte ai romani, ma era pur sempre un esercito costituito da schiavi. L’uomo più ricco di Roma non la prese bene, e probabilmente la sua frustrazione per questo fatto fu alla base delle decisione di procurarsi allori più prestigiosi attaccando l’esercito partico. Questa scelta tuttavia gli valse solo la morte sua e di suo figlio nella Battaglia di Carre del 53 a.C., considerata uno dei maggiori disastri militari della storia di Roma. Poco prima del suo assassinio, Cesare aveva annunciato che sarebbe partito per l’Oriente per vendicare la morte di Crasso e rafforzare i confini sull’Eufrate.


Vincenzo Camuccini - La morte di Cesare.jpg
"La morte di Cesare" di Vincenzo Camuccini(NapoliMuseo di Capodimonte)


SUPERARE POMPEO A OGNI COSTO. Ma dopo il fastoso trionfo celebrato da Pompeo nel 61 a.C., cosa avrebbe dovuto fare colui che lo aveva sconfitto in battaglia a Farsalo per far dimenticare le cifre, il bottino e lo sfarzo ostentati dal conquistare dell’Oriente? Fu la domanda che dovette porsi Giulio Cesare nel 46 a.C., all’indomani della vittoria sugli ultimi pompeiani che avevano scelto l’Africa come loro estrema roccaforte. Anche lui, in un certo senso, aveva trionfato su tre continenti: aveva combattuto per quasi un decennio in Gallia, stroncando ad Alesia la grande ribellione condotta da Vercingetorige e sgominando gli ultimi irriducibili a Uxellodunum, dove aveva fatto tagliare la mano destra a tutti i difensori. Si era trovato invischiato nelle lotte di potere tra fratelli in Egitto, dove ave preso le parti di Cleopatra, sconfiggendo in condizioni pur critiche e con pochi mezzi i suoi avversari e rendendo saldo il trono della regina. Infine, aveva liquidato in un batter d’occhio la pratica relativa a Farnace, re del Ponto, umiliandolo in una battaglia a Zela, dopo che suo padre Mitridate VI Eupatore aveva tenuto in scacco i romani per decenni. Ma con tre trionfi avrebbe solo eguagliato Pompeo, e lui voleva essergli superiore. Voleva essere superiore a tutti, Cesare. C’era, in effetti, una quarta guerra che lo aveva visto prevalere, ed era proprio l’ultima: quella combattuta in Africa contro i suoi avversi politi sopravvissuti alla disfatta di Farsalo. Era stata una lotta durissima, durante la quale il dittatore aveva dovuto affrontare una tenace guerriglia per oltre sei mesi, prima di riuscire a costringere il nemico a una battaglia campale, dove il suo genio aveva finito invariabilmente per prevalere. E la vittoria a Tapso gli aveva permesso di spazzare via grossi calibri dell’opposizione come il suocero di Pompeo, Metello Scipione, e Catone Uticense, che avevano preferito suicidarsi piuttosto che usufruire della proverbiale clementia cesaris. Si trattava, dunque, di una guerra civile, e sarebbe stato inaudito celebrare un trionfo per la vittoria in un conflitto del genere: nulla avrebbe potuto irritare di più i romani, che Cesare intendeva invece stupire e compiacere. Eppure il dittatore aveva bisogno di un quarto trionfo per superare Pompeo. Ma l’escamotage per aggirare la legge, la morale e il buon gusto. A fianco dei pompeiani, infatti, si era schierato il re numida Giuba, che aveva portato in dote agli anticesariani schiere di cavalieri leggeri, celeberrimi per la loro dinamicità in battaglia e come esploratori. Anche lui era morto, scegliendo di battersi in un duello all’ultimo sangue con un altro celebre pompeiano, Marco Petreio. Alla fine erano rimasti uccisi entrambi. Ma la caduta del suo regno poteva giustificare il quarto trionfo che Cesare cercava. Era una chiara forzatura, ma ormai il condottiero era diventato il padrone di Roma e il senato non aveva la forza di negargli più nulla. Anche perché i suoi soldati erano già dentro l’Urbe, a dispetto di tutte le disposizioni che ne vietavano l’accesso: “Non abbiate timore dei soldati”, sostenne davanti ai padri coscritti, “consideriamo nient’altro che una guardia del corpo del mio impero, che allo stesso tempo è anche il vostro”. Cassio Dione racconta: “dopo di ciò Cesare diede una splendida festa, come si addiceva a tante e così importanti vittorie, e celebrò i trionfi della Gallia, dell’Egitto, di Farnace, di Giuba con quattro spettacoli, che ebbero luogo in quattro giorni distinti”. Fu un vero e proprio tour de force, che però non iniziò sotto i migliori auspici. Nel primo giorno l’asse del cocchio trionfale si spezzò proprio davanti al tempio della Fortuna, e il condottiero dovette proseguire su un altro carro. Nel corte il dittatore non mancò di esibire quello che era stato il suo più valoroso avversario, il capo arverno Vercingetorige, che poco dopo sarebbe finito strangolato appena sotto le pendici del Campidoglio, nel carcere Mamertino. Poi Cesare salì in ginocchio la scalinata del Campidoglio, dove lo attendeva un altro cocchio eretto in suo onore davanti alla statua di Giove e un’immagine del mondo con una scritta “semidio”, che in seguito fece rimuovere.
Il giorno seguente spettò al trionfo egiziano. Cesare vi esibì un’altra delle sue prede più preziose, la sorella minore di Cleopatra, la ventiduenne Arsinoe, la cui vista mosse a compassione i romani. Con il dittatore fu più clemente, risparmiandole la vita ed esiliandola a Efeso, dove dopo la morte del suo vincitore sarebbe stata fatta uccidere da sicari di Marco Antonio per ordine di Cleopatra. Poi toccò al trionfo pontico: in mancanza del re, morto in combattimento dopo la sconfitta, campeggiava un cartello con la proverbiale scritta “veni, vidi e vinci”, a significare la rapidità con cui il dittatore aveva concluso la campagna.
A chiudere le cerimonie venne il trionfo africano, il più imbarazzante in quanto “si trattava di guerre civili di nessun decoro per lui e motivo di vergogna e malaugurio per i romani”, scrive Appiano. Cesare vi esibì il figlio del sovrano, Giuba II, che poi sarebbe diventato un apprezzato scrittore di lingua greca, nonché re di Numidia per volere di Augusto, grazie al matrimonio con Cleopatra Selene, figlia di Antonio e Cleopatra. I romani storsero il naso nel vedere i cartelloni raffiguranti i protagonisti sconfitti; il trionfatore ebbe tuttavia il buon senso di non ritrarre Pompe (che dopo la disfatta di Farsalo era fuggito in Egitto ed era stato assassinato per ordine del re Tolomeo XIII), ancora molto amato dai cittadini.
Ai soldati fu concessa più libertà di parola del solito, ed essi ne approfittarono con offese e insinuazioni da caserma. Torno d’attualità l’antica diceria secondo cui Cesare, da giovanetto, era stato l’amante del re di Bitinia Nicodeme: “Cesare ha piegato i galli, ma Nicodeme ha piegato Cesare”, era il motto che circolava tra le file dei legionari incolonnati dietro il suo cocchio, e in seguito il dittatore pretese di poter giurare per smentire una volta per tutte quelle voce. Poi si udivano anche grida di questo tenore: “Se ti comporterai bene, sarai punito, se ti comporterai male, sarai re”, facendo riferimento alla sua spregiudicatezza, che gli aveva consentito di raggiungere una posizione sempre più somigliante a quella di un sovrano.
Cesare sapeva essere generoso anche col popolo, e al termine dei cortei trionfali largheggiò   con un banchetto da 22mila trichini e ampie distribuzioni di grano e olio. A ogni cittadino diede 400 sesterzi, 100 in più di quanto aveva promesso, e ai soldati una gratifica straordinaria di 20000 sesterzi: ma quando si rese conto che il numero di coloro cui spettava il grano gratuito era cresciuto a dismisura, fece rivedere i requisiti minimi abbattendolo della metà. E mentre la plebe si abbandonava alle libagioni, il dittatore entrò nel foro che portava il suo nome coi calzari ai piedi e incoronato da ghirlande di fiori, poi si trasferì a casa seguito da un corteo di gente comune e accompagnato da elefanti che portavano fiaccole. A Roma fiorirono ovunque giochi e spettacoli e per la prima volta al circo gli spettatori poterono fruire di un velo di lino che riparava le tribune dal sole. Cesare aveva anche fatto costruire un apposito teatro per la caccia alle fiere e le lotte dei gladiatori – il primo anfiteatro della storia di Roma – dove si vide la prima giraffa sul suolo europeo, che i contemporanei chiamavano “cammelloleopardo”. Tra i tanti combattenti di ogni veto ed etnia che si esibirono nella nuova costruzione e nel Circo Massimo, dai prigionieri di guerra agli equestri, dagli schiavi ai figli di senatori, vi furono anche elefanti, che si scontrarono in una battaglia con venti animali per parte. Le strutture all’interno dell’arena furono addirittura smantellate per far posto agli accampamenti dei singoli schieramenti, che raggiunsero in certe occasioni il migliaio di uomini ciascuno. Ancor più sorprendente fu la battaglia navale tra una flotta di Tiro e una egiziana, che il dittatore allestì in un bacino artificiale ricavato nel Campo Marzio, offrendo agli spettatori la prima naumachia della storia di Roma. Ma all’ombra di questo profluvio di festeggiamenti e di gioia si agitava il malcontento: per il regime monocratico che il dittatore aveva istituito, per le enormi spese sostenute, per lo spropositato ammontare di onore di cui il senato lo ricopriva, per il gran numero di uomini uccisi negli spettacoli, perché i soldati non erano mai contenti, e avrebbero voluto per sé il denaro sperperato nelle celebrazioni. Qualcuno venne anche giustiziato per sedare i disordini.
Il dittatore danzava  su un filo sottile, e ben presto nuovi passi falsi gli avrebbero tolto il sostegno anche dei suoi più stretti collaboratori, nonché degli uomini che aveva graziato nella guerra civile e addirittura gratificato delle cariche più importanti. Poco più di un anno lo separava dalle idi di marzo.

Le spoglie del nemico sconfitto.
Il trionfo più apprezzato era quello che poteva essere nobilitato dalle spolia opima, l’equipaggiamento del capo nemico ucciso da vincitore. Accade solo tre volte nella storia di Roma, e su due di esse è lecito esprimere dubbi. La tradizione assegna infatti la prima impresa del genere a Romolo: il primo re di Roma avrebbe sfidato e ucciso in singolar tenzone il re  dei ceninensi Acrone, ricavando poi da una quercia un trofeo su cui appendere le armi del nemico, che avrebbe portato sulla spalla destra in processione fin sul Campidoglio. Poi toccò ad Aulo Aurelio Cosso, che nel 437 a.C. avrebbe sopraffatto il re di Veio Tolumnio nella battaglia di Fidene. Più credibile appare l’impresa del console Marco Claudio Marcello, che nel 222 a.C. uccise nella battaglia di Clastidium, il re dei galli insubri Viridomaro.
L’ultimo trionfo di Cesare.
Il passo falso fatale di Cesare arrivò subito dopo la sua ultima guerra. I reduci dell’opposizione pompeiana si erano infatti rifugiati in Spagna, dove erano confluiti anche i figli di Pompeo Magno e l’antico luogotenente di Cesare, Tito Labieno. Il dittatore li sconfisse a Munda nel 45 a.C. e poi decise di celebrare un altro trionfo, senza neppure avere stavolta, la scusa di aver combattuta un alleato straniero. E poiché era sempre molto prodigo verso i propri subalterni, lo fece celebrare anche ai suoi luogotenenti Quinto Fabio e Quinti Pedio, il che era altrettanto inaudito. Alla fine, quindi, si tennero tre distinti trionfi, uno sproposito per una guerra civile, e per economizzare, le raffigurazioni furono in legno e non in avorio, un espediente che gli procurò derisione. Ma non solo: Cesare offrì anche un grande banchetto, “come se fosse capitata una grande fortuna comune a tutti”, scrive Cassio Dione. I festeggiamenti andarono avanti per ben cinquanta giorni, indisponendo i conservatori ma anche i cittadini, che avevano patito perdite nella guerra civile. Il senato proclamò Cesare liberatore e dispose che fosse costruito un tempio della Libertà a spese dello stato. il dittatore non si separò più dalla corono d’alloro che, tra parentesi, nascondeva la sua calvizie.
   
Articolo in gran parte di Andrea Frediani, storico e scrittore pubblicato su Storica National Geographic del mese di dicembre 2018 altri testi e immagini da wikipedia.

mercoledì 10 luglio 2019

Ludwig II di Baviera


Ludwig II di Baviera
Il re che sognava troppo.
Il 13 giugno 1886 moriva (probabilmente assassinato dai suoi stessi ministri) il sovrano più bizzarro d’Europa. Un uomo affascinante, colto e pacifico, strenuo difensore delle arti.

De 20 jarige Ludwig II in kroningsmantel door Ferdinand von Piloty 1865.jpg
Ludovico II di Baviera nel giorno dell'incoronazione, dipinto di Ferdinand von Piloty, 1865

Benché non più ricchissima e potente come lo era stata un tempo, la Baviera del XIX secolo era un regno in cui le radicate tradizioni cattoliche convivevano in pace con un progressismo politico piuttosto sciatto. La sua storia è intimamente legata a quella della dinastia che lo governa da quasi mille anni, i Wittelsbach. Così nel 1848, quando l’Europa viene scossa dalle rivonluzioni che chiedono a gran voce costituzioni e riconoscimenti dei diritti dei cittadini, in Baviera si costringe il re, il simpatico Ludwig I, ad abdicare per colpa di una scandalosa relazione con un’avventuriera irlandese che si spaccia per ballerina spagnola, la famosa Lola Montez. Al vecchio monarca libertino, ancora amatissimo dal popola per la sua stravagante personalità, succede il più prosaico figlio di Massimiliano II, monarca morigerato e prudente, malaticcio e dedito allo studio in questo scenario, il 25 agosto 1845, viene alla luce Ludwig, principe ereditario di Baviera, primogenito di quello che i bavaresi impareranno a chiamare il “buon re Max” accanto alla meno amata regina Maria di Prussia.
Come si conviene ai principi ereditari, per i primi dieci anni della sua vita il piccolo Ludwig venne allevato da balle e istitutrici. Protetto dalle amorevoli cure della governante Sibylle von Meilhaus, alla quale resterà intimamente legato anche in età adulta, il giovane principe vive tra le due regge di Monaco (il sontuoso palazzo barocco di Nymphenburg e la più austera Residenz) e il castello di Hohenschwangau, situato a pochi chilometri a sud della capitale, piccolo gioiello neogotico le cui pareti sono decorate da affreschi che riproducono le antiche saghe germaniche. Sono immagini che catturano (fin troppo) la fantasia del giovane principe, traboccanti come sono di cavalieri chiusi in scintillanti armature che corrono in soccorso di sventurate principesse.
Fotografia di Ludovico II di Baviera all'età di trent'anni

Neuschwanstein l’olimpio degli dei del nord.


Quando Ludwig fece erigere il ciclopico castello di Neuschwanstein, tra il 1869 e il 1886, lo fece soprattutto per offrire a Wagner un luogo perfetto d’ispirazione. L’interno del maniero venne decorato con cicli di affreschi dedicati a quella mitologia germanica di cui il grande drammaturgo stava creando una sintesi con la celeberrima tetralogia dell’Anello del Nibelungo.
Il risultato fu sorprendente, corse di cattivo gusto, ma capace comunque di affascinare. Non per nulla, al giorno d’oggi, un milione e mezzo di persone all’anno visitano le sue sale istoriate, si meravigliano sotto le sue torri snelle dalle guglie azzurre, sognano ai piedi di un trono che pare uscito più dagli studi di Hollywood degli anni Cinquanta che dal Medioevo. Anche Walt Disney ne fu colpito, tanto da farne il prototipo per il castello abitato dalla perfida regina Grimilde del film a disegni animati Biancaneve e i sette nani del 1937. Nel 1868, Ludwig scriveva al suo amico Wagner: “E’ mia intenzione far ricostruire l’antica rovina del castello di Hohenschwangau, nei pressi della gola di Pollat, nello stile autentico delle antiche fortezze dei cavalieri tedeschi e devo confessarVi di rallegrarmi all’idea di potervi soggiornare un giorno”.
Sala del Trono



A UN FUTURO RE TUTTO E’ PERMESSO. I rigori della scuola militare, che lo costringe a fare bagni ghiacciati o a patire la fame per temprare il fisico alle privazioni del campo di battaglia, non intollerabili per il giovani principe, che sembra non assomigliare in nulla all’apatico padre ma molto all’eclettico nonno: perfettamente consapevole del proprio ruolo, Ludwig non perde l’occasione per sottolineare che un giorno sarà re, arrivando perfino a pretendere una punizione per il figlio del conte Arco che si è permesso di spintonarlo. Con il fratello minore, Otto, non è più indulgente: i loro giochi finiscono sempre con il povero piccolo costretto ad arrendersi o a perdere la partita per non offendere la superiorità gerarchica del fratello e rischiare dolorose punizioni. Si racconta anche che il principino, dopo essere uscito da un negozio con un borsellino non pagato, rispondesse piccato al rimprovero della governante: “Perché dovrei essere in colpa? Un giorno sarò re di questo paese e tutto ciò che appartiene ai miei sudditi sarà mio!”.
I genitori di Ludwig, come avviene in tutte le case reali, sono del tutto assenti nell’educazione del principe. Il padre non lo fa presenziare alle sedute del governo e la madre Marie, principessa prussiana dal sangue freddo, donna gretta e di scarsa cultura, non riesce a trovare argomenti per conversare con lui. Mentre Ludwig legge per ore e ore chiuso nella sua camera la regina madre afferma orgogliosa: “Non ho mai letto un libro e non capisco me si possa leggere interrottamente”. Una differenza talmente profonda che porterà madre e figlio al contrasto, arrivando a un punto tale che Ludwig in più di un’occasione si riferirà alla madre chiamandola la vedova del mio predecessore.
Appare sempre più strano questo giovane principe che, invece di pensare alla carriera militare o ad andare a caccia con il padre, legge libri, ama il teatro, adora il melodramma e la storia dei sovrani francesi sviluppando quell’adorazione per Luigi XIV, Luigi XV e Maria Antonietta che in età adulta diventerà una vera e propria ossessione. A chi lo sorprende immerso nel buio della sua camera a guardare nel vuoto chiedendogli se non si annoia risponde seccato: “Niente affatto, immagino cose bellissime e mi diverto molto”. Al decimo compleanno la vita di Ludwig cambia radicalmente, cedendo il passo a quella che viene considerata la formazione  più conveniente a un futuro sovrano, con rigidi piani di studio e un istitutore militare al posto della governante. Ludwig vi si applica con determinazione, ma proprio non riesce a concentrarsi sulle carte militari, preferendo gli spartiti e i libretti delle opere che vengono rappresentate a teatro. A quindici anni gli viene concesso il permesso di recarsi a teatro per assistere al Lohengrin di Richard Wagner, compositore le cui idee sono contestate, che predilige le storie dei cavalieri nibelungici, con quegli eroi biondi e perfetti che sembrano balzati fuori dai muri del castello di Hohenscwangau per prendere vita.
Quando sul palcoscenico appare il Cavaliere del Cigno la rivelazione è totale e sconvolgente, al punto che chi può osservare il giovane principe seduto nel palco reale riesce a vederne i tratti del viso alterati da una profonda emozione. Wagner sarebbe lusingato nel contestare l’effetto che la sua opera ha sul giovane principe. Compiuti i diciotto anni, quello che viene chiamato “il più bel principe d’Europa”, grazie all’aspetto imponente (un metro e novanta di statura), ai capelli neri vezzosamente ondulati con il ferro caldo e ai grandi occhi blu scuro, comincia a soffre di solitudine avvertendo la necessità di stringere amicizia con qualche coetaneo. La scelta cade sul giovane principe Paul von Thurnu und Taxis, al quale si lega di un’amicizia profonda. Anche troppo. Negli slanci amorosi di cui grondano le lettere scritte da Ludwig all’amico vanno forse ricercati i primi segnali di quell’omosessualità che tormenterà la coscienza di Ludwig per tutta la vita.

L’AMICIZIA CON RICHARD WAGNER. Prestante, dal portamento regale e il fisico atletico (grazie alle lunghe nuotate e alle cavalcate nei boschi), Ludwig appare ai futuri sudditi come una promessa di felicità, e i cuori di tutte le ragazze del regno battono per lui. È così bello ed elegante, con lo sguardo remoto e un po’ malinconico, che i bavaresi lo vedono seguire a grandi passi il corteo funebre del padre il 14 marzo 1864: il buon Max se n’è infatti andato troppo presto, lasciando il regno nelle mani di un figlio ancora giovane e impreparato a tanta responsabilità.
Cinta la corona di re di Baviera, dopo una solenne cerimonia vissuta come un incubo, Ludwig si ripromette controvoglia di svolgere il suo ruolo con la massima determinazione, ma non si sente all’altezza dei lunghi consigli di stato, e tutte le attività connesse con il suo ruolo lo annoiano a morte. Se chiama un ministro con estrema urgenza è solo per ordinargli di raggiungere Richard Wagner ovunque si trovi per inviarlo a corte. Ora che è re vuole realizzare il suo sogno e avere il compositore tutto per sé, stargli accanto quando compone dando vita e voce ai suoi eroi, costruirgli un teatro in cui possa celebrare la sua arte. Vuole condividere le fantasie e le emozioni del grande e discusso musicista. Questo si darebbe senso alla sua vita e al suo status di re.
Purtroppo, però, Wagner non affatto l’artista sommo e il bardo puro che il giovane re è convinto che sia: braccato dalle polizie di mezza Europa, il musicista è invece un soggetto rissoso e pieno di debiti. Raggiunto a fatica dagli emissari di Ludwig, il compositore arriva a Monaco nel maggio 1864: il suo incontro con il re di Baviera è commovente, con il sovrano che con la voce rotta per la commozione abbraccia il compositore incredulo e imbarazzato da quell’accoglienza così calorosa.
A lungo attesa, l’opera Tristano e Isotta va finalmente in scena il 10 giugno 1865. Il successo è enorme, ma le nubi che si intravedono all’orizzonte non lasciano sperare nulla di buono. Gli esborsi della tesoreria per far fronte alle assurde richieste del compositore raggiungono presto cifre da capogiro. Diffamato dai giornali, chiamata beffardamente “Lolus” (in riferimento a quella Lola che anni addietro aveva fatto perdere la testa, e il regno, a re Ludwig I), Wagner viene attaccato da ogni parte.
Il giorno in cui doveva riscuotere un anticipo sul suo compenso, Wagner si vede consegnare, fuori dalla parta della tesoreria, la cifra pattuita in monetine di rame contenute in numerosi sacchi che è costretto far caricare su grossi carri. I passanti che assistono alla scienza pensano che Wagner stia svaligiando le casse dello Stato. Il colmo viene raggiunto quando Wagner approfitta della sua influenza sul re per suggerirgli la nomina di un ministro. L’impopolarità del compositore è giunta al culmine, il sovrano non può più difenderlo e si vede costretto a chiedergli di lasciare Monaco. Tornerà dopo pochi mesi ma la scoperta di una relazione adulterina con Cosima von Bulow, costringerà nuovamente il sovrano a separarsi dal suo idolo.

Sissi il gabbiano.
Elisabeth of Austria, by Franz Xaver Winterhalter.jpg
L'imperatrice Elisabetta in abito da ballo, dipinto di Franz Xaver Winterhalter1865
Sul rapporto che lega l’imperatrice Elisabetta d’Austria (la romantica Sissi) al cugino Ludwig si è molto scritto e favoleggiato, tanto che molti biografi hanno spesso voluto ravvisare nella loro intima amicizia una improbabile storia d’amore.
Certo è che il rapporto tra i due non fu così idilliaco come spesso si legge: dopo anni di allontanamento si ritrovano nel 1864 a Bad Kissingen durante un soggiorno alle terme. In quell’occasione i due cugini, che si scrivono lettere firmandosi poeticamente “Aquila” e “Gabbiano” (lettere nascoste nel cassetto dello scrittoio del piccolo castello in stile pompeiano che si trova sull’isola delle Rose), parlano molto e cavalcano assieme condividendo la loro passione per la poesia, la libertà dalle costrizioni della corte e la notte. Giova però ricordare che, mentre Ludwig idolatra letteralmente la cugina, ammirandola in modo totale, Sissi riprende spesso Ludwig con giudizi molto severi: non sopporta quando sbaglia a vestire l’uniforme austriaca, quando si presenta in alta uniforme e con il parasole aperto, oppure quando si profuma eccessivamente. Non è da escludere che il progressivo evolversi della malattia mentale del sovrano ponga Elisabetta, anch’essa soggetta a gravi nevrosi, di fronte al terrore di cadere vittima di quell’alienazione mentale che da secoli riaffiora violenta nei membri della dinastia bavarese.
Pazzia o semplice stravaganza?
Scrisse Elisabetta del cugino Ludwig: “Non è abbastanza pazzo per esser rinchiuso in gabbia, ma è troppo anormale per poter intrattenere rapporti con le persone sane di mente”. È in effetti molto difficile, ancora oggi, poter formulare una diagnosi precisa sull’effettivo stato mentale di Ludwig negli ultimo anni di vita. Bernhard von Gudden, psichiatra che si era già occupato della salute mentale del fratello Otto, facendolo internare, decretò che Ludwig era affetto da un grave stato di paranoia che gli vietava l’utilizzo del libero arbitrio. Si tratta di una patologia che si era già manifestata a livelli più o meno gravi in famiglia, forse a causa dei continui matrimoni fra consanguinei. Basti ricordare i casi di due zie di Ludwig: la principessa Maria si cambiava d’abito tre o quattro volte al giorno vestendo sempre e solo abiti bianchi per potervi scorgere anche il più piccolo granello di polvere, mentre la sorella Alessandra visse per anni convinta di aver ingoiato un pianoforte di vetro.

La sfortunata Sofia Carlotta.
Sophie of Bavaria, Duchess of Alençon.jpg
Benché apparentemente perfetto, il fidanzamento con la duchessa Sofia Carlotta fu senz’altro uno dei momenti più difficili per Ludwig. Mentre tutta la Baviera festeggiava con l’esposizione di stampe che ritraevano i futuri sposi, egli sapeva che non avrebbe mai potuto compiere quel passo. I mesi del fidanzamento furono terribili per Sophie che vedeva il fidanza arrivare alle ore più improbabili per chiederle di cantare qualche aria di Wagner, compositore amatissimo anche da lei, per poi dileguarsi nella notte e non comparire più per giorni interi. Arrivò persino a lasciarla sola nel corso del ballo dato in loro onore per festeggiare il fidanzamento. Spinto dalla cugina Elisabetta, che aveva a cuore la reputazione del cugino, oltre che il futuro della sorella, Ludwig cercò di rinviare più volte il fatidico giorno, finché il duca Max, padre della futura sposa, non gli scrisse una lettera durissima per costringerlo a prendersi la sua responsabilità. Offeso dalle pretese di quello che considerava un suo vassallo, Ludwig colse il pretesto per rompere il fidanzamento. Sophie, addolorata e umiliata, si sposò nel 1868 con Ferdinand d’Orléans duca d’Alencon. Morirà arsa viva nel 1897 nel terribile incendio al Bazar della Charité a Parigi.
Castelli di fiaba.
La mitologia di Ludwig è strettamente legata ai suoi manieri, ancora oggi tra le mete turistiche più battute d’Europa. In essi si ritrovano tutte le ossessioni e i sogni del sovrano bavarese: a Linderhof si può ammirare una tavola montata su uno speciale montacarichi che la abbassa al piano sottostante per permettere ai valletti di sparecchiare senza disturbare il re con il loro andirivieni. Nel parco si trova la Grotta di Venere, una caverna artificiale costruita in acciaio e cemento che richiama quella del Tannhauser wagneriano, illuminata da decine di lampade colorate.
A Herrenchiemsee trova posto la riproduzione perfetta (ma più grande) della celebre Galleria degli Specchi di Versailles: il sovrano la abbandonò dopo una sola notte, dopo aver scoperto che per risparmiare vi erano state collocate statue di gesso invece che di marmo.
A Neuscwanstein, tra lo studio e la camera da letto, trova posta una piccola grotta con ruscello ma anche il primo citofono elettrico di Baviera: Ludwig era infatti molto attratto dalla tecnologia, ogni novità lo affascinava. Costati cifre enormi alla tesoreria di
Stato e alla cassa personale del sovrano, fortunatamente i castelli non vennero però distrutti alla morte del re, come invece egli stesso aveva disposto nel testamento.

IL SOVRANO MISANTROPO. Sentendosi ingiustamente privato di quello che considerava il suo amico più caro, Ludwig decide di ritirarinsi nei castelli di Hohenscwangau e Berg, costringendo i suoi ministri a percorrere chilometri in carrozza per essere ricevuti in udienza in mezzo a un bosco o su un isolotto al centro di un lago. Ma un sovrano ha dei doveri dai quali non può fuggire neanche rinchiudendosi nel castello più lontano, primo fra tutti quello di sposarsi.
Ormai ventunenne, Ludwig è uno dei partiti più appetibili d’Europa, ma la scelta della futura regina non è affare da poco: oltre alle voci sulla sua sessualità indefinita si sa che il giovane re non ha un carattere facile.
In privato ha dichiarato più volte di non volere al suo fianco una donna gretta e ignorante come la madre. Il suo ideale sarebbe una principessa nobile e pura simile alle eroine wagneriane. Il novello Lohengrin cerca la sua Elsa e la trova nella duchessina Sofia Carlotta, figlia del duca Max, discendente di un ramo cadetto dei Wittelsbach, ma soprattutto sorella dell’amata cugina Elisabetta imperatrice d’Austria (la celebre Sissi), per la quale Ludwig prova un’ammirazione e un affetto profondi fin da quando era bambino. La cosa non deve stupire poiché Ludwig ed Elisabetta, cugini di secondo grado, hanno molto in comune: benché abbiano otto anni di differenza sono cresciuti vicini, entrambi spiriti liberi, ribelli, insofferenti ai cerimoniali, amanti della poesia e delle cavalcate notturne. Il fidanzamento, certamente sponsorizzato da Elisabeth, l’unica a cui Ludwig non sa negare nulla, viene annunciato nel gennaio del 1867 con grande giubilo di tutta la nazione, ma il matrimonio non verrà mai celebrato a causa di una brusca rottura causata dai continui rinvii del sovrano. È ancora scandalo, il giovane re è più chiacchierato che mai. Nel 1866 scoppia la guerra. La disputa peri l controllo di due ducati situati nel Nord Europa ha fatto litigare Austria e Prussia.
Alleata di entrambi i contendenti, la Baviera e con essa Ludwig è costretta a una scelta dolorosa: far la guerra all’amata cugina Elisabetta (e all’Austria), oppure a quello dio zio Guglielmo (e alla Prussia), il soldataccio volgare e sempre in divisa, che già accarezza l’idea di diventare imperatore di Germania. non volendo prendere parte a una guerra che reputa inutile e incestuosa, Ludwig sceglie ancora una volta la fuga e si rifugia sull’Isola delle Rose. Ai ministri che vengono in processione per chiedergli di intervenire a favore di uno o dell’altro schieramento il re risponde che non vuol sentir parlare di morti e feriti. Poi cede e firma l’alleanza con l’Austria per una guerra che, dopo sette settimane, conduce la Baviera a un’avvilente sconfitta, privandola definitivamente di qualsivoglia influenza sul futuro impero germanico. Umiliato, costretto da Bismarck a firmare una lettera in cui chiede di accogliere la Baviera con Stato membro dell’Impero germanico. Ludwig scappa di nuovo, sempre più lontano. Dello splendido diciottenne che dieci anni prima era salito al trono non resta nulla: diventato massiccio e pesante, con i suoi centodieci chili di peso, i denti anneriti dalle carie causate dai confetti che mangia a manciate e gli occhi cerchiati di rosso, il sovrano è irriconoscibile. Caduto in una sorta di profonda depressione, Ludwig inizia così quell’alienante percorso di isolamento che lo condurrà alla rovina. Non vuol vedere più nessuno e non intende più occuparsi degli affari di stato. I suoi ministri, del resto, hanno tutto l’interesse a lasciare sul trono un re che non governa.

Ammaliato dal genio di Wagner.
Nessun artista moderno ha mai goduto dei privilegi e dei sostegni che Richard Wagner ottenne da re Ludwig. Del resto, il grande musicista era visto, in Germania e all’estero, come il riformatore del melodramma, un gigante della musica e delle arti in generale. Egli non stava solo ripensando il mondo dell’opera e del teatro, ma per la prima volta operava una sorta di fusione delle arti capaci di legare musica e parole, scenografie e trama in un tutt’uno. L’ammirazione nutrita da Ludwig nei suoi confronti era sconfinata, tanto da consentire al musicista di attingere alle casse del regno per costruire la Festpielhaus, un teatro di nuovissima concezione che dal 1876 non ha smesso di rappresentare il mondo operistico wagneriano. Molte sono le innovazioni introdotte nel nuovo tempio della lirica: non vi sono più i palchi tipici dell’opera italiana, le luci si spengono durante la rappresentazione (che avviene in silenzio, invece che ne cicaleccio, com’era avvenuto fino ad allora) e l’orchestra suona nel cosiddetto “golfo mistico”, una buca appositamente studiata per non intralciare la visuale della scena. Insomma, la rappresentazione teatrale non è più un pretesto per chiacchierare e fare nuove conoscenze, ma diventa più simile a una funzione sacrale: sul palco si svolge un dramma globale, fatto di parole e musica, che contiene concetti spirituali e filosofici e al quale occorre assistere con un atteggiamento quasi religioso. Wagner compone, scrive i libretti, dà indicazioni scenografiche e drammaturgiche: incarna, insomma, quell’”Artista totale” vagheggiato dal muto romantico.
Ludwig è totalmente affascinato dalla mente e dalle opere del maestro, e si immerge completamente nei miti da lui proposti sul palco. Ne danno testimonianza i castelli di gusto medievale eretti in luoghi inaccessibili e ricolmi di pitture e sculture dedicate all’antica cosmogonia germanica.
“Vostro e fedele fino alla morte”.
Ecco la lettera di commiato inviata da Ludwig a Richard Wagner per chiedergli di lasciare la Baviera nel 1865:
“Caro amico! per quanto ciò mi addolori, sono costretto a chiedervi di aderire alla richiesta che vi ho fatto ieri tramite il mio segretario. Credetemi, non avevo altra scelta. Il mio amore per voi durerà per sempre e vi prego di conservare per me la vostra amicizia in terno; posso dichiarare in piena coscienza di esserne degno. Sebbene separati che ci può dividere? So che condividete il mio sentimento, che potete comprendere la profondità del mio dolore. Non potevo agire diversamente, siatene certo. Non dubitate mai della fedeltà del vostro migliore amico. certamente (questa forzata separazione) non sarà per sempre. Vostro e fedele fino alla morte. Ludwig”.

LA MANIA DEI CASTELLI. Finalmente sottratto agli affari di stato, il sovrano volge i suoi interessi verso progetti architettonici maestosi. Fin da quando era ragazzino, Ludwig ha manifestato un grande interesse per le costruzioni: era capace di restare per ore ad ammirare in silenzio le stampe che ritraevano le regge più sontuose d’Europa, da Versailles a Caserta, da Sanssouci a Schonbrunn. Appena diventato sovrano ha cominciato a ristrutturare i castelli paterni, apportando modifiche scenografiche: sul tetto della Rezidenz di Monaco fa allestire un lago artificiale sormontato da un’enorme luna che vi si specchia (luna che una sera cade nell’acqua provocando infiltrazioni nell’appartamento della regina madre). Il primo passo, nel 1863, è la costruzione della Linderhof, piccola preda barocca incastonata tra le Alpi, ideata ispirandosi al Trianon e contornata da un parco disseminato di chioschi che riproducono gli amatissimi ambienti delle opere wagneriane. Nel 1869 ordina la costruzione del suo sogno più segreto, il castello di Neuscwanstein, incarnazione di quei magnifici castelli medieval-romantici che ha sempre visto a teatro sulle scenografie dipinte, altare pagano eretto a celebrazione degli eroi di Wagner. E nove anni più tardi, nel 1878, avvia la costruzione della sua follia più grande, il castello di Herrenchiemsee, perfetta riproduzione del corpo centrale del palazzo di Versailles. Tre incubi di pietra per i ministri che non sanno più come far rientrare nel bilancio governativo le cifre spese per la loro costruzione.
Assorbito dai cantieri dei suoi castelli (ma soltanto Linderhof sarà abitato con una certa frequenza), Ludwig decide di concretizzare i suoi deliri. A tavola c’è sempre un posto apparecchiato nel caso in cui Sua Maestà Luigi XV decida a sorpresa di venire a cena. I valletti vengono assunti solo se di bell’aspetto, scelti da fidatissimo scudiere (amante, secondo le male lingue) Richard Hornig, ma viene ordinato loro di non guardare mai il sovrano negli occhi, talvolta costretti a vacare nel maniero bendati. Se si invaghisce di qualcuno Ludwig sa essere generosissimo, ma in cambio pretende devozione totale: lo sa bene l’attore Josef Kainz che, inviato a Linderhof, viene tenuto sveglio giorno e notte, costretto a recitare di continuo i prediletti versi di Schiller, salvo poi essere cacciato per esseri addormentato, per la stanchezza e aver russato.
Desideroso di viaggiare, ma insofferente all’idea di doversi sobbarcare la fatica degli inevitabili ricevimenti ufficiali, Ludwig monta per ore a cavallo girando in tondo, per poi calcolare la strada percorsa e immaginare di essere arrivato a Vienna o Parigi. Si fa costruire una magnifica slitta dorata con la quale scorazza di notte tra i boschi innevati, gettando nel panico i poveri contadini che all’improvviso vedono apparire il sovrano nella stalla a chiedere un bicchiere di buon latte appena munto.
Sempre più prigioniera dei suoi fantasmi, la sua labile mente vaga tra sogni e rimpianti, progetti e malinconie. A nulla valgono i richiami alla realtà dei suoi ministri, del suo popolo e perfino della cugina Elisabetta. Non gli importa più di nulla, nemmeno di quell’odiato cugino prussiano sempre in divisa che si è fatto incoronare imperatore, rendendo la sua amata Baviera un feudo della nuova Germania. E’ terrorizzato all’idea di fare la fine del fratello Otto, rinchiuso nel castello di Furstenried a causa di una malattia mentale di tanto in tanto lascia il suo dorato isolamento è solo per condividere con il vecchio amico Richard Wagner la gioia per l’inaugurazione, a Bayreuth, di quel tanto sospirato teatro da dedicare alle sue opere. Poi torna tra le sue montagne.



 Chiesa di San Michele (Monaco di Baviera): sarcofago di Ludovico II



IL MISTERO DELL’ULTIMA PASSEGGIATA. Poi, l’11 giugno 1886, alcuni signori vestiti di nero bussano al portone del castello di Neuscwabstein. È una delegazione di ministri e funzionari che, guidata dal dottore von Gudden, è venuta ad annunciare al sovrano di essere stato destituito a causa del disturbo mentale che gli impedisce di governare. Lui grida al tradimento, alla congiura. Viene portato a forza nel castello di Berg, trasformato per l’occasione in una piccola clinica psichiatrica da cui sono spariti coltelli, oggetti contundenti e perfino le maniglie delle porte. Di fatto è la sua prigione, da cui non potrà più allontanarsi perché un re che non sa regnare non può vivere in pubblico e anzi non ha più diritto a nulla, nemmeno alla libertà di vivere come gli piace.
Apparentemente tranquillo e rassegnato, la sera del 13 giugno l’ex sovrano chiede di fare una passeggiata in riva al lago. Accompagnato dal professor von Guddden, si inoltra nel bosco. Nessuno dei due tornerà più indietro. I loro cadaveri vengono trovati in acqua, poco distanti dalla riva del lago. Ancora oggi è impossibile stabilire con certezza che cosa sia successo: c’è chi parla di tentativo di fuga finito in tragedia, altri di suicidio, altri ancora di regicidio. Qualcuno giura di aver udito uno sparo, qualcun altro di aver visto anni dopo il cappotto del re con un buco in corrispondenza della schiena. Ipotesi, solo ipotesi. È assai probabile che Ludwig abbia tentato di sottrarsi al controllo del medico per scappare a nuoto e che, una volta entrato nell’acqua gelida, dopo aver stordito Gudden con un pugno per liberarsi dalla sua stretta, sia collassato a causa di una congestione. Resta il mistero. La sua fine avverò ciò che Ludwig aveva chiesto al suo fato: “Voglio rimanere un eterno enigma, per gli altri e per me stesso”.


 La salma del re Ludovico II composta nella bara nella cappella di corte della Residenza di Monaco; 16-18.6.1886



Articolo in gran parte di Enrico Ercole pubblicato su Conoscere la storia n. 50 – altri testi e immagini da wikipedia.

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...