I trionfi di Cesare.
Roma accoglie il suo
nuovo padrone.
Ansioso di superare il
suo nemico Pompeo e diventare il generale romano di maggior successo, Giulio
Cesare celebrò cinque sontuosi trionfi tra il 46 e il 45 a.C. per commemorare
le sue vittorie militari.
I trionfi di Cesare di Andrea Mantegna
I trionfi di Cesare di Andrea Mantegna
Prima tela, Trombettieri e portatori di insegne Seconda tela, Carri trionfali, trofei e macchine belliche
Terza tela, Carro con trofei e portatori di bottino Quarta scena, Portatori di vasi, tori sacrificali e trombettieri
Quinta scena, Trombettieri, tori sacrificali ed elefanti Sesta scena, Portatori di corsaletti, di trofei e di armature
Settima scena, Prigionieri, buffoni e un portainsegna
Nona tela, Giulio Cesare sul carro trionfale
Il
28 settembre del 61 a.C. una gigantografia del mondo varcava la porta
Triumphalis. I romani, che attendevano trepidanti lo spettacolo, sapevano bene
cosa significava: il generale trionfatore che stava per oltrepassare a sua
volta la porta, Gneo Pompeo Magno, era giovane, ma già al suo terzo trionfo e, dopo
la Spagna e l’Africa, ne celebrava uno sull’Asia; agli occhi dei contemporanei
era come se avesse conquistato tutti e tre i continenti conosciuti, ovvero il
mondo intero. E il suo nuovo trionfo, ovvero la cerimonia in cui i generali
vittoriosi sfilavano per le vie della città esibendo i bottini e i prigionieri
catturati nelle proprie campagne, era il più fastoso nella storia dell’Urbe.
Pompeo si vantava infatti di aver conquistato 1538 città e di aver soggiogato
12178 persone. Aveva inoltre fondato 39 città dando loro il suo nome e seguito
le orme di Alessandro Magno fino al mare d’Azov. E del condottiero macedone,
adesso, il trionfatore indossava il mantello, mentre procedeva su un cocchio
tempestato di pietre preziose. Erano cifre, le sue che andava ben oltre i
requisiti minimi che un generale doveva rispettare per richiedere al senato un
trionfo. Innanzitutto, era una questione di morti: perché si potesse inoltrare
la richiesta, la guerra doveva aver fatto almeno cinquemila vittime tra i
nemici. Ed era la sola occasione in cui un esercito era autorizzato a entrare
in città. le regole della celebrazione, codificate da secoli, prevedevano che
il trionfatore entrasse dalla porta Triumphalis in Campo Marzio e procedesse
fino al Campidoglio, su un cocchio trainato da quattro cavalli, indossando una
corona d’alloro, una tunica di porpora bordata d’oro e una toga tempestata di
stelle dorate; nella mano destra doveva tenere uno scettro d’avorio, mentre il
suo viso era dipinto di rosso minio quale rappresentazione di Giove Ottimo
Massimo. E, a scanso di equivoci, uno schiavo accanto a lui, incaricato di
tenergli una corno d’oro sulla testa, aveva anche il compito di ricordargli che
non era un dio ma solo un uomo, sebbene in quel momento impersonasse il padre
degli dei.
Il corteo si apriva al
suono delle trombe, che introduceva i cartelloni con le raffigurazioni delle
imprese del trionfatore e poi il bottino, le spoglie di guerra e i prigionieri,
cui seguivano magistrati e senatori, in processione davanti al vincitore. Alle
spalle della quadriga, infine, procedevano i soldati, autorizzati, per
l’occasione a fare battute irriverenti nei confronti del loro comandante. La
cerimonia si chiudeva con il sacrificio rituale del condottiero di fronte al
tempio di Giove Capitolino, utilizzando come vittime i tori con le corna dorate
che avevano sfilato nel corteo. Seguiva solitamente qualche giorno di feste,
banchetti, giochi nel circo. In epoca imperiale, Traiano si sarebbe lasciato
prendere decisamente la mano, concedendo a Roma 123 giorni di festa durante i
quali avrebbero combattuto 10mila gladiatori e sarebbero stati uccisi 11mila
animali.
51 a.C.
Dopo la vittoria ad Alesia e la
resa dei conti con Vercingetorige, Cesare impone il dominio romano sulle
Gallie. Vercingetorige venne portato a Roma come prigioniero.
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48 a.C.
Dopo essere arrivato in Egitto,
Cesare appoggia Cleopatra nello scontro con i fratelli e contribuisce a rafforzarne
il potere. Le loro truppe sconfiggono Arsinoe e Tolomeo XIII nella Battaglia
del Nilo
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47 a.C.
Il re Farnace del Ponto invade il
territorio romano. In giugno Cesare lascia l’Egitto con una legione e
sconfigge il sovrano nella Battaglia di Zela. Farnace fugge, ma viene ucciso
da uno dei suoi ufficiali.
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Aprile del 46 a.C.
Le truppe cesariane e i resti
dell’esercito pompeiano sostenuto dal re Giuba di Mauritania si scontrano
nella Battaglia di Tapso, nell’odierna Tunisia. Sconfitti da Cesare i suoi
nemici si suicidano.
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Settembre del 46 a.C.
Cesare celebra a Roma quattro
trionfi. Scoppia una rivolta in Spagna, guidata dai figli di Pompeo. Nel 45
a.C. il generale festeggia la sua vittoria su di loro con un altro trionfo.
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Un’ovazione di serie B.
Per chi vinceva in guerra senza
raggiungere i requisiti minimi del trionfo, era prevista l’ovatio, senza
quadriga né scettro né soldati, con una corona di mirto al posto dell’alloro,
indosso la toga praetexta dei magistrati (con una striscia viola anziché una
veste totalmente viola con stelle dorate com’era la toga picta, che si usava
normalmente nei trionfi) e una pecora sacrificato in luogo del toro. Di un
tale trionfo “blando” dovette accontentarsi, per esempio, il terzo membro del
triumvirato costituito con Cesare e Pompeo, ovvero Marco Licinio Crasso dopo
aver sconfitto nel 71 a.C. Spartaco: temibile e capace di infliggere numerose
sconfitte ai romani, ma era pur sempre un esercito costituito da schiavi.
L’uomo più ricco di Roma non la prese bene, e probabilmente la sua
frustrazione per questo fatto fu alla base delle decisione di procurarsi
allori più prestigiosi attaccando l’esercito partico. Questa scelta tuttavia
gli valse solo la morte sua e di suo figlio nella Battaglia di Carre del 53
a.C., considerata uno dei maggiori disastri militari della storia di Roma.
Poco prima del suo assassinio, Cesare aveva annunciato che sarebbe partito
per l’Oriente per vendicare la morte di Crasso e rafforzare i confini
sull’Eufrate.
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"La morte di Cesare" di Vincenzo Camuccini(Napoli, Museo di Capodimonte)
SUPERARE POMPEO A OGNI COSTO. Ma dopo il fastoso trionfo celebrato da Pompeo nel 61 a.C., cosa avrebbe dovuto fare colui che lo aveva sconfitto in battaglia a Farsalo per far dimenticare le cifre, il bottino e lo sfarzo ostentati dal conquistare dell’Oriente? Fu la domanda che dovette porsi Giulio Cesare nel 46 a.C., all’indomani della vittoria sugli ultimi pompeiani che avevano scelto l’Africa come loro estrema roccaforte. Anche lui, in un certo senso, aveva trionfato su tre continenti: aveva combattuto per quasi un decennio in Gallia, stroncando ad Alesia la grande ribellione condotta da Vercingetorige e sgominando gli ultimi irriducibili a Uxellodunum, dove aveva fatto tagliare la mano destra a tutti i difensori. Si era trovato invischiato nelle lotte di potere tra fratelli in Egitto, dove ave preso le parti di Cleopatra, sconfiggendo in condizioni pur critiche e con pochi mezzi i suoi avversari e rendendo saldo il trono della regina. Infine, aveva liquidato in un batter d’occhio la pratica relativa a Farnace, re del Ponto, umiliandolo in una battaglia a Zela, dopo che suo padre Mitridate VI Eupatore aveva tenuto in scacco i romani per decenni. Ma con tre trionfi avrebbe solo eguagliato Pompeo, e lui voleva essergli superiore. Voleva essere superiore a tutti, Cesare. C’era, in effetti, una quarta guerra che lo aveva visto prevalere, ed era proprio l’ultima: quella combattuta in Africa contro i suoi avversi politi sopravvissuti alla disfatta di Farsalo. Era stata una lotta durissima, durante la quale il dittatore aveva dovuto affrontare una tenace guerriglia per oltre sei mesi, prima di riuscire a costringere il nemico a una battaglia campale, dove il suo genio aveva finito invariabilmente per prevalere. E la vittoria a Tapso gli aveva permesso di spazzare via grossi calibri dell’opposizione come il suocero di Pompeo, Metello Scipione, e Catone Uticense, che avevano preferito suicidarsi piuttosto che usufruire della proverbiale clementia cesaris. Si trattava, dunque, di una guerra civile, e sarebbe stato inaudito celebrare un trionfo per la vittoria in un conflitto del genere: nulla avrebbe potuto irritare di più i romani, che Cesare intendeva invece stupire e compiacere. Eppure il dittatore aveva bisogno di un quarto trionfo per superare Pompeo. Ma l’escamotage per aggirare la legge, la morale e il buon gusto. A fianco dei pompeiani, infatti, si era schierato il re numida Giuba, che aveva portato in dote agli anticesariani schiere di cavalieri leggeri, celeberrimi per la loro dinamicità in battaglia e come esploratori. Anche lui era morto, scegliendo di battersi in un duello all’ultimo sangue con un altro celebre pompeiano, Marco Petreio. Alla fine erano rimasti uccisi entrambi. Ma la caduta del suo regno poteva giustificare il quarto trionfo che Cesare cercava. Era una chiara forzatura, ma ormai il condottiero era diventato il padrone di Roma e il senato non aveva la forza di negargli più nulla. Anche perché i suoi soldati erano già dentro l’Urbe, a dispetto di tutte le disposizioni che ne vietavano l’accesso: “Non abbiate timore dei soldati”, sostenne davanti ai padri coscritti, “consideriamo nient’altro che una guardia del corpo del mio impero, che allo stesso tempo è anche il vostro”. Cassio Dione racconta: “dopo di ciò Cesare diede una splendida festa, come si addiceva a tante e così importanti vittorie, e celebrò i trionfi della Gallia, dell’Egitto, di Farnace, di Giuba con quattro spettacoli, che ebbero luogo in quattro giorni distinti”. Fu un vero e proprio tour de force, che però non iniziò sotto i migliori auspici. Nel primo giorno l’asse del cocchio trionfale si spezzò proprio davanti al tempio della Fortuna, e il condottiero dovette proseguire su un altro carro. Nel corte il dittatore non mancò di esibire quello che era stato il suo più valoroso avversario, il capo arverno Vercingetorige, che poco dopo sarebbe finito strangolato appena sotto le pendici del Campidoglio, nel carcere Mamertino. Poi Cesare salì in ginocchio la scalinata del Campidoglio, dove lo attendeva un altro cocchio eretto in suo onore davanti alla statua di Giove e un’immagine del mondo con una scritta “semidio”, che in seguito fece rimuovere.
Il giorno seguente
spettò al trionfo egiziano. Cesare vi esibì un’altra delle sue prede più
preziose, la sorella minore di Cleopatra, la ventiduenne Arsinoe, la cui vista
mosse a compassione i romani. Con il dittatore fu più clemente, risparmiandole
la vita ed esiliandola a Efeso, dove dopo la morte del suo vincitore sarebbe
stata fatta uccidere da sicari di Marco Antonio per ordine di Cleopatra. Poi
toccò al trionfo pontico: in mancanza del re, morto in combattimento dopo la
sconfitta, campeggiava un cartello con la proverbiale scritta “veni, vidi e
vinci”, a significare la rapidità con cui il dittatore aveva concluso la
campagna.
A chiudere le cerimonie
venne il trionfo africano, il più imbarazzante in quanto “si trattava di guerre civili di nessun decoro per lui e motivo di
vergogna e malaugurio per i romani”, scrive Appiano. Cesare vi esibì il
figlio del sovrano, Giuba II, che poi sarebbe diventato un apprezzato scrittore
di lingua greca, nonché re di Numidia per volere di Augusto, grazie al
matrimonio con Cleopatra Selene, figlia di Antonio e Cleopatra. I romani
storsero il naso nel vedere i cartelloni raffiguranti i protagonisti sconfitti;
il trionfatore ebbe tuttavia il buon senso di non ritrarre Pompe (che dopo la
disfatta di Farsalo era fuggito in Egitto ed era stato assassinato per ordine
del re Tolomeo XIII), ancora molto amato dai cittadini.
Ai soldati fu concessa
più libertà di parola del solito, ed essi ne approfittarono con offese e
insinuazioni da caserma. Torno d’attualità l’antica diceria secondo cui Cesare,
da giovanetto, era stato l’amante del re di Bitinia Nicodeme: “Cesare ha
piegato i galli, ma Nicodeme ha piegato Cesare”, era il motto che circolava tra
le file dei legionari incolonnati dietro il suo cocchio, e in seguito il
dittatore pretese di poter giurare per smentire una volta per tutte quelle
voce. Poi si udivano anche grida di questo tenore: “Se ti comporterai bene,
sarai punito, se ti comporterai male, sarai re”, facendo riferimento alla sua
spregiudicatezza, che gli aveva consentito di raggiungere una posizione sempre
più somigliante a quella di un sovrano.
Cesare sapeva essere
generoso anche col popolo, e al termine dei cortei trionfali largheggiò con un banchetto da 22mila trichini e ampie
distribuzioni di grano e olio. A ogni cittadino diede 400 sesterzi, 100 in più
di quanto aveva promesso, e ai soldati una gratifica straordinaria di 20000
sesterzi: ma quando si rese conto che il numero di coloro cui spettava il grano
gratuito era cresciuto a dismisura, fece rivedere i requisiti minimi
abbattendolo della metà. E mentre la plebe si abbandonava alle libagioni, il
dittatore entrò nel foro che portava il suo nome coi calzari ai piedi e
incoronato da ghirlande di fiori, poi si trasferì a casa seguito da un corteo
di gente comune e accompagnato da elefanti che portavano fiaccole. A Roma
fiorirono ovunque giochi e spettacoli e per la prima volta al circo gli
spettatori poterono fruire di un velo di lino che riparava le tribune dal sole.
Cesare aveva anche fatto costruire un apposito teatro per la caccia alle fiere
e le lotte dei gladiatori – il primo anfiteatro della storia di Roma – dove si
vide la prima giraffa sul suolo europeo, che i contemporanei chiamavano
“cammelloleopardo”. Tra i tanti combattenti di ogni veto ed etnia che si
esibirono nella nuova costruzione e nel Circo Massimo, dai prigionieri di
guerra agli equestri, dagli schiavi ai figli di senatori, vi furono anche
elefanti, che si scontrarono in una battaglia con venti animali per parte. Le
strutture all’interno dell’arena furono addirittura smantellate per far posto
agli accampamenti dei singoli schieramenti, che raggiunsero in certe occasioni
il migliaio di uomini ciascuno. Ancor più sorprendente fu la battaglia navale
tra una flotta di Tiro e una egiziana, che il dittatore allestì in un bacino
artificiale ricavato nel Campo Marzio, offrendo agli spettatori la prima
naumachia della storia di Roma. Ma all’ombra di questo profluvio di
festeggiamenti e di gioia si agitava il malcontento: per il regime monocratico
che il dittatore aveva istituito, per le enormi spese sostenute, per lo
spropositato ammontare di onore di cui il senato lo ricopriva, per il gran
numero di uomini uccisi negli spettacoli, perché i soldati non erano mai
contenti, e avrebbero voluto per sé il denaro sperperato nelle celebrazioni.
Qualcuno venne anche giustiziato per sedare i disordini.
Il dittatore danzava su un filo sottile, e ben presto nuovi passi
falsi gli avrebbero tolto il sostegno anche dei suoi più stretti collaboratori,
nonché degli uomini che aveva graziato nella guerra civile e addirittura
gratificato delle cariche più importanti. Poco più di un anno lo separava dalle
idi di marzo.
Le spoglie del nemico sconfitto.
Il trionfo più apprezzato era quello
che poteva essere nobilitato dalle spolia opima, l’equipaggiamento del capo
nemico ucciso da vincitore. Accade solo tre volte nella storia di Roma, e su
due di esse è lecito esprimere dubbi. La tradizione assegna infatti la prima
impresa del genere a Romolo: il primo re di Roma avrebbe sfidato e ucciso in
singolar tenzone il re dei ceninensi
Acrone, ricavando poi da una quercia un trofeo su cui appendere le armi del
nemico, che avrebbe portato sulla spalla destra in processione fin sul
Campidoglio. Poi toccò ad Aulo Aurelio Cosso, che nel 437 a.C. avrebbe
sopraffatto il re di Veio Tolumnio nella battaglia di Fidene. Più credibile
appare l’impresa del console Marco Claudio Marcello, che nel 222 a.C. uccise
nella battaglia di Clastidium, il re dei galli insubri Viridomaro.
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L’ultimo trionfo di Cesare.
Il passo falso fatale di Cesare
arrivò subito dopo la sua ultima guerra. I reduci dell’opposizione pompeiana
si erano infatti rifugiati in Spagna, dove erano confluiti anche i figli di
Pompeo Magno e l’antico luogotenente di Cesare, Tito Labieno. Il dittatore li
sconfisse a Munda nel 45 a.C. e poi decise di celebrare un altro trionfo,
senza neppure avere stavolta, la scusa di aver combattuta un alleato
straniero. E poiché era sempre molto prodigo verso i propri subalterni, lo
fece celebrare anche ai suoi luogotenenti Quinto Fabio e Quinti Pedio, il che
era altrettanto inaudito. Alla fine, quindi, si tennero tre distinti trionfi,
uno sproposito per una guerra civile, e per economizzare, le raffigurazioni
furono in legno e non in avorio, un espediente che gli procurò derisione. Ma
non solo: Cesare offrì anche un grande banchetto, “come se fosse capitata una grande fortuna comune a tutti”,
scrive Cassio Dione. I festeggiamenti andarono avanti per ben cinquanta
giorni, indisponendo i conservatori ma anche i cittadini, che avevano patito
perdite nella guerra civile. Il senato proclamò Cesare liberatore e dispose
che fosse costruito un tempio della Libertà a spese dello stato. il dittatore
non si separò più dalla corono d’alloro che, tra parentesi, nascondeva la sua
calvizie.
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Articolo in gran parte
di Andrea Frediani, storico e scrittore pubblicato su Storica National
Geographic del mese di dicembre 2018 altri testi e immagini da wikipedia.
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