martedì 28 maggio 2019

Ipazia martire pagana.


Ipazia martire pagana.
Filosofa, matematica, astronoma, con un’unica colpa: quella di essere donna in una società in cui il cristianesimo aveva confermato la preponderanza del ruolo maschile.
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Ipazia di Alessandria, illustrazione del 1908
Ipàzia (in greco anticoὙπατίαHypatía, in latinoHypatiaAlessandria d'Egitto350/370 – Alessandria d'Egittomarzo 415[1]) è stata una matematicaastronoma e filosofa greca antica. Rappresentante della filosofia neo-platonica,[2] la sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto,[3] per alcuni autori composta di monaci detti parabolani,[4] l'ha resa secondo il teosofo Augusto Agabiti una «martire della libertà di pensiero».[5]


Moderna icona del pensiero razionale, femminista, illuminista ante litteram. Ipazia, la filosofa alessandrina vissuta a cavallo tra il IV e il V secolo d.C., è stata esaltata, soprattutto negli ultimi anni, come la campionessa di una femminilità libera e moderna, repressa in maniera violenta dalla retrograda cultura maschile, veicolata dal cristianesimo. La sua figura è diventata un simbolo, fino a tramutarsi (in un film di successo come Agora, diretto nel 2009 da Alejandro Amenabar), in un’anticipatrice di Keplero e Galileo, un’eroina della libera scienza invisa al potere.

UNA VITA IGNOTA. Ma, come spesso accade con le trasposizioni cinematografiche, si tratta di una ricostruzione fantasiosa. La verità è che della vita di Ipazia, nata ad Alessandria d’Egitto tra il 360 e il 370 d.C. e morta nel 415, poco si sa con certezza. Nella sua “Vita di Isidoro”, dedicata al filosofo neoplatonico Isidoro di Alessandria, il filosofo bizantino Damascio (vissuto a cavallo fra V e VI secolo) ne parla così: “Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti s’innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo guarì dalla sua afflizione con l’aiuto della musica è inventata: in realtà, ella raggruppò stracci che erano stati macchiati durante il suo periodo mestruale e glieli mostrò dicendo: ‘Questo è ciò che tu ami, giovanotto, e non è bello’. Alla brutta vista, il discepolo fu così colpito dalla vergogna e dallo stupore che sperimentò un cambiamento del cuore e diventò un uomo migliore”.
Donna austera, dunque, e poco incline a farsi travolgere dai sentimenti. Nella “Suda”, enciclopedia bizantina del X secolo, si dice che fu moglie del filosofo Isidoro: impossibile per ragioni cronologiche (il filosofo nacque più di trent’anni dopo l’uccisione della donna), ma indicativo del prestigio di cui Ipazia ancora godeva molti secoli dopo la sua scomparsa. Suo padre, Teone (335-405 ca.), era matematico, astronomo, filosofo e custode del Mouseion, identificato a volte con il Serapeo (tempio dedicato al culto di Serapide, divinità dell’Egitto ellenistico che mescolava elementi greci ed egizi) e altre con il celeberrimo Museo di Alessandria, a cui era annessa la celebre biblioteca distrutta dal fuoco. Teone aveva curato le edizioni di varie opere matematiche, fra cui l’Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, in questo aiutato anche da Ipazia. Scrisse, inoltre, un saggio sull’astrolabio, lo strumento ottico che permette di calcolare la posizione geografica basandosi sull’osservazione dei copri celesti. Non si sa chi fosse la madre di Ipazia, mai citata in alcuna fonte, mentre è certo che ella ebbe un fratello, Epifanio, a cui il padre dedicò un paio di opere. Altrettanto ignota la sua educazione e la gran parte della sua vita: ma è certo che, seguente le orme del genitore, divenne essa stessa una valentissima matematica.

Astrolabio d'argento dell'XI secolo

LA GRANDE ERUDITA. Filostorgio (368-439), autore di una Historia Ecclesiastica, arriva al punto di affermare: “Divenne migliore del maestro, particolarmente nell’astronomia, e fu ella stessa maestra di molti nelle scienze matematiche”. Del resto, lo stesso Damascio ricorda che “poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienza matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia”. Sono frasi che ci restituiscono l’ampiezza di un ingegno di cui, tuttavia, non possiamo valutare completamente la portata, dato che di Ipazia non ci è rimasta alcuna opera. È giunta notizia di alcuni suoi lavori (Un commentario a Diofanto, il Canonone astronomico e un commentario alle Coniche di Apollonio, come si trova scritto nella “Suda”), ma non siamo in grado di valutarne la portata, qualità e originalità rispetto a opere anteriori. I cosiddetti “commentari”, infatti, pensati per divulgare opere di autori precedenti con lo scopo di renderle più accessibili ai lettori, erano lavori eruditi, ma a volte anche poco originali. La carenza di fonti, insomma, impedisce di farsi un’idea di circa la reale importanza della figura di Ipazia nel dibattito scientifico della sua epoca. Qualche informazione la recuperiamo, però. Da testimonianze di seconda o terza mano.
Sinesio di Cirene, filosofo, scrittore e vescovo di Tolemaide di Libia (fu eletto per volontà popolare quando non era ancora battezzato), fu suo discepolo e le scrisse diverse lettere. In una di esse la chiama “madre, sorella e maestra” e, parlando del lavoro di astronomi celeberrimi come Tolomeo dichiara: “Lavorarono su mere ipotesi, perché le più importanti questioni non erano state risolte e la geometria era ancora ai suoi primi vagiti”, lasciando intendere che gli studi di Ipazia e della sua scuola avevano portato al perfezionamento del sistema, così come avevano sostanzialmente migliorato l’astrolabio. Sempre da Sinesio sappiamo che Ipazia costruì un “idoscopio”, strumento per misurare il peso dei liquidi. La scienziata, dunque, doveva unire allo studio teorico anche quello pratico. Come i filosofi dell’antica Grecia, Ipazia teneva lezioni pubbliche che, a quanto pare, attiravano una moltitudine di persone attente e desiderose di ascoltarla. Ricorda il teologo Socrate Scolastico (380-440 circa) che “aveva una tale cultura da superare tutti i filosofi del suo tempo nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e spiegava a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico”. E stando alle parola di Damascio, ella “era solita indossare il mantello del filosofo e andare al centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica.”. Ipazia si era costruita, dunque, anche un ruolo “politico”, e probabilmente fu proprio questo uno dei motivi della sua drammatica fine.

Rovine di Alessandria

VITTIMA DELLA POLITICA? La vicenda di Ipazia cade in un momento particolare per la storia di Alessandria e dell’Impero Romano. Il potere politico dell’Urbe era ormai in decadenza: l’autorità dei prefetti si era ormai in decadenza: l’autorità dei prefetti si era fortemente ridotta di fronte a quella acquisita dai rappresentanti del potere religioso, cioè i vescovi della Chiesa cristiana, che tendevano gradualmente a sostituirsi ai magistrati imperiali. Ciò accadeva anche ad Alessandria, dove il patriarca (prima Teofilo, poi Cirillo) aveva assunto un potere sostanzialmente incontrastato, a discapito delle autorità civili.
La cosa si rifletteva anche nei rapporti fra le comunità che abitavano la metropoli. Alessandria, che nei primi secoli dell’Impero era stata simbolo di convivenza pacifica e integrazione fra pagani, ebrei e cristiani, aveva subito un profondo mutamento. In particolar modo, quando il cristianesimo era divenuto religione di Stato, e ancora di più dopo l’emissione, da parte dell’imperatore Teodosio I, nel 391, dei decreti che di fatto proibivano ogni tipo di culto pagano, vietando anche l’ingresso ai santuari.
In un mondo ancora largamente non cristiano, la cosa non poteva che provocare conflitti, come accadde proprio ad Alessandria. Teofilo ottenne da Teodosio il permesso di trasformare il tempio di Dionisio in chiesa cristiana. I pagani si ribellarono e si scontrarono violentemente con i cristiani dopo che questi ultimi avevano ucciso i sacerdoti del tempio. Gli scontri proseguirono e costrinsero i pagani a rifugiarsi nel Serapeo, dove furono comunque raggiunte e massacrati dalla guardia imperiale e dai cristiani. Oltre che di una lotta religiosa, si trattava di un contrasto per il controllo politico della città. lo scontro proseguì anche dopo la morte di Teofilo, sostituito dal suo successore Cirillo. Il nuovo vescovo, come scrive Socrate Scolastico, “si accinse a rendere l’episcopato più simile a un principato di quanto non fosse stato prima; la carica episcopale prese a dominare la cosa pubblica oltre il limito consentito all’ordine”. Ciò pose Cirillo in aperto contrasto con il prefetto Oreste, anch’egli cristiano, ma tollerante nei confronti dei pagani. Quando il vescovo entrò in conflitto anche con la comunità ebraica della città, provocando una persecuzione che portò alla distruzione delle sinagoghe, alla requisizione da parte cristiana dei beni dei cittadini ebrei e alal fuga di costoro dalla città, Oreste prese una posizione contro Cirillo. Per volontà di quest’ultimo, o forse di propria iniziativa, alcuni fanatici cristiani (i cosiddetti “paraboloni”, provenienti dai monti della Nitria) assalirono il prefetto, ferendolo alla testa. Il dissidio divenne insanabile e in mezzo al contrasto si ritrovò anche Ipazia. La filosofa era molto apprezzata da Oreste. A quanto pare, era anche sua consigliera, sebbene avesse rifiutato il battesimo e restasse fedele al paganesimo. Tale rapporto generò sospetti nel patriarca Cirillo, il qual cominciò a temere un avvicinamento fra la parte pagana della città e quella cristiana moderata, fedele al prefetto. La donna, scrive Socrate Scolastico, “fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano, che pensò fosse lei a impedire a Oreste di riconciliarsi con il vescovo”. Damascio aggiunge che “la città intera l’amò e l’adorò in modo straordinario, ma i potenti del luogo la invidiarono”. Se fossero le sue lezioni pubbliche, la sua sapienza, il suo presunto influsso politico o il suo essere donna e sapiente a provocarne la fine, questo è impossibile da dire. Forse la colpa fu di tutti questi motivi messi insieme, uniti alla calunnia, che in una storia d’intrighi come questa non poteva mancare.
 Scrive Giovanni di Nikiu, nel X secolo: “Apparve in Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Ipazia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica che ingannò molte persone con stratagemmi satanici. Il governatore della città l’onorò esageratamente, perché lei l’aveva sedotto con le sue arti magiche, e cessò di frequentare la chiesa. E non solo fece queLsto, ma attrasse molti credenti a lei, ed egli stesso ricevette gli increduli a casa sua”.
Il vescovo Teofilo                 Il vescovo di Alessandria Cirillo.


«Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale»
(Socrate Scolastico, cit., VII, 15)
Quasi un secolo dopo, anche il filosofo Damascio riprende le sue considerazioni:
«era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo»
(Damascio, cit., 102)


LA MORTE ATROCE. Seppure indipendenti dalla magia, l’autorità, il prestigio e l’influenza di Ipazia dovevano essere notevoli. Scrive Damascio: “Un giorno Cirillo passò presso la casa di Ipazia e vide una grande folla di persone davanti alla porta. Quando chiese il motivo di tutto quel clamore, gli fu detto dai seguaci della donna che era la casa di Ipazia e vide una grande fola di persone davanti alla porta. Quando Cirillo seppe questo, fu così morso da invidia che cominciò a progettare il suo assassinio e la forma più atroce di omicidio che potesse immaginare”. Forse no fu il vescovo il diretto mandante dell’assassinio, probabilmente progettato da suoi sottoposti. Ma racconta Socrate Scolastico che un gruppo di fanatici cristiani “spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore (grado precedente a quello che dicono) chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre tornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e l’assassinarono usando dei cocci. Dopo aver fatto a pezzi il suo corpo, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e li bruciarono”. Giovanni di Nikiu, pur disprezzando Ipazia, conferma: “Una moltitudine di credenti in Dio si radunò sotto la guida di Pietro il magistrato e si mise alla ricerca della donna pagana che aveva ingannato le persone e il prefetto con i suoi incantesimi. La trovarono seduta su un’alta sedia. Avendola fatta scender, la trascinarono e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum. Le lacerarono i vestiti, la trascinarono attraverso le strade della città finché non morì, poi ne bruciarono il corpo. E tutte le persone circondarono il patriarca Cirillo e lo chiamarono ‘il nuovo Teofilo’, perché aveva distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città”. Era il mese di marzo del 415, Ipazia aveva circa 50 anni. L’inchiesta fu presto archiviata, pare su pressioni politiche.
Come scrisse il grande Edwardd Gibbon nella ‘Storia della decadenza e caduta dell’Impero Romano’ “l’assassinio di Ipazia ha impresso una macchia indelebile sul carattere e sulla religione di Cirillo Alessandrino”. Cosa che non ha impoedito alla Chiesa di onorarlo come santo. 

La matematica e filosofa pagana Ipazia mentre subisce il linciaggio per opera di fanatici cristiani ad Alessandria d'Egitto nel 415

 


 C. W. MitchellLa morte di Ipazia

 




Articolo in gran parte di Enrica Berardi pubblicato su Civiltà Romana n. 3 altri testi e immagini da Wikipedia.

lunedì 27 maggio 2019

Operazione Wintergewitter.


Operazione Wintergewitter.
Tempesta invernale. L’offensiva di Natale.
Il 26 dicembre del 1944 truppe italo-tedesche misero in atto un audace colpo di mano contro le linee nemiche nelle valle del Serchio, in Garfagnana, al fine di allentare la pressione sulla Linea Gotica e impedire l’avanzata degli alleati nel Nord Italia. Un’operazione coronata da un successo iniziale, ma presto arenatasi per mancanza di rimpiazzi e mezzi corazzati.

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Operazione Wintergewitter (1944)
parte della campagna d'Italia della seconda guerra mondiale
92nd-Divisionmassaitaly1944.jpg
Soldati della 92nd Infantry Division in combattimento nella zona di Massa
Data26 - 28 dicembre 1944
LuogoGarfagnana, nord della Toscana
EsitoVittoria tattica italo-tedesca
strategicamente non decisiva
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
9.100 uomini18.000 uomini
Perdite
1.000 tra morti e dispersi1.000 tra morti e dispersi
250 prigionieri
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Operazione Wintergewitter, anche detta offensiva di Natale o battaglia della Garfagnana (in tedesco Unternehmen Wintergewitter, in inglese Battle of Garfagnana), era il nome in codicedi un attacco lanciato dalle forze tedesche e della Repubblica Sociale Italiana contro le posizioni Alleate nella regione della Garfagnana, tra il 26 ed il 28 dicembre 1944, nell'ambito della campagna d'Italia della seconda guerra mondiale.
L'operazione, l'unica azione offensiva lanciata congiuntamente dai reparti della Wehrmacht e dell'Esercito Nazionale Repubblicano nel corso della guerra, fu diretta contro i reparti statunitensi della 92nd Infantry Division, provocandone il ripiegamento e portando alla riconquista di alcuni villaggi della valle del Serchio; l'offensiva fu poi fermata dalla pronta reazione dei reparti Alleati e dalla mancanza di truppe di rinforzo, ed i reparti italo-tedeschi ritornarono sulle posizioni di partenza entro il 30 dicembre 1944.

Quando, nel luglio 1943 le truppe angloamericane sbarcarono in Sicilia (operazione Husky),  nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la Campagna d’Italia si sarebbe trasformata, dopo i successi iniziali (presa dell’isola e successivo passaggio sul Continente), in una lenta e frustante avanzata verso nord, caratterizzata da un’accanita resistenza delle truppe tedesche. Sul finire di dicembre del ’44, mentre l’Armata Rossa dilagava sul fronte orientale e le truppe alleate sbarcate in Francia procedevano spedite verso il cuore del Terzo Reich, le truppe angloamericane impegnate nella Penisola erano ancora bloccate sulla Linea Gotica, un complesso sistema di fortificazioni che, sfruttando la dorsale appenninica, si snodava dalla costa tirrenica (Massa-Carrara) fino all’Adriatico, nel settore compreso tra Fano e Rimini. Un ostacolo davvero impegnativo che a un certo punto sembrò quasi insuperabile.

La linea gotica.
Nel 1944, il tanto sperato sfondamento alleato del fronte tedesco nel corso della Campagna d’Italia non si verificò. La tattica adottata dal Feldmaresciallo Albert Kesselring di una resistenza attiva (finalizzata a rallentare al massimo il nemico o a bloccarlo, infliggendogli il maggior numero di perdite), si dimostrò efficace considerando le caratteristiche geografiche della Penisola (stretta e montagnosa). Nonostante l’inferiorità di uomini e mezzi, i tedeschi infatti riuscirono a mettere in difficoltà le armate angloamericane a più riprese. Merito anche della Linea Gotica o Gotenstellung in tedesco, un complesso di fortificazioni fisse e mobili,che sbarrava l’accesso al Nord Italia e si estendeva dal litorale dell’alta Toscana (Massa-Carrara) fino alla costa adriatica di Pesaro, seguendo un tracciato di trecento chilometri che si snodava attraverso la Garfagnana, l’Appennino modenese e bolognese, l’alta val d’Arno e l’Appennino forlivese. Chiamata in un primo tempo Gotica, successivamente fu ribattezzata “linea verde” (nome che tuttavia non fu mai realmente impiegato) per volontà di Hitler, non disposto ad accettare che un sistema difensivo con un nome così altisonante potesse essere prima o poi sfondato. Eppure, contro ogni pronostico, vista la sproporzione di forze in campo, gli Alleati furono tenuti in scacco per quasi un anno prima di poterne avere la meglio. Incredibilmente, la linea Gotica resistette fino agli ultimi giorni del conflitto quando anche Berlino era ormai prossima a cadere. Un primo tentativo di sfondamento infatti, l’Operazione Olive (agosto-ottobre ’44) nonostante una serie di successi alleati localizzati, non riuscì a raggiungere gli obiettivi prefissati. L’Operazione Wintergewitter (dicembre ’44) inoltre riuscì a bloccare ogni iniziativa alleata fino all’aprile del ’45, quando prese il via l’Offensiva di primavera e la Gotica fu definitivamente superata. Pochi giorni dopo le truppe tedesche in Italia avrebbero firmato la resa incondizionata.


Il generale Otto Fretter-Pico, comandante della 148. Infanterie-Division tedesca

UNA RESISTENZA INASPETTATA. Un primo tentativo di sfondamento in grande stile nel settore adriatico – Operazione Olive (25 agosto – 25 ottobre 1944) era stato bloccato dopo intensi combattimenti dall’inaspettata combattività dei reparti tedeschi del Feldmaresciallo Albert Kesselring e dalle continue piogge che avevano annullato la superiorità alleata in termini di mezzi e uomini. Se Rimini era stata liberata, a costo peraltro di forti perdite, l’obiettivo iniziale di penetrare in Emilia Romagna e puntare su Bologna fu impossibile da portare a termine. Quanto complessa fosse la situazione operativa lo si può capire da un appunto del generale britannico Oliver Leese: “Questa campagna è una brutta gatta da pelare. Siamo nel Paese più difficile d’Europa e tuttavia  ci sottraggono sempre truppe ed equipaggiamenti destinati in qualche altro posto. Abbiamo sempre combattuto con un margine di forze relativamente molto stretto … la battaglia di Rimini fu una delle più dure battaglie dell’8a Armata. I combattimenti furono paragonabili a quelli di El Alamein, di Mareth e della Linea Gustav (Cassino)”. Nel mese di novembre pertanto, con il perdurare delle condizioni climatiche avverse lo Stato Maggiore alleato decise di sospendere il grosso delle operazioni per ricompattare i ranghi in attesa del momento migliore per riprendere i combattimenti. Dopo un’attenta pianificazione, i generali Harold Alexander e Mark Clark stabilirono di sferrare l’attacco alla vigilia di Natale. Tuttavia, le loro intenzioni furono presto frustrate da una serie di dispacci dei servizi d’informazione che riferivano di uno strano movimento di truppe tedesche nel settore tirrenico difeso dalla 5a Armata americana. Fu pertanto inviato l’ordine che ogni iniziativa fosse rimandata a data da destinarsi in attesa di capire le mosse del nemico. Fu inoltre deciso che le unità in prima linea venissero messe in stato d’allerta e l’8a Divisione di fanteria indiana del generale Dudley Russel fosse fatta affluire nelle retrovie per fornire il supporto necessario in caso di bisogno. In sostanza c’erano tutti i presupposti, visto le condizioni di netta inferiorità in termini di uomini e mezzi dei tedeschi, perché l’iniziativa avversaria fosse stroncata sul nascere.


Le forze in campo.
Nel corso dell’Operazione Wintgergewitter, per espressa volontà di Mussolini, furono schierate in prima linea reparti dell’ENR (Esercito Nazionale Repubblicano) a fianco di truppe tedesche, dimostrando una buona capacità combattiva. Si trattava di reparti della Divisione San Marco, due unità che insieme alla 1a Divisione Bersaglieri Italia e alla 2a Divisione Granatieri Littorio erano state mandate in Germania per una fase di addestramento e potenziamento (erano inquadrate secondo il sistema tedesco: di fanteria di tre battaglioni ciascuno un reggimento di artiglieria, più reparti di ricognizione, controcarro, ecc.). Monterosa e San Marco furono le prime a tornare in Italia ed essere raggruppate nella nuova Armata Liguria, adibita alla difesa del confine nord occidentale della Penisola, insieme alle truppe tedesche. Altri protagonisti dell’operazione furono i reparti di montagna tedeschi (Gebirgsjager) e sul fronte opposto la 92a Divisione di fanteria americana.

 
la mappa delle operazioni 

L’OFFENSIVA PRENDE FORMA. Eppure, nella notte del 26 dicembre, le notizie arrivate dal settore occidentale della Linea Gotica (area tirrenica) lasciarono di stucco lo Stato Maggiore americano: la 92a Divisione di fanteria (composta per lo più di truppe di colore), posta a difesa della valle del Serchio in Garfagnaan (a nord-ovest di Lucca), era sotto attacco. E, cosa ancora più grave, era stata costretta a ripiegare in maniera disordinata fin dalle prime battute. Com’era stato possibile? Le ragioni erano piuttosto semplici: gli avversari avevano attaccato in un settore del tutto secondario, fino a quel momento rimasto prevalentemente tranquillo. Iniziava in questo modo l’Operazione Wintergewitter (Tempesta invernale), detta anche offensiva di Natale, un piano elaborato dal generale Kurt von Tippelskirch, comandante della 14a Armata tedesca, che aveva riscosso i favori di Mussolini e del Maresciallo Rodolfo Graziani, capo delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana (a patto che potessero partecipare anche truppe italiane), per alleggerire la pressione nemica nel settore adriatico e ritardare l’attacco su Bologna. La scelta era caduta proprio su quel particolare settore della Garfagnana, caratterizzato da un astretta valle incuneata in un anfiteatro di montagne, che in base alle informazioni disponibili era presidiata da unità con poca esperienza di combattimento in prima linea e per lo più da poco arrivate nella Penisola.
Era stato deciso pertanto di costruire un gruppo di combattimento misto, agli ordini del generale Otto Fretter-Pico, composto da unità provenienti dalla 148a Divisione di fanteria tedesca composta dal 1° e 2° Battaglione Gebirgsjager (truppe da montagna), Battaglione Geborsjager “Mittenwald” e Battaglione mitraglieri “Kesselring”, e dalla 4a Divisione alpina Monterosa composta dal 3° Battaglione alpini “Brescia”, del 2° Reggimento alpini, 23° Reparto Esplorante, a cui si deve aggiungere il 2° Battaglione del 6° Reggimento fanteria di marina della Divisione San Marco. Si trattava del primo impiego operativo di reparti regolari dell’ENR (Esercito Nazionale Repubblicano) a fianco di unità tedesche dopo una fase di addestramento in Germania; fino ad allora infatti tali unità erano state impiegate solo per compiti secondari: lotta anti partigiana, difesa costiera e presidio delle frontiere. Nel complesso, si trattava di una forza quantificabile in 9mila uomini (il 66% erano italiani) con un centinaio di pezzi d’artiglieria – non erano previsti mezzi corazzati – che avrebbero dovuto fronteggiare i 18mila uomini della 92a Divisione del generale Edward Almond dotata di artiglieria (598° Battaglione di artiglieria da campagna), cannoni semoventi, e una compagna del 760° Battaglione Carri: in totale 140 cannoni, 120 carri da combattimento e un supporto aereo fornito dal XXII Tactical Air Command.

ATTACCO SU TRE COLONNE. Non c’è bisogno di sottolineare, considerando la sproporzione di forze in campo e il potenziale bellico alleato nelle retrovie che un’operazione del genere avrebbe potuto avere un minimo di successo solo se i preparativi fossero stati condotti nella massima segretezza, in modo da non allertare le difese nemiche. Ogni inconveniente, infatti, avrebbe potuto trasformarsi in un fallimento di notevoli proporzioni.
Senza considerare che gli Alleati, allarmati dall’offensiva lanciata dai tedeschi sulle Ardenne dieci giorni prima, si aspettavano una simile operazione anche nel Nord Italia. Un compito proibitivo, non c’è che dire, che tuttavia fu eseguito con estrema determinazione. Intorno alla mezzanotte del 25 dicembre infatti, senza alcun appoggio d’artiglieria, per garantire al massimo l’effetto sorpresa, le forze italo-tedesche diedero il via all’attacco suddivise in tre colonne, seguendo un piano preordinato che prevedeva l’avanzata verso Barga, Sommocolonia, Vergemoli, Treppignana, Coreglia, Fornaci di Barga, Prominana, Castelvecchio e Calomini, tutte località a nord ovest di Lucca. Il primo contatto con il nemico avvenne sul lato orientale del Serchio quando la terza colonna, composta da unità di Gebirgsjager e mitraglieri Kesselring, si scontrò con l’ala destra della 92a Divisione, dando vita a furiosi combattimenti per il controllo del villaggio di Sommocolonia, presidiato dal 336° Reggimento di fanteria e alcune unità di partigiani che, dopo una strenua difesa, furono costrette a ritirarsi. Nel frattempo, altri duecento uomini del Battaglio Mittenwald, dopo aver occupato i villaggi di Bebbio e Scarpello e respinto i contrattacchi Alleati, riuscirono a sfondare il fianco destro nemico, che dovette ripiegare a Barga e Coreglia, senza tuttavia riuscire a tenerle: il mattino successivo, infatti, furono conquistate dopo intensi scontri a fuoco dalle unità tedesche in avanzata. Alle prime luci del 27 dicembre si misero in movimento anche i reparti italiani inquadrati nella seconda colonna con l’obiettivo di farsi strada verso Castelvecchio, sul lato ovest del Serchio, a sud di Castelnuovo di Garfagnana. Si trattò di una mossa bene pianificata, perché le unità americane già allarmate dalle notizie dello sfondamento sul fianco destro, non ressero alla pressione, incominciando a ritirarsi disordinatamente verso sud, incalzate a quel punto anche dai due battaglioni di fanteria nemici e i campi minati. Sul lato orientale del Serchio i reparti tedeschi occuparono contemporaneamente anche Fornaci di Barga, che nel frattempo era stata evacuata tedesca del 285° Reggimento Granatieri, costituenti la prima colonna, che si erano mossi sulla direttrice d’attacco di Vergemoli. In giornata si registrò la caduta di Gallicano, Molazzana (presa dagli uomini della San Marco), Calomini e Vergemoli, con perdite elevate per il fitto fuoco di sbarramento delle artiglierie dalle forze americane ormai in forte crisi. Nel complesso, al calar della sera l’intero fronte alleato era arretrato per una lunghezza di quasi venti-venticinque chilometri e una profondità che nel punto centrale raggiungeva i dieci.

                                                                     Il piano d’attacco.
L’Operazione Wintergewitter prevedeva un attacco iniziale alle posizione statunitensi della 92a Divisione di fanteria poste a difesa della valle del Serchio, secondo uno sche a tre colonne: la Prima, composta dal 1° e 2° Battaglione del 285° Reggimento Granatieri, avrebbe dovuto attaccare il lato occidentale della valle puntando sui villaggi di Vergemoli e Calomini; la Seconda, costituita dalle unità italiane della Divisione Monterosa e San Marco, il centro, sul lato occidentale del fiume, con obiettivo Castelvecchio; la Terza, con i reparti da montagna tedeschi, il lato orientale della valle con obiettivo Sommocolonia e successivamente Barga. La prima a muoversi, nella notte del 26 dicembre, fu la Terza colonna, mentre le altre due iniziarono l’attacco alle prime ore del 27. L’offensiva diede subito ottimi risultati: il nemico, colto di sorpresa e senza molta esperienza, fu costretto a ritirarsi (a parte alcune eccezioni come Sommocolonia) in maniera disordinata. Le perdite italo tedesche in questa prima fase furono causate principalmente dai campi minati nella zona di Calomini e Vergemoli e dal pesante fuoco di sbarramento delle artiglierie americane.


ORDINE DI RIPIEGAMENTO.  I combattimenti proseguirono anche nella mattinata del 28 dicembre: alcuni reparti italiani si impossessarono del villaggio di Bolognana, quelli tedeschi arrivarono a Calavorno, mentre le pattuglie più avanzate procedettero verso sud fino alla periferia di Bagni di Lucca. L’offensiva, contando sull’effetto sorpresa, aveva ottenuto brillanti risultati ma a quel punto lo Stato Maggiore tedesco, conscio di non avere a disposizione altri rimpiazzi e unità corazzate con cui inseguire il nemico in ritirata, diede ordine di fermarsi. Proseguire verso sud sarebbe stato un vero e proprio suicidio, considerando che la reazione americana non si era fatta attendere: l’8a Divisione di fanteria indiana, infatti, con il supporto dalla 1a Divisione corazzate e della 34a Divisione di fanteria americane, era stata fatta avanzare per chiudere la breccia appena creatasi, potendo contare su un massiccio supporto aereo (tra il 27 e il 28 dicembre il XXII Tactical Air Command compì qualcosa come 4mila missioni d’attacco al suolo). Sebbene Graziani propendesse per continuare – inizialmente era stata avanzata la proposta piuttosto velleitaria di liberare Lucca e Livorno – il generale Fretter-Pico ritenne di aver raggiunto gli obiettivi preposti e la sera del 28 diede ordine di ripiegare sulle posizioni di partenza. Nei due giorni successivi, i reparti italo-tedeschi riuscirono a sganciarsi con relativa facilità, mettendo in atto puntuali azioni di retroguardia. In un episodio, che vide come protagonisti gli uomini della San Marco, alcune unità d’avanscoperta della Divisione indiana, con poca esperienza di combattimento, furono attirare in un’imboscata che si concluse con la distruzione di due mezzi blindati e diversi caduti. Si trattò comunque di episodi marginali che non cambiarono il corso degli eventi. Il 30 dicembre infatti le unità italo-tedesche si erano ritirate al sicuro dietro le linee amiche. Nel complesso l’Operazione Wintergewitter non ebbe alcuna rilevanza strategica – tutti i territori conquistati furono subito abbandonati – ma sul piano tattico permise di allentare la morsa sulla Linea Gotica e paralizzare l’iniziativa alleata fino a primavera inoltrata. Inoltre in mano italo-tedesca caddero una notevole quantità di materiale bellico – diversi cannoni anticarro da 57 mm, oltre a un centinaio di mitragliatrici Browning da 12,7 mm, mortai da 60 e 81 mm – e circa duecento prigionieri. Gli Alleati, tra morti, feriti e dispersi contarono all’incirca un migliaio di perdite. Non mancarono inoltre le critiche nei confronti della 92a Divisione di fanteria, accusata di aver sbandato paurosamente nelle prime fasi dell’offensiva, anche se fu riconosciuto da più parti che tale comportamento era dipeso principalmente dalla poca esperienza di combattimento in prima linea e dall’addestramento approssimativo. L’unità fu comunque spostata nelle retrovie e riorganizzata per poi essere impiegata nell’offensiva finale che avrebbe portato alla caduta della Linea Gotica nel settore di Massa e La Spezia, avvenuta però solo ad aprile inoltrato dell’anno successivo, quando Berlino era già sotto assedio.

Articolo in gran parte di Antonio Ratti pubblicato su Storie di Guerre e guerrieri n. 22 sprea editori, altri testi e immagini da Wikipedia.

giovedì 23 maggio 2019

L’Eldorado. Sogno e incubo dei Conquistadores.


L’Eldorado.
Sogno e incubo dei Conquistadores.
L’America centromeridionale del Cinquecento fu il teatro della prima corsa all’oro dall’avidità, si lasciarono sedurre dalle favole.

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Mappa del 1625 che indicherebbe la presunta posizione di El Dorado e del leggendario lago Panama.
L'El Dorado (abbreviazione spagnola di El indio Dorado) è un luogo leggendario in cui vi sarebbero immense quantità di oro e pietre preziose, oltre a conoscenze esoteriche antichissime.
In questo luogo, situato al di là del mondo conosciuto, i bisogni materiali sono appagati e gli esseri umani vivono in pace tra loro godendo della vita. Spesso viene associato al paradiso terrestre o all'Eden situato agli antipodi.

Partito alla fine del 1533 da Panama, il galeone Santa Maria del Campo attraccò nel porto spagnolo di Siviglia il 9 gennaio 1534. Portava un carico favoloso, che suscitò stupore in tutta Europa: circa 10 tonnellate d’oro e 70 d’argento. Era l’immenso bottino di guerra che il conquistador Francisco Pizzarro aveva in parte saccheggiato e in parte estorto agli Inca peruviani, come riscatto per la vita del loro sovrano Atahualpa (che sarebbe poi stato ucciso ugualmente dagli spagnoli). I lingotti dei preziosi metalli erano stati ottenuti dalla fusione di tutti gli oggetti e i gioielli requisiti dai conquistadores, per facilitarne il trasporto, ma l’operazione significò la perdita irreparabile di un patrimonio culturale e artistico di valore incalcolabile. Queste straordinarie ricchezze alimentarono le voci sull’esistenza di un paese meraviglioso, in cui oro e argento affioravano dal terreno tanto da poter essere raccolti senza fatica: l’Eldorado, il paese dell’oro.
Dal 1534 iniziano le spedizioni alla volta del mirabolante “paese dell’oro”. Ce ne restano pittoreschi racconti, come quello dell’esploratore Pedro Fernandez de Lugo, che all’età di 60 anni organizzò una spedizione nell’attuale Colombia, raccogliendo uomini e fondi per la sua impresa e servendosi di un banditore che così allettava l’auditorio: “Giovanotti, poiché senza dubbio avete sentito parlare del paese della città dorata, è in America, che dovette andare, se intendete scoprire la terra della ricchezza. Volete oro e diamanti? I selvaggi li raccoglieranno per voi. Di gemme sono pavimentate le strade. Il loro capo se ne va in giro soprauna portantina foderata d’oro; e ornamenti tempestati di smeraldi gli pendono dalle labbra e dalle orecchie”.


L’UOMO TUTTO D’ORO. Non fu l’unico. Le spedizioni si susseguirono a ritmo serrato, talora con qualche successo, perché oggetti d’oro e pietre preziose si trovavano realmente presso le popolazioni amerindie; ma il favoloso Eldorado restava irraggiungibile. Oggi sappiamo il perché almeno originariamente quel nome non indicava un luogo, bensì una persona, el hombre dorado ovvero l’uomo d’oro, e si riferiva a un antichissimo rito praticato degli indios Chibcha, una popolazione stanziata sugli altopiani della Colombia. Lo scoprì Gonzalo Jeménez de Quesada, che nel 1536 giunse con la sua spedizione nei pressi del lago Guatavita, sulla cordigliera delle Ande. Qui gli indios gli narrarono del rito che si svolgeva sulle sponde del lago e che aveva come protagonista l’erede al trono: “Il primo viaggio che dovette intraprendere fu alla grande laguna di Guatavita, dove rese offerte e sacrifici al demone che essi adoravano come loro dio e signore. Durante la cerimonia alla laguna costruirono una zattera di giunchi, abbellendola e orandola con i loro con i loro oggetti più belli. A quel punto spogliarono l’erede al trono dei suoi abiti e lo unsero poi di polvere d’oro, ricoprendogli così tutto il corpo con il metallo. Lo sistemarono a bordo della zattera su cui egli restò immobile, e poggiarono ai suoi piedi un gran mucchio d’oro e di smeraldi affinché ne facesse offerta al suo dio. Insieme a lui, salirono sull’imbarcazione quattro influenti personaggi interamente abbigliate con piume, corone, braccialetti, ciondoli e orecchini in oro puro. Anch’essi erano nudi e ciascuno reggeva un’offerta. Quando la barca raggiunse il centro della laguna, essi alzarono la bandiera per imporre il silenzio. L’indio ricoperto d’oro fece allora la sua offerta, gettando tutto l’oro in mezzo al lago e i capi che lo scortavano fecero lo stesso  con i loro doni. Con questa cerimonia il nuovo governante fu accolto come signore e re”.

Preziosa Colombia.
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Il Museo dell’oro di Bogotà è uno dei più prestigiosi al mondo e sicuramente il più bello di tutta la Colombia. Fu istituito nel 1939, quando il Banco della Repubblica di Colombia acquisì un pezzo di straordinaria rarità: il porporo quimbaya, un recipiente per la calce in polvere che i nativi usavano masticare insieme alle tradizionali foglie di coca.
Ma il museo aprì le porte al grande pubblico solo nel 1959, dopo aver acquisito numerosi manufatti della cultura precolombiana. Il museo, ingrandito e rinnovato nell’ottobre 2008, ospita oggi la più importante collezione mondiale di gioielli preispanici: circa 34mila pezzi d’oro e di tombacco, una lega di rame e zinco. Probabilmente questo materiale, malleabile e di facile lavorazione, utilizzato anche per la realizzazione di filati da ricamo e di false dorature, fu scambiato per oro dai conquistadores, alimentando il mito dell’Eldorado.
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SMERALDI GRANDI COME UOVA. Questo resoconto, fornito da un anziano testimone di quel rito ormai caduto in disuso, era decisamente suggestivo e scatenò la fantasia di molti avventurieri. Fu il caso, per esempio, di Sebastian del Belalcazar, capitano di Pizzaro al tempo della conquista dell’Impero degli Inca nel 1535: nel 1537 arrivò a disertare per condurre il suo esercito tra le montagne, alla ricerca della leggendaria e ricchissima città di Eldorado.
Per tutto il resto del secolo il miraggio dell’Eldorado abbagliò un’infinità di disperati, imbarcati per un viaggio senza ritorno in cerca di una ricchezza di tanto facile quanto impossibile, finché nel 1580 un imprenditore di Bogotà, Antonio de Sepulveda, decise di svelare una volta per tutte il mistero dell’Eldorado. Già molto prima di lui, i conquistadores, dopo essersi impossessati dei tesori appartenuti agli indigeni, avevano provato a dragare il lago, convinti che sul fondo si trovasse chissà quale tesoro. Ma Sepulveda andò oltre: sul bordo del bacino d’acqua fece scavare una sorta di canale per svuotare gradualmente l’invaso. Dopo mesi di lavoro, quando ormai il livello del lago si era abbassato di una ventina di metri, le pareti del canale crollarono improvvisamente, provocando una rovinosa frana che travolse e uccise molti operai indigeni. Il progetto fu abbandonato, ma dalla fanghiglia erano emersi alcuni oggetti preziosi, tra un enorme smeraldo grosso come “un uovo di gallina”, che fu inviato in dono a Filippo II re di Spagna. Il valore totale dei reperti venne stimato in circa 12mila pesos, ma Sepulveda aveva ormai dato fondo a tutti i suoi averi e morì in assoluta povertà, senza essere riuscito a scoprire né il tesoro né la verità sulla leggenda dell’Eldorado. Fu sepolto nei prezzi della chiesa di Guatavita, dove le sue spoglie riposano ancora.

Oltre i monti della Luna.
Il mito dell’Eldorado si è ritagliato un posto anche nella letteratura. Nel 1579 il filosofo illuminista francese Voltaire pubblicò il romanzo Candido, nel quale descriveva un paese immaginario, chiamato El Dorado, in cui le strade erano “lastricate di pietre preziose” e tutti i bisogni materiali erano prodigiosamente appagati, cosicché i suoi abitanti potevano vivere in pace e in armonia, godendosi la vita.
Quasi un secolo più tardi, nel 1849, anche lo scrittore americano Edgard Allan Poe celebrava l’Eldorado, ma con toni assai diversi. Nell’omonima poesia, collocava il favoloso paese “oltre i monti della Luna, nella bruna valle” definendolo minacciosamente “baratro dell’ombra”, in riferimento a quanti erano andati incontro alla rovina nella ricerca di un’impossibile ricerca.

LA MALEDIZIONE FINANZIARIA. Eppure il mito del paese di sogno, in cui “anche le pentole erano d’oro”, non accennò a sbiadire. Sul finire del Cinquecento, anche l’inglese Walter Raleigh raccolse la sfida dell’Eldorado per tornare nelle grazie della Regina Elisabetta I d’Inghilterra (e nel frattempo fronteggiare una difficile situazione finanziaria). Il 5 febbraio 1595, Raileigh salpò da Plymouth, convinto che avrebbe trovato, lungo il fiume Orinoco, “città più ricche e più belle e templi più adorni d’oro di quelli che trovarono Cortés in Messico e Pizarro nel Perù e il trionfo sfavillante di questa conquista eclisserà tutte quelle della nazione spagnola”. Rientrata in patria senza alcun tesoro, nel 1617 ripartì per la foresta amazzonica insieme al figlio, che morì uccise dai nativi. Tornato in Inghilterra, cadde in disgrazia e fu condannato alla decapitazione.
Il fascino del mitico luogo traboccante di ricchezze, celato nelle valli e negli altopiani delle Ande o nella folta vegetazione dell’Amazzonia, fu offuscato da secoli di oblio. A cavallo tra Sette e Ottocento l’esploratore tedesco Alexander von Humboldt percorse tutto il Sudamerica e raggiunse Guatavita, decretando una volta per tutte che non esisteva nessun Eldorado. Nonostante questo, ancora nel 1898 fu creata una società anglo colombiana, la Company for the Exploitation of the Lagoon of Guatavita, che si proponeva appunto di prosciugare il lago per recuperare i tesori giacenti sul fondo. L’operazione riuscì in pieno, e agli occhi avidi dei ricercatore comparve finalmente uno strato di fanghiglia spesso poco più di un metro, all’interno del quale dovevano celarsi le sospirate ricchezze. Ma una volta esposto all’aria il fango si solidificò velocemente in zolle compatte simili a cemento, rendendo estremamente delicato il processo di estrazione dei reperti.
A fatica furono recuperati pochi pezzi, valuti nel loro insieme circa 500 sterline e messi poi all’asta da Sotheby’s, a Londra. La società fece bancarotta, chiudendo  definitivamente i battenti nel 1929, e questo sembrò confermare un’ulteriore leggenda sorta attorno al favoloso Eldorado: quela della maledizione che avrebbe colpito chiunque fosse venuto a profanare le sacre acque del lago di Guatavita. Dopo di allora, più nessuno si lasciò ammaliare dalla chimera di un paese traboccante di ori e ricchezze, e l’Eldorado venne consegnato per sempre al regno incantato del mito.

Articolo in gran parte di Riccardo Mazzoni pubblicato su Conoscere la storia n. 49 Sprea editori. Altri testi e foto da wikipedia. 


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