lunedì 23 settembre 2019

Cronaca di un conclave.


Cronaca di un conclave.
Se c’è un’elezione del papa che merita di essere ricordata, per le pesanti conseguenze storiche in tutta
Europa, è quella di 115 anni fa, alla morte di Leone XIII. In quel conclave si scontrarono drammaticamente gli interessi delle potenze europee, Italia compresa.

All’inizio del Novecento, i tragici bagliori della Grande guerra sono ancora lontani. L’Europa vive la sua Belle époque, ma le tensioni e le rivalità fra le grandi potenze continentali sono fortissime, benché per il momento si mantengano sotto traccia. Nello scacchiere internazionale, Germania, Austria e Italia hanno firmato un patto politico e militare, nel 1882: la Triplice Alleanza. Parallelamente, Francia e Russia, nell’ultimo decennio del XIX secolo, si sono riavvicinate, stringendo un accordo strategico ed economico, in funzione antitedesca. Parigi si accosta anche a Londra, dopo oltre un secolo di baruffe in Africa, culminate con l’incidente di Fashoda, nel 1898, Francia e Regno Unito firmano l’entente cordiale, un patto che diventerà poi un’alleanza estesa anche alla Russia: la Triplice Intesa, manifestamente in opposizione alla Triplice Alleanza.

Nel conclave nasce l’astro di Merry del Val.
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A rendere il conclave del 1903 ancor più problematico è la scomparsa improvvisa di monsignor Alessandro Volpini. Nominato qualche mese prima Segretario del Sacro Collegio e, quindi, del futuro conclave, ma muore per infarto – non ancora 60enne – il 9 luglio 1902, 11 giorni prima della scomparsa di Leone XIII. È una perdita grave, perché a lui sarebbe spettata l’organizzazione delle procedure per l’elezione del nuovo papa. Un compito delicatissimo, perché a lui sarebbe spettata l’organizzazione delle procedure per l’elezione del nuovo papa. Un compito delicatissimo, perché all’inizio del Novecento le norme che disciplinano il conclave non sono ancora definite in modo dettagliato e rigido. Inoltre, il Vaticano non è ancora una Città-Stato, ma è costituito da una serie di palazzi facilmente infiltrabili dalle potenze straniere, a cominciare dall’Italia. Il 21 luglio, il giorno dopo la morte del papa, i cardinali presenti a Roma nominano al posto di Volpini lo spagnolo Rafael Merry del Val. Il suo nome viene preferito a quello di due altri ecclesiastici di peso: Giacomo Dalla Chiesa, che diventerà papa come Benedetto XV nel 1914, e Pietro Gasparri, che terrà poi la Segreteria di stato per 15 anni. Merry del Val è un diplomatico è un diplomatico brillante ma più giovane e meno titolato degli altri due. Ed è un avversario della politica di Rampolla del Tindaro. In questa nomina, c’è già il segnale delle difficoltà di Rampolla a farsi eleggere papa. Per Merry del Val, invece, l’organizzazione del conclave del 1903 sarà il trampolino di lancio. Pio X, avendo apprezzato il suo lavoro nel drammatico conclave che lo elegge, lo nomina suo Segretario personale, e poco dopo, cardiale e Segretario di Stato. una carica che Merry del Val deterrà fino alla morte di papa Sarto, alla vigilia della Prima guerra mondiale.

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papa Leone XIII


SCONTRI POLITICI NELL’ELEZIONE DEL VICARIO DI CRISTO. Mentre, dunque, l’Europa sta costruendo questo doppio fronte di triplici alleanze, il 20 luglio del 1903. Muore papa Leone XIII, che governava la Chiesa da 25 anni. La scomparsa del pontefice dell’enciclica Rerum novarum non è solo un lutto per la cattolicità, ma è anche un traumatico avvenimento politico, che entra nel grande gioco delle potenze continentali. Nel conclave che verrà convocato per eleggere il successore si scaricherà, infatti, una buona parte delle tensioni e di quegli antagonismo politici che si stanno delineando in Europa. In particolare, emergerà lo scontro sempre più aspro tra l’Impero asburgico e la Francia, da secoli concorrenti per il dominio continentale – la Guerra dei Trent’anni nel XVII secolo ne è il simbolo oltre che un precedente ancora impresso nella memoria – e ora si è quasi giunti al duello finale. Il conclave, aperto il 1° agosto del 1903, è un avvenimento seguito con grande attenzione dalle cancellerie e dai giornali dell’epoca, che vi dedicano ampio spazio. Può essere definito il primo evento mediatico nella storia della Chiesa. Gli interessi in gioco sono altissimi. Vienna e Parigi vogliono orientarne la scelta. Desiderano un papa amico o, perlomeno, non ostile.
Durante il pontificato del romano Luigi Pecci, la Santa sede ha tenuto un atteggiamento filo francese. Vaticano e Italia sono ai ferri corti per l’ancora irrisolta questione romana: il papa considera un’usurpazione la conquista sabauda di Roma, avvenuta nel 1870. L’Italia, per il pontefice, è un nemico. E così, nemici diventano anche i suoi alleati della Triplice: l’Impero asburgico (un trono tradizionalmente cattolico) e la Germania dove, invece, Bismark, negli anni Settanta dell’Ottocento, aveva condotto una dura politica repressiva anti-cattolica, il Kulturkampf. Per uscire dall’isolamento internazionale e trovare sponde politiche a sostegno della propria rivendicazione contro l’Italia, la Santa sede si avvicina alla Francia. Sebbene la Terza repubblica sia radicale e anticlericale, Leone XIII – che si pronuncia in diverse occasioni per convincere i riluttanti cattolici d’Oltralpe – crede che la scelta filo francese sia una necessità in funzione anti italiana.
Ispiratore e realizzatore di questa politica estera è il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, Segretario di stato dal 1887.
Nato in un’aristocratica famiglia siciliana del 1843, Rampolla entra nell’Accademia dei nobili ecclesiastici – la fucina della diplomazia vaticana – e si distingue nella Curia romana. Luigi XIII, nel 1882, lo nomina Nunzio apostolico in Spagna, per poi richiamarlo, 5 anni più tardi, accanto a sé, come “primo ministro”. La collaborazione con papa Pecci durerà per 16 anni, fino alla morte del pontefice.
Ora, nel conclave dell’agosto 1903, è proprio lui la figura di spicco del Sacro collegio, colui che è in prima fila per la successione a Leone XIII, della cui linea politica si profila come la naturale continuazione. Naturalmente, Rampolla ha il sostegno della Francia, ma è visto come fumo negli occhi dagli Asburgo. Una contrapposizione politica che si ritrova pari all’interno del Sacro collegio. La Chiesa dell’epoca è ancora figlia dell’ancien régime, ciò significa che molti ecclesiastici sono diventati cardinali perché imposti dai governi delle loro nazioni, in virtù di antichi privilegi o della politica giurisdizionalista settecentesca: sono i cosiddetti “cardinali della corona”. Tutti i francesi e gli austriaci hanno ricevuto la porpora in questo modo. E, quindi, la loro posizione nel conclave non può non ricalcare quella dei rispettivi governi. Il Vicario di Cristo in terra sarà o filo francese o filo austriaco.
  
BASTA UN VETO CARDINALIZIO PER CAMBIARE LA STORIA. In questo primo conclave del Novecento, hanno il diritto di voto per eleggere il nuovo pontefice 64 cardinali. A Roma, giungono in 62. Mancano l’arcivescovo di Sidney, che non arriva in tempo, e quello di Palermo, vecchio e ammalato. In conclave entrano dunque 38 italiani, 7 francesi, 5 imperiali (3 austriaci, 1 ungherese e 1 polacco), 5 spagnoli, 3 tedeschi, 1 portoghese, 1 irlandese, 1 belga e  1 americano. Come si può notare, la composizione del collegio cardinalizio è fortemente eurocentrica. C’è solo un cardinale che arriva da una altro continente, lo statunitense James Gibbons. Data questa composizione, è impossibile che il clima spirituale, culturale e politico che si respira nel conclave non risenta di ciò che si agita nelle capitali e nelle cancellerie europee.
Nello scrutinio iniziale, la mattina del 1° agosto, Rampolla ottiene 24 voti. Nel voto del  pomeriggio, arriva a 29. Ancora troppo pochi. Il quorum è fissato a due terzi del collegio, cioè 42 voti. La situazione è di stallo. La mattina del 2 agosto avviene l’evento traumatico e decisivo che cambia radicalmente lo scenario.
L’arcivescovo di Cracovia – allora città sotto il controllo degli Asburgo – il cardinale Jau Puzyna, a nome dell’imperatore d’Austria, pone il veto sul nome di Rampolla del Tindaro. È un veto (definito Ius exclusivae o Ius exlusionis) eredità dell’ancien régime. Si tratta di un diritto accordato, nel corso dei secoli, alle antiche monarchie cattoliche europee per escludere un cardinale candidato al soglio pontificio che non si ritiene adeguata. L’esercizio del diritto di veto, non è dunque una novità. Dal XV secolo in poi si contano una quindicina di interventi di questo genere. È sorprendente, però, che questa prerogativa venga utilizzata all’alba del Novecento. Uno strumento giuridico, retaggio di un mondo che non esiste più, viene usato come un’arma per regolare i conti della politica internazionale del tempo.
Anche i cardinali che partecipano al conclave sono turbati. In molti giudicano negativamente il veto e biasimano il porporato polacco. Quando lo incontrano lo apostrofano in latino: Puedeat te, ossia vergognati! Il cardinale Puzyna risponde orgogliosamente_ Honor meus! Ossia ne sono orgoglioso. L’arcivescovo di Cracovia, infatti, si è prestato a dar voce in conclave agli interessi politici dell’Imperatore perché quegli interessi coincidono con i suoi. Puzyna fa parte di una lobby polacca che influenza e indirizza le scelte di Francesco Giuseppe. A convincere l’imperatore a far valere l’antico privilegio del veto è stato, infatti, un altro polacco: il ministro degli esteri di Vienna, Agenor Goluchowski.
Sia Puzyna che Goluchowski – originari entrambi di Leopoli e legati allo stesso clan familiare – sono ostili alla Russia, alleata di quella Francia che era diventata il fulcro della politica estera di Leone XIII e del suo Segretario di stato. La Polonia, in quel momento, non esiste più: il suo territorio è stato spartito, alla fine del Settecento, tra Impero asburgico, Russia e Prussia. Il sogno dei polacchi è quello di far rinascere una Polonia indipendente. In questo disegno, ai loro occhi, il pericolo maggiore è sempre l’Orso russo. Affondare Rampola significa colpire Parigi e San Pietroburgo. Questo è l’obiettivo dei polacchi che lavorano per Vienna. Per questo, l’arcivescovo di Cracovia può dire, durante il conclave: “Non sono stato strumentalizzato da Vienna, ma sono stato io a strumentalizzarla”. Malgrado la vibrante protesta dei cardinali francesi, la candidatura di Rampolla è quindi bruciata senza rimedio. A questo punto, i voti dei porporati si orientano verso il nome di Melchiorre Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia, che viene eletto papa il 4 agosto del 1903, con il nome di Pio X.
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Mariano Rampolla del Tindaro

UN PRETE DI CAMPAGNA ALLE PRESE CON LA POLITICA. Nato a Riese, nel trevigiano, nel 1835, ordinato sacerdote nel 1858, promosso vescovi di Mantova e poi di Venezia. Figura genuina di pastore, lontana dalla politica, per vocazione e per non aver mai ricoperto incarichi in curia o nella diplomazia vaticana prima della sua elezione. È un prete di campagna giunto fin sul soglio di Pietro proprio per la sua indifferenza ai grandi giochi della politica contemporanea. Per questo, su di lui, dopo lo scontro durissimo tra Parigi e Vienna, si indirizzano i voti del Sacro collegio, sebbene il patriarca di Venezia scongiuri fino alle lacrime gli altri cardinali di non chiamarlo ad una responsabilità così grande. Proprio questo atteggiamento, invece, persuade ancora di più i porporati che sia la scelta giusta, perché supera conflitti e interessi nazionali.
Secondo alcuni, la sua elezione rappresenta la vittoria su tutta la linea degli Asburgo. È vero che papa Sarto ha il profilo del buon parroco, senza velleità politiche, ma egli è pur sempre originario di una regione, il Lombardo-Veneto, che, al tempo della sua nascita, è parte integrante dell’Impero. Con Vienna è rimasto un legame culturale e affettivo. Nel suo diario, il cardinal Ferrari, suo massimo sponsor nell’elezione, annota che, durante il conclave, Melchiorre Giuseppe Sarto pronuncia queste parole: “Per l’Austria garantisco io”. Dall’ipotesi di eleggere un cardinale filo francese – Rampolla del Tindaro – si passa così alla scelta di un porporato se non amico almeno non ostile all’Austria.
Malgrado questi aspetti di cui si deve tener conto, Pio X si rivelerà un papa autonomo e indipendente e lavorerà, fin da subito, per tagliare ogni legame troppo stretto con le potenze europee. A partire dall’abolizione di quel diritto di veto che, bruciando la candidatura di Rampolla del Tindaro, gli aveva consentito di sedere sul trono di Pietro. Con la Costituzione del Commissum nobis, emanata il 20 gennaio 1904, il nuovo papa cancella lo Ius exclusivae, l’antica prerogativa dei  monarchi cattolici. Pio X mette fine, così, all’ancien régime e a quel legame tra trono e altare che ne è stato uno dei pilastri. Nessuno Stato potrà più infierire nell’elezione di un pontefice. Inizia con Pio X il processo di modernizzazione della Chiesa, che porterà a un sempre più stretto controllo vaticano sugli episcopati nazionali, sottratti all’autorità degli Stati. Un percorso di autonomia che diventerà completo con la riacquisizione, dopo i Patti Lateranensi, di un territorio sovrano dal quale esercitare una propria politica internazionale.
Il conclave del 1903 è uno spartiacque nella storia della Chiesa. Francia e Impero continueranno, invece, le loro politiche di potenza, eredita dai secoli passati. Una folle corsa che li precipiterà, insieme ai loro alleati, nel tragico baratro della guerra.
Pio X
Pio X

Articolo in gran parte di Antonello Carvigiani, giornalista ed esperto di Storia della Chiesa,pubblicato su BBC History del mese di novembre 2018, altri testi e foto da wikipedia.

martedì 17 settembre 2019

La guerra delle portaerei.


La guerra delle portaerei.
Dai primi prototipi ai superteconologici modelli di oggi, passando per le navi che decisero la seconda guerra mondiale. Ecco le micidiali armi, le battaglie e la storia di questi mostri del mare.

Il rumore del primo aereo fatto volare dai fratelli Wright nel 1903 ancora aleggiava nell’aria, che già alcuni militari si misero in mente di provare a far decollare un velivolo dal mare. Dopo un primo fallito esperimento con il cacciatorpediniere Bagley, il 14 novembre 1910 nella baia di Cheaspeake, da una piattaforma provvisoria di legno appositamente costruita sull’incrociatore leggero Birmingham, della Marina degli Stati Uniti, spiccò il volo un apparecchio Curtiss Golden Flyer. Il pilota-acrobata Eugene Ely completò il suo volo di cinque minuti atterrando sulla spiaggia. Poco più di un anno dopo, il 18 gennaio 1911, sempre lui riuscì nell’impresa di atterrare per primo su una piattaforma marittima, ancora in legno, nella baia di San Francisco, questa volta allestita sull’incrociatore corazzato Pennsylvania. Per fermare l’aereo venne usato un rudimentale sistemqa di arresto composto da ventidue cavi sospesi trasversalmente sulla piattaforma, bloccati all’estremità da sacchi di sabbia. L’aereo era provvisto di ganci per catturare le corde e permettere un arresto rapido, e in effetti l’aereo si fermò in soli dieci metri. Poi le funi vennero rimosse ed Ely riuscì anche a decollare. Gli elementi fondamentale della portaerei a quel punto c’erano già tutti. Nel maggio 1912 il Tenente di Vasclelo britannico Charls R. Samson per la prima volta decollò da una corazzata in movimento, la Hibernia. Nel frattempo, per facilitare il lancio degli aerei venne studiato il sistema della catapulta: un prototipo operativo operò i primi lanci dall’incrociatore corazzato North Carolina nel novembre 1915. Poi, quella che sembrava una strada imboccata con determinazione ebbe una frenata brusca. Prese piede infatti lo sviluppo di un’altra linea di aerei navali: gli idrovolanti. Questi erano più facili da gestire per le tecnologie dell’epoca. Trasportati su apposite navi appoggio, venivano calati in acqua per decollare e sull’acqua atterravano prima di essere issati nuovamente a bordo da una gru. Un sistema quindi alternativo alle vere portaerei. La Francia fu la prima a possedere una porta-idrovolanti, il Foudre, che venne adattata allo scopo nel 1912, mentre l’Austria-Ungheria, nel 1914, compì la prima operazione aereonavale della storia impiegando militarmente idrovolanti imbarcati allo scopo di effettuare ricognizioni.

Il primo reparto “aeronavale”
Fu Napoleone Bonaparte il precursore dei reparti aeronavali. Per la sua spedizione in Egitto del 1798 fece imbarcare sulla nave Le Patriote un reparto della Compagnie d’Aerostiers francese. Una volta raggiunta la costa egiziana questa unità di palloni aerostatici avrebbe dovuto effettuare una ricognizione dall’alto prima dello sbarco. La nave però sì incagliò fuori dal porto di Alessandria e affondò.

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La HMS Furious con l'equipaggio schierato

UN PROGETTO CHE RIPARTE. Le portaerei continuarono comunque a essere sviluppate, tanto che il loro primo impiego bellico avvenne sul finire della Prima guerra mondiale. La nave HMS Furious venne dotata di un ponte anteriore per il decollo di velivoli a cui, in un secondo momento, si aggiunse un ponte posteriore per provare a permettere l’atterraggio, una manovra all’epoca davvero complicata, che per questo veniva tentata  solo con la nave completamente ferma. Nonostante gli aerei a quei tempi avessero una velocità di stallo molto ridotta, cosa che in teoria facilitava le manovre, le possibilità di riuscire in un appontaggio erano limitate a causa del vento e del rollio dall’imbarcazione e anche delle strutture presenti sul ponte non ancora ottimizzate per favorire queste manovre, come accadrà invece in seguito. Nel 1918 sulla Furious vennero imbarcati alcuni caccia biplani Sopwith Camel di nuova generazione (versione 2F1) che avevano un’autonomia estesa rispetto ai precedenti. Così il 19 luglio di quell’anno la nave raggiunse la base tedesca di Tondern (oggi in Danimarca) e fece decollare i suoi aerei che la bombardarono. I velivoli però non poterono tornare direttamente sulla portaerei: alcuni planarono in mare e furono poi recuperati, altri atterrarono nella neutrale Danimarca. La Furious era stata organizzata con in mente un nuovo concetto di portaerei: le torri di prua e di poppa aveva lasciato il posto a due pieste, in quella prima fase ancora separate tra loro. L’idea del ponte al posto delle sovrastrutture si sarebbe rivelato presto vincente. Nel 1918 Londra aveva varato anche la Argus, la prima portaerei a ponte piatto, una caratteristiche che gli dava una sagoma del tutto insolita per l’epoca, senza sovrastrutture. Per questo fu protagonista di molte sperimentazioni: nel tentativo di trovare l’aereo più adatto allo scopo imbarcò 44 tipi diversi di velivoli, compresi gli aerosiluranti.

Il raid di Tondern.
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I tre hangar principali di Tondern in una data imprecisata tra il 1916 e il momento dell'attacco

Il 19 luglio 1918 una squadriglia di Sopwith Camel britannici, armati con bombe da 25 chili, decollarono dalla portaerei Furious e bombardarono la base tedesca di Tondern, che ospitava hangar per gli Zeppelin, i dirigibili che per tutta la Prima guerra mondiale avevano condotto bombardamenti aerei sull’Inghilterra e sui Paesi alleati. L’attacco – il primo nella storia lanciato da una nave portaerei – ebbe successo e distrusse l’hangar più grande con due dirigibili e danneggiò uno dei due hangar più piccoli che conteneva un pallone aerostatico. Al ritorno gli aerei non potendo appontare sulla portaerei scelsero diverse alternative: alcuni infatti partirono dalla nave, compirono il bombardamento e poi atterrarono nella neutrale Danimarca dove i piloti vennero internati; altri invece operarono un atterraggio di emergenza vicino all’imbarcazione per poi essere recuperati da essa o dalle navi di scorta. Durante questo tentativo uno dei piloti si schiantò.

NASCONO LE VERE PORTAEREI. La prima portaerei a esser progettata come tale fin dalla chiglia fu però la giapponese Hosho. Varata nel 1922, era la quarta portaerei al mondo dopo le inglesi Furious, Argus ed Eagle, e precedette di un anno la britannica Hermes, anch’essa progettata appositamente per essere una portaerei. Ormai la strada era tracciata. L’ingegneria navale intanto cercava soluzioni ad alcuni problemi ancora aperti. Le strutture che ingombravano il ponte delle navi rappresentavano l’ostacolo principale per gli aerei ed emettevano il fumo di scarico dei motori che infastidiva i piloti nelle loro manovre. Fu così che per risolvere questo problema nacque il fumaiolo sopraelevato, progettato per primi dagli inglesi. Gli sviluppi orma si susseguivano rapidamente: nel 1920 fu concretizzata l’idea dell’”isola”, una zona di comando posta ai margini laterali della nave, in modo da poter riunire sovrastrutture e fumaiolo e lasciare più campo sgombro possibile sulla pista. Nel 1924, la Eagle fu modificata e diventò la prima portaerei dotata di isola posta a dritta (cioè a destra del ponte di volo), una posizione che divenne poi lo standard per queste navi. L’anno successivo gli Stati uniti vararono la USS CV2 Lexington, la prima vera portaerei statunitense con ponte di volo completo e l’isola sulla fiancata destra. La sua sagoma divenne per decenni quella caratteristica di tutte le portaerei statunitensi. Si era ormai creato un modello che dal 1928 al 1952 le navi portaerei di inglesi e statunitensi mantenere quasi del tutto immutato.

Il trattato di Washington.
Il 6 febbraio 1922 le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) firmarono il trattato navale di Washington che per fermare la corsa agli armamenti imponeva forti limitazioni alle rispettive flotte militari. La Germania sconfitta aveva già vincoli stringenti, mentre la neonata Unione Sovietica pur non facendo parte del consesso internazionale in quel momento non rappresentava una minaccia navale. Nel trattato era previsto un limite massimo per la costruzione e il tonnellaggio delle portaerei. Il dislocamento standard venne limitato a 27430 tonnellate con il divieto di installare più di 10 cannoni pesanti di calibro massimo di 200 mm. A ogni nazione firmataria fu concesso di convertire gli scafi di due navi esistenti in portaerei, con un dislocamento massimo di 33530 tonnellate ognuna. Portaerei più leggere di 10160 tonnellate non rientravano nel conteggio del limite di dislocamento, così come non furono conteggiate le poche portaerei esistenti, considerate sperimentali. Negli anni Trenta questi limiti vennero ripudiati apertamente o nei fatti dal Giappone (che nel 1936 si ritirò dal trattato), Italia (che però non costruì portaerei) e Germania (nell’ambito del generale riarmo del regime nazista).


Seconda guerra mondiali, l’epoca d’oro delle portaerei.

Non le portaerei, ma le corazzate avrebbero dovuto essere l’arma decisiva della Seconda mondiale, almeno secondo le previsioni degli Stati maggiori di tutte le grandi potenze. Le portaerei erano ancora considerate poco che potenti navi ausiliarie, la cui costruzione era spesso osteggiata dalle gelsoe aviazioni nazionali. La prima potenza a realizzarne alcune fu la Gran Bretagna. Nonostante fossero stati tra i fautori di questo tipo di nave, e nonostante di battaglie in mare si intendessero parecchio, visto che da secoli possedevano la flotta più potente del globo, anche i britannici non le utilizzarono mai come una forza di protezione d’attacco, continuando a considerarle prevalentemente come mezzi di ausilio la resto della flotta, in grado di garantire l’appoggio aereo per la ricognizione e la difesa delle altre unità militari. E così fu anche allo scoppio del Secondo conflitto mondiale: non a caso esse furono per molto tempo equipaggiate con aerei relativamente antiquati, come gli aerosiluranti. Non furono nemmeno impegnate in grandi battaglie navali, probabilmente anche a causa del tipo di nemico con cui la Gran Bretagna dovette confrontarsi. La Germania infatti non disponeva di una grande flotta da poter contrapporre frontalmente a quella britannica. Nel Mediterraneo gli italiana avrebbero potuto tentare un confronto diretto con gli inglesi, ma di fatto scelsero una strategia tesa a evitare le battaglie navali decisive, riservando il lor maggiore impegno nella scorta dei convogli di rifornimento. La difesa del traffico navale nel Mediterraneo d’altro canto era fondamentale perché le truppe di terra potessero svolgere le loro azioni e fu, ancora più nell’Atlantico, un aspetto determinante del conflitto marittimo. Fu per proteggere le proprie rotte che gli inglesi svilupparono insieme agli americani le portaerei di scorta, cioè navi molto semplici, non necessariamente grandi, quasi sempre ricavate dallo scafo di mercantili su cui venivano montati ponti per il decollo e l’atterraggio degli aerei, questi ultikmi necessari per individuare e distruggere i sommergibili tedeschi (la capostipite di queste portaerei di scorta fu la britannica Audacity, che nel 1941 venne creata convertendo il mercantile Hannover: un ponte copriva tutta la superficie  della nave e non c’erano nemmeno hangar, ma gli aerei rimanevano parchettisti sul ponte stesso.

La portaerei che Hitler non vide mai.
I programmi di riarmo navale della Germania nazista puntarono sulle corazzate, varando fra le altre le possenti Bismarck e Tirpitz. Fu messo sulla carta anche il progetto di una portaerei, che anzi doveva essere la capofila di una serie di navi simili. I lavori per la Graf Zeppelin furono avviati in pompa magna nel 1938, ma essa non venne mai attrezzata neanche con i motori. Dopo fasi alterne di interruzioni, rinvii e parziali realizzazioni fra il 1936 e il 1943, il progetto fu definitivamente accantonato. La Germania non istituì mai nemmeno un’aviazione navale. Nell’aprile 1945 – a ridosso della fine della guerra – la Graf Zeppelin, che si trovava da due anni inerte nei cantieri di Stettino, venne affondata in acque basse per evitare che cadesse in mano al nemico. I sovietici però riuscirono a recuperarla e benché non l’abbiano mai completata ne studiarono a fondo i progetti.  
La Big E, una incredibile storia di successi.
La portaerei Enterprise (CV6) è stata la nave più decorata della Seconda guerra mondiale (ha ottenuto 20 Battle Star, il numero più alto tra tutte le navi da guerra statunitensi) e probabilmente è la portaerei più famosa del conflitto, se non dell’intera storia navale. Soprannominata “Big E”, nell’ottobre 1945 aveva partecipato a 20 battaglie, distrutto 911 aerei nemici, affondato 71 navi. Con le gemelle Yorktown e Hornet costituì il nucleo centrale della Flotta del Pacifico. Nonostante i molti attacchi subiti e le numerose bombe incassate, si dimostrò solida e resistente sopravvivendo alla guerra. Le squadre aeree imbarcate su di essa sono sempre state considerate le migliori del periodo, anche in virtù dell’esperienza maturata a bordo di una nave così efficiente e prestigiosa. Ci fu persino un periodo, tra la battaglia di Santa Cruz e l’arrivo delle nuove portaerei Usa Classe Essex, nel quale l’Enterprise per mesi si trovò a sostenere come unica portaerei lo sforzo bellico Usa nel Pacifico. Fu presente nella battaglia delle Midway come alle Salomone Orientali, nel Mar delle Filippine e nel Golfo di Leye, giocò un ruolo nel Raid di Tokyo, collaborò alle battaglie di Gaudalcanale e di Okinawa. Insomma , una leggenda del mare.

L’INTUIZIONE DEL GIAPPONE. Era così poco lungimirante il pensiero strategico nel considerare le portaerei, che il Trattato navale di Washington del 1922 per limitare gli armamenti si occupò soprattutto di corazzate. Addirittura esso consentì di trasformare in portaerei gli scafi di quelle eccedenti il numero stabilito. In continuità con questa miope visione, durante il riarmo degli anni Trenta i cantieri navali di tutto il mondo furono impegnati in un grande fermento per costruire enormi corazzate, mentre molto meno, o addirittura nessun impegno venne riversato alle portaerei. All’inizio del conflitto Germania, Italia, Francia e Unione Sovietica non ne avevano nemmeno una e c’era giusto qualche progetto sulla carta. la Gran Bretagna possedeva a sua volta poche unità di questo tipo, 7, considerando anche quelle minori, disseminate in tutto il globo. Gli Stati Uniti nel 1941 avevano invece 8 portaerei, metà nell’Atlantico e metà nel Pacifico. La più grande e modeerna flotta di questo tipo al mondo era, del tutto inaspettatamente, quella del Giappone, la cui Marina poteva disporre di dieci portaerei, che peraltro erano anche le più avanzate. Già il 10 aprile 1941 Tokyo creò la prima flotta aereonavale, composta da 7 portaerei con 474 aerei imbarcati, la prima organizzazione struttura di questo tipo. L’attacco a Pear Harbor del 7 dicembre 1941 fu l’anticipazione di come le portaerei stavano cambiando la guerra marittima e rappresentò un eccellente esempio di impiego strategico di queste unità come strumento offensivo a lunga distanza. Dopo quell’impresa, le portaerei giapponesi continuarono ad avere una totale preminenza sulle flotte Alleate e sul traffico mercantile nell’Oceano Indiano (dove operò con successo l’appositamente costituita Japanese Fast Carrier Strike Force) e nel Pacifico, almeno fino all’entrata in campo delle portaerei statunitensi nella battaglia delle Midway, il 4 giugno 1942. Quel giorno i giapponesi persero 4 portaerei in un solo colpo e si ritrovarono improvvisamente a corto di quella tipologia di nave che fino a quel momento era stata per loro fondamentale. Nel complesso durante la guerra il Giappone utilizzò 25 portaerei, di cui 10 progettate come tali, 3 convertite da unità da battaglia e 12 improvvisate adattando navi appoggio o navi passeggeri. Tra essere spiccavano l’Akagi, che per quanto datata disponeva di una eccellente squadra aerea e come ammiraglia fu protagonista dell’attacco a Pearl Harbor, nonché le gemelle Zuikaku e Shokaku, che risultarono essere tra le migliori unità di questo tipo dell’intero conflitto. Verso la fine della guerra il Giappone mise in campo anche la valida Taiho e la gigantesca Shinano, ma entrambe ebbero vita breve, perché ormai l’andamento del conflitto arrideva agli Alleati.

Lady Lex, la dama di ferro.
USS Lexington (CV-2) leaving San Diego on 14 October 1941 (80-G-416362).jpg
La USS Lexington lascia San Diego (California), il 14 ottobre 1941

La “Lady Lex” è stata una delle primissime portaerei in possesso degli Stati Uniti (portava la sigla CV-2). Inizialmente concepita come incrociatore da battaglia, venne convertita in portaerei per rispettare i termini del Trattato navale di Washington del 1922. La Lexintgton aveva una grande isola sul lato destro, con il torrione e un gigantesco fumaiolo. Per tutta la sua carriera operativa rimase assegnata alla Flotta del Pacifico. Il 7 dicembre 1941 avrebbe dovuto essere a Pearl Harbor, ma si trovava invece sulla rotta per le Midway per trasportare li alcuni aerei militari e così si salvò dall’attacco giapponese. Nel 1942 insieme alla Yorktown partecipò alla battaglia del Mar dei Coralli: il primo giorno, i velivoli decollati dalle due portaerei affondarono la portaerei leggera giapponese Shoho; il successivo, i loro aerosiluranti riuscirono a danneggiare gravemente la portaerei Shokaku. Ma un contrattacco aereo giapponese riuscì a paralizzare la Lexington, così che l’8 maggio si optò per l’autoaffondamento. 

Le due top giapponesi.
La Shokaku apparteneva alla classe Zulkaku, e con la sua gemella costituiva una coppia di portaerei potenti, veloci e corazzate, che imbarcavano una possente flotta aerea. Vengono considerate le migliori portaerei giapponesi della Seconda guerra mondiale, attrezzate anche con grossi ed efficienti apparati radar. La Shokaku e la Zulkaku erano entrambe presenti a a Pearl Harbor, e furono protagoniste della Battaglia del Mar dei Coralli in cui entrambe furono danneggiate ma che costò agli americani un prezzo ben più alto, con l’affondamento della Lexington. Proprio a causa dei danni ricevuto non poterono essere presenti alla Battaglia delle Midway (il cui esito finale la loro presenza avrebbe forse potuto modificare), mentre tornarono in gioco Battaglia delle Isole Salomone (agosto 1942) in cui venne affondata la statunitense Hornet e gravemente danneggiata la Enterprise. Il loro canto del cigno fu la Battaglia delle Marianne, in cui combatterono in netta inferiorità numerica contro undici portaerei americane e senza piloti esperti alla guida degli aerei imbarcati. In quell’occasione la Shokaku fu affondata, ma non dall’attacco di una portaerei rivale, bensì dal sottomarino Cavalla. La Zuikaku venne gravemente danneggiata, ma prese ancora parte alla battaglia del Golfo di Leyte, occasione in cui fu affondata da un massiccio attacco di aerei americani. 

Le più potenti in battaglia.

LEXINGTON (USA)

TIPO: portaerei
Lunghezza: 270,65 m
Larghezza: 32,30 m
Dislocamento:40000 t
Apparato motore: 16 caldaie, 4 gruppi turbogeneratori, 8 motori elettrici
Velocità: 61,58 km/h
Equipaggio: 1899 (originale), 2791 (nel 1942) mezzi aerei: fino a 85
ENTERPRISE (USA)
Enterprise Cruising.JPG
TIPO: portaerei
Lunghezza: 246,73 m
Larghezza: 34,73 m
Dislocamento:20191 t
Apparato motore: 4 gruppi turbine, 9 caldaie, 4 eliche
Velocità: 62 km/h
Equipaggio: 2072 (originale), 2919 (in guerra) mezzi aerei: 91
ESSEX (USA)USS Essex (CV-9) - January 1960.jpg

TIPO: portaerei
Lunghezza: 270 m
Larghezza: 34 m
Dislocamento: 40000 t
Velocità: 50 km/h
Armamento: 16 cannoni contraerei da 127 mm (affusti singoli) 60 mitragliere da 40 mm
Equipaggio: 2072 (originale), 2919 (in guerra) mezzi aerei: 91
BELLEAU WOOD (USA)
USS Belleau Wood
TIPO: portaerei leggera
Lunghezza: 189,7 m
Larghezza: 21,8 m
Dislocamento:14000 t
Velocità:57 km/h
Equipaggio: 1569
USS CORAL SEE/ANZIO(USA)

USS Coral Sea (CVE-57) 1943-1944.jpg
TIPO: portaerei di scorta
Lunghezza: 156 m
Larghezza: 20 m
Dislocamento:29800 t
Velocità:58 km/h
Equipaggio: 2000
Aerei: 91
SHOKAKU (GIAPPONE)
TIPO: portaerei
Lunghezza: 257,47 m
Larghezza: 26,05 m
Dislocamento:29800 t
Velocità:65 km/h
Equipaggio: 1600
Mezzi aerei: 72+12 di riserva (Zero, Aichi D3A, Nakajima B5N)
BELLEAU WOOD (USA)
USS Belleau Wood (CVL-24) underway on 22 December 1943 (NH 97269).jpg
TIPO: portaerei leggera
Lunghezza: 189,7 m
Larghezza: 21,8 m
Dislocamento:14000 t
Velocità:57 km/h
Equipaggio: 1569
AKAGI (GIAPPONE)
Japanese aircraft carrier Akagi 01.jpg
TIPO: portaerei
Lunghezza: 276,70 m
Larghezza: 31,30 m
Dislocamento:41300 t
Velocità:58 km/h
Equipaggio: 2000
Mezzi aerei: 91

ARK ROYAL (GRAN BRETAGNA)
HMS Ark Royal h85716.jpg
TIPO: portaerei
Lunghezza: 243,84 m
Larghezza: 28,64 m
Dislocamento:27000 t
Apparato motore: 3 gruppi turbine, 6 caldaie, 3 eliche
Velocità:57 km/h
Equipaggio: 1580
Mezzi aerei: 60 (Fairey Swordfish, Blackburn Skuas, Fairey fulmars)



COSTRUIRE A UN RITMO FORSENNATO. A fare la differenza era stata la sua capacità industriale degli Stati Uniti, che impararono presto la lezione e corsero ai ripari. Washington in fatti cominciò la guerra con un numero assai limitato di unità, ma in un periodo di tempo brevissimo riuscì a produrre una quantità gigantesca di portaerei, peraltro tecnologicamente avanzate ed efficienti. Con il loro sforzo bellico, alla fine del conflitto gli americani avevano messo in campo 143 portaerei di cui più di 20 maggiori, 10 leggere (CVL) e il resto portaerei di scorta (classificate CVE), 38 delle quali vennero trasferite alla Marina britannica per proteggere i convogli attraverso l’Atlantico. Tra le portaerei da combattimento, a fianco delle prime gloriose Lexington, Enterprise, Saratoga, Hornet, Yorktown, un contributo decisivo lo diede l’arrivo delle unità classe Essex: 17 portaerei da 27000 tonnellate capaci di portare fino a 100 aerei ciascuna. La classe Indipendece invece inquadrava le portaerei leggere, più piccole ma progettate per poter essere rapidamente prodotte e subito gettate nella mischia. Le portaerei americane risultarono superiore alle loro rivali non solo per il numero: un altro elemento che diede loro un vantaggio notevole fu l’adozione della tattica della “Task Force”: gli statunitensi impararono a utilizzare insieme diversi tipi di navi, specialmente portaerei e corazzate, con queste ultime a difesa delle prime. Una combinazione che risultò devastante. A questo elemento tattico si aggiunse l’alta qualità (oltre che la quantità) degli aerei imbarcati: i caccia Grummann Wildcat, Hellcat, Tigercaat e Bercat, il Vought Corsair (quando ricevette le modifiche utili a imbarcarlo, come le ali pieghevoli), il bombardiere in picchiata Douglas Devastator erano tutti velivoli straordinari. Durante il Secondo conflitto mondiale le portaerei trasformarono per sempre il modo di combattere, rendendo prioritaria in qualsiasi scenario la guerra aereo-navale, che ancora oggi è imprescindibile per avere la meglio in qualsiasi contesto geopolitico.

Le battaglie delle portaerei nella seconda guerra mondiale.

Notte di Taranto 11-12 novembre 1940.
Colpire la flotta italiana nel porto di Taranto era un’impresa rischiosa, perché le portaerei dovevano arrivare vicine al bersaglio. Cogliendo completamente di sorpresa le difese del porto, nella notte tra l’11 e il 12 novembre 1940 la portaerei britannica Illustrious lanciò i suoi vecchi aerosiluranti Swordfish contro la flotta italiana ancorata in rada, danneggiando seriamente le tre corazzate Littorio, Caio Dulio e Conte di Cavour, l’incrociatore Trento i due cacciatorpediniere Libecccio e Pessagno. 
Affondamento della Bismarck 25-28 maggio 1941
L’affondamento del gigante tedesco fu uno dei primi esempi della superiorità delle forze aereonavali sulle temute corazzate. La Bismarck era stata in grado di disintegrare il possente incrociatore Hood, ma lungo la rotta verso la Bretagna subì un primo attacco da un aerosiluranti della portaerei Victorius, poi contro di lei convergettero tutte le navi inglesi disponibili. C’era anche la portaerei Ark Royal , dalla quale il 26 maggio partirono gli aerosiluranti Swordifish ch misero fuori uso il suo timone. La Bismarck così rimase alal mercé della flotta britannica fino a essere affondata.
Pearl Harbor 7 dicembre 1941
Senza le portaerei non ci sarebbe potuto essere l’attacco giapponese a Pearl Harbor e l’America – almeno in quel momento – non sarebbe entrata in guerra. L’ammiraglio giapponese Yamamoto guidò in un viaggio di 13 giorni attraverso l’Oceano Pacifico una flotta con le sei portaerei Akagi, Kaga, Shokaku, Zuikaku, Soryu e Hyriu. Il bombardamento giapponese fu un successo. I danni alla flotta statunitense furono ingenti: gli americani persero circa 2400 uomini; 18 navi furono colpite e gravemente danneggiate, quasi 200 aerei furono distrutti, la maggior parte dei quali mentre erano a terra. Le perdite giapponesi furono minime: solo 26 aerei,
Raid Doolittle 18 aprile 1942
Fu una portaerei a risollevare il morale e orgoglio americano dopo Pearl Harbor. Per dare un segno di reazione gli statunitensi decisero di organizzare un raid simbolico sul Giappone. Con un lavoro di settimane per il duro addestramento e la sperimentazione per adattare i bombardieri al decollo dal ponte di una nave, il tenente colonnello Jimmy Dooolittle riuscì a organizzare una squadra di 16 bombardieri bimotori medi North American B25 Mitchell, modificati per l’occasione. Decollarono dalla portaere Hornet riuscirono a colpire gli obiettivi a Tokyo, Yokohama, Kobe, Osaka e Nagoya. Poi gli aerei si diressero verso la Cina per atterrare.
Bombardamento di Darwin 19 febbraio 1942
Tentando di ripetere Pearl Harbor, una flotta di portaerei del viceammiraglio Nagumo attaccò la base navale australiana di Port Darwin. I velivoli che presero parte al bombardamento decollarono dalle portaerei Akagi, Kaga, Hiryu, Soryu. Grazie alla sorpresa e alle poche difese i 90 aerei giapponesi incontrarono scarsa resistenza. Molte delle navi all’ancora furono colpite. La giornata registrò un pieno successo giapponese e scatenò ondate di panico in Australia, ma a causa dell’andamento successivo della guerra non ebbe reali seguiti strategici.
Mar dei Coralli 4-8 maggio 1942
Fu la prima battaglia in cui due flotte si confrontarono senza mai entrare in vista l’una dell’altra. Nel Mar dei Coralli, nel Pacifico meridionale, le portaerei per la prima volta furono le protagoniste assolute di una battaglia navale, e non fu sparata neanche un colpo di cannone. Gli americani schieravano la Yorktown e la Lexington, i giapponesi la Zuikaku e la Shokaku, più la portaerei leggera Shoho. Prima fu affondata la Shonho, poi le navi lanciandosi gli aerei le une contro le altre diedero vita a una sfida mortale. I velivoli Usa ridussero in fiamme la Shokaku, mentre la Lexington dovette essere affondata e la Yorktown fu danneggiata in modo serio.
Midway 4 giugno 1942
Il duello fra le portaerei giapponesi nella battaglia delle Midway fu uno dei punti di svolta più importanti della Seconda guerra mondiale. La possente flotta giapponese includeva ben otto portaerei. Akagi, Kaga, Hiryu e Soryu costituivano l’avanguardia e si scontrarono con le tre portaerei americane Enterprise, Hornet e Yorktown (che era danneggiata). I primi attacchi Usa furono respinti, poi però sopraggiunsero i cacciabombardieri Douglass SBD Dauntless di Enterprise e Yorktown e in appena cinque minuti ridussero in rottami la Kaga, la Soryu e l’ammiraglia Akagi. Dalla Hiryu partì un contrattacco aereo che riuscì a mettere fuori gioco la Yorktown. Ma fu l’ultima impresa della Hiryu: altri Dauntless della Enterprise la raggiunsero e la distrussero.
Santa Cruz 26 ottobre 1942
La battaglia navale di Santa Cruz, all’interno della campagna di Guadalcanal, fu l’ennesima sfida di quell’anno tra le portaere nel Pacifico. Gli americani misero in campo Hornet e Enterprise, mentre i giapponesi schierarono le rapide ma potenti Zuikaku e Shokaku e le portaerei leggere Zuiho e Junyo, dopo che le flotte si individuarono a vicenda, gli americani misero fuori gioco la Zuiho e la Shokaku, ma poi i giapponesi misero fuori gioco la Hornet e a danneggiare l’Enterprise. La vittoria tattica giapponese costò, però, la perdita di molti suoi piloti veterani e nei mesi successivi l’arrivo delle portaerei Usa classe Essex determinò la superiorità americana nel Pacifico.
Marianne 19-20 giugno 1944
Questa battaglia è considerata la più grande combattuta fra portaerei. Americani e giapponesi arrivarono a schierare rispettivamente 15 e 9 portaerei tra pesanti e leggere. La flotta statunitense aveva in appoggio ulteriori 12 portaerei di scorta. Gli Usa disponevano di più navi e aerei imbarcati, ma i giapponesi potevano contare sul supporto dei molti aerei delle basi a terra nelle Marianne, per questo lanciarono diverse ondate di attacchi aerei, ma nessuno fu decisivo. Gli americani riuscirono a reagire solo alla fine, ma i loro velivoli affondarono una portaerei nemica, mentre la nuova issa Taiho e la gloriosa Shokaku furono colate a picco da un sottomarino, mettendo in ginocchio il Giappone.
Golfo di Leyte 23-26 ottobre 1944
Nel Golfo di Leyte, nelle Filippine, avvenne la più grande battaglia navale della guerra, suddivisa in quattro scontri paralleli. Gli americani disponevano di 8 portaerei pesanti, 8 leggeri, 18 di scorta; i giapponesi di 1 portaerei pesante e 3 leggere. Nel Mar di Sibuyan i velivoli delle portaerei americane riuscirono ad affondare la supercorazzata Musashi e altre unità. Nel Mare di Surigao avvenne, invece, uno scontro fra corazzate senza supporto aereo. A Samar 16 portaerei di scorta Usa riuscirono a respingere le forze nipponiche. La battaglia di Capo Engano, infine, è stata l’ultima combattuta tra due gruppi di portaerei e terminò con la totale distruzione della flotta giapponese. In questa occasione, la portaerei St Lo fu la prima nave a essere colata a picco da aerei kamikaze.

Articolo in gran parte di Osvaldo Baldacci pubblicato su storie di Guerre e Guerrieri Sprea Editori n. 22

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