mercoledì 27 maggio 2020

Dove nacque la parità dei sessi.

Dove nacque la parità dei sessi.

Operaie, contadine, infermiere, tramviere: costrette a sostituire gli uomini al fronte, le donne, durante la Grande Guerra, hanno scoperto ruoli e responsabilità, impegni e soddisfazioni prima sconosciuti. Così hanno preso coscienza della parità di diritti che avrebbe dato presto i suoi frutti.

 Le donne nella Grande Guerra - Cultura e Spettacoli - Trentino

I grandi conflitti armati sono tragedie ma, paradossalmente, anche stimoli di progresso: la Rivoluzione Francese e l’Impero Napoleonico hanno insanguinato l’Europa per quasi tre decenni, eppure hanno permesso di passare dal mondo dei privilegi settecenteschi al mondo dei diritti ottocentesco. Il 1914-15, a sua volta, ha transitato la società dal mondo delle élites borghesi e aristocratiche al mondo delle masse del XX. Milioni di uomini mobilitati nel primo conflitto mondiale  (5 milioni l’Italia, 7 la Francia, 8 la Germania) hanno infatti creato un evento epocale che, per la prima volta  nella storia, ha coinvolto tutta la popolazione dei paesi in guerra, qualunque casa, villa o catapecchia, dal villaggio più lontano della Russia zarista all’ultimo paese di pescatore della Sicilia mediterranea, ha al fronte qualcuno (un figlio, un padre, un parente, un amico). La guerra entra nella coscienza collettiva, tutti vogliono sapere come, dove, perché si combatte: l’informazione, prima riservata a pochi, si diffonde a macchia d’olio, le tirature dei giornali e dei periodi illustrati raggiungono numeri inimmaginabili qualche anno prima. Con la Grande Guerra nasce l’opinione pubblica: la società della partecipazione così come siamo stati abituati a conoscerla oggi. Sulla strada della modernizzazione c’è tuttavia un altro elemento caratterizzante, figlio indiretto delle trincee del Fronte occidentale e dell’Isonzo: l’emancipazione della donna. Movimento ispirati dalla battaglia per la parità di genere esistono sin dalla battaglia per la parità di genere esistono sin dalla seconda metà del XIX secolo, soprattutto nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti: sono i cosiddetti movimenti delle suffragette, termine sottilmente denigratorio con il quale si indicano i gruppi che si batto per il diritto delle donne al suffragio (perché non chiamarle siffragiste?). Si trattava tuttavia di movimenti elitari, che coinvolgevano donne delle classi alte, ai quali restavano fondamentalmente estranee le figlie del popolo, alle prese con il problema pratico di mettere in tavola la minestra o la polenta tutti i giorni.

 

Il reggiseno.

Il 12 febbraio 1914 Mary Phelps Jacob, una ricca ereditiera americana appena ventenne, pronipote del celebre inventore del battello a vapore Robert Fulton, richiede all’Ufficio brevetti di New York il riconoscimento di una sua curiosa invenzione, brevetto che gli venne concesso nel novembre successivo con il n. 1.115.674: si trattava di un paio di piccoli triangoli di stoffa uniti tra loro e sorretti da bretelle, in modo da fornire un adeguato sostegno al seno femminile. Apparentemente si tratta di un capo di abbigliamento vagamente  erotico per un pubblico femminile delle classi agiate: dal punto di vista pratico, si rivela invece un’invenzione fondamentale perché introduce una vistosa miglioria fisica e psichica nelle donne, sino ad allora costrette alla tortura delle stecche di balena dei corsetti. La Grande Guerra fa il resto: la mobilitazione della manodopera femminile innesca un processo di semplificazione del vestiario che trasforma l’intuizione di Mary Phelps Jacob non solo in un simbolo di emancipazione femminile ma anche in elemento di vestiario irrinunciabile, riprodotto in milioni di esemplari in tutto il mondo. Il nome iniziale, reggipetto, viene trasformato in reggiseno, le bretelle perfezionate, le fogge moltiplicate. Come afferma l’inventrice con tono profetico, “non ritengo che il reggiseno cambierà il mondo come il battello a vapore del mio antenato, ma quasi”. Certamente, esso è un’eredità che 1914-18 lascia alle posterità del mondo occidentale.

 

 La dedizione delle donne nella Grande Guerra 1915-1918

Donne al posto degli uomini. La situazione cambiò bruscamente nel 1914-18: la mobilitazione al fronte di milioni di maschi per un periodo ininterrotto di 4 anni determina infatti una frattura nell’ordine sociale e familiare. Per le donne rimaste a casa non ci sono solo lutto e ansia: la nuova realtà, l’assenza degli uomini significa anche assumere responsabilità in ambito familiare prima riservate ai mariti e ai padri, significa entrare nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini sotto le armi, significa uscire dalla gabbia (come affermano molte testimoni) e vedersi dischiudere nuovi orizzonti, inquietanti e stimolanti al tempo stesso. Il primo mutamento dell’ordine si registra in casa: accanto alla tradizionale educazione dei figli, le donne devono occuparsi di pratiche burocratiche, rapporti con gli uffici pubblici, acquisti e vendita di prodotti agricoli e di bestiame, contrattazione dei prezzi, controversie legali, rapporto con le banche. In alcuni casi (soprattutto nelle piccole aziende agricole) si tratta di decidere se ricorrere ai lavorati salariati, assumendo la responsabilità dei relativi costi; in altri di avviare lavori costosi di restauro (un tetto, un muro di recinzione, un’intonacatura); in generale, si tratta di far quadrare i bilanci con entrate inevitabilmente ridotte. Non a caso, nella corrispondenza privata si intrecciano affetti e affari, come scrive la contadina piemontese Angela Gottero, classe 1894, al marito Luigi nel gennaio 1916: “oggi ho ricevuto la tua cara lettera e mi ha fatto piacere nel sentire che hai speranza di venire in licenza: io desidero tanto quel giorno per poterti abbracciare e per aggiustare gli affari di interesse”. Il mutamento più vistoso si ha però nel mondo della produzione agricola e, soprattutto, industriale. Secondo calcoli riportati da Antonio Gibelli ne “La grande guerra degli Italiani”: “Nelle campagne restano attivi solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne”. Ne deriva l’occupazione femminile in mansioni agricole dalle quali erano solitamente esentate: da quelle più pesanti (ammucchiare i covoni, scaricare il grano, tagliare la legna) a quelle tecnologiche come la manovra delle macchine agricole. Altrettanto significativo l’ingresso nell’ambito della fabbrica: le esigenze belliche richiedono uno sforzo produttivo ingente, le donne vengono impiegate nelle officine metalmeccaniche che realizzano fucili, mitragliatrici, esplosivi, proiettili, cannoni di piccolo e medio calibro, alcune acquisiscono livelli alti di specializzazione (per esempio, quelle addette al montaggio di macchine di precisione per motori di aerei). Personale femminile compare negli uffici postali, nelle banche, nelle assicurazioni, sui tram e sui treni. Donne vengono coinvolte nell’estrazione dei minerali di ferro destinati all’industria siderurgica. Il Corriere della Sera titola “Donne al posto degli uomini” una pagina nella quale compaiono fotografie di donne italiane o straniere in mansioni come spazzine, tramviere, barbiere.

Il fenomeno, così rapido e dirompente, suscita curiosità e, insieme, sospetto: se Ugo Ojetti osserva che “per tutti gli interstizi una fiumana di donne è penetrata, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini (i campi, le fabbriche … ), e le più di esse lavorano e sono preziose e s’ha bisogno di loro”, altri esprimono riserve e ironie, come il contadino emiliano mobilitato sull’Isonzo che, lamentando la lentezza della moglie nel rispondere alle lettere, scrive “adesso che fate tutto voialtre e niente noi uomini non avete tempo da perdere in tanti scritti”.

 

Il suffragio femminile.

Le suffragette britanniche Annie Kenney e Christabel Pankhurst manifestano a favore del suffragio femminile (1908 circa).

Nell’immediato dopoguerra la celebrazione “dell’indispensabile contributo femminile al conflitto”, da una parte accentua la campagna contro i rischi per la moralità pubblica, dall’altra, al contrario, apre notevoli spiragli al riconoscimento del movimento di emancipazione femminile, nel campo dei diritti civili, del diritto di istruzione, di accesso alle professioni, di emancipazione della tutela giuridica, di accesso al voto. In Germania nel 1918 viene concesso il suffragio femminile, in Inghilterra (pur con limitazione dei 30 anni di età), nel 1919, in Francia nel 1925 limitatamente alle elezioni municipali, in Italia la legge Sacchi nel 1919, comunemente definita “premio di smobilitazione”, decreta il riconoscimento della parità giuridica della donna con l’abolizione dell’autorizzazione maritale per tutti gli atti di proprietà all’esercizio delle professioni e degli impieghi pubblici, con eccezioni (peraltro molto restrittive). Solo nel 1925 Mussolini, prima di eliminare del tutto e per tutti il diritto di voto, concede il diritto di voto, concede il suffragio amministrativo alle donne “decorate della medaglia o della croce di merito di guerra” o che siano “decorate di medaglia al valor civile, o della medaglia di benemerite della sanità pubblica” o madri e vedove di cadute in guerra o donne che abbiano la patria potestà o licenze o diplomi e “paghino annuo contributo al Comune” (Laura Derossi, “1915 il voto alle donne”)

 

Si rompono i ceppi della tradizione. Il rapporto tra lavoro ed emancipazione è evidente: lavorare significa uscire dall’ambito della casa, uscire dall’ombra maritale o paterna, acquisire consapevolezza di sé, stabilire una nuova rete di rapporti sociali, avere la disponibilità di un salario con il conseguente senso di indipendenza, assumere comportamenti che prima erano considerati prerogative maschili (dal bere alcolici all’uscire di sera, al frequentare luoghi di divertimento). E, soprattutto, decidere il proprio destino, da sempre nelle mani degli uomini. In molti casi (soprattutto per le donne giovani ancora senza famiglia propria) lavorare significa spostarsi dalla campagna alla città, scoprendo nuovi orizzonti geografici e sociali, oppure trasferirsi da una fabbrica all’altra cambiando luogo e mansioni, in una dimensione di fluidità in netto contrasto con la tradizione di stabilità alla quale le classi popolari sono state educate. Questo mutamento nel rapporto tra spazio domestico e spazio esterno rappresenta un sensibile rimescolamento della vita sociale. Cambia persino il modo di vestire: se ancora all’inizio del Novecento le donne hanno i vestiti lunghi sino a terra, nel momento in cui esse entrano nel mondo del lavoro hanno bisogno di indumenti più pratici e funzionali e le gonne si accorciano sino al ginocchio. Allo stesso modo scompaiono i corsetti, i busti che stringevano il petto rendendo impacciati i movimenti, e vengono sostituiti dai più agili reggiseni. La donna del 1914-18 è una donna che si libera dai limiti augusti del ruolo femminile tradizionale e si avvia sulla strada della modernizzazione. Non a caso in molte testimonianze femminili sulla Grande Guerra si parla di “senso di libertà”, di andare a lavorare “quasi come un divertimento”, di “cose che non avremmo mai potuto fare prima”, mentre in quelle maschili la memoria è interamente collegata alla sofferenza e alla paura del fronte.

 

La lotta per la parità dei diritti. Il fenomeno emancipatorio, ovviamente, non va esagerato nelle sue implicazioni. Ogni momento di rottura comporta anche reazioni in contro tendenza. C’è chi, negli anni di guerra, lamenta l’allentarsi della moralità pubblica, chi accusa la manodopera femminile di scarsa professionalità e capacità di lavoro, chi è insofferente per l’irrequietezza esistenziale e denuncia una preoccupante indisciplina, chi cerca di imporre il “comando dei vecchi” per lasciare inalterate le gerarchie di genere. Alcuni giornali di ispirazione più conservatrice richiedono maggiore severità e vigilanza da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, la quale a sua volta opera sulla base di una legislazione che limita fortemente l’agibilità. Il tutto è comunque conferma di come i modi di vivere stiano cambiando. “La guerra cominciava a incrinare modelli di comportamento, relazioni tra generi e classi di età, nonché tra classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni di ruoli e autorità ritenute immutabili: un effetto che – contenuto per il momento dalla legislazione repressiva – sarebbe emerso più ampiamente nel dopoguerra, contribuendo a conferire alle lotte sociali un’impronta di contestazione radicale dell’ordine esistente”, afferma Gibelli nel suo libro. Sostenere che la donna si è emancipata durante il conflitto è improprio, è però vero che il movimento di emancipazione femminile ha trovato nelle condizioni eccezionali del 1914-18 le sue radici e la sua spinta propulsiva che avrebbe presto dato i suoi frutti. Non a caso in alcuni Paesi europei il diritto di voto viene concesso alle donne proprio dopo la fine della Prima guerra mondiale.

 

Articolo di Gianni Oliva storica e giornalista, autori di libri pubblicato su BBC History n. 91 Sprea editori, altri testi e immagini


venerdì 22 maggio 2020

Davide verso Golia.

Davide verso Golia.

Simbolo del coraggio che trionfa sulla brutale forza fisica, la vicenda biblica nasconde più di una verità storica.


Il Davide di Michelangelo

 

La fionda contro la spada di ferro, il piccolo pastore adolescente contro il gigante protetto da elmo e armatura di bronzo. Il biblico duello tra Davide e Golia è l’archetipo della sfida impossibile, del piccolo sovrastato dall’enorme, del risultato ineluttabile e el suo incredibile rovesciamento. Come sempre in questi casi, la forza che consente al guerriero sfavorito di ottenere una vittoria imprevedibile non risiede nelle sue armi ma nella sua fede, nella sua intelligenza e nella sua determinazione. L’episodio è narrato nel Primo libro di Samuele e si colloca poco dopo il 1000 a.C., nel contesto di un prolungato confronto militare fra il popolo ebraico e quello filisteo. Il duello segna l’inizio dell’ascesa di Davide verso il trono di Giuda e Israele, anche a discapito di Saul, cehe proprio in qualità di leader militare contro i Filistei era divenuto il primo sovrano israelita e sotto il cui comando serviva il suo futuro successore.


Davide e Golia, dipinto di Tiziano.

 

Le tracce. La storia, per come ci è stata tramandata, contiene più di una contraddizione, complice il fatto che per lungo tempo le narrazioni erano solo orali. Secondo una versione dei fatti, per esempio, Davide era presente sul campo di battaglia perché era già arpista di Saul, mentre la tradizione principale sostiene che era solo uno sconosciuto pastorello venuto a portare il cibo ai fratelli arruolati con il re. Era stato proprio Saul ad avviare la riscossa di alcune tribù ebraiche contro il predominio delle città filistee che dalla costa ambivano a dominare l’entroterra, in virtù della loro superiorità militare. I carri da battaglia, il ferro e le armature pesanti rendevano i Filistei nettamente superiori in campo aperto. Per questo gli Israeliti si rifugiavano sulle alture cui erano più abituati e che impedivano l’uso dei carri da battaglia. Però il confronto con i Filistei non poteva essere rimandato all’infinito. Si venne così a una battaglia che coinvolgeva la città filistea di Gath e i suoi guerrieri. ma senza scontro campale. Gli Ebrei si mantenevano arroccati su posizioni che rendevano esitanti anche i Filistei, impossibilitati a impiegare la loro piena forza. In questo consenso, tra le file dei Filistei, emerse un campione che sfidò a duello un volontario nemico.

Quello dei duelli non è solo un espediente letterario: era una pratica attestata nelle battaglie antiche, forse per rompere gli stalli che si creavano o anche solo per ingannare con pratiche cavalleresco il tempo dell’attesa. A lanciare la sfida fu Golia (il nome nella forma alwt o wlt  è stato trovato in iscrizioni filistee del X secono a.C. a Tell es-Safi, probabilmente l’antica Gath), un guerriero che la Bibbia descrive come alto sei cubiti e un palmo (vale a dire poco meno di tre metri), con indosso una corazza di piastre pesanti 5mila sicli (più di 50 chili) e un imponente elmo di bronzo. Le sue armi erano una lancia gigantesca, un giavellotto di bronzo e una grande spada di ferro.

 

Ebrei contro Filistei.

Mappa della Palestina nell'800 a.C. secondo la Bibbia

I Filistei nella Bibbia sono i nemici per eccellenza del popolo ebraico. I due popoli si formarono alla fine del II millennio a.C, tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Quella filistea fu una civiltà incentrata sulle città Stato della costa, mentre quello ebraico fu uno Stato formatosi sugli altipiani da una base tribale. Le prime scintille si accesero per il controllo di alcune vallate fertili e delle rotte carovaniere. All’inizio furono i Filistei ad avere il predominio, al punto da vietare agli Ebrei, a detta della Bibbia, il possesso di utensili di ferro. Il cantico di Debora, uno dei testi più antichi della Bibbia racconta però la vittoria di alcune tribù ebraiche sui Filistei.

CONTROOFFENSIVA.  Saul divenne il primo re proprio per essere alla guida della riscossa ebraica, dopo le iniziali vittorie, subì una devastante sconfitta a Gelboe in cui lui e i suoi figli trovarono la morte. Davide fu a sua volta vassallo dei Filiste, finché non fondò il suo regno che secondo la Bibbia dominava la regione siro palestinese, ma rispetto alla quale le città filistee rimasero autonome. Rapporti altalenanti si ebbero anche durante i regni di Giuda e di Israele. Con la conquista della regione prima da parte degli Assiri, poi dei Babilonesi e infine dei Persiani, le popolazioni locali si amalgamarono, i Filistei scomparvero e invece si defin’ meglio la civiltà israelitica.

 Qeiyafa-western-gate1 cr.jpgIsrael outline jerusalem.png

   Porta occidentale di Khirbet Qeivata


Non solo mito. L’esatta storicità dell’episodio è difficile da accertare (c’è chi si spinto a spiegare le misure di Golia con un problema ormonale o con l’acromegalia, una patologia caratterizzata da una ipertrofia di mani, piedi e testa), ma certamente l’imponenza suo armamento ben rappresentano la superiorità militare dei Filistei sulle tribù israelitiche dell’epoca. Sempre seguendo il racconto biblico, si sa che fra gli Ebrei atterriti nessuno raccolse la sfida per quaranta giorni. Finché arrivò Davide, un pastore adolescente, che udite le pare di Golia si sentì offeso per il suo popolo e il suo Dio (mentre i suoi stessi fratelli lo osteggiavano accusandolo di agire per ambizione), e si propose al re Saul per affrontare il campione nemico. Di fronte allo stupore della corte, Davide assicurò che come pastore aveva già sconfitto orsi e leoni. Saul doveva ormai essere abbastanza disperato perché accettò l’offerta e anzi rivestì delle sue proprie armi e armatura il giovane campione: come detto, tra gli Ebrei armi complete, professionali e di buona qualità dovevano costituire una rarità degna di un re. Ma ricoperto di bronzo il piccolo Davide si sentiva goffo e impacciato: fu allora che decise che solo Dio sarebbe stato il suo scudo, e le armi quelle della sua tradizione. Così prese la sua fionda e scelse nel torrente cinque ciottoli lisci.

Il finale fu sorprendente: quando Golia vide il giovane, e disarmato, sfidante lo derise, ma Davide roteò la sua fionda e centrò il gigante in mezzo alla fronte facendolo cadere a terra morto. A quel punto gli si avventò contro e impugnata la spada del filisteo gli staccò la testa dal corpo. Dalle schiere ebraiche esplose probabilmente un urlo di entusiasmo e di trionfo, mentre tra i Filistei fu il panico. Come sempre il duello non risolse la battaglia, ma ne indirizzò i risultati. Le due schiere vennero a contatto e gli Israeliti fecero strage di nemici, i quali fuggirono verso Gath attraverso la strada della “città delle due porte”. Qui finisce il mito e inizia, forse, la Storia. Di recente, a Khirbet Qeivata, nella Valle di Elah, gli archeologici hanno infatti trovato un sito dell’epoca che – caso raro – aveva due porte. Chissà che il duello tra Davide e Golia non sia solo un archetipo ma contenga delle verità. Ne è convinto Yosef Garfinkel dell’Università di Gerusalemme, a capo del team che ha portato alla luce quell’antica città.

 

Articolo di Aldo Bacci pubblicato su Focus Storia n. 146 – altri testi e immagini da Wikipedia.


lunedì 18 maggio 2020

Il volo prima dei Wright.

Il volo prima dei Wright. Pionieri dell’aviazione.

I NUOVI ICARO.

Con il Novecento, l’antico sogno del volo sembrò farsi realtà, e all’inizio del secolo si moltiplicarono gli esperimenti (anche bizzarri) per portare finalmente l’uomo al dominio dell’aria.

 

Orville Wright accanto all'aliante del 1901, collocato in posizione eretta, di cui si vede la faccia inferiore

L’invenzione dell’aeroplano a motore (quello che allo si usava chiamare “più pesante dell’aria”, per distinguerlo da mongolfiere e aerostati) è stata attribuita dalla storia ai fratelli americani Wilbur e Orville Wright, che compirono il primo volo il 17 dicembre 1903 dalla collina Kill Devil Hills, in North Carolina. Pur non avendo risolto tutti i problemi (il decollo richiedeva l’ausilio di una catapulta), il biplano Wright Flyer dimostrò che il volo a motore era possibile, con continuità e in relativa sicurezza. I Wright, che oltre a essere uomini di genio erano abili uomini d’affari, furono anche i fondatori dell’industria aeronautica. Naturalmente ci furono anche altri pionieri del volo che reclamarono il primato. Alcuni di essi probabilmente lo fecero a ragion veduta, mentre altri furono solo millantatori, le cui affermazioni vennero spesso sostenute anche per ragioni puramente campanilistiche. Tra essi vi fu il russo Aleksandr F. Mozhaysky,che tentò un volo da San Pietroburto, con il suo meccanico J.N. Golubev ai comandi, ma dell’evento non sono rimaste foto né testimonianze attendibili.

Augustus M. Herring dichiarò di aver volato, il 10 ottobre 1898, a St. Jospeh, nel Michigan, con un motore ad aria compressa; anche in questo caso, l’evento non è documentato a sufficienza. Innumerevoli altri si segnalarono per la realizzazione di macchine volanti strane e fantastiche, degne di un romanzo di Jules Verne, ma non riuscirono a volare o lo fecero brevemente e in maniera fortunosa, quando ormai i Wright avevano dimostrato quale fosse la via da seguire.

Félix du Temple de la Croix (1823-1890)


Se il primo volo compiuto da questo capitano di fregata francese potesse in qualche modo essere confermato, anticiperebbe quello dei fratelli Wright di più di un quarto di secolo. Félix du Temple depositò il suo primo brevetto nel 1857 e nello stesso anno ne costruì un modello in scala, apparentemente funzionante. Dopo aver preso in considerazione svariati tipi di propulsione insieme al fratello Louis, scelse infine un piccolo motore a vapore del peso di soli 18 kg, realizzato nel 1874. Non esistono descrizioni approfondite e attendibili circa la macchina volante ideata dai fratelli du Temple, ma si sa che i due progettisti ebbero idee straordinariamente innovatrici, come il ricorso all’alluminio di un carrello retrattile all’apparrecchio.

Con un marinaio a bordo, il loro avveniristico monoplane si staccò da un pendio e, a quanto riportano le cronache dell’epoca, guadagnò leggermente quota per poi posarsi, senza danni, poco distante. Il monoplano è oggi di gran lunga il tipo di aereo più comune, ma agli albori dell’aeronautica si preferirono modelli multiala. Dopo quello di du Temple, altri monoplani vennero costruiti da Louis Blériot (1906), e dal romeno Traian Vuia, che effettuò un volo di 12 metri il 18 marzo 1906.


Modello ricostruito della macchina volante del 1857 di Du Temple al Musée de l'Air et de l'Espace .

Clement Ader (1841-1925)

Questo francese aveva una vera e propria vocazione per le invenzioni. Nel 1872 realizzò il prototipo di un “ornitottero”, ossia un monoplano ad ali battenti a propulsione muscolare umana, che non riuscì però a sollevarsi da terra. Nel 1886 iniziò lo sviluppo di un “più pesante dell’aria” che riproduceva la forma di una volpe volante, il più grande pipistrello esistente. Chiamato Eole (Eolo), era un grosso monoplano, con un motore a vapore a quattro cilindri da 20 CV realizzato dallo stesso Ader. L’Eole fu sottoposto ad un primo collaudo il 9 ottobre 1890, su un terreno piano di 200 m ad Armainvilliers, non lontano da Parigi. Dopo una breve corsa, apparentemente l’aereo staccò le ruote da terra, sollevandosi per una ventina di centimetri e percorrendo una distanza stimata in 50 m; ma prese terra in maniera incontrollata, danneggiando in modo grave. Ad Ader va il merito di aver inventato il nome avion, “aeroplano” in francese.

Otto Lilienthal (1848-1896)

Questo ingegnere tedesco fu una figura chiave nella storia dell’aviazione. Non costruì mai aeroplani a motore, ma svolse un’opera fondamentale nel campo del volo librato, qualificandosi come uno dei padri dell’aliante e del moderno deltaplano.

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Gustav A. Weisskopf (1874-1927)

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Il tedesco s Stati Uniti, dove si fece chiamare Gustav Whitehead, fu colpito dalle ricerche che in quel periodo suscitavano molto interesse. Basandosi sugli alianti che si studiavano in America, Weisskopf ne costruì un derivato, dotato di un motore a vapore che azionava due eliche. Esiste la testimonianza giurata, giudicata attendibile, di Louis Darvarich, un fabbro che aveva contribuito alla costruzione e aveva accompagnato Weisskopf sul suo aereo. L’uomo afferma che nell’aprile (o forse maggio) del 1899 a Pittsburgh, in Pennysylvania, il velivolo venne pilotato dal suo ideatore e costruttore in un volo di circa 800 m, sollevato a 6-8 m dal suolo. L’apparecchio finì contro un palazzo. Darvarich rimase ustionato dal vapore e dovette farsi ricoverare in ospedale. L’esperimento fu confermato anche da Martin Devane, vigile del fuoco, che accorse sul luogo dello sfortunato atterraggio, il 14 agosto 1901. Weisskopf riuscì a volare per circa 300 m a Fairfield (nel Connecticut) con il suo No. 21 e ad atterrare regolarmente.

Fra tutti i presunti anticipatori dei fratelli Wright, Weisskopf è forse quello che merita maggior considerazione. Alcuni suoi progetti lodati per la genialità, ma il loro ideatore morì dimenticato.

Il disegno che accompagnava l'articolo a pagina 5 del 18 agosto 1901 Bridgeport Herald

Karl Jatho (1873-1933)

Raramente ricordati al di fuori della Germania, fu tra i primi pionieri del volo a ottobre. Dipendente pubblico della città di Hannover ed eclettico invento, Jatho costruì un triplano, che poi modificò in biplano, riuscendo a portarlo in volo per la prima volta il 18 agosto 1930, anticipando di qualche mese il successo dei fratelli Wright. Riuscì a sollevarsi soltanto di 1 metro e a percorrere 18 m, a Vahrenwalder Heide, alla periferia di Hannover, dato che la potenza del suo motore (un monocilindrico Buchet da 10 CV) era insufficiente. Jatho continuò la sua attività e pare che nel novembre 1903 riuscisse, con il Motordrachen n. 2, a percorrere 60 m a 3-4 metri dal suolo. Poté ottenere migliori risultati con un nuovo aeroplano, costruito nel 1909. Tuttavia, l’epoca del primo pionierismo era ormai agli sgoccioli e di lì a poco l’aeroplano avrebbe avuto la sua prima affermazione come mezzo bellico, durante le operazioni italiane in Libia contro l’Impero Ottomano nel 1911.

Il biplano di Jatho a Vahrenwalder Heide nel 1907

Claude Givandan (1872-1945)

 

Questo ingegnere francese non è molto conosciuto come pioniere dell’aviazione: oltretutto arrivò dopo i Wright e le sue creazioni furono un fallimento. Tuttavia, pur senza conoscerne la storia, sono in molti ad aver visto il suo avion annulaire (aereo anulare), chiamato anche tandem tambour (tamburo in tandem) o aeroplane multicellulaire del 1909. Si tratta di una delle più strane macchine per volare mai ideate e, a quanto è dato a sapere, senza fortuna, tanto che in seguito Givaudan la riprogettò daccapo, aggiungendovi delle corte ali. Il suo creatore, un apprezzato costruttore di motociclette a motore e motori a scoppio, progettò anche il motore Vermorel BV da 40 HP, destinato ad azionare l’elica dell’aereo. Il noto pilota Adophe Pégoud, che lo collaudò, descrisse così la sua esperienza: “La mia maggior preoccupazione era che quello strano coso riuscisse a decollare”

 

Articolo di Nico Sgarlato pubblicato su Conoscere la Storia n. 50 – altri testi e foto da Wikipedia.


venerdì 15 maggio 2020

Marziale poeta dell’eros.

Marziale poeta dell’eros.

Nella Roma del primo impero, Marziale fu una sorta di fustigatore dei costumi. Non era un moralista, ma un uomo di tale genio da riuscire a trasformare anche la volgarità in arte.

 

Profilo di Marco Valerio Marziale.

Donne viziose, uomini in cerca di facili soddisfazioni, rapporti promiscui, amanti più o meno stagionati, volgari arricchiti, sberleffi pungenti se non addirittura crudeli. Sono questi alcuni dei temi della poesia di Publio Valerio Marziale, una delle penne più sferzanti dell’epoca imperiale, attivo durante il I secolo d.C. e la cui memoria si è tramandata a lungo nei secoli successivi, tanto da essere conosciuta anche in epoca medievale: un codice contenente il liber de spectaculis e i primi dieci libri degli Epigrammi (Epigrammata) fu scoperto, atto al 1360, nella biblioteca di Montecassino da Giovanni Boccaccio, l’autore del Decameron, che fece conoscere il salace poeta latino anche a Francesco Petrarca.

 

I resti del foro di Bilbilis, patria del poeta, come si presentano oggi.

Spagna-Roma e ritorno. Marziale nacque a Bilbilis (probabilmente l’attuale Cerro de Bambola, presso Calatayud), in Spagna, il 1° marzo del 38 o del 41 d.C. La cittadina, inerpicata su una collina brulla, era famosa all’epoca per l’allevamento dei cavalli e per le fabbriche d’armi, che sfruttavano, per la lavorazione dei metalli, le acque del Salone, il fiume che scorre ai piedi del colle. I genitori di Marziale, Frontone e Flaccilla, erano benestanti e lo avviarono a buoni studi. Ricevette la prima istruzione in Spagna, educato da grammatici e retori. Nel 64, anno del Grande incendio di Roma, Marziale decise di raggiungere l’Urbe in cerca di fortuna. Nella capitale, prese contatto con personalità provenienti dalla Spagna, fra cui Seneca (il filosofo che era precettore di Nerone) e il poeta Lucano, entrambi nati a Cordova. Grazie ai due, si legò a personaggi potenti, come Gaio Calpurnio Pisone e Gaio Memmio Regolo. Purtroppo, una congiura ordita da Pisone ai danni di Nerone provocò, nel ’65, la feroce reazione dell’imperatore, che fece uccidere molti degli anici di Marziale. L’unico appoggio che gli rimase fu Polla Argentaria, vedova di Lucano (costretto al suicidio da Nerone). Per il poeta ebbe inizio la difficile vita del cliente, cioè libero cittadino costretto ad adempiere a una serie di obblighi nei confronti di un patronus, che ne ripagava i servizi garantendogli un donativo in cibo o in denaro. Nello stesso periodo, cominciò a vivere in un cubiculum al terzo piano di un’insula sul Quirinale e allacciò un rapporto di clientela con la famiglia del Flavii (che risiedevano sul medesimo colle), destinato a divenire fondamentale dopo l’ascesa al trono di Vespasiano, nel 69. Fu in quel periodo, probabilmente su richiesta dello stesso Vespasiano, che Marziale scrisse le sue prime poesie, i cosiddetti apophoreta, biglietti d’accompagnamento ai doni da offrire agli ospiti in occasione di feste e banchetti. Nell’80, per i giochi inaugurali dell’anfiteatro Flavio (il Colosseo), pubblicò il suo primo libro di epigrammi, il Liber de spectaculis, che gli diede fama. Come beneficio, l’imperatore Tito, figlio e successore di Vespasiano, gli concesso lo ius trium liberorum, che prevedeva una  serie di privilegi per chi avesse almeno tre figli. Marziale non era sposato, ma i privilegi gli furono concessi anche in seguito, assieme alla carica di tribuno militare e al rango equestre. Pubblicò in successione, con alterno successo, i primi quattro libri di epigrammi. Per breve tempo si trasferì al Forum Cornelii (Imoli), ospite di un amico, per tornare poco dopo a Roma, dove nel frattempo, con il principato di Traiano, il clima si era fatto più austero e poco adatto alla sua poesia sarcastica e ironica. In ogni caso, negli anni successivi, Marziale scrisse altri otto libri di versi. Nel 98, intanto, era tornato nella città natale, in Spagna, dove una ricca vedova sua amministratrice, una certa Marcella, gli aveva donato una casa e un podere. Nel 102, pubblicò il suo dodicesimo libro di epigrammi, per poi spegnersi, a 64 anni, nel 104.


L'anfiteatro Flavio, inaugurato nell'80 dall'imperatore Tito.

 

La penna acuminata di una mente diabolica.

(LA)

«Omnis Caesareo cedit labor Amphitheatro,
unum pro cunctis fama loquetur opus.» 

(Liber de spectaculis, 1)


Epigrammata, edizione del 1490.

Struttura[modifica | modifica wikitesto]

  • "Liber de spectaculis" (giunto incompleto). Registra in 33 epigrammi gli spettacoli che furono tenuti per celebrare l'inaugurazione dell'anfiteatro Flavio (conosciuto in seguito come il "Colosseo") nell'anno 80 in pieno centro a Roma; celebra ed esalta la magnificenza dell'opera ed il suo autore, l'imperatore romano Tito (imperatore romano). Questo lavoro gli guadagnò l'ammissione all'ordine equestre e una piccola pensione. La mitologia classica è qui ancora molto presente.
  • "Libri I-XII", composti tra l'86 e il 97 (il XII nel 102, due anni prima della morte, dopo essersi ritirato a vita privata) e per lo più destinati a chi assisteva alle feste primaverili dedicate alla Dea Flora (divinità). Qui troviamo epigrammi di tutti i tipi, dai carmi celebrativi ed encomiastici a quelli maggiormente descrittivi, agli epigrammi funerari e di riflessione personale, con temi prevalentemente sessuali che seguono il filone erotico: vi si possono trovare domande per ottenere aiuti finanziari, scene di strada, ritratti umani, descrizioni di oggetti e luoghi, insulti e rimproveri.
Deride e prende di mira praticamente tutte le classi sociali ma innanzitutto gli strati più popolari, dal ricco ma stupido al vecchio che pretende d'esser ancor giovane alla matrona ipocrita che dietro un'apparenza di castità cela tutta la lussuria di cui può esser capace una donna; ma anche medici incompetenti, pseudo poeti senza alcun talento, ragazzini carini e vanesi, zitelle appassite e gente corrotta della più svariata specie e provenienza.
Ma è soprattutto nel Liber XII che Marziale dimostra più vistosamente che è affetto da solitudine, lontano da Roma, e se ne rammarica.
  • "Xenia" e "Apophoreta", indicanti i doni da inviare ai conoscenti ed agli amici e i bigliettini poetici che li accompagnano. I primi sono 124 epigrammi composti da un solo distico, i secondi 223 epigrammi. Entrambi sono con tutta probabilità stati composti su commissione attorno all'84-85.


(IT)

«Tutti i monumenti restano inferiori all'anfiteatro di Cesare: la fama celebrerà questo solo per tutti.[10]»



Diaulo era  chirurgo, ora è becchino:

in ogni sua impresa trovi gente distesa

(libro I, epigramma 30)

Hai il membro grossi, Papilio, come il naso

Perché tu possa, quando è duro, annusarlo

(libro VI, epigramma 36)

L’orecchio di Mario ti lamenti che puzza, Nestore, ma è colpa tua, che ci vai cianciando dentro

(libro III, epigramma 28)

Chiedi perché tanti eunuchi frequenta la tua Gella, Pannichio? Vuole scopare, non restare incinta

(libro VI, epigramma 67)

Da un occhio solo piange sempre Filenide.

Com’è possibile? Semplice è orba

(libro IV, epigramma 65)

Perché non ti mando i miei libri, Pantiliano?

Perché non voglio ricevere i tuoi

(libro VII, epigramma 3)

Taide ha i denti neri, Leconia bianchissimi.

Ragione? Questa li ha finti, l’altra veri

(libro V, epigramma 43)

Se odi applausi in quale bagno, Flacco.

È perché si ammira di Marone il ‘pacco’

(libro IX, epigramma 33)

Ti dici bella, Bassa, e pure vergine

Ma chi lo dice, quasi mai lo è

(libro V, epigramma 45)

Ti invitano a cene tutti i sodomiti, caro Febo

Chi mangia grazie al membro, non è tipo per me

(libro IX, epigramma 63)

 

Vespasiano, il primo imperatore della dinastia flavia con cui Marziale con tutta probabilità instaurò un rapporto di clientela.

 

La vita in versi. Fu proprio grazie alla sua arte che l’epigramma, forma poetica già sperimentata da altri autori, divenne un vero genere letterario (prima era piuttosto un passatempo divertente o un modo per veicolare polemiche politiche). La maestria di Marziale fu quella di fissare in pochi o pochissimi versi l’impressione di un attimo, i fatti minimi della vita quotidiana, i caratteri salienti di un personaggio, sempre riuscendo, però, a passare dal particolare al generale, creando così una galleria di soggetti universali. I temi della sua poesia sono leggeri e vengono sono leggeri e vengono affrontati con le armi della satira e della parodia. L’erotismo, che è uno dei suoi argomenti preferiti, sfocia a volte nella pornografia, ma non manca l’attenzione al bel vivere o alla morte, trattata sempre con delicatezza e la dovuta pietas. Marziale è un osservatore spietato e puntiglioso del mondo, spesso aggressivo ma mai astioso, e i suoi versi ci restituiscono un quadro vivo e realistico della società romana della sua epoca, popolata di sciocchi, invidiosi, speculatori, ghiotti, approfittatori, parassiti, rozzi arricchiti, prostitute, omosessuali attivi e passivi, adulteri e untuosi adulatori. Per rendere questi personaggi universali, Marziale ne accentua le caratteristiche particolari, le porta all’estremo limite, enfatizzando i difetti fisici o quelli caratteriali, trasformando i protagonisti dei suoi versi in maschere comiche. Tuttavia, non è un moralista, e se lo è, lo è suo malgrado. Non vuole insegnare agli altri come comportarsi, non ha un sistema etico di riferimento (a parte quello personale), ma si diverte a osservare il prossimo e a metterne in luce le assurdità,, i comportamenti bizzarri e contradditori. Non è mai indignato o scandalizzato da un gesto, ma solamente dalla persona che lo compie, che si diverte a deridere con il suo sorriso beffardo ma anche malinconico, perché dietro molte bizzarrie vede, da autentico poeta, lo scorrere inesorabile del tempo e il desiderio dell’uomo di fermarlo. Il suo linguaggio passa dal raffinato al plebeo, al letterario al colloquiale, con una libertà assoluta, perché l’unico scopo della sua poesia è arrivare a descrivere le cose nel modo più vivo e realistico possibile. Dopo la morte di Marziale, così Plinio il Giovane scrisse di lui: “Era un uomo ingegnoso, acuto e pungente, che aveva nello scrivere moltissimo di sale e di fiele, e non meno di sincerità”. Forse la più bella definizione che un poeta possa desiderare.

 

Articolo di Stefano Bandera pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da Wikipedia.


mercoledì 13 maggio 2020

I Sipahi la forza d’urto dei sultani.

I Sipahi la forza d’urto dei sultani.

Per quasi tre secoli i reparti di cavalleria Sipahi furono i veri artefici delle fortune militari della sublime porta. Ottimamente armati, ben addestrati e animati da un forte spirito di corpo, seppero conquistarsi il rispetto di tutto l’Impero ottomano, tanto da indurre i sultani a scegliere i migliori di loro come guardie del corpo.

 

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Spahi alla Battaglia di Vienna (1683)

Se a partire dalla metà del XIV secolo l’espansione ottomana divenne un fenomeno pressoché inarrestabile, capace di terrorizzare l’Europa cristiana, buona parte del merito è dovuto a un’organizzazione militare capace di operare un’efficace sintesi tra reparti di fanteria, il cui nerbo era costituito dai temuti Giannizzeri, ed efficienti truppe a cavallo: i Sipahi, un corpo di cavalleria pesante che costituirà l’ossatura di quelle armate capaci di giungere alle porte di Vienna. Temuti e rispettati dal nemico, sapranno ritagliarsi un posto speciale anche nell’immaginario dei loro connazionali in virtù di una determinazione sul campo di battaglia senza pari. Perché una cosa è certa, i turchi, dall’alto dello loro secolare tradizione nomadica, non misero mai in mostra una particolare predisposizione al combattimento di fanteria. Lo dimostra proprio la nascita di un reparto come i Giannizzeri, formato da schiavi arruolati tra le popolazioni cristiane sottomesse, al tempo del secondo sultano, Orhan I (1326-1362), rimasto esterrefatto dall’inaffidabilità delle truppe reclute tra le file delle tribù. Ma nel caso dei reparti a cavallo il discorso cambiava completamente: se essere arruolato nelle file di un reparto appiedato era vissuto in genere alla stregua di una terribile punizione, combattere tra i Sipahi era il massimo riconoscimento a cui si potesse aspirare. C’erano due strade per coronare un simile sogno: diventare un Timarli Sipahi, un cavaliere feudale di nomina reale, o essere scelto come guardia del corpo del Sultano (Kapikulu Sipahi). Un onore, in quest’ultimo caso, riservato a uomini che avevano dimostrato doti militari davvero fuori dal comune.      


Armatura di Timariot risalente al 1480-1500

 

Una riforma epocale. L’istituzione dei Timarli Sipahi, o più semplicemente Timariot, è legata a una riforma militare di enorme impatto voluta dal sultano Murad I sul finire del XIV secolo che prevedeva la cessione di feudi (timar), di estensione variabile (bisogna ricordare che tutti i territori erano una proprietà esclusiva del sovrano), a uomini d’armi che si erano particolarmente distinti sul campo di battaglia. In breve tempo si formò una sorta di nobiltà terriera, che di primo acchito sembrerebbe ricalcare lo status dei cavalieri medioevali dell’Europa cristiana. Con un’importante differenza però: l’assegnazione non era ereditaria o cedibile a terzi. Il che significa che alla morte del proprietario la terra ritornava allo Stato. in sostanza, la possibilità di amministrare il feudo e riscuotere le tasse era solo un diritto temporaneo. Ciò impedì, almeno inizialmente, che si formasse una casta nobiliare in grado di minare la struttura centralizzata del potere. Un Sipahi inoltre rea tenuto a una serie di obblighi inderogabili: garantire la protezione dei suoi sudditi, la popolazione di contadini che viveva all’interno del timar, ma soprattutto rispondere alla chiamata alle armi in periodo di guerra. In tal caso, non solo doveva provvedere a equipaggiarsi a spese proprie, ma era tenuto a fornire un certo numero di ausiliari (Cebeli) a seconda dell’estensione del feudo. Sappiamo delle fonti che ne esistevano di tre tipologie: il timar (unità di base) con una rendita annuale intorno ai 20mila akçe (il nome di una moneta d’argento); il ziamet, più esteso e con un reddito di almeno 100mila akçe, a cui avevano diritto solo gli ufficiali; e infine l’has con entrate superiori ai 100mila akçe, appannaggio degli ufficiali più alti in grado. In base a questi valori, le rispettive classi di appartenenza erano tenute a fornire: fino a cinque armati nel primo caso, più di venti nell’ultimo. Una spesa notevole se si considera che anche l’equipaggiamento di questi soldati era identico a quello di un cavaliere Sipahi. Va fatto notare inoltre che la riforma voluta da Murad riguardò solo la popolazione d’origine turca in Anatolia e delle regioni balcaniche di recente conquista; nelle altre provincie come il Nord Africa o la Penisola Arabica, non si riscontra infatti nulla di simile. Questa pratica quindi, a partire dal XIV secolo, consentì di arruolare eserciti con un gran numero di effettivi, nettamente superiori a quelli messi in campo dalle nazioni cristiane. 


Miniatura raffigurante un timariota anatolico, risalente a prima del 1657

 

Reparti di prima linea. In caso di guerra le forze reclutate in ogni timar erano tenute a presentarsi al cospetto di un Alaybey, comandanti di reggimento, che a loro volta erano sottoposti alla giurisdizione di un Sanjakbey con potere provinciale. Il comando di tutte le unità di cavalleria passava infine a ufficiali superiori denominati Beylerbey. Un esercito ottomano classico era solito schierare i contingenti di cavalleria sui fianchi, adottando il famoso schema a mezzaluna (con le forze montate poste sulle estremità avanzate), mentre la fanteria di Giannizzeri, con i rispettivi reparti di artiglieria, occupava il centro. Era prassi che in caso di battaglia nei territori anatolici fossero i Sipahi arruolati in loco a occupare, come titolo onorifico, il fianco destro, mentre sul lato opposto prendevano posizione i parigrado balcanici (Rumeli Sipahi). Situazione che si invertiva totalmente se le operazioni si svolgevano sul suolo europeo. Secondo la documentazione in nostro possesso, durante la battaglia, mentre il centro manteneva una posizione piuttosto statica, era la cavalleria a prendere l’iniziativa, mettendo in atto manovre finalizzate a scompaginare le forze avversarie. Ciò poteva significare semplici scaramucce che davano inizio al combattimento oppure operazioni più articolate: molto diffusa era la tattica di lanciare attacchi localizzati contro singole unità nemiche per poi mettere in atto precipitose ritirare, al fine di costringerle a contrattaccare. In tal caso – ma non sempre ci cascavano – sarebbero state attirate in imboscate con l’ausilio di forze tenute opportunamente nascoste. Poteva anche accadere che, quando un reggimento si ritirava, incalzato dal nemico, un altro attaccasse le forze avversarie sui fianchi. In entrambi i casi, il fine ultimo era spezzarne la coesione e ridurne la capacità combattiva. Sappiamo inoltre chi i Sipahi anatolici preferivano il combattimento a distanza, in virtù della loro proverbiale abilità con l’arco composito, mentre i corrispettivi balcanici erano soliti eccellere nell’uso del giavellotto. Anche il resto dell’equipaggiamento presentava alcune differenze. Negli anatolici prevedeva uno scudo rotondo, una spada turca (Kilij) e un’armatura leggera in pelle o feltro. I balcanici avevano uno scudo pressoché identico, ma prediligevano una lancia da urto, una spada lunga a doppio filo e un’armatura pesante (cotta di maglia). A completare la dotazione – in questo caso per entrambi – alcuni tipi di mazza (bozdogan o sesper) e di ascia (teber e sagir). Nel complesso quindi le forze di cavalleria erano l’elemento più dinamico dell’esercito ottomano, un classico esempio di tecnica di combattimento che si fondava su una perfetta sintesi dell’arte equestre.

La rivalità con i Giannizzeri.

il ciambellano del Sultano Murad IV con Giannizzeri di scorta.

Tra i Sipahi, in special modo tra i Kapikulu, e il corpo dei Giannizzeri esisteva un’accesa rivalità che nel corso del tempo assunse toni molto accesi. Da una parte i reparti di cavalleria di origine turca ch si erano conquistati il diritto di appartenere a quell’élite in virtù dei meriti raggiunti sul campo di battaglia, dall’altra schiavi-soldati arruolati a forza tra le popolazioni cristiane sottomesse che, se avessero potuto scegliere, avrebbero molto probabilmente rifiutato un simile destino. Ma c’era anche una questione d’onore a peggiorare questo difficile rapporto. I Giannizzeri infatti si dimostrarono sempre un corpo, per quanto abile in battaglia, decisamente irrequieto e poco propenso alla fedeltà. Un adagio, ancora oggi diffuso tra la popolazione turca, recita “la cavalleria non si ammutina”, a voler prendere distanza dalle continue e sanguinose ribellioni messe in atto dai Giannizzeri nel corso dei secoli. Eppure a partire dalla metà del XVI secolo, con l’avvento dell’artiglieria, l’importanza dei Giannizzeri (anche per la loro abilità come artiglieri) finirò con il crescere esponenzialmente, a danno proprio dei reparti a cavallo. I Sipahi infatti, per quanto siano rimasti una disciplinata ed efficiente aristocrazia militare, si videro pian piano estromessi dalle tattiche di battaglia. si ripresero una sorte di triste rivincita quando nel 1826, dopo un’ennesima rivolta contro il sultano Murad IV da parte dei Giannizzeri, furono incaricati a reprimere la sommossa nel sangue. Una brutale repressione che fu seguita dalla messa al bando di quei temuti reparti di fanteria. Il destino dei Sipahi tuttavi non fu migliore. Due anni dopo, infatti, durante il regno di Mahmud II, si videro revocati tutti i loro privilegi e furono congedati a causa di una riforma militare finalizzata alla creazione di un esercito più moderno ed efficiente.

L’esercito Sipahi.

La storia dei Sipahi non si può spiegare fino in fondo senza tenere conto dell’innata predisposizione turca all’arte equestre. Un’abilità ben testimoniata fin dall’XI secolo dai Gazi, cavalieri di origine turca operanti al tempo dei Bellicati (emirati turco-musulmani formatisi fin dal tempo delle prime migrazioni in Anatolia). Un periodo turbolento di regni in conflitto tra loro su cui si sarebbe imposto, alla fine del XIII secolo, Osman (1299-1326), il fondatore dell’Impero ottomano. Saranno proprio questi reparti di cavalleria a comporre i nuclei dei primi reparti di Sipahi a seguito della storica riforma militare di Murad I sul finire del XIV secolo.

Kilij, l’arma simbolo.

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Kilij Ottomano. Forma corta tarda del kilij (pala)

Tra l’equipaggiamento dei Sipahi, senza comunque dimenticare l’immancabile arco composito, figurava la Kilij, una scimitarra che si era imposta come dotazione base di ogni cavalieri fin dall’XI secolo, quando le prime tribù turche irruppero sull’Altopiano iranico e in Anatolia orientale. Si trattava di un’arma con lama ricurva monofilo e controtaglio, realizzata in un acciaio con altissima percentuale di carbonio, che nel corso del tempo prima affiancò e poi rimpiazzò le classiche spade lunghe a doppo filo (più pesanti e meno maneggevoli) diffuse sia tra gli eserciti arabi che tra quelli occidentali. Con la successiva affermazione dell’impero ottomano, in grado di conquistare estesi territori fin nel cuore dell’Europa, la sua fama crebbe a tal punto da essere adottata in molti eserciti dell’Europa orientale (Russia compresa): nel XVI secolo, infatti, fu forgiata la prima spada a lama ricurva, denominata Szabla (era leggermente più lunga, appuntita e meno curva della Kiiji), nell’area appartenente alla Confederazione polacco-lituana. Dopodiché, nei decenni successivi e fino al XIX secolo, questo modello di sciabola in dotazione alla cavalleria polacca fu appannaggio di quasi tutti gli omologhi corpi occidentali.

 

A guardia del sultano. Nello schema di battaglia, se i Timariot rappresentavano l’elemento di punta del sistema offensivo, la posizione più arretrata, alle spalle della fanteria, era appannaggio dei Kapikulu Sipahi, la cavalleria della Guardia, un corpo d’élite deputata alla protezione del Sultano (sia in tempo di guerra che di pace) o del Gran Visir in sua vece, composto da uomini di provata fedeltà ed eccellenti doti militari. Sappiamo che nell’organigramma erano suddivisi in sei Divisioni: una Sipahi, una Silahtar, due Ulufeci (destra e sinistra) e due Garip (destra e sinistra). Tra queste emergevano i Silahtar, veri e propri maestri d’armi, scelti tra i migliori guerrieri di tutto l’impero senza alcuna limitazione di classe o grado. Se in genere era più facile che venissero promossi a un simile rango componenti dei reparti timariot o delle altri divisioni kapikulu, non era raro che vi riuscissero anche uomini di fanteria. Ma a patto che sopravvivessero a missioni in cui era altissima la probabilità di trovare la morte, dopo essersi offerti volontari, per tale ragioni erano chiamati serdengeeti (coloro che offrono la propria testa). Non stupisce pertanto che alcuni Giannizzeri, attirati dalla prospettiva di lauti guadagni e dal desiderio di fama e gloria, tentassero una simile impresa, riuscendoci.

Il comando di questa divisione era affidato a un Silahtar Agha, una figura dotata di enorme potere, essendo uno dei più stretti collaboratori del Sultano (a lui spettava anche il delicato atto vestizione del Signore prima di uno scontro) e il tramite con la seconda figura più importante dell’impero, il Gran Visir. Altrettanto prestigiosa era però la Divisione Sipahi, in virtù del fatto che tra le sue file militavano i figli dell’èlite ottomana: in cambio della loro fedeltà, ricevevano importanti feudi nelle vicinanze della capitale (un onore riservato anche ai Silahtar) con cospicue entrate. Le altre quattro divisioni non erano, per così dire, altrettanto fortunate perché ricevevano ‘solamente’ un salrio fisso, per quanto superiore alla media di tutti gli altri reparti regolari. Dal punto di vista tipologico la dotazione di Silahtar, Sipahi e Ulufeci era molto simile a quelle delle unità di prima linea arruolate nei Balcani (armatura, cotta di maglia, scuto rotondo, spada, arco, lancia, mazza e ascia), se non fosse per il fatto che venivano usati i migliori materiali disponibili, i migliori artigiani e sontuose decorazioni e incisioni. Le Divisioni Garip, al contrario, erano armate in maniera più leggera per garantire maggiore mobilità. Di norma l’impiego di queste forze era limitato a compiti di retroguardia o di riserva tattica, ma in casi di pericolo o andamento incerto dello scontro, potevano essere schierati sui fianchi a supporto delle prime linee. In tempo di pace invece, erano deputati a compiti di scorta al Sultano durante le parate o le manifestazioni pubbliche.

 

Le battaglie memorabili.

 

Battaglia di Pelekanos.

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L'impero bizantino nel 1328.

Tra il 10 e l’11 giugno del 1329, presso Pelekanos, in Bitinia (regione nord.occidentale dell’Asia Minore), un esercito bizantino, guidato dall’imperatore Andronico III forte di 4mila uomini, si scontrò con forze ottomane nettamente superiori di numero, mettendo in luce una certa combattività. Verso sera infatti le forze cristiane sembrarono prevalere, ma con perdite così alte da rendere impossibile proseguire lo scontro. Venne deciso pertanto di interrompere i combattimenti e disimpegnarsi. La successiva ritirata si trasformò però in uno stillicidio per gli attacchi portati dagli arcieri a cavallo turchi nel corso di continue imboscate. Ogni tentativo di contrattacco fu impossibile per mobilità della cavalleria nemica. Lo stesso imperatore bizantino fu gravemente ferito.

Battaglia della Piana dei Merli.

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Battaglia della Piana dei Merli, di Adam Stefanović, olio su tela, 1870.

Il 15 giugno del 1389 un esercito della Lega Balcanica, guidato dal principe serbo Lazar Hrebeljanovic, forte di 25mila uomini, si scontrò con un’armata ottomana con il doppio degli effettivi, al comando di Evrenos Bey, nell’odierna regione del Kosovo. Dopo un inizio nettamente a favore dei cristiani, capaci di mettere in seria difficoltà entrambe le ali turche, l’arrivo di un cospicuo numero di rinforzi, permise al comandante ottomano di contrastare efficacemente gli assalti nemici e mutare il corso dello scontro. Sebbene la battaglia sia finita in sostanziale pareggio, al termine della giornata gran parte delle forze a disposizione della Lega Balcanica fu costretta a ritirarsi: evento che determinerà la caduta della regione in mani turche.

Battaglia di Nicopolis.

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La battaglia di Nicopol

Il 25 settembre del 1396 un’armata ottomana forte di 70mila uomini, al comando di Evrenos Bey, supportata da un nutrito contingente alleato serbo si scontrò con un poderoso esercito cristiano (quasi 130mila uomini), costituito da diversi contingenti franco-ungheresi, presso Nicolopis, nel nord dell’odierna Bulgaria. Fu una spedizione voluta espressamente da Papa Bonifacio IX. Eppure, nonostante la sproporzione delle forze in campo, l’esisto fu disastroso: dopo uno scontro durissimo e sanguinoso, che all’inizio vide gli ottomani in difficoltà, le forze cristiane subirono una clamorosa disfatta con quasi 25mila morti.

Battaglia di Mohacs.

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Battaglia di Mohacs 1526Bertalan Székely.

Il 9 agosto del 1526, a sud di Budapest, andò in scena una delle più importanti battaglie del tempo, il cui esito determinò il passaggio dell’Ungheria meridionale sotto il controllo turco. Un avvenimento che fu alla base dei ripetuti tentativi ottomani di conquistare Vienna (il primo addirittura solo tre anni dopo). Quel giorno, l’esercito ungherese di re Luigi II d’Ungheria e Boemia, valutabile in circa 25-28 uomini e 53 cannoni attaccò le avanguardie di un’armata ottomana composta da circa 50mila uomini e 160 cannoni. Sebbene in un primo tempo le avanguardie turche siano state costrette a ritirarsi, l’arrivo del grosso dell’esercito cambiò completamente il corso del conflitto: la destra ungherese fu la prima a cedere, poi toccò al resto dello schieramento.  

 

 

Apoego ed eclisse. L’epoca d’oro della cavalleria Sipahi può essere fissata a grandi linee della metà del XIV alla fine del XVI secolo. Non c’è campagna militare, guerra o battaglia che non li abbia visti nel ruolo di protagonisti. Se non mancarono le sconfitte è però i grandi exploit militari ottomani siano stati possibili grazie soprattutto alla loro proverbiale potenza d’urto. Diedero quindi un contributo determinante alla nascita di un impero vastissimo, che uno dei racconti medioevali turchi più famosi, il Sogno di Osman, immaginava come un grande albero le cui radici si propagavano su tre continenti e i rami oscuravano il cielo, facendo ombra a quattro catene montuose (Caucaso, Tauro, Atlante e Carpazi), dopodiché una serie di fattori incominciò a ridimensionare il ruolo in maniera significati. Da una parte il rivoluzionario impatto delle artiglierie, che nel ‘500 provocarono drastici cambiamenti nelle tattiche militari, dall’altra il sempre maggiore ruolo delegato dai Sultani ai Giannizzeri (sia come reparti di fanteria come artiglieri). Un dato su tutti ci permettere di comprendere questo drammatico passaggio di consegne: se nel XVI secolo il numero di Sipahi e Cebeli raggiungeva l’incredibile cifra di 100mila unità, nel XVII si era ridotto a meno di 30mila. Un cambiamento epocale non imputabile però solo a cause belliche. La verità è che con il tempo il sistema feudale dei timar era collassato fino a diventare superato, perché non c’erano più le condizioni che ne avevano favorito la creazione. Senza nuove conquiste (l’impero aveva ormai raggiunto la sua massima espansione) mancavano nuove terre da assegnare, e le continue cirsi economiche avevano provocato un impoverimento di questa classe rendendo quasi impossibile l’acquisto dei costosi equipaggiamenti necessari ad armarsi. Ma, più di ogni altra cosa, era tramontato quell’entusiasmo che aveva reso motivo d’orgoglio combattere tra le file della cavalleria dei Sultani. A causa di una corruzione sempre più dilagante, i proprietari terrieri erano riusciti a ottenere l’esenzione dalle prestazioni militari in cambio di tangenti, finendo con il rendere il possesso della terra un fenomeno ereditario. Le nuove generazioni persero rapidamente ogni interesse per la guerra. Dal canto suo il governo della Sublime Porta fece sempre più fatica a esigere quanto gli spettava di diritto, fino a rendere questa tendenza un fenomeno inarrestabile. A quel punto, in pratica, l’intero sistema d’arruolamento timar finì per collassare nell’arco di pochi decenni. Ecco perché i 2mila Sipahi ancora presenti al tempo di Solimano III (1789-1807) altro non erano che i cupi fantasmi di una tradizione ormai del tutto tramontata.

 

Articolo di Enrico Cattapani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e immagini da wikipedia.


I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...