mercoledì 13 maggio 2020

I Sipahi la forza d’urto dei sultani.

I Sipahi la forza d’urto dei sultani.

Per quasi tre secoli i reparti di cavalleria Sipahi furono i veri artefici delle fortune militari della sublime porta. Ottimamente armati, ben addestrati e animati da un forte spirito di corpo, seppero conquistarsi il rispetto di tutto l’Impero ottomano, tanto da indurre i sultani a scegliere i migliori di loro come guardie del corpo.

 

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Spahi alla Battaglia di Vienna (1683)

Se a partire dalla metà del XIV secolo l’espansione ottomana divenne un fenomeno pressoché inarrestabile, capace di terrorizzare l’Europa cristiana, buona parte del merito è dovuto a un’organizzazione militare capace di operare un’efficace sintesi tra reparti di fanteria, il cui nerbo era costituito dai temuti Giannizzeri, ed efficienti truppe a cavallo: i Sipahi, un corpo di cavalleria pesante che costituirà l’ossatura di quelle armate capaci di giungere alle porte di Vienna. Temuti e rispettati dal nemico, sapranno ritagliarsi un posto speciale anche nell’immaginario dei loro connazionali in virtù di una determinazione sul campo di battaglia senza pari. Perché una cosa è certa, i turchi, dall’alto dello loro secolare tradizione nomadica, non misero mai in mostra una particolare predisposizione al combattimento di fanteria. Lo dimostra proprio la nascita di un reparto come i Giannizzeri, formato da schiavi arruolati tra le popolazioni cristiane sottomesse, al tempo del secondo sultano, Orhan I (1326-1362), rimasto esterrefatto dall’inaffidabilità delle truppe reclute tra le file delle tribù. Ma nel caso dei reparti a cavallo il discorso cambiava completamente: se essere arruolato nelle file di un reparto appiedato era vissuto in genere alla stregua di una terribile punizione, combattere tra i Sipahi era il massimo riconoscimento a cui si potesse aspirare. C’erano due strade per coronare un simile sogno: diventare un Timarli Sipahi, un cavaliere feudale di nomina reale, o essere scelto come guardia del corpo del Sultano (Kapikulu Sipahi). Un onore, in quest’ultimo caso, riservato a uomini che avevano dimostrato doti militari davvero fuori dal comune.      


Armatura di Timariot risalente al 1480-1500

 

Una riforma epocale. L’istituzione dei Timarli Sipahi, o più semplicemente Timariot, è legata a una riforma militare di enorme impatto voluta dal sultano Murad I sul finire del XIV secolo che prevedeva la cessione di feudi (timar), di estensione variabile (bisogna ricordare che tutti i territori erano una proprietà esclusiva del sovrano), a uomini d’armi che si erano particolarmente distinti sul campo di battaglia. In breve tempo si formò una sorta di nobiltà terriera, che di primo acchito sembrerebbe ricalcare lo status dei cavalieri medioevali dell’Europa cristiana. Con un’importante differenza però: l’assegnazione non era ereditaria o cedibile a terzi. Il che significa che alla morte del proprietario la terra ritornava allo Stato. in sostanza, la possibilità di amministrare il feudo e riscuotere le tasse era solo un diritto temporaneo. Ciò impedì, almeno inizialmente, che si formasse una casta nobiliare in grado di minare la struttura centralizzata del potere. Un Sipahi inoltre rea tenuto a una serie di obblighi inderogabili: garantire la protezione dei suoi sudditi, la popolazione di contadini che viveva all’interno del timar, ma soprattutto rispondere alla chiamata alle armi in periodo di guerra. In tal caso, non solo doveva provvedere a equipaggiarsi a spese proprie, ma era tenuto a fornire un certo numero di ausiliari (Cebeli) a seconda dell’estensione del feudo. Sappiamo delle fonti che ne esistevano di tre tipologie: il timar (unità di base) con una rendita annuale intorno ai 20mila akçe (il nome di una moneta d’argento); il ziamet, più esteso e con un reddito di almeno 100mila akçe, a cui avevano diritto solo gli ufficiali; e infine l’has con entrate superiori ai 100mila akçe, appannaggio degli ufficiali più alti in grado. In base a questi valori, le rispettive classi di appartenenza erano tenute a fornire: fino a cinque armati nel primo caso, più di venti nell’ultimo. Una spesa notevole se si considera che anche l’equipaggiamento di questi soldati era identico a quello di un cavaliere Sipahi. Va fatto notare inoltre che la riforma voluta da Murad riguardò solo la popolazione d’origine turca in Anatolia e delle regioni balcaniche di recente conquista; nelle altre provincie come il Nord Africa o la Penisola Arabica, non si riscontra infatti nulla di simile. Questa pratica quindi, a partire dal XIV secolo, consentì di arruolare eserciti con un gran numero di effettivi, nettamente superiori a quelli messi in campo dalle nazioni cristiane. 


Miniatura raffigurante un timariota anatolico, risalente a prima del 1657

 

Reparti di prima linea. In caso di guerra le forze reclutate in ogni timar erano tenute a presentarsi al cospetto di un Alaybey, comandanti di reggimento, che a loro volta erano sottoposti alla giurisdizione di un Sanjakbey con potere provinciale. Il comando di tutte le unità di cavalleria passava infine a ufficiali superiori denominati Beylerbey. Un esercito ottomano classico era solito schierare i contingenti di cavalleria sui fianchi, adottando il famoso schema a mezzaluna (con le forze montate poste sulle estremità avanzate), mentre la fanteria di Giannizzeri, con i rispettivi reparti di artiglieria, occupava il centro. Era prassi che in caso di battaglia nei territori anatolici fossero i Sipahi arruolati in loco a occupare, come titolo onorifico, il fianco destro, mentre sul lato opposto prendevano posizione i parigrado balcanici (Rumeli Sipahi). Situazione che si invertiva totalmente se le operazioni si svolgevano sul suolo europeo. Secondo la documentazione in nostro possesso, durante la battaglia, mentre il centro manteneva una posizione piuttosto statica, era la cavalleria a prendere l’iniziativa, mettendo in atto manovre finalizzate a scompaginare le forze avversarie. Ciò poteva significare semplici scaramucce che davano inizio al combattimento oppure operazioni più articolate: molto diffusa era la tattica di lanciare attacchi localizzati contro singole unità nemiche per poi mettere in atto precipitose ritirare, al fine di costringerle a contrattaccare. In tal caso – ma non sempre ci cascavano – sarebbero state attirate in imboscate con l’ausilio di forze tenute opportunamente nascoste. Poteva anche accadere che, quando un reggimento si ritirava, incalzato dal nemico, un altro attaccasse le forze avversarie sui fianchi. In entrambi i casi, il fine ultimo era spezzarne la coesione e ridurne la capacità combattiva. Sappiamo inoltre chi i Sipahi anatolici preferivano il combattimento a distanza, in virtù della loro proverbiale abilità con l’arco composito, mentre i corrispettivi balcanici erano soliti eccellere nell’uso del giavellotto. Anche il resto dell’equipaggiamento presentava alcune differenze. Negli anatolici prevedeva uno scudo rotondo, una spada turca (Kilij) e un’armatura leggera in pelle o feltro. I balcanici avevano uno scudo pressoché identico, ma prediligevano una lancia da urto, una spada lunga a doppio filo e un’armatura pesante (cotta di maglia). A completare la dotazione – in questo caso per entrambi – alcuni tipi di mazza (bozdogan o sesper) e di ascia (teber e sagir). Nel complesso quindi le forze di cavalleria erano l’elemento più dinamico dell’esercito ottomano, un classico esempio di tecnica di combattimento che si fondava su una perfetta sintesi dell’arte equestre.

La rivalità con i Giannizzeri.

il ciambellano del Sultano Murad IV con Giannizzeri di scorta.

Tra i Sipahi, in special modo tra i Kapikulu, e il corpo dei Giannizzeri esisteva un’accesa rivalità che nel corso del tempo assunse toni molto accesi. Da una parte i reparti di cavalleria di origine turca ch si erano conquistati il diritto di appartenere a quell’élite in virtù dei meriti raggiunti sul campo di battaglia, dall’altra schiavi-soldati arruolati a forza tra le popolazioni cristiane sottomesse che, se avessero potuto scegliere, avrebbero molto probabilmente rifiutato un simile destino. Ma c’era anche una questione d’onore a peggiorare questo difficile rapporto. I Giannizzeri infatti si dimostrarono sempre un corpo, per quanto abile in battaglia, decisamente irrequieto e poco propenso alla fedeltà. Un adagio, ancora oggi diffuso tra la popolazione turca, recita “la cavalleria non si ammutina”, a voler prendere distanza dalle continue e sanguinose ribellioni messe in atto dai Giannizzeri nel corso dei secoli. Eppure a partire dalla metà del XVI secolo, con l’avvento dell’artiglieria, l’importanza dei Giannizzeri (anche per la loro abilità come artiglieri) finirò con il crescere esponenzialmente, a danno proprio dei reparti a cavallo. I Sipahi infatti, per quanto siano rimasti una disciplinata ed efficiente aristocrazia militare, si videro pian piano estromessi dalle tattiche di battaglia. si ripresero una sorte di triste rivincita quando nel 1826, dopo un’ennesima rivolta contro il sultano Murad IV da parte dei Giannizzeri, furono incaricati a reprimere la sommossa nel sangue. Una brutale repressione che fu seguita dalla messa al bando di quei temuti reparti di fanteria. Il destino dei Sipahi tuttavi non fu migliore. Due anni dopo, infatti, durante il regno di Mahmud II, si videro revocati tutti i loro privilegi e furono congedati a causa di una riforma militare finalizzata alla creazione di un esercito più moderno ed efficiente.

L’esercito Sipahi.

La storia dei Sipahi non si può spiegare fino in fondo senza tenere conto dell’innata predisposizione turca all’arte equestre. Un’abilità ben testimoniata fin dall’XI secolo dai Gazi, cavalieri di origine turca operanti al tempo dei Bellicati (emirati turco-musulmani formatisi fin dal tempo delle prime migrazioni in Anatolia). Un periodo turbolento di regni in conflitto tra loro su cui si sarebbe imposto, alla fine del XIII secolo, Osman (1299-1326), il fondatore dell’Impero ottomano. Saranno proprio questi reparti di cavalleria a comporre i nuclei dei primi reparti di Sipahi a seguito della storica riforma militare di Murad I sul finire del XIV secolo.

Kilij, l’arma simbolo.

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Kilij Ottomano. Forma corta tarda del kilij (pala)

Tra l’equipaggiamento dei Sipahi, senza comunque dimenticare l’immancabile arco composito, figurava la Kilij, una scimitarra che si era imposta come dotazione base di ogni cavalieri fin dall’XI secolo, quando le prime tribù turche irruppero sull’Altopiano iranico e in Anatolia orientale. Si trattava di un’arma con lama ricurva monofilo e controtaglio, realizzata in un acciaio con altissima percentuale di carbonio, che nel corso del tempo prima affiancò e poi rimpiazzò le classiche spade lunghe a doppo filo (più pesanti e meno maneggevoli) diffuse sia tra gli eserciti arabi che tra quelli occidentali. Con la successiva affermazione dell’impero ottomano, in grado di conquistare estesi territori fin nel cuore dell’Europa, la sua fama crebbe a tal punto da essere adottata in molti eserciti dell’Europa orientale (Russia compresa): nel XVI secolo, infatti, fu forgiata la prima spada a lama ricurva, denominata Szabla (era leggermente più lunga, appuntita e meno curva della Kiiji), nell’area appartenente alla Confederazione polacco-lituana. Dopodiché, nei decenni successivi e fino al XIX secolo, questo modello di sciabola in dotazione alla cavalleria polacca fu appannaggio di quasi tutti gli omologhi corpi occidentali.

 

A guardia del sultano. Nello schema di battaglia, se i Timariot rappresentavano l’elemento di punta del sistema offensivo, la posizione più arretrata, alle spalle della fanteria, era appannaggio dei Kapikulu Sipahi, la cavalleria della Guardia, un corpo d’élite deputata alla protezione del Sultano (sia in tempo di guerra che di pace) o del Gran Visir in sua vece, composto da uomini di provata fedeltà ed eccellenti doti militari. Sappiamo che nell’organigramma erano suddivisi in sei Divisioni: una Sipahi, una Silahtar, due Ulufeci (destra e sinistra) e due Garip (destra e sinistra). Tra queste emergevano i Silahtar, veri e propri maestri d’armi, scelti tra i migliori guerrieri di tutto l’impero senza alcuna limitazione di classe o grado. Se in genere era più facile che venissero promossi a un simile rango componenti dei reparti timariot o delle altri divisioni kapikulu, non era raro che vi riuscissero anche uomini di fanteria. Ma a patto che sopravvivessero a missioni in cui era altissima la probabilità di trovare la morte, dopo essersi offerti volontari, per tale ragioni erano chiamati serdengeeti (coloro che offrono la propria testa). Non stupisce pertanto che alcuni Giannizzeri, attirati dalla prospettiva di lauti guadagni e dal desiderio di fama e gloria, tentassero una simile impresa, riuscendoci.

Il comando di questa divisione era affidato a un Silahtar Agha, una figura dotata di enorme potere, essendo uno dei più stretti collaboratori del Sultano (a lui spettava anche il delicato atto vestizione del Signore prima di uno scontro) e il tramite con la seconda figura più importante dell’impero, il Gran Visir. Altrettanto prestigiosa era però la Divisione Sipahi, in virtù del fatto che tra le sue file militavano i figli dell’èlite ottomana: in cambio della loro fedeltà, ricevevano importanti feudi nelle vicinanze della capitale (un onore riservato anche ai Silahtar) con cospicue entrate. Le altre quattro divisioni non erano, per così dire, altrettanto fortunate perché ricevevano ‘solamente’ un salrio fisso, per quanto superiore alla media di tutti gli altri reparti regolari. Dal punto di vista tipologico la dotazione di Silahtar, Sipahi e Ulufeci era molto simile a quelle delle unità di prima linea arruolate nei Balcani (armatura, cotta di maglia, scuto rotondo, spada, arco, lancia, mazza e ascia), se non fosse per il fatto che venivano usati i migliori materiali disponibili, i migliori artigiani e sontuose decorazioni e incisioni. Le Divisioni Garip, al contrario, erano armate in maniera più leggera per garantire maggiore mobilità. Di norma l’impiego di queste forze era limitato a compiti di retroguardia o di riserva tattica, ma in casi di pericolo o andamento incerto dello scontro, potevano essere schierati sui fianchi a supporto delle prime linee. In tempo di pace invece, erano deputati a compiti di scorta al Sultano durante le parate o le manifestazioni pubbliche.

 

Le battaglie memorabili.

 

Battaglia di Pelekanos.

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L'impero bizantino nel 1328.

Tra il 10 e l’11 giugno del 1329, presso Pelekanos, in Bitinia (regione nord.occidentale dell’Asia Minore), un esercito bizantino, guidato dall’imperatore Andronico III forte di 4mila uomini, si scontrò con forze ottomane nettamente superiori di numero, mettendo in luce una certa combattività. Verso sera infatti le forze cristiane sembrarono prevalere, ma con perdite così alte da rendere impossibile proseguire lo scontro. Venne deciso pertanto di interrompere i combattimenti e disimpegnarsi. La successiva ritirata si trasformò però in uno stillicidio per gli attacchi portati dagli arcieri a cavallo turchi nel corso di continue imboscate. Ogni tentativo di contrattacco fu impossibile per mobilità della cavalleria nemica. Lo stesso imperatore bizantino fu gravemente ferito.

Battaglia della Piana dei Merli.

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Battaglia della Piana dei Merli, di Adam Stefanović, olio su tela, 1870.

Il 15 giugno del 1389 un esercito della Lega Balcanica, guidato dal principe serbo Lazar Hrebeljanovic, forte di 25mila uomini, si scontrò con un’armata ottomana con il doppio degli effettivi, al comando di Evrenos Bey, nell’odierna regione del Kosovo. Dopo un inizio nettamente a favore dei cristiani, capaci di mettere in seria difficoltà entrambe le ali turche, l’arrivo di un cospicuo numero di rinforzi, permise al comandante ottomano di contrastare efficacemente gli assalti nemici e mutare il corso dello scontro. Sebbene la battaglia sia finita in sostanziale pareggio, al termine della giornata gran parte delle forze a disposizione della Lega Balcanica fu costretta a ritirarsi: evento che determinerà la caduta della regione in mani turche.

Battaglia di Nicopolis.

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La battaglia di Nicopol

Il 25 settembre del 1396 un’armata ottomana forte di 70mila uomini, al comando di Evrenos Bey, supportata da un nutrito contingente alleato serbo si scontrò con un poderoso esercito cristiano (quasi 130mila uomini), costituito da diversi contingenti franco-ungheresi, presso Nicolopis, nel nord dell’odierna Bulgaria. Fu una spedizione voluta espressamente da Papa Bonifacio IX. Eppure, nonostante la sproporzione delle forze in campo, l’esisto fu disastroso: dopo uno scontro durissimo e sanguinoso, che all’inizio vide gli ottomani in difficoltà, le forze cristiane subirono una clamorosa disfatta con quasi 25mila morti.

Battaglia di Mohacs.

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Battaglia di Mohacs 1526Bertalan Székely.

Il 9 agosto del 1526, a sud di Budapest, andò in scena una delle più importanti battaglie del tempo, il cui esito determinò il passaggio dell’Ungheria meridionale sotto il controllo turco. Un avvenimento che fu alla base dei ripetuti tentativi ottomani di conquistare Vienna (il primo addirittura solo tre anni dopo). Quel giorno, l’esercito ungherese di re Luigi II d’Ungheria e Boemia, valutabile in circa 25-28 uomini e 53 cannoni attaccò le avanguardie di un’armata ottomana composta da circa 50mila uomini e 160 cannoni. Sebbene in un primo tempo le avanguardie turche siano state costrette a ritirarsi, l’arrivo del grosso dell’esercito cambiò completamente il corso del conflitto: la destra ungherese fu la prima a cedere, poi toccò al resto dello schieramento.  

 

 

Apoego ed eclisse. L’epoca d’oro della cavalleria Sipahi può essere fissata a grandi linee della metà del XIV alla fine del XVI secolo. Non c’è campagna militare, guerra o battaglia che non li abbia visti nel ruolo di protagonisti. Se non mancarono le sconfitte è però i grandi exploit militari ottomani siano stati possibili grazie soprattutto alla loro proverbiale potenza d’urto. Diedero quindi un contributo determinante alla nascita di un impero vastissimo, che uno dei racconti medioevali turchi più famosi, il Sogno di Osman, immaginava come un grande albero le cui radici si propagavano su tre continenti e i rami oscuravano il cielo, facendo ombra a quattro catene montuose (Caucaso, Tauro, Atlante e Carpazi), dopodiché una serie di fattori incominciò a ridimensionare il ruolo in maniera significati. Da una parte il rivoluzionario impatto delle artiglierie, che nel ‘500 provocarono drastici cambiamenti nelle tattiche militari, dall’altra il sempre maggiore ruolo delegato dai Sultani ai Giannizzeri (sia come reparti di fanteria come artiglieri). Un dato su tutti ci permettere di comprendere questo drammatico passaggio di consegne: se nel XVI secolo il numero di Sipahi e Cebeli raggiungeva l’incredibile cifra di 100mila unità, nel XVII si era ridotto a meno di 30mila. Un cambiamento epocale non imputabile però solo a cause belliche. La verità è che con il tempo il sistema feudale dei timar era collassato fino a diventare superato, perché non c’erano più le condizioni che ne avevano favorito la creazione. Senza nuove conquiste (l’impero aveva ormai raggiunto la sua massima espansione) mancavano nuove terre da assegnare, e le continue cirsi economiche avevano provocato un impoverimento di questa classe rendendo quasi impossibile l’acquisto dei costosi equipaggiamenti necessari ad armarsi. Ma, più di ogni altra cosa, era tramontato quell’entusiasmo che aveva reso motivo d’orgoglio combattere tra le file della cavalleria dei Sultani. A causa di una corruzione sempre più dilagante, i proprietari terrieri erano riusciti a ottenere l’esenzione dalle prestazioni militari in cambio di tangenti, finendo con il rendere il possesso della terra un fenomeno ereditario. Le nuove generazioni persero rapidamente ogni interesse per la guerra. Dal canto suo il governo della Sublime Porta fece sempre più fatica a esigere quanto gli spettava di diritto, fino a rendere questa tendenza un fenomeno inarrestabile. A quel punto, in pratica, l’intero sistema d’arruolamento timar finì per collassare nell’arco di pochi decenni. Ecco perché i 2mila Sipahi ancora presenti al tempo di Solimano III (1789-1807) altro non erano che i cupi fantasmi di una tradizione ormai del tutto tramontata.

 

Articolo di Enrico Cattapani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e immagini da wikipedia.


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