I Sipahi la forza
d’urto dei sultani.
Per quasi tre secoli i reparti di
cavalleria Sipahi furono i veri artefici delle fortune militari della sublime
porta. Ottimamente armati, ben addestrati e animati da un forte spirito di
corpo, seppero conquistarsi il rispetto di tutto l’Impero ottomano, tanto da
indurre i sultani a scegliere i migliori di loro come guardie del corpo.
Se
a partire dalla metà del XIV secolo l’espansione ottomana divenne un fenomeno
pressoché inarrestabile, capace di terrorizzare l’Europa cristiana, buona parte
del merito è dovuto a un’organizzazione militare capace di operare un’efficace
sintesi tra reparti di fanteria, il cui nerbo era costituito dai temuti
Giannizzeri, ed efficienti truppe a cavallo: i Sipahi, un corpo di cavalleria
pesante che costituirà l’ossatura di quelle armate capaci di giungere alle
porte di Vienna. Temuti e rispettati dal nemico, sapranno ritagliarsi un posto
speciale anche nell’immaginario dei loro connazionali in virtù di una
determinazione sul campo di battaglia senza pari. Perché una cosa è certa, i
turchi, dall’alto dello loro secolare tradizione nomadica, non misero mai in mostra
una particolare predisposizione al combattimento di fanteria. Lo dimostra
proprio la nascita di un reparto come i Giannizzeri, formato da schiavi
arruolati tra le popolazioni cristiane sottomesse, al tempo del secondo
sultano, Orhan I (1326-1362), rimasto esterrefatto dall’inaffidabilità delle
truppe reclute tra le file delle tribù. Ma nel caso dei reparti a cavallo il
discorso cambiava completamente: se essere arruolato nelle file di un reparto
appiedato era vissuto in genere alla stregua di una terribile punizione,
combattere tra i Sipahi era il massimo riconoscimento a cui si potesse
aspirare. C’erano due strade per coronare un simile sogno: diventare un Timarli
Sipahi, un cavaliere feudale di nomina reale, o essere scelto come guardia del
corpo del Sultano (Kapikulu Sipahi). Un onore, in quest’ultimo caso, riservato
a uomini che avevano dimostrato doti militari davvero fuori dal comune.
Armatura di Timariot risalente al 1480-1500
Una riforma epocale. L’istituzione dei
Timarli Sipahi, o più semplicemente Timariot, è legata a una riforma militare
di enorme impatto voluta dal sultano Murad I sul finire del XIV secolo che
prevedeva la cessione di feudi (timar), di estensione variabile (bisogna
ricordare che tutti i territori erano una proprietà esclusiva del sovrano), a
uomini d’armi che si erano particolarmente distinti sul campo di battaglia. In
breve tempo si formò una sorta di nobiltà terriera, che di primo acchito
sembrerebbe ricalcare lo status dei cavalieri medioevali dell’Europa cristiana.
Con un’importante differenza però: l’assegnazione non era ereditaria o cedibile
a terzi. Il che significa che alla morte del proprietario la terra ritornava
allo Stato. in sostanza, la possibilità di amministrare il feudo e riscuotere
le tasse era solo un diritto temporaneo. Ciò impedì, almeno inizialmente, che
si formasse una casta nobiliare in grado di minare la struttura centralizzata
del potere. Un Sipahi inoltre rea tenuto a una serie di obblighi inderogabili:
garantire la protezione dei suoi sudditi, la popolazione di contadini che
viveva all’interno del timar, ma soprattutto rispondere alla chiamata alle armi
in periodo di guerra. In tal caso, non solo doveva provvedere a equipaggiarsi a
spese proprie, ma era tenuto a fornire un certo numero di ausiliari (Cebeli) a
seconda dell’estensione del feudo. Sappiamo delle fonti che ne esistevano di
tre tipologie: il timar (unità di base) con una rendita annuale intorno ai
20mila akçe (il nome di una moneta d’argento); il ziamet, più esteso e con un
reddito di almeno 100mila akçe, a cui avevano diritto solo gli ufficiali; e
infine l’has con entrate superiori ai 100mila akçe, appannaggio degli ufficiali
più alti in grado. In base a questi valori, le rispettive classi di
appartenenza erano tenute a fornire: fino a cinque armati nel primo caso, più
di venti nell’ultimo. Una spesa notevole se si considera che anche
l’equipaggiamento di questi soldati era identico a quello di un cavaliere
Sipahi. Va fatto notare inoltre che la riforma voluta da Murad riguardò solo la
popolazione d’origine turca in Anatolia e delle regioni balcaniche di recente
conquista; nelle altre provincie come il Nord Africa o la Penisola Arabica, non
si riscontra infatti nulla di simile. Questa pratica quindi, a partire dal XIV
secolo, consentì di arruolare eserciti con un gran numero di effettivi,
nettamente superiori a quelli messi in campo dalle nazioni cristiane.
Miniatura raffigurante un timariota anatolico, risalente a prima del 1657
Reparti di prima linea. In caso di guerra le
forze reclutate in ogni timar erano tenute a presentarsi al cospetto di un
Alaybey, comandanti di reggimento, che a loro volta erano sottoposti alla
giurisdizione di un Sanjakbey con potere provinciale. Il comando di tutte le
unità di cavalleria passava infine a ufficiali superiori denominati Beylerbey.
Un esercito ottomano classico era solito schierare i contingenti di cavalleria
sui fianchi, adottando il famoso schema a mezzaluna (con le forze montate poste
sulle estremità avanzate), mentre la fanteria di Giannizzeri, con i rispettivi
reparti di artiglieria, occupava il centro. Era prassi che in caso di battaglia
nei territori anatolici fossero i Sipahi arruolati in loco a occupare, come
titolo onorifico, il fianco destro, mentre sul lato opposto prendevano
posizione i parigrado balcanici (Rumeli Sipahi). Situazione che si invertiva totalmente
se le operazioni si svolgevano sul suolo europeo. Secondo la documentazione in
nostro possesso, durante la battaglia, mentre il centro manteneva una posizione
piuttosto statica, era la cavalleria a prendere l’iniziativa, mettendo in atto
manovre finalizzate a scompaginare le forze avversarie. Ciò poteva significare
semplici scaramucce che davano inizio al combattimento oppure operazioni più
articolate: molto diffusa era la tattica di lanciare attacchi localizzati
contro singole unità nemiche per poi mettere in atto precipitose ritirare, al
fine di costringerle a contrattaccare. In tal caso – ma non sempre ci cascavano
– sarebbero state attirate in imboscate con l’ausilio di forze tenute
opportunamente nascoste. Poteva anche accadere che, quando un reggimento si
ritirava, incalzato dal nemico, un altro attaccasse le forze avversarie sui
fianchi. In entrambi i casi, il fine ultimo era spezzarne la coesione e ridurne
la capacità combattiva. Sappiamo inoltre chi i Sipahi anatolici preferivano il
combattimento a distanza, in virtù della loro proverbiale abilità con l’arco
composito, mentre i corrispettivi balcanici erano soliti eccellere nell’uso del
giavellotto. Anche il resto dell’equipaggiamento presentava alcune differenze.
Negli anatolici prevedeva uno scudo rotondo, una spada turca (Kilij) e
un’armatura leggera in pelle o feltro. I balcanici avevano uno scudo pressoché
identico, ma prediligevano una lancia da urto, una spada lunga a doppio filo e
un’armatura pesante (cotta di maglia). A completare la dotazione – in questo
caso per entrambi – alcuni tipi di mazza (bozdogan o sesper) e di ascia (teber
e sagir). Nel complesso quindi le forze di cavalleria erano l’elemento più
dinamico dell’esercito ottomano, un classico esempio di tecnica di combattimento
che si fondava su una perfetta sintesi dell’arte equestre.
La rivalità con i Giannizzeri. il ciambellano del Sultano Murad IV con Giannizzeri di scorta. Tra i Sipahi, in special modo tra
i Kapikulu, e il corpo dei Giannizzeri esisteva un’accesa rivalità che nel
corso del tempo assunse toni molto accesi. Da una parte i reparti di
cavalleria di origine turca ch si erano conquistati il diritto di appartenere
a quell’élite in virtù dei meriti raggiunti sul campo di battaglia,
dall’altra schiavi-soldati arruolati a forza tra le popolazioni cristiane
sottomesse che, se avessero potuto scegliere, avrebbero molto probabilmente
rifiutato un simile destino. Ma c’era anche una questione d’onore a
peggiorare questo difficile rapporto. I Giannizzeri infatti si dimostrarono
sempre un corpo, per quanto abile in battaglia, decisamente irrequieto e poco
propenso alla fedeltà. Un adagio, ancora oggi diffuso tra la popolazione
turca, recita “la cavalleria non si ammutina”, a voler prendere distanza
dalle continue e sanguinose ribellioni messe in atto dai Giannizzeri nel
corso dei secoli. Eppure a partire dalla metà del XVI secolo, con l’avvento
dell’artiglieria, l’importanza dei Giannizzeri (anche per la loro abilità
come artiglieri) finirò con il crescere esponenzialmente, a danno proprio dei
reparti a cavallo. I Sipahi infatti, per quanto siano rimasti una
disciplinata ed efficiente aristocrazia militare, si videro pian piano
estromessi dalle tattiche di battaglia. si ripresero una sorte di triste
rivincita quando nel 1826, dopo un’ennesima rivolta contro il sultano Murad
IV da parte dei Giannizzeri, furono incaricati a reprimere la sommossa nel
sangue. Una brutale repressione che fu seguita dalla messa al bando di quei
temuti reparti di fanteria. Il destino dei Sipahi tuttavi non fu migliore.
Due anni dopo, infatti, durante il regno di Mahmud II, si videro revocati
tutti i loro privilegi e furono congedati a causa di una riforma militare
finalizzata alla creazione di un esercito più moderno ed efficiente. |
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L’esercito Sipahi. La storia dei Sipahi non si può
spiegare fino in fondo senza tenere conto dell’innata predisposizione turca
all’arte equestre. Un’abilità ben testimoniata fin dall’XI secolo dai Gazi,
cavalieri di origine turca operanti al tempo dei Bellicati (emirati
turco-musulmani formatisi fin dal tempo delle prime migrazioni in Anatolia).
Un periodo turbolento di regni in conflitto tra loro su cui si sarebbe
imposto, alla fine del XIII secolo, Osman (1299-1326), il fondatore
dell’Impero ottomano. Saranno proprio questi reparti di cavalleria a comporre
i nuclei dei primi reparti di Sipahi a seguito della storica riforma militare
di Murad I sul finire del XIV secolo. |
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Kilij, l’arma simbolo.
Tra l’equipaggiamento dei Sipahi,
senza comunque dimenticare l’immancabile arco composito, figurava la Kilij,
una scimitarra che si era imposta come dotazione base di ogni cavalieri fin
dall’XI secolo, quando le prime tribù turche irruppero sull’Altopiano iranico
e in Anatolia orientale. Si trattava di un’arma con lama ricurva monofilo e
controtaglio, realizzata in un acciaio con altissima percentuale di carbonio,
che nel corso del tempo prima affiancò e poi rimpiazzò le classiche spade
lunghe a doppo filo (più pesanti e meno maneggevoli) diffuse sia tra gli
eserciti arabi che tra quelli occidentali. Con la successiva affermazione
dell’impero ottomano, in grado di conquistare estesi territori fin nel cuore
dell’Europa, la sua fama crebbe a tal punto da essere adottata in molti
eserciti dell’Europa orientale (Russia compresa): nel XVI secolo, infatti, fu
forgiata la prima spada a lama ricurva, denominata Szabla (era leggermente
più lunga, appuntita e meno curva della Kiiji), nell’area appartenente alla
Confederazione polacco-lituana. Dopodiché, nei decenni successivi e fino al
XIX secolo, questo modello di sciabola in dotazione alla cavalleria polacca
fu appannaggio di quasi tutti gli omologhi corpi occidentali. |
A guardia del sultano. Nello schema di
battaglia, se i Timariot rappresentavano l’elemento di punta del sistema
offensivo, la posizione più arretrata, alle spalle della fanteria, era
appannaggio dei Kapikulu Sipahi, la cavalleria della Guardia, un corpo d’élite
deputata alla protezione del Sultano (sia in tempo di guerra che di pace) o del
Gran Visir in sua vece, composto da uomini di provata fedeltà ed eccellenti
doti militari. Sappiamo che nell’organigramma erano suddivisi in sei Divisioni:
una Sipahi, una Silahtar, due Ulufeci (destra e sinistra) e due Garip (destra e
sinistra). Tra queste emergevano i Silahtar, veri e propri maestri d’armi,
scelti tra i migliori guerrieri di tutto l’impero senza alcuna limitazione di
classe o grado. Se in genere era più facile che venissero promossi a un simile
rango componenti dei reparti timariot o delle altri divisioni kapikulu, non era
raro che vi riuscissero anche uomini di fanteria. Ma a patto che
sopravvivessero a missioni in cui era altissima la probabilità di trovare la
morte, dopo essersi offerti volontari, per tale ragioni erano chiamati
serdengeeti (coloro che offrono la propria testa). Non stupisce pertanto che
alcuni Giannizzeri, attirati dalla prospettiva di lauti guadagni e dal
desiderio di fama e gloria, tentassero una simile impresa, riuscendoci.
Il comando di questa
divisione era affidato a un Silahtar Agha, una figura dotata di enorme potere,
essendo uno dei più stretti collaboratori del Sultano (a lui spettava anche il
delicato atto vestizione del Signore prima di uno scontro) e il tramite con la
seconda figura più importante dell’impero, il Gran Visir. Altrettanto
prestigiosa era però la Divisione Sipahi, in virtù del fatto che tra le sue
file militavano i figli dell’èlite ottomana: in cambio della loro fedeltà,
ricevevano importanti feudi nelle vicinanze della capitale (un onore riservato
anche ai Silahtar) con cospicue entrate. Le altre quattro divisioni non erano,
per così dire, altrettanto fortunate perché ricevevano ‘solamente’ un salrio
fisso, per quanto superiore alla media di tutti gli altri reparti regolari. Dal
punto di vista tipologico la dotazione di Silahtar, Sipahi e Ulufeci era molto
simile a quelle delle unità di prima linea arruolate nei Balcani (armatura,
cotta di maglia, scuto rotondo, spada, arco, lancia, mazza e ascia), se non
fosse per il fatto che venivano usati i migliori materiali disponibili, i
migliori artigiani e sontuose decorazioni e incisioni. Le Divisioni Garip, al
contrario, erano armate in maniera più leggera per garantire maggiore mobilità.
Di norma l’impiego di queste forze era limitato a compiti di retroguardia o di
riserva tattica, ma in casi di pericolo o andamento incerto dello scontro,
potevano essere schierati sui fianchi a supporto delle prime linee. In tempo di
pace invece, erano deputati a compiti di scorta al Sultano durante le parate o
le manifestazioni pubbliche.
Le
battaglie memorabili. |
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Battaglia
di Pelekanos. L'impero bizantino nel 1328. Tra
il 10 e l’11 giugno del 1329, presso Pelekanos, in Bitinia (regione
nord.occidentale dell’Asia Minore), un esercito bizantino, guidato
dall’imperatore Andronico III forte di 4mila uomini, si scontrò con forze
ottomane nettamente superiori di numero, mettendo in luce una certa
combattività. Verso sera infatti le forze cristiane sembrarono prevalere, ma
con perdite così alte da rendere impossibile proseguire lo scontro. Venne
deciso pertanto di interrompere i combattimenti e disimpegnarsi. La
successiva ritirata si trasformò però in uno stillicidio per gli attacchi
portati dagli arcieri a cavallo turchi nel corso di continue imboscate. Ogni
tentativo di contrattacco fu impossibile per mobilità della cavalleria
nemica. Lo stesso imperatore bizantino fu gravemente ferito. |
Battaglia
della Piana dei Merli. Battaglia della Piana dei Merli, di Adam Stefanović, olio su tela, 1870. Il
15 giugno del 1389 un esercito della Lega Balcanica, guidato dal principe
serbo Lazar Hrebeljanovic, forte di 25mila uomini, si scontrò con un’armata
ottomana con il doppio degli effettivi, al comando di Evrenos Bey, nell’odierna
regione del Kosovo. Dopo un inizio nettamente a favore dei cristiani, capaci
di mettere in seria difficoltà entrambe le ali turche, l’arrivo di un
cospicuo numero di rinforzi, permise al comandante ottomano di contrastare
efficacemente gli assalti nemici e mutare il corso dello scontro. Sebbene la
battaglia sia finita in sostanziale pareggio, al termine della giornata gran
parte delle forze a disposizione della Lega Balcanica fu costretta a
ritirarsi: evento che determinerà la caduta della regione in mani turche. |
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Battaglia
di Nicopolis. La battaglia di Nicopol Il
25 settembre del 1396 un’armata ottomana forte di 70mila uomini, al comando
di Evrenos Bey, supportata da un nutrito contingente alleato serbo si scontrò
con un poderoso esercito cristiano (quasi 130mila uomini), costituito da
diversi contingenti franco-ungheresi, presso Nicolopis, nel nord dell’odierna
Bulgaria. Fu una spedizione voluta espressamente da Papa Bonifacio IX. Eppure,
nonostante la sproporzione delle forze in campo, l’esisto fu disastroso: dopo
uno scontro durissimo e sanguinoso, che all’inizio vide gli ottomani in
difficoltà, le forze cristiane subirono una clamorosa disfatta con quasi
25mila morti. |
Battaglia
di Mohacs. Battaglia di Mohacs 1526, Bertalan Székely. Il
9 agosto del 1526, a sud di Budapest, andò in scena una delle più importanti
battaglie del tempo, il cui esito determinò il passaggio dell’Ungheria
meridionale sotto il controllo turco. Un avvenimento che fu alla base dei
ripetuti tentativi ottomani di conquistare Vienna (il primo addirittura solo
tre anni dopo). Quel giorno, l’esercito ungherese di re Luigi II d’Ungheria e
Boemia, valutabile in circa 25-28 uomini e 53 cannoni attaccò le avanguardie
di un’armata ottomana composta da circa 50mila uomini e 160 cannoni. Sebbene in
un primo tempo le avanguardie turche siano state costrette a ritirarsi, l’arrivo
del grosso dell’esercito cambiò completamente il corso del conflitto: la
destra ungherese fu la prima a cedere, poi toccò al resto dello schieramento.
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Apoego ed eclisse. L’epoca d’oro della
cavalleria Sipahi può essere fissata a grandi linee della metà del XIV alla
fine del XVI secolo. Non c’è campagna militare, guerra o battaglia che non li
abbia visti nel ruolo di protagonisti. Se non mancarono le sconfitte è però i
grandi exploit militari ottomani siano stati possibili grazie soprattutto alla
loro proverbiale potenza d’urto. Diedero quindi un contributo determinante alla
nascita di un impero vastissimo, che uno dei racconti medioevali turchi più
famosi, il Sogno di Osman, immaginava come un grande albero le cui radici si
propagavano su tre continenti e i rami oscuravano il cielo, facendo ombra a
quattro catene montuose (Caucaso, Tauro, Atlante e Carpazi), dopodiché una
serie di fattori incominciò a ridimensionare il ruolo in maniera significati. Da
una parte il rivoluzionario impatto delle artiglierie, che nel ‘500 provocarono
drastici cambiamenti nelle tattiche militari, dall’altra il sempre maggiore
ruolo delegato dai Sultani ai Giannizzeri (sia come reparti di fanteria come
artiglieri). Un dato su tutti ci permettere di comprendere questo drammatico
passaggio di consegne: se nel XVI secolo il numero di Sipahi e Cebeli
raggiungeva l’incredibile cifra di 100mila unità, nel XVII si era ridotto a
meno di 30mila. Un cambiamento epocale non imputabile però solo a cause
belliche. La verità è che con il tempo il sistema feudale dei timar era
collassato fino a diventare superato, perché non c’erano più le condizioni che
ne avevano favorito la creazione. Senza nuove conquiste (l’impero aveva ormai
raggiunto la sua massima espansione) mancavano nuove terre da assegnare, e le
continue cirsi economiche avevano provocato un impoverimento di questa classe
rendendo quasi impossibile l’acquisto dei costosi equipaggiamenti necessari ad
armarsi. Ma, più di ogni altra cosa, era tramontato quell’entusiasmo che aveva
reso motivo d’orgoglio combattere tra le file della cavalleria dei Sultani. A causa
di una corruzione sempre più dilagante, i proprietari terrieri erano riusciti a
ottenere l’esenzione dalle prestazioni militari in cambio di tangenti, finendo
con il rendere il possesso della terra un fenomeno ereditario. Le nuove
generazioni persero rapidamente ogni interesse per la guerra. Dal canto suo il
governo della Sublime Porta fece sempre più fatica a esigere quanto gli
spettava di diritto, fino a rendere questa tendenza un fenomeno inarrestabile. A
quel punto, in pratica, l’intero sistema d’arruolamento timar finì per
collassare nell’arco di pochi decenni. Ecco perché i 2mila Sipahi ancora
presenti al tempo di Solimano III (1789-1807) altro non erano che i cupi
fantasmi di una tradizione ormai del tutto tramontata.
Articolo di Enrico
Cattapani pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e
immagini da wikipedia.
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