Sebastiano I, la
leggenda del re vendicatore.
Con la morte de re
Sebastiano I, inizia il declino dell’impero di un piccolo-grande paese e nasce
la profezia del ritorno di un sovrano, simbolo dell’orgoglio del suo popolo. Un
regno breve, un giovane bizzarro, una sola battaglia, disastrosamente perduta.
Sebastiano I ritratto di Alonso Sánchez Coello, 1575, Kunsthistorisches Museum di Vienna
Il
4 agosto 1578 è il giorno del più grave lutto della Storia portoghese. In
quella data scompariva il re 24enne Don Sebastiano I, insieme al fiore della
nobiltà e dell’esercito lusitano, tutti periti nella disastrosa battaglia di
Alcazarquivir, in Marocco, contro il formidabile esercito islamico del sultano
Abd al-Malik. Una battaglia motivata solo dal fervore religioso del giovane
sovrano e della sua errata valutazione delle forze nemiche.
Eppure, quel giovane
re, tanto singolare di carattere, era destinato a rimanere nei cuori dei
portoghesi suoi contemporanei e delle generazioni future. Un vero culto da re
leggendario, benché rimasto sul trono solo pochi anni e senza imprese degne di
gloria.
monastero di San Girolamo dove è stato seppellito il presunto corpo di Don Sebastiano
Un re eccentrico e sognatore. Educato con
rigore dai gesuiti e distinto da una fede religiosa intrisa di misticismo,
Sebastiano alternava momenti di castità ad eccessi di stravaganza, come quando
disseppelliva le ossa dei suoi regali antenati per compiere macabre cerimonie
di culto. Le esperienza di vita avevano di certo segnato la psiche dell’Infante
de Portugal, costretto a divenire re a soli tre anni, dopo che il padre, il
principe Giovanni Manuele d’Aviz, era morto 17enne due settimane prima della
sua nascita. La madre, Giovanna d’Asburgo, sorella di Filippo II e figlia
dell’imperatore Carlo V, quattro mesi dopo il parto era stata richiamata dal
padre alla corte di Madrid per assumere la reggenza del Paese e non mise mai
più piede in Portogallo. A completare il quadro di una crescita difficile,
senza l’educazione e l’affetto genitoriale, vi erano anche i problemi fisici
che fin da piccolo Sebastiano dovette affrontare. Infatti, l’accumulo di nozze
tra parenti nel corso delle generazioni, dettati dalla ragion di Stato, aveva
lasciato in eredità all’ultimo discendente della dinastia reale degli Aviz una
salute estremamente ragionevole. Ciò nonostante, Sebastiano, sottoposto al
regime di reggenza fino al raggiungimento dei 14 anni, era un giovane
intelligente e focoso, dall’impeto mistico e cavalleresco, amatissimo dal suo
popolo, che vedeva in lui il fautore glorioso per il Paese come in passato. Durante
le lezioni di latino e grammatica dai gesuiti, il piccolo Sebastiano aveva lo
sguardo assente e distratto di chi già sognava imprese degne della sua stirpe.
Rifuggiva dalle feste e dai protocolli di corte, preferendo trascorre il tempo
leggendo le storie epiche dei cavalieri medievali. Presto si convinse di essere
un predestinato dalla Provvidenza a compiere una missione divina contro in
nemici della fede. Tale ambizione era così totalizzante da farli trascurare le
consuete abitudini dei giovani rampolli di ogni casa regnante, “parendo inimico
quasi alle donne”, come lo descrisse Antonio Tiepolo, ambasciatore veneziano
alla corte di Portogallo. La sua sete di avventure si tradusse nella missione
di cristianizzare l’intera Africa, il continente che, con le rotte dell’oro,
dell’avorio e degli schiavi, destava gli appetiti di mezza Europa. L’impero
portoghese, a partire dall’occupazione di Ceuta e Tangeri in Marocco, aveva già
molti interessi in nord Africa, che Sebastiano intendeva preservare arrestando
l’avanzata della presenza militare ottomana; questo giustifica almeno in parte
la sua improvvida impresa in Marocco.
L’occasione di coronare
le proprie aspirazioni espansionistiche si presentò quando il sultano Muhammad
al-Mutawakkil corse a Lisbona per chiedere aiuto, dopo che il trono del Marocco
era stato usurpato dallo zio Abd al-Malik con l’appoggio delle forze ottomane.
Questo fu il pretesto di Don Sebastiano I per inaugurare la cosiddetta crociata
portoghese, contro il minaccioso Islam, benedetta da Gregorio XIII e da molti
ritenuta un’impresa improbabile. Lo zio, Filippo II di Spagna, chiamato “el Rey
Prudente”, aveva tentato invano di dissuadere il giovane dal suo azzardato
proposito; più l’impresa era ardua e più l’esaltato Sebastiano si sentiva
predestinato a realizzarla: voleva guadagnarsi il titolo di “el Rey cristiano”.
I posteri lo avrebbero venerato come il salvatore dell’Europa dalla minaccia
musulmana.
Battaglia di Alcazarquivir
Possedimenti portoghesi in Marocco (XIV-XVI secolo).
L’impari guerra dei seguaci di due religioni. Non
fu facile organizzare un corpo di spedizione composto solo da truppe lusitane,
infatti l’ambasciatore Tiepolo scriveva: “Quanto l’industria e il valore dei
portoghesi gli diede, tanto gli toglie il piccolo numero delle sue genti”.
Sebastiano, perciò, pur essendo a capo di un impero marittimo ricco e vasto, i
cui commerci si estendevano fino al Giappone, per compensare la scarsezza di
militari portoghesi, fece assoldare volontari e mercenari tedeschi, spagnoli e
italiani. 800 navi di ogni grandezza con a bordo un esercito di 20mila uomini
salparono da Belém alla conquista del principato di Fez. Benché privo di
esperienza e dottrina militari, Sebastiano non dubitava di essere l’uomo del
destino, a cui nulla avrebbe potuto impedire di compiere la missione che gli
era stata data dal Cielo. Approdato nel porto di Arzila, l’esercito cristiano
si unì ai marocchini lealisti seguaci del re spodestato, Muhammad
al-Mutawakkil, a cui Sebastiano, a breve, avrebbe generosamente restituito il
trono. Dopo una lunga ed estenuante marcia nel deserto, i crociati arrivarono
sul luogo della battaglia, Alcazarquivir, tra Tangeri e Fez. Era il 4 agosto,
giorno che le cronache descrivono come il più torrido di una delle estate più
calde del secolo. Ad aspettare i cristiani in armi, già accuratamente
posizionati per lo scontro i 34 cannoni e gli almeno 50mila uomini
dell’esercito islamico di Abd al-Malik. Una forza soverchiante, ben addestrata
e motivata dalla fede in Allah, non meno di quanto le truppe portoghesi lo
fossero dalla fede in Cristo. In poche ore i crociati europei e i loro alleati
infedeli furono annientati dall’esercito islamico e dalla sua formidabile
cavalleria. In quello scontro, tra polvere e clangore d’armi, perirono 8mila
cristiani e altri 10mila furono fatti prigionieri. L’esoso riscatto, richiesto
dagli islamici per salvare i superstiti della nobiltà portoghese catturata,
prosciugò le già esigue casse della nazione che aveva finanziato la crociata. Nell’infausta
giornata morirono sia i due sultani pretendenti al torno, sia Don Sebastiano,
il cui corpo non venne inizialmente ritrovato sul campo di battaglia, dando
origine alla leggende che il re fosse ancora vivo, tra le dune del deserto.
Alcazarquiv fu molto
più che una disgrazia per il popolo lusitano: in quel giorno fatale il
Portogallo, già sull’orlo della bancarotta, perdeva il suo re, la quasi
totalità dei giovani aristocratici e tutto il suo esercito. Inoltre, quella
sconfitta causò una profonda crisi di successione dinastica. L’erede più vicino
a Sebastiano era suo zio, l’anziano cardinale Enrico, che alla fine di agosto
fu mestamente incoronato sovrano del Portogallo. Debole e consumato dalla
tubercolosi, il 67enne, detto ‘O Casto’, per la sua conclamata moralità, chiese
al Papa il permesso di contrarre matrimonio al fine di assicurare la continuità
dinastica. Filippo II di Spagna, che già mirava ad impadronirsi del Portogallo
e unire la penisola iberica, fece valere tutta la sua autorità a Roma per
impedire che il Papa liberasse il re porporato dai suoi voti. Alla morte di
Enrico, nell’estate del 1580, le truppe spagnole invasero il Portogallo,
incontrando una dura, ma vana, resistenza tra le strade di Lisbona.
Iniziava così il
declino della nazione lusitana, che era riuscita a divenire il primo impero
coloniale della Storia, aveva giocato un ruolo importante nell’era delle grandi
esplorazioni e vantava il monopolio commerciale delle Indie Orientali, le
miniere in Brasile e i domini africani. In quell’estate sciagurata per il
destino del Portogallo, il più grande poeta lusitano, Luis de Camoes, scrisse
sul letto di morte: “Tutti vedranno che la mia patria mi fu così cara che fui
contento di morire non solo in essa ma con essa”.
Il
calabrese che sognava di diventare re del Portogallo. Marco
Tullio Catizone, nato a Magisano in provincia di Catanzaro, viveva a Messina
con la moglie e una figlia. Non si conoscono il mestiere e altri elementi
importanti della vita di quest’uomo, ma è certo che nel 1598 si trovava a
Roma, dove inviò due missive, nelle quali si firmava come Don Sebastiano I
con tanto di sigillo reale, dando vita alla grandiosa impostura che segnò il
suo destino. Non era un caso che Catizone facesse la sua comparsa nelle vesti
del redivivo sovrano portoghese proprio alla morte di Filippo II di Spagna. Nobili
e religiosi portoghesi esiliati in Italia avevano finanziato e convinto l’audace
calabrese a improvvisare quella improbabile farsa, cercando in tal modo di
ostacolare l’incoronazione di Filippo III, successore di Filippo II di
Spagna. Nonostante all’avventuriero italiano fosse stato consegnato un libro
sulle recenti cronache del Portogallo, il tentativo di frode era così ingenuo
che il Catizone non riusciva a imitare nemmeno lentamente il re scomparso,
una sola cosa lo avvicinava a Sebastiano: gli spericolati sogni di grandezza.
Ma è a Venezia che il Catizone conquista una certa notorietà, nella mondana
città lagunare erano in molti a dare credito alla falsa identità dell’impostore.
Una nobile veneta gli chiese persino di convolare a nozze, mentre un soldato
italiano, che aveva combattuto al fianco di Don Sebastiano, lo rassicurava
circa una certa somiglianza col defunto re. Dal momento che questa celebrità
del Catizone fomentava nuovi tumulti in Portogallo a favore del presunto Don
Sebastiano, l’impostore venne arrestato, ma poi non si diede corso all’accusa.
Dietro questa decisione si celava lo zampino del re di Francia, Enrico IV,
che, nel clima di lotta contro la Spagna per il predominio sulla penisola
italiana, si era raccomandato al Doge di ritardare il processo per destabilizzare
il governo di Filippo III di Spagna. Fu così che la vicenda del “Sebasiao de
Veneza” o del “Charlatan Calabrés”, come venne anche chiamato, fu al centro
di una lotta diplomatica tra le grandi potenze dell’epoca. Liberato dal carcere
e travestito da frate, Catizone approdò a Firenze e la sosta gli fu fatale:
il Granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici, lo fece arrestare e sottoporre
a tortura, per ingraziarsi la corte di Madrid, suscitando però le ire del re
di Francia, che si era visto sfumare una buona pedina da utilizzare contro i
rivali spagnoli. Il viceré spagnolo del Regno di Napoli reclamò il
prigioniero, il quale gli fu consegnato in catene. La commedia era durata
troppo a lungo per Catizone, che durante le udienze del processo napoletano
ormai si lasciava sfuggire espressioni calabresi. Furono chiamati a
testimoniare addirittura la moglie, la suocera ed un cognato del Catizone,
che, ormai esausto, si gettò ai piedi del viceré, confessando le proprie
colpe. Evitò l’esecuzione perché la Spagna aveva interesse a tenere in vita
il conclamato impostore, allo scopo di smentire per sempre tutte le leggende
di un ritorno di Don Sebastiano a sconvolgere gli equilibri della penisola
iberica. Condannato al remo a vita, agli inizi del 1603, arrivò in Spagna a
bordo di una galea su cui scontava la pena. Forse ubriaco, affermò a gran
voce di essere Don Sebastiano, ridotto in catene. Nuovamente torturato, il 27
settembre 1603, Marco Tullio Catizone, nella cittadina andalusa di Sanlucar,
subì il taglio della mano destra, prima di essere impiccato e fatto a pezzi,
insieme ad alcuni complici e fautori. Ma la morte dell’impostore non
significò la fine della leggenda, divenuta religione. Il sebastianismo,
infatti, fu un movimento mistico e profetico che alimentò le speranze di una
salvezza taumaturgica del Paese, modellando l’anima nazionale fino agli inizi
del 1800, nonostante la restaurazione dell’indipendenza del Portogallo fosse
avvenuta nel 1640. Il mito millenarista era stato suggellato dal famoso
gesuita di Lisbona, Antonio Vieira, che nel suo libro “la historia del futuro”
predisse il ritorno di Don Sebastiano e l’avvento del Quinto Impero (dopo
quello egizio, assiro, persiano e romano), un ritrovato impero portoghese,
cristiano e universale, che avrebbe assicurato mille anni di pace all’intera
umanità. Il sebastianismo ha assunto varie forme nei secoli ed ebbe un’importante
influenza anche in Brasile, dove si consolidò tra i brasiliani poveri come
mito di salvezza e liberazione. Le ribellioni contadine, come quella di
Canudos, nella regione del Nordeste, alla fine del XIX secolo, che causò
25mila morti, erano infervorate dalla leggenda del ritorno di Don Sebastiano,
che con il suo esercito avrebbe spazzato via soprusi e disuguaglianze. Ancora
nel XX secolo, il poeta Fernando Pessoa definiva se stesso come un
nazionalista mistico e un sebastianista razionale, dedicando i versi della
raccolta di componimenti Mensagem (messaggio) alla rinascita del Portogallo
quale fondamento per un futuro impero dello spirito. Il ricordo di un’antica
grandezza pervade la cultura portoghese, intrisa della saudade (nostalgia)
dei giorni felici perduti per sempre. |
Il mito di un re che non
fu grande. Credendo di spegnere le voci di popolo,
secondo cui Sebastiano fosse ancora in vita, Filippo II ordinò una spedizione
in Africa per recuperare il presunto cadavere del re. Un corpo fu trovato
cosicché la solenne cerimonia funebre e la sepoltura dei nobili resti avvennero
nel Monastero dos Jeronimos, a Belém, ma tutto questo non arrestò il dilagare
delle leggende più straordinarie su Don Sebastiano, fomentate in particolar
modo dal clero portoghese. C’era chi sosteneva che il re avesse deciso di
espiare i suoi peccati vagando in penitenza per 7 anni nel deserto, per poi
tornare a liberare il Portogallo dal giogo spagnolo, e chi lo immaginava
pellegrino a Gerusalemme. Altri, invece, sostenevano che fosse prigioniero dei
mori, mentre altri ancora cedettero alla voce che al sovrano fosse
semplicemente piaciuta la vita austera con i berberi tra le montagne: una pausa
di meditazione prima dell’immancabile riscossa.
Mentre
inglesi, olandesi e spagnoli mettevano le mani sulle ricchezze transatlantiche
di Lisbona, il popolo portoghese continuava a credere che il re un giorno
sarebbe tornato a far risorgere la nazione. La smania di rivincita e il bisogno
di liberarsi dall’umiliazione della sconfitta erano così grandi, da far credere
che il giovane re, un giorno, sarebbe uscito dalle mentite spoglie che lo
occultavano e sarebbe tornato alla testa del suo esercito. Del resto, era
facile riconoscere il sovrano in qualcuno che gli assomigliasse e un intero
popolo era ben disposto a credere a qualunque millantatore che affermasse di
essere re redivivo. Fu così che presto apparvero ben quattro sedicenti “Don
Sebastiano”. Nel 1603 si fece strada, con successo, l’ultimo pretesto
Sebastiano redivivo: il suo nome era Marco Tullio Catizone (vedi riquadro
sopra), chiamato dai portoghesi “o calabrès”, per le sue origini, destinato ad
essere protagonista di un vero e proprio affare internazionale. La catastrofe
subita, la frustrazione della gloria e perfino l’identità perduta, creò nell’anima
di un intero popolo il bisogno collettivo di un eroe mitico, identificato nello
sconfitto Don Sebastiano I, o Encoberto (il Nascosto), che sarebbe risorto per
restaurare l’età aurea del Portogallo.
Articolo
di Dario Marino, studioso e ricercatore di Storia e politica pubblicato su BBC
History n. 91 del mese di novembre 2018 – altri testi e immagini da Wikipedia.
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