sabato 9 maggio 2020

Sebastiano I, la leggenda del re vendicatore.

Sebastiano I, la leggenda del re vendicatore.

Con la morte de re Sebastiano I, inizia il declino dell’impero di un piccolo-grande paese e nasce la profezia del ritorno di un sovrano, simbolo dell’orgoglio del suo popolo. Un regno breve, un giovane bizzarro, una sola battaglia, disastrosamente perduta.

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Sebastiano I ritratto di Alonso Sánchez Coello1575Kunsthistorisches Museum di Vienna

 

Il 4 agosto 1578 è il giorno del più grave lutto della Storia portoghese. In quella data scompariva il re 24enne Don Sebastiano I, insieme al fiore della nobiltà e dell’esercito lusitano, tutti periti nella disastrosa battaglia di Alcazarquivir, in Marocco, contro il formidabile esercito islamico del sultano Abd al-Malik. Una battaglia motivata solo dal fervore religioso del giovane sovrano e della sua errata valutazione delle forze nemiche.

Eppure, quel giovane re, tanto singolare di carattere, era destinato a rimanere nei cuori dei portoghesi suoi contemporanei e delle generazioni future. Un vero culto da re leggendario, benché rimasto sul trono solo pochi anni e senza imprese degne di gloria.


monastero di San Girolamo dove è stato seppellito il presunto corpo di Don Sebastiano

 

Un re eccentrico e sognatore. Educato con rigore dai gesuiti e distinto da una fede religiosa intrisa di misticismo, Sebastiano alternava momenti di castità ad eccessi di stravaganza, come quando disseppelliva le ossa dei suoi regali antenati per compiere macabre cerimonie di culto. Le esperienza di vita avevano di certo segnato la psiche dell’Infante de Portugal, costretto a divenire re a soli tre anni, dopo che il padre, il principe Giovanni Manuele d’Aviz, era morto 17enne due settimane prima della sua nascita. La madre, Giovanna d’Asburgo, sorella di Filippo II e figlia dell’imperatore Carlo V, quattro mesi dopo il parto era stata richiamata dal padre alla corte di Madrid per assumere la reggenza del Paese e non mise mai più piede in Portogallo. A completare il quadro di una crescita difficile, senza l’educazione e l’affetto genitoriale, vi erano anche i problemi fisici che fin da piccolo Sebastiano dovette affrontare. Infatti, l’accumulo di nozze tra parenti nel corso delle generazioni, dettati dalla ragion di Stato, aveva lasciato in eredità all’ultimo discendente della dinastia reale degli Aviz una salute estremamente ragionevole. Ciò nonostante, Sebastiano, sottoposto al regime di reggenza fino al raggiungimento dei 14 anni, era un giovane intelligente e focoso, dall’impeto mistico e cavalleresco, amatissimo dal suo popolo, che vedeva in lui il fautore glorioso per il Paese come in passato. Durante le lezioni di latino e grammatica dai gesuiti, il piccolo Sebastiano aveva lo sguardo assente e distratto di chi già sognava imprese degne della sua stirpe. Rifuggiva dalle feste e dai protocolli di corte, preferendo trascorre il tempo leggendo le storie epiche dei cavalieri medievali. Presto si convinse di essere un predestinato dalla Provvidenza a compiere una missione divina contro in nemici della fede. Tale ambizione era così totalizzante da farli trascurare le consuete abitudini dei giovani rampolli di ogni casa regnante, “parendo inimico quasi alle donne”, come lo descrisse Antonio Tiepolo, ambasciatore veneziano alla corte di Portogallo. La sua sete di avventure si tradusse nella missione di cristianizzare l’intera Africa, il continente che, con le rotte dell’oro, dell’avorio e degli schiavi, destava gli appetiti di mezza Europa. L’impero portoghese, a partire dall’occupazione di Ceuta e Tangeri in Marocco, aveva già molti interessi in nord Africa, che Sebastiano intendeva preservare arrestando l’avanzata della presenza militare ottomana; questo giustifica almeno in parte la sua improvvida impresa in Marocco.

L’occasione di coronare le proprie aspirazioni espansionistiche si presentò quando il sultano Muhammad al-Mutawakkil corse a Lisbona per chiedere aiuto, dopo che il trono del Marocco era stato usurpato dallo zio Abd al-Malik con l’appoggio delle forze ottomane. Questo fu il pretesto di Don Sebastiano I per inaugurare la cosiddetta crociata portoghese, contro il minaccioso Islam, benedetta da Gregorio XIII e da molti ritenuta un’impresa improbabile. Lo zio, Filippo II di Spagna, chiamato “el Rey Prudente”, aveva tentato invano di dissuadere il giovane dal suo azzardato proposito; più l’impresa era ardua e più l’esaltato Sebastiano si sentiva predestinato a realizzarla: voleva guadagnarsi il titolo di “el Rey cristiano”. I posteri lo avrebbero venerato come il salvatore dell’Europa dalla minaccia musulmana.


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Battaglia di Alcazarquivir

Possedimenti portoghesi in Marocco (XIV-XVI secolo).

L’impari guerra dei seguaci di due religioni. Non fu facile organizzare un corpo di spedizione composto solo da truppe lusitane, infatti l’ambasciatore Tiepolo scriveva: “Quanto l’industria e il valore dei portoghesi gli diede, tanto gli toglie il piccolo numero delle sue genti”. Sebastiano, perciò, pur essendo a capo di un impero marittimo ricco e vasto, i cui commerci si estendevano fino al Giappone, per compensare la scarsezza di militari portoghesi, fece assoldare volontari e mercenari tedeschi, spagnoli e italiani. 800 navi di ogni grandezza con a bordo un esercito di 20mila uomini salparono da Belém alla conquista del principato di Fez. Benché privo di esperienza e dottrina militari, Sebastiano non dubitava di essere l’uomo del destino, a cui nulla avrebbe potuto impedire di compiere la missione che gli era stata data dal Cielo. Approdato nel porto di Arzila, l’esercito cristiano si unì ai marocchini lealisti seguaci del re spodestato, Muhammad al-Mutawakkil, a cui Sebastiano, a breve, avrebbe generosamente restituito il trono. Dopo una lunga ed estenuante marcia nel deserto, i crociati arrivarono sul luogo della battaglia, Alcazarquivir, tra Tangeri e Fez. Era il 4 agosto, giorno che le cronache descrivono come il più torrido di una delle estate più calde del secolo. Ad aspettare i cristiani in armi, già accuratamente posizionati per lo scontro i 34 cannoni e gli almeno 50mila uomini dell’esercito islamico di Abd al-Malik. Una forza soverchiante, ben addestrata e motivata dalla fede in Allah, non meno di quanto le truppe portoghesi lo fossero dalla fede in Cristo. In poche ore i crociati europei e i loro alleati infedeli furono annientati dall’esercito islamico e dalla sua formidabile cavalleria. In quello scontro, tra polvere e clangore d’armi, perirono 8mila cristiani e altri 10mila furono fatti prigionieri. L’esoso riscatto, richiesto dagli islamici per salvare i superstiti della nobiltà portoghese catturata, prosciugò le già esigue casse della nazione che aveva finanziato la crociata. Nell’infausta giornata morirono sia i due sultani pretendenti al torno, sia Don Sebastiano, il cui corpo non venne inizialmente ritrovato sul campo di battaglia, dando origine alla leggende che il re fosse ancora vivo, tra le dune del deserto.

Alcazarquiv fu molto più che una disgrazia per il popolo lusitano: in quel giorno fatale il Portogallo, già sull’orlo della bancarotta, perdeva il suo re, la quasi totalità dei giovani aristocratici e tutto il suo esercito. Inoltre, quella sconfitta causò una profonda crisi di successione dinastica. L’erede più vicino a Sebastiano era suo zio, l’anziano cardinale Enrico, che alla fine di agosto fu mestamente incoronato sovrano del Portogallo. Debole e consumato dalla tubercolosi, il 67enne, detto ‘O Casto’, per la sua conclamata moralità, chiese al Papa il permesso di contrarre matrimonio al fine di assicurare la continuità dinastica. Filippo II di Spagna, che già mirava ad impadronirsi del Portogallo e unire la penisola iberica, fece valere tutta la sua autorità a Roma per impedire che il Papa liberasse il re porporato dai suoi voti. Alla morte di Enrico, nell’estate del 1580, le truppe spagnole invasero il Portogallo, incontrando una dura, ma vana, resistenza tra le strade di Lisbona.

Iniziava così il declino della nazione lusitana, che era riuscita a divenire il primo impero coloniale della Storia, aveva giocato un ruolo importante nell’era delle grandi esplorazioni e vantava il monopolio commerciale delle Indie Orientali, le miniere in Brasile e i domini africani. In quell’estate sciagurata per il destino del Portogallo, il più grande poeta lusitano, Luis de Camoes, scrisse sul letto di morte: “Tutti vedranno che la mia patria mi fu così cara che fui contento di morire non solo in essa ma con essa”.

 

Il calabrese che sognava di diventare re del Portogallo.

Marco Tullio Catizone, nato a Magisano in provincia di Catanzaro, viveva a Messina con la moglie e una figlia. Non si conoscono il mestiere e altri elementi importanti della vita di quest’uomo, ma è certo che nel 1598 si trovava a Roma, dove inviò due missive, nelle quali si firmava come Don Sebastiano I con tanto di sigillo reale, dando vita alla grandiosa impostura che segnò il suo destino. Non era un caso che Catizone facesse la sua comparsa nelle vesti del redivivo sovrano portoghese proprio alla morte di Filippo II di Spagna. Nobili e religiosi portoghesi esiliati in Italia avevano finanziato e convinto l’audace calabrese a improvvisare quella improbabile farsa, cercando in tal modo di ostacolare l’incoronazione di Filippo III, successore di Filippo II di Spagna. Nonostante all’avventuriero italiano fosse stato consegnato un libro sulle recenti cronache del Portogallo, il tentativo di frode era così ingenuo che il Catizone non riusciva a imitare nemmeno lentamente il re scomparso, una sola cosa lo avvicinava a Sebastiano: gli spericolati sogni di grandezza. Ma è a Venezia che il Catizone conquista una certa notorietà, nella mondana città lagunare erano in molti a dare credito alla falsa identità dell’impostore. Una nobile veneta gli chiese persino di convolare a nozze, mentre un soldato italiano, che aveva combattuto al fianco di Don Sebastiano, lo rassicurava circa una certa somiglianza col defunto re. Dal momento che questa celebrità del Catizone fomentava nuovi tumulti in Portogallo a favore del presunto Don Sebastiano, l’impostore venne arrestato, ma poi non si diede corso all’accusa. Dietro questa decisione si celava lo zampino del re di Francia, Enrico IV, che, nel clima di lotta contro la Spagna per il predominio sulla penisola italiana, si era raccomandato al Doge di ritardare il processo per destabilizzare il governo di Filippo III di Spagna. Fu così che la vicenda del “Sebasiao de Veneza” o del “Charlatan Calabrés”, come venne anche chiamato, fu al centro di una lotta diplomatica tra le grandi potenze dell’epoca. Liberato dal carcere e travestito da frate, Catizone approdò a Firenze e la sosta gli fu fatale: il Granduca di Toscana, Ferdinando de’ Medici, lo fece arrestare e sottoporre a tortura, per ingraziarsi la corte di Madrid, suscitando però le ire del re di Francia, che si era visto sfumare una buona pedina da utilizzare contro i rivali spagnoli. Il viceré spagnolo del Regno di Napoli reclamò il prigioniero, il quale gli fu consegnato in catene. La commedia era durata troppo a lungo per Catizone, che durante le udienze del processo napoletano ormai si lasciava sfuggire espressioni calabresi. Furono chiamati a testimoniare addirittura la moglie, la suocera ed un cognato del Catizone, che, ormai esausto, si gettò ai piedi del viceré, confessando le proprie colpe. Evitò l’esecuzione perché la Spagna aveva interesse a tenere in vita il conclamato impostore, allo scopo di smentire per sempre tutte le leggende di un ritorno di Don Sebastiano a sconvolgere gli equilibri della penisola iberica. Condannato al remo a vita, agli inizi del 1603, arrivò in Spagna a bordo di una galea su cui scontava la pena. Forse ubriaco, affermò a gran voce di essere Don Sebastiano, ridotto in catene. Nuovamente torturato, il 27 settembre 1603, Marco Tullio Catizone, nella cittadina andalusa di Sanlucar, subì il taglio della mano destra, prima di essere impiccato e fatto a pezzi, insieme ad alcuni complici e fautori. Ma la morte dell’impostore non significò la fine della leggenda, divenuta religione. Il sebastianismo, infatti, fu un movimento mistico e profetico che alimentò le speranze di una salvezza taumaturgica del Paese, modellando l’anima nazionale fino agli inizi del 1800, nonostante la restaurazione dell’indipendenza del Portogallo fosse avvenuta nel 1640. Il mito millenarista era stato suggellato dal famoso gesuita di Lisbona, Antonio Vieira, che nel suo libro “la historia del futuro” predisse il ritorno di Don Sebastiano e l’avvento del Quinto Impero (dopo quello egizio, assiro, persiano e romano), un ritrovato impero portoghese, cristiano e universale, che avrebbe assicurato mille anni di pace all’intera umanità. Il sebastianismo ha assunto varie forme nei secoli ed ebbe un’importante influenza anche in Brasile, dove si consolidò tra i brasiliani poveri come mito di salvezza e liberazione. Le ribellioni contadine, come quella di Canudos, nella regione del Nordeste, alla fine del XIX secolo, che causò 25mila morti, erano infervorate dalla leggenda del ritorno di Don Sebastiano, che con il suo esercito avrebbe spazzato via soprusi e disuguaglianze. Ancora nel XX secolo, il poeta Fernando Pessoa definiva se stesso come un nazionalista mistico e un sebastianista razionale, dedicando i versi della raccolta di componimenti Mensagem (messaggio) alla rinascita del Portogallo quale fondamento per un futuro impero dello spirito. Il ricordo di un’antica grandezza pervade la cultura portoghese, intrisa della saudade (nostalgia) dei giorni felici perduti per sempre.

                                                                       

Il mito di un re che non fu grande. Credendo di spegnere le voci di popolo, secondo cui Sebastiano fosse ancora in vita, Filippo II ordinò una spedizione in Africa per recuperare il presunto cadavere del re. Un corpo fu trovato cosicché la solenne cerimonia funebre e la sepoltura dei nobili resti avvennero nel Monastero dos Jeronimos, a Belém, ma tutto questo non arrestò il dilagare delle leggende più straordinarie su Don Sebastiano, fomentate in particolar modo dal clero portoghese. C’era chi sosteneva che il re avesse deciso di espiare i suoi peccati vagando in penitenza per 7 anni nel deserto, per poi tornare a liberare il Portogallo dal giogo spagnolo, e chi lo immaginava pellegrino a Gerusalemme. Altri, invece, sostenevano che fosse prigioniero dei mori, mentre altri ancora cedettero alla voce che al sovrano fosse semplicemente piaciuta la vita austera con i berberi tra le montagne: una pausa di meditazione prima dell’immancabile riscossa.

Mentre inglesi, olandesi e spagnoli mettevano le mani sulle ricchezze transatlantiche di Lisbona, il popolo portoghese continuava a credere che il re un giorno sarebbe tornato a far risorgere la nazione. La smania di rivincita e il bisogno di liberarsi dall’umiliazione della sconfitta erano così grandi, da far credere che il giovane re, un giorno, sarebbe uscito dalle mentite spoglie che lo occultavano e sarebbe tornato alla testa del suo esercito. Del resto, era facile riconoscere il sovrano in qualcuno che gli assomigliasse e un intero popolo era ben disposto a credere a qualunque millantatore che affermasse di essere re redivivo. Fu così che presto apparvero ben quattro sedicenti “Don Sebastiano”. Nel 1603 si fece strada, con successo, l’ultimo pretesto Sebastiano redivivo: il suo nome era Marco Tullio Catizone (vedi riquadro sopra), chiamato dai portoghesi “o calabrès”, per le sue origini, destinato ad essere protagonista di un vero e proprio affare internazionale. La catastrofe subita, la frustrazione della gloria e perfino l’identità perduta, creò nell’anima di un intero popolo il bisogno collettivo di un eroe mitico, identificato nello sconfitto Don Sebastiano I, o Encoberto (il Nascosto), che sarebbe risorto per restaurare l’età aurea del Portogallo.

 

Articolo di Dario Marino, studioso e ricercatore di Storia e politica pubblicato su BBC History n. 91 del mese di novembre 2018 – altri testi e immagini da Wikipedia.


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