La vita in trincea
durante la grande guerra.
Cibo scarso, sete
terribile, i cadaveri dei compagni e dei nemici impossibili da seppellire,
malattie e parassiti. Durante il primo conflitto mondiale i soldati conobbero
orrori difficili da immaginare.
Provate
a immaginarvi accucciati dentro una buca nel terreno, in attesa di un cenno per
uscirne, senza sapere cosa vi potrà succedere da quel preciso momento in
avanti. Qualcuno soffia in un fischietto e subito dopo grida qualcosa: è
l’ordine di avanzare. In una frazione di secondo, balzerete fuori dalle vostre
postazioni e inizierete a correre più velocemente possibile in tute le
direzioni, pregando o imprecando tra avvallamenti, grumi di filo spinato,
sbarramenti, trappole ed insidie di ogni genere, compresi i cadaveri in
putrefazione e i resti di altri uomini smembrati. Intorno a voi il terreno è
divelto in continuazione dal fuoco d’artiglieria: innumerevoli schegge e
frammenti vengono scagliati dappertutto tra pallottole che sibilano, assordanti
deflagrazioni che dilaniano e mutilano, una strana nebbia che avvolge ogni cosa
e mitragliatrici che crepitano falciando vite in continuazione. Altri
combattenti, poco più indietro, schierati di rincalzo alla prima linea, attendono
con angoscia il loro turno: chi riuscirà, tra successive ondate d’assalto, a
sopravvivere in qualche modo e a raggiungere le trincee avversarie, usando come
protezione, lungo il martoriato percorso, anche i corpi dei compagni, potrò
finalmente sparare, lanciare una bomba, saltare dentro a quella maledetta fossa
e, se ancora in forze, affrontare il nemico all’arma bianca.
Il Primo conflitto
mondiale, a dispetto delle previsioni, si trasformò presto in una logorante
guerra di trincea nella sfibrante attesa del contatto con il nemico distante
pochi passi. In alcuni punti la linea italiana era lontana da quella austriaca
appena una decina di metri, tanto che i soldati potevano facilmente ascoltare
gli avversari mentre parlavano normalmente e in qualche caso, seppure fosse
assolutamente vietato dalle disposizioni, scambiarsi genere di conforto (come
le sigarette) e qualche gesto di umanità.
Una sentinella del Reggimento Cheshire in una trincea vicino a La Boisselle durante la battaglia della Somme, luglio 1916
I guastatori e il tubo di
gelatina.
Le squadre dei cosiddetti
guastatori, composte da esperti artificieri e da volontari del Genio, avevano
il delicatissimo compito di aprire dei varchi nei reticolati per l’assalto
delle fanterie. Partivano in missione all’alba oppure al tramonto, protette
talvolta da altre squadre di fucilieri, con poche armi leggere addosso
(pistole e qualche bomba a mano): trasportavano un equipaggiamento molto
pesante. Per proteggerli si studiarono apposti elmi e paraguance, piastre per
il torace, le spalle e la schiena, gambali e paraginocchia, guantoni, scudi e
corazze di vario genere, ma non c’era protezione che resistesse al fuoco
nemico. Raramente questi temerari facevano ritorno: non a caso le loro
formazioni era soprannominate “Squadre della morte”. Molte protezioni, nel
corso della Grande Guerra, vennero riciclate, dotandole di cavalletti di
sostegno ed impiegandole come scudi piantati sul parapetto della trincea. Dal
1916 una nuova rama, la bombarda, servì ad aprire i varchi garantendo
maggiore efficacia e sicurezza per gli stessi soldati.
Molto utilizzato dai guastatori fu
anche il tubo di gelatina, in ferro, contenente esplosivo gelatinizzato di
consistenza plastica, gommosa o pastosa, a elevato potere dirompente. Dotato
di miccia, tale contenitore veniva allungato sotto i reticolati e fatto
quindi esplodere. L’operazione era altamente rischiosa per il fatto che l’accensione
della miccia faceva spesso individuare il soldato addetto al brillamento. I
tubi di gelatina servivano a svellere i reticolati dal terreno e ad aprire i
varchi necessari all’irruzione delle fanterie. I tradizionali proiettili di
artiglieria non avevano lo stesso effetto, giacché tendevano ad aggrovigliare
ancora di più la matassa di filo spinato. La gelatina esplosiva era
confezionata in cartucce e veniva utilizzata, oltre al caricamento dei tubi
al fine di far saltare i reticolati, per effettuare lavori di mina, per il
brillamento di proiettili inesplosi e per lavori di demolizione.
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Trincee austriache sul Carso
Avvicendamenti delle truppe[modifica | modifica wikitesto]
Generalmente i soldati trascorrevano nelle trincee di prima linea un periodo di tempo molto limitato, da un giorno a due settimane, dopodiché si procedeva ad un avvicendamento delle unità. È vero che vi furono eccezioni: il 31º Battaglione australiano trascorse 53 giorni in prima linea nei pressi di Villers-Bretonneux. Ma furono casi rari, almeno per quel che riguarda il fronte occidentale. In un anno, un soldato mediamente suddivideva il proprio tempo come segue:
- 15 % nelle trincee di prima linea
- 10 % nelle trincee di appoggio
- 30 % nelle trincee della riserva
- 20 % pausa
- 25% altro (ospedale, addestramento, trasferimenti, etc.)
LA VITA APPESA A UN FILO. Nei primi mesi di
guerra del 1915, le trincee dei nostri soldati erano sovente poco profonde, con
parapetti non sufficientemente spessi. In particolare, sul fronte dolomitico e
carsico il tipo di terreno non rendeva possibile lo scavo di fossati che
penetrassero più a fondo, cosicché si utilizzavano come fortificazioni ammassi
rocciosi, mucchi di sassi e a volte bassi muretti costruiti a secco. Le trincee
avversarie erano invece molto solide. All’inizio gli austriaci si ritirarono
strategicamente su posizione già in parte fortificate con l’intenzione di
resistere a oltranza, effettuando enormi sforzi per garantire la messa in opera
di trincee e ricoveri adeguati a condurre una guerra di difesa lunga e
logorante. La strategia italiana, al contrario, almeno sulla carta, prevedeva
la condotta di una campagna all’insegna dell’attacco per avanzare e guadagnare
terreno: nelle prime fasi, le trincee italiane furono per questo costruite
senza particolare cura sia per la fortificazione sia per gli alloggi delle
truppe. Spesso poco profonde, esse rendevano impossibile per un uomo stare in
piedi per il rischio di esporre la testa al nemico. Di conseguenza i soldati
venivano costretti a trascorrere ogni momento della giornata curvi per essere
sicuri di rimanere al riparo. La dimenticanza di questo precetto, anche per un
solo secondo, quasi sempre significava la morte. A soccorre molte volte il
soldato era il “sacchetto a terra” (o sacco da terra), un piccolo sacco di iuta
ripieno appunto di terra, utilizzato per eseguire opere come piccoli ripari,
rafforzamenti di trincee, postazioni d’armi, ricoveri e lavori simili. Durante
gli attacchi i soldati portavano con sé sacchetti pieni o da riempire, nel caso
avessero dovuto approntarsi un riparo d’emergenza oppure rinforzare una
posizione appena conquistata. Nel corso della Grande Guerra le trincee italiane
richiesero milioni di sacchetti da riempire. Se non si conquistava la
posizione, i combattenti avevano l’ordine di costruire una linea di resistenza
nel posto in cui si trovavano. Per tale specifico scopo gli ordini erano di
agire in coppia: un soldato scavava mentre il compagno aveva il compito di
proteggerlo e coprilo sparando verso le linee nemiche.
Il soccorso ad un ferito, Fiandre, agosto 1917
Bombe a mano italiane.
La bomba a mano tipo SIPE fu una bomba a mano italiana prodotta dalla Società italiana prodotti esplodenti (SIPE) di Milano ed impiegata dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale. Adottata nel 1915, è la bomba più famosa della Grande Guerra, citata anche da Emilio Lussu nel capolavoro Un anno sull'Altipiano. Rimase in servizio ben oltre la grande guerra, trovando addirittura impiego nei primi anni della seconda guerra mondiale.
La bomba frammentazione più
usata dal Regio Esercito durante la Prima guerra mondiale fu la SIPE. Del
peso di 530 grammi, a forma d’uovo e somigliante a un piccolo ananas, la
bomba conteneva una carica esplosiva di 70 grammi di polvere nera. Utilizzata
ben oltre il conflitto, trovò addirittura impiego nei primi anni della
Seconda guerra mondiale. La sua accensione avveniva tramite strofinamento su
appositi accenditori fissati al polso o infilati sulle dita. Considerando le
condizioni del suo impiego ed il tempo atmosferico, l’intera operazione
risultava molto macchinosa: la SIPE non era quindi sempre affidabile. In caso
di forte umidità, si poteva comunque accendere su una fiamma libera oppure
con un sigaro. Se ne svitava il tappino, poi si procedeva all’accensione e
quindi la si lanciava dopo pressappoco 7-8 secondi l’ordigno esplodeva. La
distanza massima di lancio della SIPE era di circa 40 metri. Il corpo della
bomba era realizzato in ghisa per fusione in conchiglia, la cavità interna
era invece ricavata con un’anima di sabbia; successivamente veniva lavorata
la filettatura sinistrorsa sulla quale si avvitava l’accenditore. I soldati
ne fecero un largo uso anche quand’essa era inservibile o inertizzata,
producendo dei manufatti di originale fattura, utili per svariati usi (come
fermacarte, lumi a olio e così via). Al termine della guerra solo le SIPE
distribuite all’esercito furono oltre 3 milioni e mezzo. Altro ordigno
difensivo a percussione era la BDP: un cilindretto di ghisa, alto circa 12
centimetri per un diametro di 5 centrimetri e pesante poco più di un
chilogrammo, con una carica di balistite e fulmicotone. Il fante italiano,
già caricato di tutto il peso dello zaino e dell’armamento individuale, nel
momento dell’azione doveva svitare il coperchietto copricapsula; impugnare
l’ordigno con la mano destra rivoltando in basso la capsula; battere con
forza la bomba contro una superficie dura e intuire se la capsula era esplosa
e aveva innescato la carica; valutare la distanza del nemico e lanciare
infine la BDP, a opportuna distanza di sicurezza, entro 6-7 secondi.
L’esplosione vera sarebbe avvenuta entro circa 14 secondi.
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TERRIBILI CONDIZIONI. La Grande Guerra
vissuta nelle trincee fu caratterizzata in larga parte da fame, sete, sonno e
dissenteria, dalla sporcizia, dai topi, dalle pulci e dai pidocchi (questi ultimi
soprannominati “cavalleria delle trincee” dagli italiani), e ovviamente dai
ricordi di un’altra vita fatta da affetti, consuetudini e attività quotidiane
per un esercito in gran parte formata da contadini e artigiani. L’esistenza del
soldato, condannato allo spirito gregario e alla passività, si svolgeva principalmente
nei trinceramenti, all’insegna di quanto prescritto dai Comandi: “Pazientare,
resistere, reggere alla fatica”. Nei diari dei soldati se ne ritrovano
testimonianze significative, come quello del bersagliere Pietro Osella,
contadino partito per il fronte nell’ottobre del 1916, che ricordando il
proprio posizionamento sul Carso, scrive: “Faceva
molto caldo, non c’era acqua, si soffriva di sete e anche della fame che tante
volte le mitraglie austriache non lasciavano passare il rancio”. Il
conflitto che visse la maggior parte dei soldati al fronte, oltre all’essere
segnato da un’interminabile attesa, una paura paralizzante e il costante
terrore della morte, fu contraddistinto da vari momenti di noia e patimenti
causati dall’estrema variabilità del clima e del tempo. Per giorni e notti
senza fine, a volte per settimane, i soldati in trincea furono costretti a
vivere chini tra acqua e fango, al gelo (nel rigidissimo inverno tra il 1916 e
il 1917 in alcuni punti del fronte si depositarono dai 6 ai 10 metri di neve),
sguazzando nella melma oppure boccheggiando sotto il sole cocente, protetti da qualche sacchetto di
sabbia, da un riparo di legno, da un sasso, oppure dal corpo di qualche soldato
morto in precedenza. Molte patologie erano la conseguenza della presenza di
migliaia di cadaveri, che nessuno poteva seppellire, accanto a migliaia di
vivi, stretti negli angusti spazi delle trincee. Nelle sue memorie anche il
celebre giornalista e scrittore modenese Paolo Monelli ricordò: “Sopra un morto
ho dormito”.
Non erano solo le armi
a mietere vittime. Moltissimi soldati subirono gravi conseguenze a causa delle
precarie condizioni igieniche. Se l’uso delle più moderne armi (tra cui le
mitragliatrici, vero e proprio flagello) causò enormi perdite di vite umane, sui
belligeranti infierirono pure le carestie e le malattie infettive, come la
pandemia influenzale della cosiddetta Spagnola, una forma influenzale
particolarmente devastante che, secondo stime attendibili, causò la morte di
oltre 20 milioni di persone, cioè più vittime dell’intero conflitto mondiale.
Le ferite, se non rapidamente curate, anche nei casi in cui non si rivelarono
letali potevano diventarlo in breve a causa delle infezioni, degenerando in
cancrene, setticemie e tetano. Nell’estate del 1915, prima le truppe
austro-ungariche e in seguito tra quelle italiane, si diffuse anche il colera.
Tra i soldati dei due eserciti
serpeggiavano inoltre malattie veneree, meningite, scabbia, tifo addominale,
tigna, tubercolosi e febbri malariche. Vi erano poi le affezioni determinate
dal clima, in particolare dall’esposizione al freddo e all’umidità, come
congelamenti, febbri, malattie polmonari e reumatismi. I soldati, non potendo
costruire latrine sotto il fuoco nemico, gettavano gli escrementi al di là del
parapetto: la conseguenza inevitabile era che il sole, insieme alla
putrefazione e ai liquami, moltiplicava le mosche e i parassiti. Fra i turni di
guardia, chi era in trincea passava i momenti liberi a prendersi cura di sé
spidocchiandosi, rattoppando e rammentando calze e guanti, lavando pezze da
piedi o camicie e altri capi del vestiario. Molti dimostrarono una grande
capacità di adattarsi nell’arrangiarsi servendosi degli utensili più disparati.
Tutto ciò era normale: la vita di ogni soldato, prima che di un combattente,
era infatti molto spesso quella di un contadino o artigiano particolarmente
abile a ricavare oggetti più o meno utili da materiali poveri o di scarto. La
Grande Guerra incise molto anche sulla tenuta mentale
dei soldati. Vi sono varie testimonianze raccapriccianti su militari colpiti da
turbe psicologiche, fino a ossessioni e sintomi di follia. Placido Consiglio,
alienista dell’ospedale militare di Roma e futuro generale della Sanità, tra i
tanti casi di anomalia del carattere dei militari in guerra studiò per esempio
quello di un fante classe 1887, allontanatosi durante un combattimento,
imputato di “diserzione di faccia al nemico”: “Fu trovato dopo due giorni a vagare per un paese, con aspetto
intontito, pronunziando parole tronche e incomprensibili, maneggiando il fucile
con atti strani e puntandolo contro i passanti che prendeva per nemici”.
La guerra dei veleni.
Il primo impiego su vasta scala
dei gas avvenne il 22 aprile 1915 nei pressi della cittadina di Ypres, nelle
Fiandre: i tedeschi lanciarono sulle linee alleate ben 168 tonnellate di
cloro, una sostanza di cui in quegli anni producevano 60 tonnellate al
giorno. I fanti francesi gasati furono 15mila, i morti otre cinquemila. Un
paio di giorni dopo toccò ai canadesi, che cercarono di contenere i danni con
fazzoletti bagnati di acqua e urina, tenuti premuti sulla bocca: i morti
furono settemila. Gli italiani, invece, con ovvero gli effetti devastanti dei
gas il 29 giugno 1916, quando subirono per la prima volta un attacco con
l’aiuto chimico nel settore del monte San Michele, lungo il Carso, poco a sud
di Gorizia. Alle ore 5,30 gli austriaci aprirono i rubinetti di seimila
bombole disposte in casse. Il gas utilizzato era il fosgene, una miscela di
cloro e ossido di carbonio, originariamente impiegato per la preparazione dei
colori e la tintura di stoffe: i gasati furono ottomila e più di cinquemila
le vittime nel girono di poche ore. In pratica, una cifra di poco inferiore
alla somma di tutte le perdite italiane nelle guerre del periodo
risorgimentale. Nella terza battaglia di Yepres, i tedeschi utilizzarono un
nuovo gas vescicatorio contro il quale le maschere non potevano fare nulla:
era l’iprite, determinante anche per lo sfondamento austro-tedesco su fronte
italiano a Caporetto. Indossare la maschera anti-gas fu per tutti i
combattenti della Grande Guerra un vero e proprio tormento, sia fisico sia
psicologico. La respirazione con essa era piuttosto difficoltosa, ed era
aggravata dallo sforzo fisico del combattimento, dalla paura e dalla tensione
nervosa. La vista stessa dei soldati era ostacolata dall’appannamento delle
lenti e dalle condizioni del terreno su cui ci si trovava. Vennero così
studiati modelli sempre più perfezionati che portarono al termine del
conflitto, al comune utilizzo dei “respiratori”, , facendo così diminuire
drasticamente il numero delle vittime per opera dei gas. Se all’inizio del
conflitto le vittime per ogni tonnellata di cloro lanciata erano oltre un
migliaio, i progressi nella difesa fecero drasticamente calare tale numero a
cinque nel 1918.
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UNO SQUALLIDO RANCIO. Ai soldati italiani in
trincea il cibo e le bevande non mancarono mai. Il vero problema era la loro
qualità. Ottenere un rancio commestibile era spesso un’impresa. Dalle retrovie,
dove si trovavano magazzini e depositi di viveri, partivano plotoni e squadre
di soldati addetti alla corvè (dal francese corvè di epoca feudale, relativo a
un servizio reso dal vassallo al signore tramite giornate di lavoro gratuito)
con i rifornimenti. Il rancio, parzialmente cotto nelle cucine delle retrovie,
veniva trasportato alle linee avanzate per mezzo delle casse di cottura,
contenenti marmitte tecniche capaci di 25-30 razioni l’uno, che mantenevano
costante a circa 60° per un’ora la minestra o zuppa: ciò consentiva di portare
a termine la cottura durante il tragitto, di solito svolto in orario notturno
oppure quando le condizioni di cattivo tempo limitavano la visibilità al
nemico. I soldati potevano mangiare di notte o di mattina presto. Poiché la distribuzione
del rancio era irregolare, spesso il cibo giungeva a destinazione freddo e
scotto, praticamente colloso, sia in estate che in inverno. Al fine di
rimediare alle frequenti condizioni penose dei pasti che pervenivano al fronte,
particolarmente cari e preziosi per i combattenti furono gli “scaldaranci”,
cilindretti di carta (più frequentemente rotolini di giornali) grossi come un
rullino di pellicola fotografica dell’epoca, impregnati di paraffina e dotati
di un fornelletto la cui costruzione era delegata al volontariato. Per tale
attività di preparazione manuale concorrevano massicciamente le donne e i
bambini riuniti nei vari comitati di assistenza sparsi per il Paese. La carta,
avvolta e pressata più volte, veniva legata stretta. Gli “scaldaranci”, una
volta confezionati, venivano spediti di fronte all’interno dei pacchi dono.
Quattro “scaldaranci” facevano bollilre mezzo litro d’acqua in circa 15 minuti.
Nonostante la produzione imponente, non erano comunque molto apprezzati in
quanto non rispondenti alla effettiva necessità d’uso. Ecco perché il nomignolo
“scaldaranci” fu attribuito durante la Grande Guerra dai soldati all’aspirante
ufficiale, o utilizzato per bollare gli aspiranti inetti. A scarseggiare era
invece l’acqua. Per chi era costretto all’immobilità sotto il sole estivo, a
ridosso di muretti di pietra ardente, la sua mancanza fu un vero e proprio
tormento (sul Carso, arido e roccioso, si soffrì la sete oltre ogni limite).
“Se ne avessi un solo bicchiere lo pagherei magari 50 centesimi , anche
sporca”, confessa nel suo diario il caporalmaggiore Enrico Conti (che morirà
sul Carso nell’ottobre del 1915), disposto a dare, per placare quell’arsura, il
corrispettivo della paga giornaliera di un soldato. Aggiungendoci anche le
precario condizioni igieniche generali, la difficoltà di pulire la propria
gavetta dai residui di cibo e il fatto che i soldati al fronte fossero spesso
costretti a vere acqua inquinata, tutto ciò causò facilmente inconvenienti vari
di salute, come le infezioni intestinali.
La vanghetta,
il piccozzino e la baionetta.
Ogni
combattente, italiano e austriaco, aveva una vanghetta (o badiletto) in
dotazione. In alternativa, c’era il piccozzino. Gli italiani tenevano di
solito entrambi sul lato sinistro esterno, fissati da legacci di cuoio,
oppure in una borsetta di cuoio che serviva anche per portare la baionetta.
Sull’intero
fronte di guerra venne prodotto un infinito lavoro di vanghette, picconi e
trivelle per ricavare e rinforzare, molto spesso nella roccia, chilometri di
trinceramenti, ma la vanghetta si rivelò anche indispensabile per l’assalto e
la difesa (non a caso i soldati italiani ne affilavano i bordi), oltre a
rappresentare, qualora conficcata, un minimo riparo per il viso del
combattente: nell’angusto spazio della trincea, in mezzo alla grande
confusione di materiali e uomini, nella concitazione degli scontri corpo a
corpo, essa era ampiamente preferita come arma bianca rispetto alla
baionetta. L’esercito italiano utilizzò 5 modelli di attrezzi leggeri,
studiati per differenti impieghi: il piccozzino da fanteria di primo tipo
serviva pure per tagliare rami se impiegato dalla parte della piccola ascia,
risultando più utile della vanghetta nei convulsi e interminabili momenti in
cui il soldato, raggiunti i reticolati posti dai nemici, cercava di aprire un
varco. Il piccozzino era inoltre letale nel corpo a corpo. Negli scontri, gli
austriaci usavano invece maggiormente il calcio del fucile e la baionetta.
Quest’ultima a causa della crescente portata, precisione e cadenza di tiro
dei fucili, aveva visto diminuire il proprio ruolo rispetto al passato, ma
non venne mai abbandonata: l’impatto emotivo e la carica sia psicologica sia
simbolica che creava, più che la sua efficacia offensiva, non persero mai il
loro peso. Nonostante le ferite provocate dall’artiglieria e dalle armi
moderne fossero decisamente più micidiali, ogni soldato teneva comunque la
baionetta. Quando iniziò la guerra, le lame erano lunghe, ma nei
combattimenti ravvicinati risultarono poco pratiche e furono sostituite da
armi più adatte ed efficaci, i coltelli, con lame più corte e a doppio
taglio.
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Cortesie tra nemici.
I contatti e gli scambi di qualsiasi
natura tra soldati di opposti schieramenti erano proibiti e in caso di
aggressione, pesantemente puniti. Un episodio che costò una punizione
ufficiale avvenne per esempio tra il 24 e il 24 dicembre1916 fra soldati
appostati nelle trincee sul Monte Zebio, nell’Altopiano dei Sette Comuni. A
un certo punto gli Austriaci esposero un cartellone con sopra scritto in
lingua tedesca, a grandi carattere, Buon Natale. Un caporale di 23 anni del
129° fanteria contraccambiò gridando un ringraziamento nella stessa lingua.
Una voce domandò allora dove fosse finito un austriaco fatto prigioniero
quello stesso giorno: l’italiano rispose che non lo sapeva. La notizia di
tali scambi di cortesia fra combattenti contrapposti giunse al comando del
battaglione il quale, essendo state impartite precise istruzioni da parte del
comando del corpo d’armata, denunciò il graduato, condannato quindi il 14
febbraio 1917 dal Tribunale militare a un anno di reclusione “per rifiuto
d’obbedienza e conversazione con il nemico”. Nella parte settentrionale del fronte
occidentale, a sud di Ypres, in Belgio, durante la notte di Natale 1914 venne
concordata una tregua tra soldati nemici. Non fu ordinata a seguito di un
accordo tra i comandi dei due schieramenti: si trattò invece di un fatto
inaspettato e impensabile, un cessate il fuoco spontaneo dichiarato da
britannici, francesi e tedeschi che usciti allo scoperto dalle opposte
trincee s’incontrarono nella Terra di Nessuno scambiandosi solidarietà, cibo,
bevande e materiali di conforto. “Gli
ufficiali tedeschi hanno detto di volere un armistizio per seppellire i
caduti. Eravamo tutti contenti del cessate il fuoco, e ci siamo messi a
seppellire i mort. Il nostro cappellano ha potuto celebrare. Finita la messa
abbiamo iniziato a fraternizzare con i tedeschi, come fossimo vecchi amici”,
scrive un soldato britanni in una lettera. La notizia della tregua giunse
anche alle orecchie di un caporale tedesco che nel suo diario appuntò
indignato: “Dove è andato a finire l’onore dei tedeschi?”. Quel testo sarebbe
stato pubblicato anni dopo con il titolo di Mein Kampf: il suo autore era
Adolf Hitler.
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Fino all’ultimo respiro.
I momenti più angoscianti per un
soldato non erano quelli dell’assalto, bensì dell’attesa, nell’immobilità.
Nel diario dell’alpino Giuseppe Beltrami, presente nella battaglia della
Bainsizza, del 18 agosto 1917, si legge: “Prima
di arrivare in prima linea di combattimento, preghiamo chiedendo perdono al
Signore per i nostri peccati. Mi metto a ridosso delle stuoio di mascheramento.
Sono in piedi. Il rombo di un aereo nemico mi fa sussultare; pare si
allontani ma poi fa ritorno; dopo qualche minuto una granata brilla sulla
collina provocando una pioggia di sassi, uno dei quali, ricadendo, mi sfiora
e colpisce gravemente un compagni alla spalla”. E quando finalmente
scattava il momento in cui bisognava uscire dai trinceramenti, tutto diveniva
precario. Si legge ancora nella testimonianza scritta dal soldato italiano: “Un nostro sergente, posto
nell’avvallamento alle mie spalle, in preda all’eccitazione e urlando ai
propri soldati di avanzare, si mette a sparare colpendo involontariamente il
povero e valoroso maggiore, il quale si accascia vicino a me esalando
l’ultimo respiro. Il nostro caporalmaggiore trombettiere, vista la situazione
moto grave e pericolosa, ci ordina di avanzare consentendoci di lasciare la
coperta, la mantellina e la gavetta per correre con più agilità. Inizio a
muovermi e passo in un punto stretto fra due sassi: la cassetta del telefono
si incastra e mi impedisce di avanzare. Il tenente mi ordina minacciosamente
di andare avanti gridandomi che mi sparerà
se non mi sbrigo. Non gli occorre molto tempo per rendersi conto della
mia impossibilità a muovermi. Mi sorpassa frettoloso sulla destra e tira
dritto sulla cima della collina. Un colpo di mitraglia lo colpisce e muore.
La mischia è furibonda, da ogni parte morte e feriti. È difficile mantenere
la postazione raggiunta; siamo costretti a retrocedere per porci al riparo.
Alle 5 di sera il nostro capitano fa l’appello: di 280 siamo rimasti solo
73!”-
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La battaglia della Somme.
Dopo un massiccio fuoco di
preparazione durato una settimana (oltre un milione di granate ad alto
potenziale sparate da più di 1500 bocche da fuoco inglesi e da 850 pezzi
francesi) e lo scoppio di dieci enormi mine, sul fronte della Somme, fiume
della Francia settentrionale, il 1° luglio 1916 iniziò l’attacco della
fanteria contro le linee tedesche. Tutti, comandi e truppe, erano fermamente
convinti che dopo una simile aggressione dei nemici non fosse rimasto molto.
I soldati inglesi uscirono così dalle trincee per marciare vittoriosamente:
li attendeva invece un tragico e beffardo destino. I tedeschi avevano avuto a
disposizione un intero anno per preparare le proprie difese e scavato rifugi
di enormi dimensioni nel sottosuolo calcareo della Somme: linee presidiate da
truppe bene addestrate e preparate alla mobilità, difese da masse di filo
spinato larghe fino a 25 metri, trinceramenti collegati a posti di pronto
soccorso, depositi, riserve di munizioni e ricoveri scavati fino a una
profondità di 30 metri sotto la superficie, con luce elettrica e collegamenti
telefonici che consentivano di comunicare con le retrovie la posizione
dell’artiglieria. In pratica, una strutturata, ben servita ed efficiente
città sotterranea. Alle 7,25 di un
azzurro mattino, migliaia di fanti avanzarono lentamente a ondate che si
susseguivano come in una parata: i comandi avevano infatti dato ordine
d’avanzare in linea con un carico individuale supplementare di trenta chili
di munizioni, razioni alimentari, utensili per il trinceramento e bobine di
filo spinato. I tedeschi, che grazie alle resistenti protezioni adottate in
precedenza contro i calibri inglesi avevano subito lievi perdite, dopo una
lunga attesa sbucarono a sorpresa da trincee, ripari e rifugi iniziando a
martellare i nemici, letteralmente spazzati via da un fuoco incrociato e in
parte annientati tragicamente dal fuoco amico della propria artiglieria,
incapace di correggere il tiro. Nel giro di poche ore la British
Expeditionary Force perse circa 57mila uomini (più del 50% dei quali soltanto
nella prima ora). Si trattò del giorno più sanguinoso nella storia dei
conflitti dell’esercito del Regno Unito.
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UN ESERCITO DI INVALIDI. In trincea le defezioni
non mancarono, e i reati di codardi, come lo sbandamento e la fuga, oppure
quelli di ammutinamento portarono a esecuzioni che spesso non vennero
documentate ufficialmente. Nei processi ai disertori monti confessavano
d’essersi allontanati per nostalgia di casa. I soldati vivevano infatti
continuamente nell’angoscia di non riabbracciare i propri cari, e i brevi
allontanamenti per salutare i congiunti prima di partire per la prima linea
avveniva sotto la spinta di un’intensa emotività. Il senso dell’estrema
precarietà delal vita conferiva un grande valore a quegli incontri che potevano
essere gli ultimi. Se oltre 600mila soldati italiani morirono in battaglia,
soltanto il 50% perì a causa di ferite. Pur di passare un certo periodo in
retrovia o di essere esonerati dal servizio militare, molti militari schierati
in prima linea furono disposti a procurarsi ferite, simulare malattie e
ingerire sostanze tossiche. Mentre le statistiche ufficiali in merito risultano
approssimative, gli episodi in tal senso si contano nell’ordine delle migliaia:
tale fenomeno assunse proporzioni tanto vistose da obbligare i Comandi a
istituire ospedali dedicati agli autolesionisti e ad applicare una disciplina
di ferro. Una moltitudine di solti preferì barattare la guerra con il proprio
corpo, condannandosi così a un’esistenza infelice.
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