domenica 28 aprile 2019

La vita in trincea durante la grande guerra.

La vita in trincea durante la grande guerra.

Cibo scarso, sete terribile, i cadaveri dei compagni e dei nemici impossibili da seppellire, malattie e parassiti. Durante il primo conflitto mondiale i soldati conobbero orrori difficili da immaginare.





Provate a immaginarvi accucciati dentro una buca nel terreno, in attesa di un cenno per uscirne, senza sapere cosa vi potrà succedere da quel preciso momento in avanti. Qualcuno soffia in un fischietto e subito dopo grida qualcosa: è l’ordine di avanzare. In una frazione di secondo, balzerete fuori dalle vostre postazioni e inizierete a correre più velocemente possibile in tute le direzioni, pregando o imprecando tra avvallamenti, grumi di filo spinato, sbarramenti, trappole ed insidie di ogni genere, compresi i cadaveri in putrefazione e i resti di altri uomini smembrati. Intorno a voi il terreno è divelto in continuazione dal fuoco d’artiglieria: innumerevoli schegge e frammenti vengono scagliati dappertutto tra pallottole che sibilano, assordanti deflagrazioni che dilaniano e mutilano, una strana nebbia che avvolge ogni cosa e mitragliatrici che crepitano falciando vite in continuazione. Altri combattenti, poco più indietro, schierati di rincalzo alla prima linea, attendono con angoscia il loro turno: chi riuscirà, tra successive ondate d’assalto, a sopravvivere in qualche modo e a raggiungere le trincee avversarie, usando come protezione, lungo il martoriato percorso, anche i corpi dei compagni, potrò finalmente sparare, lanciare una bomba, saltare dentro a quella maledetta fossa e, se ancora in forze, affrontare il nemico all’arma bianca.
Il Primo conflitto mondiale, a dispetto delle previsioni, si trasformò presto in una logorante guerra di trincea nella sfibrante attesa del contatto con il nemico distante pochi passi. In alcuni punti la linea italiana era lontana da quella austriaca appena una decina di metri, tanto che i soldati potevano facilmente ascoltare gli avversari mentre parlavano normalmente e in qualche caso, seppure fosse assolutamente vietato dalle disposizioni, scambiarsi genere di conforto (come le sigarette) e qualche gesto di umanità.
Una sentinella del Reggimento Cheshire in una trincea vicino a La Boisselle durante la battaglia della Somme, luglio 1916

I guastatori e il tubo di gelatina.

Un Bangalore esposto al museo Batey ha-Osef di Tel AvivIsraele

Le squadre dei cosiddetti guastatori, composte da esperti artificieri e da volontari del Genio, avevano il delicatissimo compito di aprire dei varchi nei reticolati per l’assalto delle fanterie. Partivano in missione all’alba oppure al tramonto, protette talvolta da altre squadre di fucilieri, con poche armi leggere addosso (pistole e qualche bomba a mano): trasportavano un equipaggiamento molto pesante. Per proteggerli si studiarono apposti elmi e paraguance, piastre per il torace, le spalle e la schiena, gambali e paraginocchia, guantoni, scudi e corazze di vario genere, ma non c’era protezione che resistesse al fuoco nemico. Raramente questi temerari facevano ritorno: non a caso le loro formazioni era soprannominate “Squadre della morte”. Molte protezioni, nel corso della Grande Guerra, vennero riciclate, dotandole di cavalletti di sostegno ed impiegandole come scudi piantati sul parapetto della trincea. Dal 1916 una nuova rama, la bombarda, servì ad aprire i varchi garantendo maggiore efficacia e sicurezza per gli stessi soldati.
Molto utilizzato dai guastatori fu anche il tubo di gelatina, in ferro, contenente esplosivo gelatinizzato di consistenza plastica, gommosa o pastosa, a elevato potere dirompente. Dotato di miccia, tale contenitore veniva allungato sotto i reticolati e fatto quindi esplodere. L’operazione era altamente rischiosa per il fatto che l’accensione della miccia faceva spesso individuare il soldato addetto al brillamento. I tubi di gelatina servivano a svellere i reticolati dal terreno e ad aprire i varchi necessari all’irruzione delle fanterie. I tradizionali proiettili di artiglieria non avevano lo stesso effetto, giacché tendevano ad aggrovigliare ancora di più la matassa di filo spinato. La gelatina esplosiva era confezionata in cartucce e veniva utilizzata, oltre al caricamento dei tubi al fine di far saltare i reticolati, per effettuare lavori di mina, per il brillamento di proiettili inesplosi e per lavori di demolizione.


Trincee austriache sul Carso

Avvicendamenti delle truppe[modifica | modifica wikitesto]

Trincea italiana sulle Alpi durante la prima guerra mondiale
Fanteria di marina britannica all'attacco
Generalmente i soldati trascorrevano nelle trincee di prima linea un periodo di tempo molto limitato, da un giorno a due settimane, dopodiché si procedeva ad un avvicendamento delle unità. È vero che vi furono eccezioni: il 31º Battaglione australiano trascorse 53 giorni in prima linea nei pressi di Villers-Bretonneux. Ma furono casi rari, almeno per quel che riguarda il fronte occidentale. In un anno, un soldato mediamente suddivideva il proprio tempo come segue:
  • 15 % nelle trincee di prima linea
  • 10 % nelle trincee di appoggio
  • 30 % nelle trincee della riserva
  • 20 % pausa
  • 25% altro (ospedale, addestramento, trasferimenti, etc.)

LA VITA APPESA A UN FILO. Nei primi mesi di guerra del 1915, le trincee dei nostri soldati erano sovente poco profonde, con parapetti non sufficientemente spessi. In particolare, sul fronte dolomitico e carsico il tipo di terreno non rendeva possibile lo scavo di fossati che penetrassero più a fondo, cosicché si utilizzavano come fortificazioni ammassi rocciosi, mucchi di sassi e a volte bassi muretti costruiti a secco. Le trincee avversarie erano invece molto solide. All’inizio gli austriaci si ritirarono strategicamente su posizione già in parte fortificate con l’intenzione di resistere a oltranza, effettuando enormi sforzi per garantire la messa in opera di trincee e ricoveri adeguati a condurre una guerra di difesa lunga e logorante. La strategia italiana, al contrario, almeno sulla carta, prevedeva la condotta di una campagna all’insegna dell’attacco per avanzare e guadagnare terreno: nelle prime fasi, le trincee italiane furono per questo costruite senza particolare cura sia per la fortificazione sia per gli alloggi delle truppe. Spesso poco profonde, esse rendevano impossibile per un uomo stare in piedi per il rischio di esporre la testa al nemico. Di conseguenza i soldati venivano costretti a trascorrere ogni momento della giornata curvi per essere sicuri di rimanere al riparo. La dimenticanza di questo precetto, anche per un solo secondo, quasi sempre significava la morte. A soccorre molte volte il soldato era il “sacchetto a terra” (o sacco da terra), un piccolo sacco di iuta ripieno appunto di terra, utilizzato per eseguire opere come piccoli ripari, rafforzamenti di trincee, postazioni d’armi, ricoveri e lavori simili. Durante gli attacchi i soldati portavano con sé sacchetti pieni o da riempire, nel caso avessero dovuto approntarsi un riparo d’emergenza oppure rinforzare una posizione appena conquistata. Nel corso della Grande Guerra le trincee italiane richiesero milioni di sacchetti da riempire. Se non si conquistava la posizione, i combattenti avevano l’ordine di costruire una linea di resistenza nel posto in cui si trovavano. Per tale specifico scopo gli ordini erano di agire in coppia: un soldato scavava mentre il compagno aveva il compito di proteggerlo e coprilo sparando verso le linee nemiche.


Il soccorso ad un ferito, Fiandre, agosto 1917

Bombe a mano italiane.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Bomba a mano tipo SIPE
Granata SIPE WW1.jpg
Bomba a mano tipo SIPE
Tipobomba a manodifensiva
OrigineItalia Italia
Impiego
UtilizzatoriItaliaRegio Esercito
ConflittiPrima guerra mondiale
Produzione
CostruttoreSocietà italiana prodotti esplodenti
Entrata in servizio1915
Varianti"Gallina"
"Strazza speroni"
Descrizione
Peso530 g
Altezza100-120 mm
Diametro55-60 mm
Tiro utile35 m
voci di granate presenti su Wikipedia
La bomba a mano tipo SIPE fu una bomba a mano italiana prodotta dalla Società italiana prodotti esplodenti (SIPE) di Milano ed impiegata dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale. Adottata nel 1915, è la bomba più famosa della Grande Guerra, citata anche da Emilio Lussu nel capolavoro Un anno sull'Altipiano. Rimase in servizio ben oltre la grande guerra, trovando addirittura impiego nei primi anni della seconda guerra mondiale.
La bomba frammentazione più usata dal Regio Esercito durante la Prima guerra mondiale fu la SIPE. Del peso di 530 grammi, a forma d’uovo e somigliante a un piccolo ananas, la bomba conteneva una carica esplosiva di 70 grammi di polvere nera. Utilizzata ben oltre il conflitto, trovò addirittura impiego nei primi anni della Seconda guerra mondiale. La sua accensione avveniva tramite strofinamento su appositi accenditori fissati al polso o infilati sulle dita. Considerando le condizioni del suo impiego ed il tempo atmosferico, l’intera operazione risultava molto macchinosa: la SIPE non era quindi sempre affidabile. In caso di forte umidità, si poteva comunque accendere su una fiamma libera oppure con un sigaro. Se ne svitava il tappino, poi si procedeva all’accensione e quindi la si lanciava dopo pressappoco 7-8 secondi l’ordigno esplodeva. La distanza massima di lancio della SIPE era di circa 40 metri. Il corpo della bomba era realizzato in ghisa per fusione in conchiglia, la cavità interna era invece ricavata con un’anima di sabbia; successivamente veniva lavorata la filettatura sinistrorsa sulla quale si avvitava l’accenditore. I soldati ne fecero un largo uso anche quand’essa era inservibile o inertizzata, producendo dei manufatti di originale fattura, utili per svariati usi (come fermacarte, lumi a olio e così via). Al termine della guerra solo le SIPE distribuite all’esercito furono oltre 3 milioni e mezzo. Altro ordigno difensivo a percussione era la BDP: un cilindretto di ghisa, alto circa 12 centimetri per un diametro di 5 centrimetri e pesante poco più di un chilogrammo, con una carica di balistite e fulmicotone. Il fante italiano, già caricato di tutto il peso dello zaino e dell’armamento individuale, nel momento dell’azione doveva svitare il coperchietto copricapsula; impugnare l’ordigno con la mano destra rivoltando in basso la capsula; battere con forza la bomba contro una superficie dura e intuire se la capsula era esplosa e aveva innescato la carica; valutare la distanza del nemico e lanciare infine la BDP, a opportuna distanza di sicurezza, entro 6-7 secondi. L’esplosione vera sarebbe avvenuta entro circa 14 secondi.  

TERRIBILI CONDIZIONI. La Grande Guerra vissuta nelle trincee fu caratterizzata in larga parte da fame, sete, sonno e dissenteria, dalla sporcizia, dai topi, dalle pulci e dai pidocchi (questi ultimi soprannominati “cavalleria delle trincee” dagli italiani), e ovviamente dai ricordi di un’altra vita fatta da affetti, consuetudini e attività quotidiane per un esercito in gran parte formata da contadini e artigiani. L’esistenza del soldato, condannato allo spirito gregario e alla passività, si svolgeva principalmente nei trinceramenti, all’insegna di quanto prescritto dai Comandi: “Pazientare, resistere, reggere alla fatica”. Nei diari dei soldati se ne ritrovano testimonianze significative, come quello del bersagliere Pietro Osella, contadino partito per il fronte nell’ottobre del 1916, che ricordando il proprio posizionamento sul Carso, scrive: “Faceva molto caldo, non c’era acqua, si soffriva di sete e anche della fame che tante volte le mitraglie austriache non lasciavano passare il rancio”. Il conflitto che visse la maggior parte dei soldati al fronte, oltre all’essere segnato da un’interminabile attesa, una paura paralizzante e il costante terrore della morte, fu contraddistinto da vari momenti di noia e patimenti causati dall’estrema variabilità del clima e del tempo. Per giorni e notti senza fine, a volte per settimane, i soldati in trincea furono costretti a vivere chini tra acqua e fango, al gelo (nel rigidissimo inverno tra il 1916 e il 1917 in alcuni punti del fronte si depositarono dai 6 ai 10 metri di neve), sguazzando nella melma oppure boccheggiando sotto il sole  cocente, protetti da qualche sacchetto di sabbia, da un riparo di legno, da un sasso, oppure dal corpo di qualche soldato morto in precedenza. Molte patologie erano la conseguenza della presenza di migliaia di cadaveri, che nessuno poteva seppellire, accanto a migliaia di vivi, stretti negli angusti spazi delle trincee. Nelle sue memorie anche il celebre giornalista e scrittore modenese Paolo Monelli ricordò: “Sopra un morto ho dormito”.
Non erano solo le armi a mietere vittime. Moltissimi soldati subirono gravi conseguenze a causa delle precarie condizioni igieniche. Se l’uso delle più moderne armi (tra cui le mitragliatrici, vero e proprio flagello) causò enormi perdite di vite umane, sui belligeranti infierirono pure le carestie e le malattie infettive, come la pandemia influenzale della cosiddetta Spagnola, una forma influenzale particolarmente devastante che, secondo stime attendibili, causò la morte di oltre 20 milioni di persone, cioè più vittime dell’intero conflitto mondiale. Le ferite, se non rapidamente curate, anche nei casi in cui non si rivelarono letali potevano diventarlo in breve a causa delle infezioni, degenerando in cancrene, setticemie e tetano. Nell’estate del 1915, prima le truppe austro-ungariche e in seguito tra quelle italiane, si diffuse anche il colera. Tra  i soldati dei due eserciti serpeggiavano inoltre malattie veneree, meningite, scabbia, tifo addominale, tigna, tubercolosi e febbri malariche. Vi erano poi le affezioni determinate dal clima, in particolare dall’esposizione al freddo e all’umidità, come congelamenti, febbri, malattie polmonari e reumatismi. I soldati, non potendo costruire latrine sotto il fuoco nemico, gettavano gli escrementi al di là del parapetto: la conseguenza inevitabile era che il sole, insieme alla putrefazione e ai liquami, moltiplicava le mosche e i parassiti. Fra i turni di guardia, chi era in trincea passava i momenti liberi a prendersi cura di sé spidocchiandosi, rattoppando e rammentando calze e guanti, lavando pezze da piedi o camicie e altri capi del vestiario. Molti dimostrarono una grande capacità di adattarsi nell’arrangiarsi servendosi degli utensili più disparati. Tutto ciò era normale: la vita di ogni soldato, prima che di un combattente, era infatti molto spesso quella di un contadino o artigiano particolarmente abile a ricavare oggetti più o meno utili da materiali poveri o di scarto. La Grande Guerra incise molto anche sulla tenuta mentale dei soldati. Vi sono varie testimonianze raccapriccianti su militari colpiti da turbe psicologiche, fino a ossessioni e sintomi di follia. Placido Consiglio, alienista dell’ospedale militare di Roma e futuro generale della Sanità, tra i tanti casi di anomalia del carattere dei militari in guerra studiò per esempio quello di un fante classe 1887, allontanatosi durante un combattimento, imputato di “diserzione di faccia al nemico”: “Fu trovato dopo due giorni a vagare per un paese, con aspetto intontito, pronunziando parole tronche e incomprensibili, maneggiando il fucile con atti strani e puntandolo contro i passanti che prendeva per nemici”.

La guerra dei veleni.

Il primo impiego su vasta scala dei gas avvenne il 22 aprile 1915 nei pressi della cittadina di Ypres, nelle Fiandre: i tedeschi lanciarono sulle linee alleate ben 168 tonnellate di cloro, una sostanza di cui in quegli anni producevano 60 tonnellate al giorno. I fanti francesi gasati furono 15mila, i morti otre cinquemila. Un paio di giorni dopo toccò ai canadesi, che cercarono di contenere i danni con fazzoletti bagnati di acqua e urina, tenuti premuti sulla bocca: i morti furono settemila. Gli italiani, invece, con ovvero gli effetti devastanti dei gas il 29 giugno 1916, quando subirono per la prima volta un attacco con l’aiuto chimico nel settore del monte San Michele, lungo il Carso, poco a sud di Gorizia. Alle ore 5,30 gli austriaci aprirono i rubinetti di seimila bombole disposte in casse. Il gas utilizzato era il fosgene, una miscela di cloro e ossido di carbonio, originariamente impiegato per la preparazione dei colori e la tintura di stoffe: i gasati furono ottomila e più di cinquemila le vittime nel girono di poche ore. In pratica, una cifra di poco inferiore alla somma di tutte le perdite italiane nelle guerre del periodo risorgimentale. Nella terza battaglia di Yepres, i tedeschi utilizzarono un nuovo gas vescicatorio contro il quale le maschere non potevano fare nulla: era l’iprite, determinante anche per lo sfondamento austro-tedesco su fronte italiano a Caporetto. Indossare la maschera anti-gas fu per tutti i combattenti della Grande Guerra un vero e proprio tormento, sia fisico sia psicologico. La respirazione con essa era piuttosto difficoltosa, ed era aggravata dallo sforzo fisico del combattimento, dalla paura e dalla tensione nervosa. La vista stessa dei soldati era ostacolata dall’appannamento delle lenti e dalle condizioni del terreno su cui ci si trovava. Vennero così studiati modelli sempre più perfezionati che portarono al termine del conflitto, al comune utilizzo dei “respiratori”, , facendo così diminuire drasticamente il numero delle vittime per opera dei gas. Se all’inizio del conflitto le vittime per ogni tonnellata di cloro lanciata erano oltre un migliaio, i progressi nella difesa fecero drasticamente calare tale numero a cinque nel 1918.
 
UNO SQUALLIDO RANCIO. Ai soldati italiani in trincea il cibo e le bevande non mancarono mai. Il vero problema era la loro qualità. Ottenere un rancio commestibile era spesso un’impresa. Dalle retrovie, dove si trovavano magazzini e depositi di viveri, partivano plotoni e squadre di soldati addetti alla corvè (dal francese corvè di epoca feudale, relativo a un servizio reso dal vassallo al signore tramite giornate di lavoro gratuito) con i rifornimenti. Il rancio, parzialmente cotto nelle cucine delle retrovie, veniva trasportato alle linee avanzate per mezzo delle casse di cottura, contenenti marmitte tecniche capaci di 25-30 razioni l’uno, che mantenevano costante a circa 60° per un’ora la minestra o zuppa: ciò consentiva di portare a termine la cottura durante il tragitto, di solito svolto in orario notturno oppure quando le condizioni di cattivo tempo limitavano la visibilità al nemico. I soldati potevano mangiare di notte o di mattina presto. Poiché la distribuzione del rancio era irregolare, spesso il cibo giungeva a destinazione freddo e scotto, praticamente colloso, sia in estate che in inverno. Al fine di rimediare alle frequenti condizioni penose dei pasti che pervenivano al fronte, particolarmente cari e preziosi per i combattenti furono gli “scaldaranci”, cilindretti di carta (più frequentemente rotolini di giornali) grossi come un rullino di pellicola fotografica dell’epoca, impregnati di paraffina e dotati di un fornelletto la cui costruzione era delegata al volontariato. Per tale attività di preparazione manuale concorrevano massicciamente le donne e i bambini riuniti nei vari comitati di assistenza sparsi per il Paese. La carta, avvolta e pressata più volte, veniva legata stretta. Gli “scaldaranci”, una volta confezionati, venivano spediti di fronte all’interno dei pacchi dono. Quattro “scaldaranci” facevano bollilre mezzo litro d’acqua in circa 15 minuti. Nonostante la produzione imponente, non erano comunque molto apprezzati in quanto non rispondenti alla effettiva necessità d’uso. Ecco perché il nomignolo “scaldaranci” fu attribuito durante la Grande Guerra dai soldati all’aspirante ufficiale, o utilizzato per bollare gli aspiranti inetti. A scarseggiare era invece l’acqua. Per chi era costretto all’immobilità sotto il sole estivo, a ridosso di muretti di pietra ardente, la sua mancanza fu un vero e proprio tormento (sul Carso, arido e roccioso, si soffrì la sete oltre ogni limite). “Se ne avessi un solo bicchiere lo pagherei magari 50 centesimi , anche sporca”, confessa nel suo diario il caporalmaggiore Enrico Conti (che morirà sul Carso nell’ottobre del 1915), disposto a dare, per placare quell’arsura, il corrispettivo della paga giornaliera di un soldato. Aggiungendoci anche le precario condizioni igieniche generali, la difficoltà di pulire la propria gavetta dai residui di cibo e il fatto che i soldati al fronte fossero spesso costretti a vere acqua inquinata, tutto ciò causò facilmente inconvenienti vari di salute, come le infezioni intestinali.

La vanghetta, il piccozzino e la baionetta.
Ogni combattente, italiano e austriaco, aveva una vanghetta (o badiletto) in dotazione. In alternativa, c’era il piccozzino. Gli italiani tenevano di solito entrambi sul lato sinistro esterno, fissati da legacci di cuoio, oppure in una borsetta di cuoio che serviva anche per portare la baionetta.
Sull’intero fronte di guerra venne prodotto un infinito lavoro di vanghette, picconi e trivelle per ricavare e rinforzare, molto spesso nella roccia, chilometri di trinceramenti, ma la vanghetta si rivelò anche indispensabile per l’assalto e la difesa (non a caso i soldati italiani ne affilavano i bordi), oltre a rappresentare, qualora conficcata, un minimo riparo per il viso del combattente: nell’angusto spazio della trincea, in mezzo alla grande confusione di materiali e uomini, nella concitazione degli scontri corpo a corpo, essa era ampiamente preferita come arma bianca rispetto alla baionetta. L’esercito italiano utilizzò 5 modelli di attrezzi leggeri, studiati per differenti impieghi: il piccozzino da fanteria di primo tipo serviva pure per tagliare rami se impiegato dalla parte della piccola ascia, risultando più utile della vanghetta nei convulsi e interminabili momenti in cui il soldato, raggiunti i reticolati posti dai nemici, cercava di aprire un varco. Il piccozzino era inoltre letale nel corpo a corpo. Negli scontri, gli austriaci usavano invece maggiormente il calcio del fucile e la baionetta. Quest’ultima a causa della crescente portata, precisione e cadenza di tiro dei fucili, aveva visto diminuire il proprio ruolo rispetto al passato, ma non venne mai abbandonata: l’impatto emotivo e la carica sia psicologica sia simbolica che creava, più che la sua efficacia offensiva, non persero mai il loro peso. Nonostante le ferite provocate dall’artiglieria e dalle armi moderne fossero decisamente più micidiali, ogni soldato teneva comunque la baionetta. Quando iniziò la guerra, le lame erano lunghe, ma nei combattimenti ravvicinati risultarono poco pratiche e furono sostituite da armi più adatte ed efficaci, i coltelli, con lame più corte e a doppio taglio. 
Cortesie tra nemici.
I contatti e gli scambi di qualsiasi natura tra soldati di opposti schieramenti erano proibiti e in caso di aggressione, pesantemente puniti. Un episodio che costò una punizione ufficiale avvenne per esempio tra il 24 e il 24 dicembre1916 fra soldati appostati nelle trincee sul Monte Zebio, nell’Altopiano dei Sette Comuni. A un certo punto gli Austriaci esposero un cartellone con sopra scritto in lingua tedesca, a grandi carattere, Buon Natale. Un caporale di 23 anni del 129° fanteria contraccambiò gridando un ringraziamento nella stessa lingua. Una voce domandò allora dove fosse finito un austriaco fatto prigioniero quello stesso giorno: l’italiano rispose che non lo sapeva. La notizia di tali scambi di cortesia fra combattenti contrapposti giunse al comando del battaglione il quale, essendo state impartite precise istruzioni da parte del comando del corpo d’armata, denunciò il graduato, condannato quindi il 14 febbraio 1917 dal Tribunale militare a un anno di reclusione “per rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico”. Nella parte settentrionale del fronte occidentale, a sud di Ypres, in Belgio, durante la notte di Natale 1914 venne concordata una tregua tra soldati nemici. Non fu ordinata a seguito di un accordo tra i comandi dei due schieramenti: si trattò invece di un fatto inaspettato e impensabile, un cessate il fuoco spontaneo dichiarato da britannici, francesi e tedeschi che usciti allo scoperto dalle opposte trincee s’incontrarono nella Terra di Nessuno scambiandosi solidarietà, cibo, bevande e materiali di conforto. “Gli ufficiali tedeschi hanno detto di volere un armistizio per seppellire i caduti. Eravamo tutti contenti del cessate il fuoco, e ci siamo messi a seppellire i mort. Il nostro cappellano ha potuto celebrare. Finita la messa abbiamo iniziato a fraternizzare con i tedeschi, come fossimo vecchi amici”, scrive un soldato britanni in una lettera. La notizia della tregua giunse anche alle orecchie di un caporale tedesco che nel suo diario appuntò indignato: “Dove è andato a finire l’onore dei tedeschi?”. Quel testo sarebbe stato pubblicato anni dopo con il titolo di Mein Kampf: il suo autore era Adolf Hitler.  
Fino all’ultimo respiro.
I momenti più angoscianti per un soldato non erano quelli dell’assalto, bensì dell’attesa, nell’immobilità. Nel diario dell’alpino Giuseppe Beltrami, presente nella battaglia della Bainsizza, del 18 agosto 1917, si legge: “Prima di arrivare in prima linea di combattimento, preghiamo chiedendo perdono al Signore per i nostri peccati. Mi metto a ridosso delle stuoio di mascheramento. Sono in piedi. Il rombo di un aereo nemico mi fa sussultare; pare si allontani ma poi fa ritorno; dopo qualche minuto una granata brilla sulla collina provocando una pioggia di sassi, uno dei quali, ricadendo, mi sfiora e colpisce gravemente un compagni alla spalla”. E quando finalmente scattava il momento in cui bisognava uscire dai trinceramenti, tutto diveniva precario. Si legge ancora nella testimonianza scritta dal soldato italiano: “Un nostro sergente, posto nell’avvallamento alle mie spalle, in preda all’eccitazione e urlando ai propri soldati di avanzare, si mette a sparare colpendo involontariamente il povero e valoroso maggiore, il quale si accascia vicino a me esalando l’ultimo respiro. Il nostro caporalmaggiore trombettiere, vista la situazione moto grave e pericolosa, ci ordina di avanzare consentendoci di lasciare la coperta, la mantellina e la gavetta per correre con più agilità. Inizio a muovermi e passo in un punto stretto fra due sassi: la cassetta del telefono si incastra e mi impedisce di avanzare. Il tenente mi ordina minacciosamente di andare avanti gridandomi che mi sparerà  se non mi sbrigo. Non gli occorre molto tempo per rendersi conto della mia impossibilità a muovermi. Mi sorpassa frettoloso sulla destra e tira dritto sulla cima della collina. Un colpo di mitraglia lo colpisce e muore. La mischia è furibonda, da ogni parte morte e feriti. È difficile mantenere la postazione raggiunta; siamo costretti a retrocedere per porci al riparo. Alle 5 di sera il nostro capitano fa l’appello: di 280 siamo rimasti solo 73!”-
La battaglia della Somme.
Soldati in trincea durante la battaglia della Somme, luglio 1916

Dopo un massiccio fuoco di preparazione durato una settimana (oltre un milione di granate ad alto potenziale sparate da più di 1500 bocche da fuoco inglesi e da 850 pezzi francesi) e lo scoppio di dieci enormi mine, sul fronte della Somme, fiume della Francia settentrionale, il 1° luglio 1916 iniziò l’attacco della fanteria contro le linee tedesche. Tutti, comandi e truppe, erano fermamente convinti che dopo una simile aggressione dei nemici non fosse rimasto molto. I soldati inglesi uscirono così dalle trincee per marciare vittoriosamente: li attendeva invece un tragico e beffardo destino. I tedeschi avevano avuto a disposizione un intero anno per preparare le proprie difese e scavato rifugi di enormi dimensioni nel sottosuolo calcareo della Somme: linee presidiate da truppe bene addestrate e preparate alla mobilità, difese da masse di filo spinato larghe fino a 25 metri, trinceramenti collegati a posti di pronto soccorso, depositi, riserve di munizioni e ricoveri scavati fino a una profondità di 30 metri sotto la superficie, con luce elettrica e collegamenti telefonici che consentivano di comunicare con le retrovie la posizione dell’artiglieria. In pratica, una strutturata, ben servita ed efficiente città  sotterranea. Alle 7,25 di un azzurro mattino, migliaia di fanti avanzarono lentamente a ondate che si susseguivano come in una parata: i comandi avevano infatti dato ordine d’avanzare in linea con un carico individuale supplementare di trenta chili di munizioni, razioni alimentari, utensili per il trinceramento e bobine di filo spinato. I tedeschi, che grazie alle resistenti protezioni adottate in precedenza contro i calibri inglesi avevano subito lievi perdite, dopo una lunga attesa sbucarono a sorpresa da trincee, ripari e rifugi iniziando a martellare i nemici, letteralmente spazzati via da un fuoco incrociato e in parte annientati tragicamente dal fuoco amico della propria artiglieria, incapace di correggere il tiro. Nel giro di poche ore la British Expeditionary Force perse circa 57mila uomini (più del 50% dei quali soltanto nella prima ora). Si trattò del giorno più sanguinoso nella storia dei conflitti dell’esercito del Regno Unito.    

UN ESERCITO DI INVALIDI. In trincea le defezioni non mancarono, e i reati di codardi, come lo sbandamento e la fuga, oppure quelli di ammutinamento portarono a esecuzioni che spesso non vennero documentate ufficialmente. Nei processi ai disertori monti confessavano d’essersi allontanati per nostalgia di casa. I soldati vivevano infatti continuamente nell’angoscia di non riabbracciare i propri cari, e i brevi allontanamenti per salutare i congiunti prima di partire per la prima linea avveniva sotto la spinta di un’intensa emotività. Il senso dell’estrema precarietà delal vita conferiva un grande valore a quegli incontri che potevano essere gli ultimi. Se oltre 600mila soldati italiani morirono in battaglia, soltanto il 50% perì a causa di ferite. Pur di passare un certo periodo in retrovia o di essere esonerati dal servizio militare, molti militari schierati in prima linea furono disposti a procurarsi ferite, simulare malattie e ingerire sostanze tossiche. Mentre le statistiche ufficiali in merito risultano approssimative, gli episodi in tal senso si contano nell’ordine delle migliaia: tale fenomeno assunse proporzioni tanto vistose da obbligare i Comandi a istituire ospedali dedicati agli autolesionisti e ad applicare una disciplina di ferro. Una moltitudine di solti preferì barattare la guerra con il proprio corpo, condannandosi così a un’esistenza infelice.

Articolo in gran parte di Saverio Mirijello pubblicato su Storie di guerre e guerrieri anthology n. 1 altri testi e immagini da wikipedia

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