mercoledì 17 aprile 2019

La battaglia di Teotoburgo


La foresta delle legioni perdute.
In tre giorni di battaglia, all’interno di una delle foreste più tenebrose e inaccessibili di tutta la Germania, Roma perse ben tre legioni. Fu una sconfitta epocale, che determinò l’abbandono definitivo di ogni velleità di spingere i confini imperiali a oriente del
Reno.

testa di Augusto e due aquile legionarie

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Battaglia della Foresta di Teutoburgo
parte delle Guerre romano-germaniche
Akvy Secstievy Battle.jpg
L'armata romana di Varo è sorpresa nella foresta di Teutoburgo (oggi Kalkriese)
Data8-11 settembre 9 d.C.
LuogoForesta di Teutoburgo (attuale Kalkriese)
EsitoDecisiva vittoria dei Germani, fine dell'espansione romana oltre il Reno
Schieramenti
Comandanti
Effettivi
legioni, 3 ali e 6 coorti ausiliarie, probabilmente 15 000 legionari e 4 500/5 000 ausiliari (a ranghi completi)sconosciuto, probabilmente 20 000/25 000
Perdite
circa 15 000 uominisconosciuto, 500-1 000
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La battaglia della Foresta di Teutoburgo, chiamata clades Variana (la disfatta di Varo) dagli storici romani, si svolse nell'anno 9 d.C. tra l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, ufficiale delle truppe ausiliarie di Varo, ma segretamente anche capo dei Cherusci. La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese,[1] nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai Romani: tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX) furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria.[2]
Per riscattare l'onore dell'esercito sconfitto, i Romani diedero inizio a una guerra durata sette anni, al termine della quale rinunciarono a ogni ulteriore tentativo di conquista della Germania. Il Reno si consolidò come definitivo confine nord-orientale dell'Impero per i successivi 400 anni.

Tre legioni, sei coorti di fanteria ausiliaria e tre ali di cavalleria completamente annientate. 15mila uomini persi in soli quattro giorni (tra l’8 e l’11 settembre del 9 d.C.) in quella che fu una delle più terribili sconfitte mai subite dall’esercito romano, e che gli storici contemporanei battezzarono subito clades Variana, la disfatta di Varo.
Diverse campagne militati di Tiberio, figlio adottivo dell’imperatore Augusto, avevano portato alla conquista della Germania Settentrionale (tra il 4 e il 5 d.C.) e sedato una potenziale rivolta dei Cherusci. Sembrava che, dopo vent’anni di guerre, i territori tra il corso del Reno e quello dell’Elba fossero finalmente pronti per essere romanizzati e trasformati in provincie, com’era accaduto alla Gallia sottomessa da Cesare. Augusto decise quindi di affidarne l’amministrazione a un politico, l’ex governatore della Siria Publio Quintilio Varo, che era suo parente alla lontana, avendo sposato la figlia del genero. Si trattava anche di una mossa diplomatica: mettere un non militare a capo del territorio avrebbe spento le ansie di rivolta dei Germani, o almeno così sperava l’imperatore. In realtà, nei confronti da romanizzare Varo adottò una politica da invasore, trattandoli come sudditi e non come potenziali cittadini. Scrive Cassio Dione (155-235) nella sua Storia romana: “Varo assunse il comando, imponendo ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e costringendoli a una tassazione esagerata, come accade per gli Stati sottomessi. I Germani non tollerarono la situazione, poiché i loro capi miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero”.

La provincia romana di Germania Magna nel 9 d.C.

Un eroe per la Germania.
L'Hermannsdenkmal, la statua in rame di Arminio, eroe nazionale tedesco, alta 26 metri, situata a Detmold nella regione westfalica

La memoria di quanto accade a Teutoburgo si perse per diversi secoli, nonostante molti storici romani ne avessero parlato diffusamente. In epoca medievale, infatti, molti testi latini di età pagana vennero obliati. Le gesta del principe Arminio e la sua strepitosa vittoria sui Romani restarono, comunque, uno dei temi delle leggende tramandole oralmente dai vari popoli germanici. Tra Quattro e Cinquecento, finalmente, vennero recuperati, letti e diffusi i testi di Tacito (la Germania e gli Annali), oltre a un’opera di Floro (75-145), l’Epitome, che tratta diffusamente della battaglia di Teutoburgo. L’ultimo testo a venire alla luce fu la Storia romana di Velleio Patercolo. A quel punto la vicenda di Arminio smise di essere considerata alla stregua di una leggenda, diventando un’epopea nazionale. Soprattutto tra Ottocento e Novecento, quando la Germania si avviava a contendere alla Francia il ruolo di maggiore potenza continentale europea, l’uomo che aveva sconfitto Roma divenne il simbolo del popolo tedesco dominatore. A lui furono dedicate diverse opere e lo storico Theodor Mommsen lo mise in parallelo con Otto von Biskmarck, vedendo nella battaglia di Teoburgo un punto di svolta nella storia germanica. Fu sempre in quel periodo, che ad Arminio fu dedicato il colossale Hermannsdenkmal, un monumento alto oltre 53 m, eretto nell’attuale foresta di Teutoburgo e completato nel 1875.

Ricostruzione del luogo della battaglia, con il terrapieno costruito dai barbari per imbottigliare le legioni di Varo.

L’ORA DELLA RIBELLIONE. I Germani aspettavano il momento migliore per scatenare le ostilità, che arrivò nella tarda estate del 9 d.C. Erano i primi giorni di settembre e Varo, chiusa la stagione di guerra (che per i Romani iniziava a marzo e finiva a ottobre), stava per dirigersi verso i campi invernali, che si trovavano sul fiume Lippe (affluente del Reno), a Castro Vetera (l’attuale Xanten) e ad Ara Ubiorum (Colonia). Alla testa di tre legioni (la XVII, XVIII e XIX), con ausiliari e civili, puntava a nordovest, affidandosi alle indicazioni delle guide germaniche. Non sospettava minimante che Arminio, messosi a capo di una coalizione di tribù con intenzioni ribelli, avesse preparato per lui una trappola formidabile. In realtà, qualcuno lo aveva avvisato del pericolo. Si trattava di Segeste, futuro suocero di Arminio, che lo aveva informato dell’agguato. Ma Varo non gli aveva dato retta e il piano precedette senza intoppi. Nel territorio dei Bruceri era stata simulata una rivolta e il comandante dei Romani decise di operare una deviazione per andare a sedarla. S’inoltrò così in una folta selva circondata da acquitrini: la foresta di Teutoburgo, luogo prescelto da Arminio per il suo agguato. i Germani che dovevano partecipare alle operazioni (Cherusci, Brucreri, Catti e Marsi) aspettavano nascosti tra gli alberi: l’arrivo dei nemici, a cui non avrebbero dato scampo. Scrive Dione Cassio: “Il terreno era sconnesso e intervallato da dirupi. I Romani portavano con sé carri, bestie da soma, donne, bambini e schiavi. Nel frattempo si abbattevano su di loro una violenta pioggia e un forte vento, che dispersero la colonna in marcia”. Quella su cui procedevano i Romani era infatti poco più di una pista, malamente tracciata tra la fitta vegetazione; le difficoltà del percorso avevano fatto allungare le file degli uomini di Varo, dispersi ormai su almeno 3 miglia. Fu proprio mentre si trovavano in questi difficili frangenti che Arminio decise di attaccarli. Il germano aveva predisposto ogni cosa con cura. Come luogo dell’agguato aveva scelto una strettoia in cui il passaggio degli uomini si riduceva a poche decine di metri. Parte del territorio era paludosa, inoltre Arminio aveva fatto innalzare un terrapieno lungo quasi mezzo miglio e largo 5 m, in modo che i Romani si trovassero imbottigliati e senza via di fuga. Dietro il terrapieno si nascondeva una parte dei suoi uomini, mentre il resto era celato dalla vicina collina: si trattava in tutto di più di 20mila uomini.


La mappa della disfatta di Varo, nella Selva di Teutoburgo



UN TENTATIVO DI DIFESA. I barbari circondarono i Romani, presero a colpirli da lontano con giavellotti e frecce e poi li assalirono. I legionari, a ranghi separati, impreparati, senza l’armamento a portata di mano e ostacolati dal terreno sfavorevole, non potevano reagire efficacemente. Solo a fine giornata, dopo aver subito un notevole numero di perdite, Varo riuscì a riorganizzare l’esercito e si accampò su un’altura coperta da boschi. Era il 9 settembre e la battaglia era appena cominciata.
Il giorno successivo, cercando di prepararsi a una difesa migliore, gli uomini di Varo bruciarono la maggior parte dei carriaggi e i bagagli inutili. Avanzando in schiere ordinate riuscirono a raggiungere una zona di campo aperto. Riorganizzatisi, ripresero la marcia, nella speranza di avvicinarsi il più possibile a Castra Vetera per richiedere il soccorso di Asprenate, comandante del campo. La pista si snodava attraverso cupi tratti di foresta. L’umidità della tarda estate e la vicinanza della palude scatenavano sui soldati nugoli di zanzare e altri insetti. Gli uomini di Arminio, che ben conoscevano la zona, non davano loro tregua, assalendoli di continuo per impedire che i legionari si schierassero in maniera organizzata. Ben sapevano che in campo aperto i Romani sarebbero risultati imbattibili. Continuavano quindi nelle loro improvvise sortite, e fu proprio grazie a tale strategia che inflissero ai Romani le perdite maggiori, perché lo spazio limitato in mezzo alla foresta impediva loro di serrare i ranghi. Si giunse così al terzo giorno di battaglia, che si rivelò il più drammatico per l’armata di Var, già decimata dai violenti scontri dei giorni precedenti. La pioggia e il vento, che si erano di nuovo scatenati, impedivano ai soldati di costruire un accampamento in cui ripararsi. In alcuni momenti, il diluvio era tale da rendere le armi scivolose e quasi impossibili da maneggiare. I Germani, al contrario, avevano meno difficoltà, perché il loro armamento era più leggero. Senza contare che nuovi combattimenti erano venuti a dar manforte ai primi protagonisti dell’agguato. Le schiere dei barbari sembravano non esaurirsi mai. I Romani, al contrario, decimati e stanchi, venivano assalito da ogni parte e messi continuamente in difficoltà.
Fu proprio in quel drammatico frangente che Varo, e con lui molti ufficiale di alto rango, per paura di essere fatti prigionieri decisero di togliersi la vita. Come scrisse lo storico Velleio Patercolo (10 a.C. – 31 d.C.): “Varo si rivelò più coraggioso nell’uccidersi che nel combattere, e si trafisse con la spada”. La notizia della morte del comandante si diffuse rapidamente tra le file romane. Molti soldati si diedero la morte a loro volta, oppure cercarono di darsi alla fuga. L’esercito era ormai allo sbando,fatti salvi alcuni nuclei, guidati da centurioni o ufficiali particolarmente tenaci e valorosi. Alla fine, lo scontro si chiuse con la disfatta dei Romani, che persero tre intere legioni e circa 5000 ausiliari. Molti soldati furono mutilati e torturati dai Germani. Asprenate, che era nipote di Varo, riuscì a malapena a soccorrere i pochi superstiti con le sue due legioni. Intanto i Germani, entusiasti per il successo riportato, avevano attaccato anche il campo invernale eretto dai Romani lungo il corso del fiume e Cassio, Lippe. I soldati di guarnigione, però, sotto la guida del prefetto Lucio Cedicio, opposero una strenua resistenza, misero in fuga gli assedianti e riuscirono ad eludere l’accerchiamento, mettendosi in salvo a Castra Vetera. Le conseguenza della battaglia di Teutoburgo andarono ben oltre la perdita di un intero esercito. Secondo Dione Cassio, “i barbari s’impadronirono di tutti i forti, tranne uno, ma non poterono attraversare il Reno e invadere la Gallia”.

Dove tutto accadde.
Maschera da parata in ferro ricoperta d'argento appartenuta ad un cavaliere romano, rinvenuta sul luogo della battaglia.

Il luogo in cui si svolse la battaglia di Teutoburgo fu identificato ai primi del Settecento da Zacharias Goeze. L’erudito tedesco era appassionato di monete, e ne aveva potute esaminare alcune ritrovate nella località di Kalkriese in Bassa Sassonia. In base al numero di monete recuperate in zona, anche lo storico Mommsen era convinto che quello fosse il sito della battaglia. La certezza si ebbe solo negli anni Ottanta del Novecento, grazie a una imponente campagna di scavi che permise di recuperare oltre 4000 reperti.  Tra di essi ci sono spade, pugnali, parti di elmi e di scudi, punte di lance e di frecce, strumenti quotidiani e una straordinaria maschera da parata di ferro ricoperta d’argento: apparteneva a un legionario, è diventata simbolo del museo locale. Sono stati ritrovati anche oggetti femminili, come forcine e spille, che testimoniano la presenza di donne nella colonna romana, oltre a resti di animali. Si è anche potuto identificare il terrapieno fatto innalzare da Arminio e dietro il quale si nascosero i suoi uomini per assalire i Romani dopo averli imbottigliati nella foresta. Di recente sono anche state recuperate alcune rare monete d’oro di epoca augustea, perdute oppure seppellite poco prima della battaglia. 

Il possibile percorso di Varo, dalla porta Westfalicasul Weser, fino a Kalkriese dove lo attendeva Arminioper tendergli l'agguato.

LE REAZIONI DI ROMA. La notizia del disastro giunse a Roma rapidamente, seminando panico e sconforto. Svetonio, nelle Vite dei dodici Cesari scrive che Augusto ne fu così colpito da farsi crescere la barba e i capelli in segno di lutto. Pensando alla disfatto, spesso batteva la testa contro le porte e gridava: “Quintili VAre, legionese redde!” (Varo ridammi le legioni). Varo non solo non poteva rendere nulla, anzi aveva perso anche la testa. Il suo cadavere era stato mutilato, bruciato e decapitato, e Arminio ne aveva fatto recapitare la testa a Maroboduo, il re dei Marcomanni, sperando di stringere un’alleanza con lui e continuare la guerra. Costui, però, fece recapitare il macabro trofeo a Tiberio e non appoggiò la rivolta, tenendo fede ai patti stipulati con i Romani. Costoro spedirono in Germania un nuovo esercito, guidato da Tiberio stesso, che compì una specie di rappresaglia, recandosi oltre il Reno e devastando territori e villaggi.
Negli anni successivi, anche Germanico guidò nuove campagne per ristabilire l’onore militare di Roma oltre il Reno e recuperare le tre aquile, simbolo delle legioni, andate perdute in battaglia. la prima, quella della Legio XIX, fu ritrovata presso i Bructeri da Lucio Stertinio. Il luogo in cui era custodita la seconda fu rivelato da un capo della tribù dei Marsi, fatto prigioniero nel 15 d.C., dopo essere stato sconfitto nella battaglia di Idistaviso. Della terza non si seppe nulla fino al 41, quando fu recuperata in un villaggio dei Cauci. Dopo la disfatta, nessuna legione prese più il nome di quelle annientate a Teutiburgo. Roma rinunciò inoltre a qualunque ulteriore penetrazione in Germania, anche perché la conquista non era considerata vantaggiosa, essendo la regione povera e paludosa. Come nota lo storico Peter S. Wells nel libro La battaglia che fermò l’Impero romano. La disfatta di Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo, “Roma perse la Germania e la Germania perse Roma”.

Articolo in gran parte di Marco Mazzei pubblicato su Civiltà Romana n. 2 Sprea Editori. Altri testi e immagini da Wikipedia

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