La foresta delle
legioni perdute.
In tre giorni di
battaglia, all’interno di una delle foreste più tenebrose e inaccessibili di
tutta la Germania, Roma perse ben tre legioni. Fu una sconfitta epocale, che
determinò l’abbandono definitivo di ogni velleità di spingere i confini
imperiali a oriente del
Battaglia della Foresta di Teutoburgo parte delle Guerre romano-germaniche | |||
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L'armata romana di Varo è sorpresa nella foresta di Teutoburgo (oggi Kalkriese) | |||
Data | 8-11 settembre 9 d.C. | ||
Luogo | Foresta di Teutoburgo (attuale Kalkriese) | ||
Esito | Decisiva vittoria dei Germani, fine dell'espansione romana oltre il Reno | ||
Schieramenti | |||
Comandanti | |||
Effettivi | |||
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Perdite | |||
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La battaglia della Foresta di Teutoburgo, chiamata clades Variana (la disfatta di Varo) dagli storici romani, si svolse nell'anno 9 d.C. tra l'esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, ufficiale delle truppe ausiliarie di Varo, ma segretamente anche capo dei Cherusci. La battaglia ebbe luogo nei pressi dell'odierna località di Kalkriese,[1] nella Bassa Sassonia, e si risolse in una delle più gravi disfatte subite dai Romani: tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX) furono annientate, oltre a 6 coorti di fanteria e 3 ali di cavalleria ausiliaria.[2]
Per riscattare l'onore dell'esercito sconfitto, i Romani diedero inizio a una guerra durata sette anni, al termine della quale rinunciarono a ogni ulteriore tentativo di conquista della Germania. Il Reno si consolidò come definitivo confine nord-orientale dell'Impero per i successivi 400 anni.
Tre
legioni, sei coorti di fanteria ausiliaria e tre ali di cavalleria
completamente annientate. 15mila uomini persi in soli quattro giorni (tra l’8 e
l’11 settembre del 9 d.C.) in quella che fu una delle più terribili sconfitte
mai subite dall’esercito romano, e che gli storici contemporanei battezzarono
subito clades Variana, la disfatta di Varo.
Diverse campagne
militati di Tiberio, figlio adottivo dell’imperatore Augusto, avevano portato
alla conquista della Germania Settentrionale (tra il 4 e il 5 d.C.) e sedato
una potenziale rivolta dei Cherusci. Sembrava che, dopo vent’anni di guerre, i
territori tra il corso del Reno e quello dell’Elba fossero finalmente pronti
per essere romanizzati e trasformati in provincie, com’era accaduto alla Gallia
sottomessa da Cesare. Augusto decise quindi di affidarne l’amministrazione a un
politico, l’ex governatore della Siria Publio Quintilio Varo, che era suo
parente alla lontana, avendo sposato la figlia del genero. Si trattava anche di
una mossa diplomatica: mettere un non militare a capo del territorio avrebbe
spento le ansie di rivolta dei Germani, o almeno così sperava l’imperatore. In
realtà, nei confronti da romanizzare Varo adottò una politica da invasore,
trattandoli come sudditi e non come potenziali cittadini. Scrive Cassio Dione
(155-235) nella sua Storia romana: “Varo
assunse il comando, imponendo ordini come se si rivolgesse a degli schiavi e
costringendoli a una tassazione esagerata, come accade per gli Stati
sottomessi. I Germani non tollerarono la situazione, poiché i loro capi
miravano a ripristinare l’antico e tradizionale stato di cose, mentre i loro
popoli preferivano i precedenti ordinamenti al dominio di un popolo straniero”.
Un
eroe per la Germania.
L'Hermannsdenkmal, la statua in rame di Arminio, eroe nazionale tedesco, alta 26 metri, situata a Detmold nella regione westfalica
La
memoria di quanto accade a Teutoburgo si perse per diversi secoli, nonostante
molti storici romani ne avessero parlato diffusamente. In epoca medievale,
infatti, molti testi latini di età pagana vennero obliati. Le gesta del
principe Arminio e la sua strepitosa vittoria sui Romani restarono, comunque,
uno dei temi delle leggende tramandole oralmente dai vari popoli germanici.
Tra Quattro e Cinquecento, finalmente, vennero recuperati, letti e diffusi i
testi di Tacito (la Germania e gli Annali), oltre a un’opera di Floro
(75-145), l’Epitome, che tratta diffusamente della battaglia di Teutoburgo.
L’ultimo testo a venire alla luce fu la Storia romana di Velleio Patercolo. A
quel punto la vicenda di Arminio smise di essere considerata alla stregua di
una leggenda, diventando un’epopea nazionale. Soprattutto tra Ottocento e
Novecento, quando la Germania si avviava a contendere alla Francia il ruolo
di maggiore potenza continentale europea, l’uomo che aveva sconfitto Roma
divenne il simbolo del popolo tedesco dominatore. A lui furono dedicate
diverse opere e lo storico Theodor Mommsen lo mise in parallelo con Otto von
Biskmarck, vedendo nella battaglia di Teoburgo un punto di svolta nella
storia germanica. Fu sempre in quel periodo, che ad Arminio fu dedicato il
colossale Hermannsdenkmal, un monumento alto oltre 53 m, eretto nell’attuale
foresta di Teutoburgo e completato nel 1875.
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Ricostruzione del luogo della battaglia, con il terrapieno costruito dai barbari per imbottigliare le legioni di Varo.
L’ORA DELLA RIBELLIONE. I Germani aspettavano
il momento migliore per scatenare le ostilità, che arrivò nella tarda estate
del 9 d.C. Erano i primi giorni di settembre e Varo, chiusa la stagione di
guerra (che per i Romani iniziava a marzo e finiva a ottobre), stava per
dirigersi verso i campi invernali, che si trovavano sul fiume Lippe (affluente
del Reno), a Castro Vetera (l’attuale Xanten) e ad Ara Ubiorum (Colonia). Alla
testa di tre legioni (la XVII, XVIII e XIX), con ausiliari e civili, puntava a
nordovest, affidandosi alle indicazioni delle guide germaniche. Non sospettava
minimante che Arminio, messosi a capo di una coalizione di tribù con intenzioni
ribelli, avesse preparato per lui una trappola formidabile. In realtà, qualcuno
lo aveva avvisato del pericolo. Si trattava di Segeste, futuro suocero di
Arminio, che lo aveva informato dell’agguato. Ma Varo non gli aveva dato retta
e il piano precedette senza intoppi. Nel territorio dei Bruceri era stata
simulata una rivolta e il comandante dei Romani decise di operare una
deviazione per andare a sedarla. S’inoltrò così in una folta selva circondata
da acquitrini: la foresta di Teutoburgo, luogo prescelto da Arminio per il suo
agguato. i Germani che dovevano partecipare alle operazioni (Cherusci,
Brucreri, Catti e Marsi) aspettavano nascosti tra gli alberi: l’arrivo dei
nemici, a cui non avrebbero dato scampo. Scrive Dione Cassio: “Il terreno era sconnesso e intervallato da
dirupi. I Romani portavano con sé carri, bestie da soma, donne, bambini e
schiavi. Nel frattempo si abbattevano su di loro una violenta pioggia e un
forte vento, che dispersero la colonna in marcia”. Quella su cui
procedevano i Romani era infatti poco più di una pista, malamente tracciata tra
la fitta vegetazione; le difficoltà del percorso avevano fatto allungare le
file degli uomini di Varo, dispersi ormai su almeno 3 miglia. Fu proprio mentre
si trovavano in questi difficili frangenti che Arminio decise di attaccarli. Il
germano aveva predisposto ogni cosa con cura. Come luogo dell’agguato aveva
scelto una strettoia in cui il passaggio degli uomini si riduceva a poche
decine di metri. Parte del territorio era paludosa, inoltre Arminio aveva fatto
innalzare un terrapieno lungo quasi mezzo miglio e largo 5 m, in modo che i
Romani si trovassero imbottigliati e senza via di fuga. Dietro il terrapieno si
nascondeva una parte dei suoi uomini, mentre il resto era celato dalla vicina
collina: si trattava in tutto di più di 20mila uomini.
La mappa della disfatta di Varo, nella Selva di Teutoburgo
UN TENTATIVO DI DIFESA. I barbari circondarono
i Romani, presero a colpirli da lontano con giavellotti e frecce e poi li
assalirono. I legionari, a ranghi separati, impreparati, senza l’armamento a
portata di mano e ostacolati dal terreno sfavorevole, non potevano reagire
efficacemente. Solo a fine giornata, dopo aver subito un notevole numero di
perdite, Varo riuscì a riorganizzare l’esercito e si accampò su un’altura
coperta da boschi. Era il 9 settembre e la battaglia era appena cominciata.
Il giorno successivo,
cercando di prepararsi a una difesa migliore, gli uomini di Varo bruciarono la
maggior parte dei carriaggi e i bagagli inutili. Avanzando in schiere ordinate
riuscirono a raggiungere una zona di campo aperto. Riorganizzatisi, ripresero
la marcia, nella speranza di avvicinarsi il più possibile a Castra Vetera per
richiedere il soccorso di Asprenate, comandante del campo. La pista si snodava
attraverso cupi tratti di foresta. L’umidità della tarda estate e la vicinanza
della palude scatenavano sui soldati nugoli di zanzare e altri insetti. Gli
uomini di Arminio, che ben conoscevano la zona, non davano loro tregua,
assalendoli di continuo per impedire che i legionari si schierassero in maniera
organizzata. Ben sapevano che in campo aperto i Romani sarebbero risultati
imbattibili. Continuavano quindi nelle loro improvvise sortite, e fu proprio
grazie a tale strategia che inflissero ai Romani le perdite maggiori, perché lo
spazio limitato in mezzo alla foresta impediva loro di serrare i ranghi. Si
giunse così al terzo giorno di battaglia, che si rivelò il più drammatico per
l’armata di Var, già decimata dai violenti scontri dei giorni precedenti. La
pioggia e il vento, che si erano di nuovo scatenati, impedivano ai soldati di
costruire un accampamento in cui ripararsi. In alcuni momenti, il diluvio era
tale da rendere le armi scivolose e quasi impossibili da maneggiare. I Germani,
al contrario, avevano meno difficoltà, perché il loro armamento era più
leggero. Senza contare che nuovi combattimenti erano venuti a dar manforte ai primi
protagonisti dell’agguato. Le schiere dei barbari sembravano non esaurirsi mai.
I Romani, al contrario, decimati e stanchi, venivano assalito da ogni parte e
messi continuamente in difficoltà.
Fu proprio in quel
drammatico frangente che Varo, e con lui molti ufficiale di alto rango, per
paura di essere fatti prigionieri decisero di togliersi la vita. Come scrisse
lo storico Velleio Patercolo (10 a.C. – 31 d.C.): “Varo si rivelò più coraggioso nell’uccidersi che nel combattere, e si
trafisse con la spada”. La notizia della morte del comandante si diffuse
rapidamente tra le file romane. Molti soldati si diedero la morte a loro volta,
oppure cercarono di darsi alla fuga. L’esercito era ormai allo sbando,fatti
salvi alcuni nuclei, guidati da centurioni o ufficiali particolarmente tenaci e
valorosi. Alla fine, lo scontro si chiuse con la disfatta dei Romani, che
persero tre intere legioni e circa 5000 ausiliari. Molti soldati furono
mutilati e torturati dai Germani. Asprenate, che era nipote di Varo, riuscì a
malapena a soccorrere i pochi superstiti con le sue due legioni. Intanto i
Germani, entusiasti per il successo riportato, avevano attaccato anche il campo
invernale eretto dai Romani lungo il corso del fiume e Cassio, “Lippe. I soldati di guarnigione, però,
sotto la guida del prefetto Lucio Cedicio, opposero una strenua resistenza,
misero in fuga gli assedianti e riuscirono ad eludere l’accerchiamento,
mettendosi in salvo a Castra Vetera. Le conseguenza della battaglia di
Teutoburgo andarono ben oltre la perdita di un intero esercito. Secondo Dione
Cassio, “i barbari s’impadronirono di
tutti i forti, tranne uno, ma non poterono attraversare il Reno e invadere la
Gallia”.
Dove tutto accadde.
Maschera da parata in ferro ricoperta d'argento appartenuta ad un cavaliere romano, rinvenuta sul luogo della battaglia.
Il luogo in cui si svolse la
battaglia di Teutoburgo fu identificato ai primi del Settecento da Zacharias
Goeze. L’erudito tedesco era appassionato di monete, e ne aveva potute
esaminare alcune ritrovate nella località di Kalkriese in Bassa Sassonia. In base
al numero di monete recuperate in zona, anche lo storico Mommsen era convinto
che quello fosse il sito della battaglia. La certezza si ebbe solo negli anni
Ottanta del Novecento, grazie a una imponente campagna di scavi che permise
di recuperare oltre 4000 reperti. Tra
di essi ci sono spade, pugnali, parti di elmi e di scudi, punte di lance e di
frecce, strumenti quotidiani e una straordinaria maschera da parata di ferro
ricoperta d’argento: apparteneva a un legionario, è diventata simbolo del
museo locale. Sono stati ritrovati anche oggetti femminili, come forcine e
spille, che testimoniano la presenza di donne nella colonna romana, oltre a
resti di animali. Si è anche potuto identificare il terrapieno fatto
innalzare da Arminio e dietro il quale si nascosero i suoi uomini per
assalire i Romani dopo averli imbottigliati nella foresta. Di recente sono
anche state recuperate alcune rare monete d’oro di epoca augustea, perdute
oppure seppellite poco prima della battaglia.
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Il possibile percorso di Varo, dalla porta Westfalicasul Weser, fino a Kalkriese dove lo attendeva Arminioper tendergli l'agguato.
LE REAZIONI DI ROMA. La notizia del disastro
giunse a Roma rapidamente, seminando panico e sconforto. Svetonio, nelle Vite
dei dodici Cesari scrive che Augusto ne fu così colpito da farsi crescere la
barba e i capelli in segno di lutto. Pensando alla disfatto, spesso batteva la
testa contro le porte e gridava: “Quintili VAre, legionese redde!” (Varo
ridammi le legioni). Varo non solo non poteva rendere nulla, anzi aveva perso
anche la testa. Il suo cadavere era stato mutilato, bruciato e decapitato, e
Arminio ne aveva fatto recapitare la testa a Maroboduo, il re dei Marcomanni,
sperando di stringere un’alleanza con lui e continuare la guerra. Costui, però,
fece recapitare il macabro trofeo a Tiberio e non appoggiò la rivolta, tenendo
fede ai patti stipulati con i Romani. Costoro spedirono in Germania un nuovo
esercito, guidato da Tiberio stesso, che compì una specie di rappresaglia,
recandosi oltre il Reno e devastando territori e villaggi.
Negli anni successivi,
anche Germanico guidò nuove campagne per ristabilire l’onore militare di Roma
oltre il Reno e recuperare le tre aquile, simbolo delle legioni, andate perdute
in battaglia. la prima, quella della Legio XIX, fu ritrovata presso i Bructeri
da Lucio Stertinio. Il luogo in cui era custodita la seconda fu rivelato da un
capo della tribù dei Marsi, fatto prigioniero nel 15 d.C., dopo essere stato
sconfitto nella battaglia di Idistaviso. Della terza non si seppe nulla fino al
41, quando fu recuperata in un villaggio dei Cauci. Dopo la disfatta, nessuna
legione prese più il nome di quelle annientate a Teutiburgo. Roma rinunciò
inoltre a qualunque ulteriore penetrazione in Germania, anche perché la
conquista non era considerata vantaggiosa, essendo la regione povera e
paludosa. Come nota lo storico Peter S. Wells nel libro La battaglia che fermò
l’Impero romano. La disfatta di Quintilio Varo nella selva di Teutoburgo, “Roma
perse la Germania e la Germania perse Roma”.
Articolo in gran parte
di Marco Mazzei pubblicato su Civiltà Romana n. 2 Sprea Editori. Altri testi e
immagini da Wikipedia
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