sabato 28 dicembre 2019

La parabola dei mostri d’acciaio. L’uso dei carri armati italiani.


La parabola dei mostri d’acciaio. L’uso dei carri armati italiani.
Dalle intuizioni geniali degli esordi ai macroscopici ritardi fino alle miopi visioni tattiche e strategiche. La storia dello sviluppo dei mezzi corazzati italiani racconta pregi e difetti del nostro paese. Ecco quali sono stati i modelli più importanti per il nostro esercito.

L’Italia aveva aperto la strada all’impiego bellico dei mezzi a motore nella Guerra italo-turca del 1912. L’8 giugno di quell’anno, durante la battaglia di Zanzur, erano stati infatti utilizzati per la prima volta nella storia reparti trasportati da autocarri. Sempre per la Guerra libica, alcuni autocarri furono trasformati in autoblindo, anche se il primo mezzo italiano di questo tipo fu l’autoblindo Lancia IZ del 1915. Costruita in 120 esemplari, furono inquadrati in specifici reparti messi in campo anche nella guerra contro l’Austria-Ungheria. Rispetto alle altre nazioni, invece, l’Italia arrivò in ritardo nello sviluppo e nell’impiego dei carri armati, ovvero di mezzi corazzati cingolati, la cui arma principale era montata su una torretta girevole. Nel 1917, quando gli eserciti alleati già ricorrevano ai primi tank per sondare le difese tedesche, in Italia si iniziavano solo ad effettuare test di studio sui mezzi campione che gli alleati avevano sottoposto al Regio Esercito per una valutazione, primo dei quali un carro Schneider CA1 francese, da 13,6 tonnellate.
Nel 1918 la Fiat produsse il primo carro armato italiano, il Fiat 2000 da 40 tonnellate, fornito di un cannone da 65 mm in torretta e 7 mitragliatrici disposte attorno allo scafo, ma i vertici militari lo giudicarono troppo lento e ingombrante. Migliore accoglienza ebbe il corazzato francese Renault FT 17: per l’epoca un ottimo carro leggero da 6,5 tonnellate, con caratteristiche che anticipavano i carri moderni, come l’armamento in torretta girevole e il motore posteriore. L’Italia terminò la Grande Guerra con un carro Schneider e 7 carri FT17 francesi, e due carri Fiat 2000: uno di questi ultimo, portato in Cirenaica nel 1919 nella guerra contro i ribelli libici, si immobilizzò quasi subito e, datata la sua mole, fu smontato e spostato un pezzo alla volta.
Nel dopoguerra la Fiat abbandonò la produzione di carri pesanti e iniziò quella su licenza con alcune migliorie, dell’FT 17 (armato con 2 mitragliatrici da 6,5 mm), modificato nel 1930 e rinominato modello 1930 (alcuni armati di cannoni da 37mm, altri ancora solo di mitragliatrici), che rimase il principale, se non l’unico, carro italiano fino al 1933-35. L’ultimo combattimento di questo mezzo concepito nel 1916 avverrò però addirittura in Sicilia nel luglio del 1943, impegnato nel vano tentativo di contrastare lo sbarco degli Alleati nell’isola. Una vera e propria produzione in serie di carri armati in Italia iniziò soltanto negli anni Trenta con il Carro Veloce CV33 seguito due anni dopo dalla versione CV35 – denominato in seguito L3 perché pesanti 3 tonnellate – frutto della collaborazione tra l’Ansaldo e la Fiat: la prima era responsabile del progetto e di ogni altro principale elemento costruttivo ad esclusione del motore, prodotto dall’azienda torinese. Tutti i carri armati italiani costruiti negli anni successivi nasceranno da questa collaborazione, che assunse le caratteristica di un vero e proprio duopolio.

Una scelta pericolosa. La produzione dei carri leggeri era conseguenza della politica di difesa italiana e della dottrina del Regio Esercito praticamente fino alla vigilia del Secondo conflitto mondiale. L’unico scenario strategico considerato era un’invasione nemica dalle Alpi, e ovviamente il territorio montuoso era precluso a qualsiasi mezzo che non fosse di dimensioni  ridotte, capace di percorre strade strette e di attraversare piccoli punti senza farli collassare sotto il suo peso. fu anche presa in considerazione l’eventualità di difendere i domini coloniali italiani in Africa (che il paese nel 1935-36 avrebbe ampliato con la conquista dell’Etiopia), ma gli alti comandi italiani, sulla base delle precedenti esperienze nei deserti della Libia, giudicarono i carri armati inadatti a questo scopo, soprattutto a causa delle difficoltà di rifornirli e della loro inaffidabilità meccanica in territori e climi estremi. Un aspetto, però, venne sottovalutato: i combattimenti tra i carri armati, e questo nonostante la possibilità che il nemico riuscisse a superare l’ostacolo alpino spostando i combattimenti nella Pianura Padana, dove i carri sarebbero risultati decisivi. Benito Mussolini, d’altro canto, preferì avere mani libere in politica estere fino all’ultimo, tanto più perché convinto che la guerra, per quanto inevitabile, sarebbe stata breve, in questo modo privando le Forze Armate italiane e l’industria dello stimolo di un chiaro indirizzo strategico che potesse prevedere tanto i prossimi avversari, quanto i possibili teatri delle operazioni. Lo sviluppo ancora limitato dell’industria meccanica e siderurgica italiana, influì in primo luogo sulla quantità dei mezzi che si potevano produrre, ma anche sulla loro qualità. In Italia, ad esempio, non solo si producevano pochi motori per carro armato, ma la loro potenza era notevolmente inferiore rispetto a quelli che uscivano dalla fabbrica delle principali nazioni in conflitto, e ciò comportava minori velocità e capacità di carico, e quindi innanzitutto di corazzatura. Questo dato era aggravato dalle difficoltà di produrre acciaio ad alta resistenza e dalla scelta dell’Ansaldo di produrre i mezzi con corazze a piastre imbullonate o rivettate a un telaio: un tipo di corazzatura non solo meno efficiente ma anche più pesante di quelle saldate, secondo l’orientamento prevalente nelle altre nazioni. E se la protezione aumenta la capacità di sopravvivenza dell’equipaggio e del mezzo, anche la velocità concorre a questo obiettivo, perché permette di sfuggire a un inseguimento nemico, di disorientarlo con rapidi spostamenti quando si viene presi di mira, oltre che di raggiungerlo se fugge.


I modelli della Seconda guerra mondiale.
Carro armato Fiat 3000 modello 1930 LS
Nato come versione migliorata del precedente
modello 1921 era fornito solo in alcuni mezzi
di un cannone da 37 mm. La sua concezione
risaliva praticamente al 1916, anno in cui era
stato realizzato il carro francese FT 17, di cui
era la versione italiana.
Anno di entrata in servizio: 1930
Equipaggio: 2 uomini
Peso: 1,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,61 – larghezza m.
                   1,64, altezza m. 2,19
Motore: a benzina potenza 63 hp
Velocità: 24 km/h
Autonomia: 95 km
Corazzatura: frontale 16 mm, laterale 16 mm
Armatura: cannone vickers Terni da 37/40
Produzione: circa 150
Fiat3000.jpg
L3/35 CV 35
Questo carro leggero venne schierato su tutti i fronti di guerra dall’Etiopia alla Russia, e impiegato in ogni tipo di missione dall’appoggio alla fanteria all’avanzata in profondità in sostegno delle colonne motorizzate. Aveva limiti di corazzatura e scarso potere di fuoco, aggravato dal posizionamento dell’arma sullo scafo che riduceva l’arco di tiro.
Anno di entrata in servizio: 1935
Equipaggio: 2 uomini
Peso:  3,2 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,15 – larghezza m.
                   1,40, altezza m. 1,28
Motore: a benzina potenza 43 hp
Velocità: 42 km/h
Autonomia: 120 km
Corazzatura: frontale 13,5 mm, laterale 8,5 mm
Armatura: 2 mitragliatrici Fiat 35 o Breda 38
Produzione: 1320
L 3 35 SAMMH.jpg
L6/40
Il carro leggero L6/40, grazie al suo cannoncino in torretta, rappresentava un deciso passo avanti rispetto al precedente L3, ma fu consegnato ai reparti troppo tardi quando ormai era già obsoleto. Con il suo telaio venne anche realizzato il semovente L40, dotato di un pezzo da 47/32: un mezzo di scarsissima utilità.
Anno di entrata in servizio: 1942
Equipaggio: 2 uomini
Peso: 6,8 t.
Dimensioni: lunghezza m 3,78 – larghezza m.
                   1,92, altezza m. 2,03
Motore: a benzina potenza 70 hp
Velocità: 42 km/h
Autonomia: 200 km
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 14,5 mm
Armatura: 1 cannone automatico 20/65 cal 20 mm.
Produzione: circa 402
Fiat-Ansaldo L6 40.jpg

M13/40
Sul suo utilizzo giocò un ruolo negativo l’impreparazione. Nella battaglia di Beta Fomm, per liberare 10mila italiani, gli M13 sfondarono il dispositivo nemico, ma la fanteria di appoggio fu fermata e l’attacco fallì. Nove mesi dopo a Bir el Gubi con un migliore addestramento l’M13 conquistò invece una brillante vittoria.
Anno di entrata in servizio: 1940
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 14,1circa
Dimensioni: lunghezza m 4,91 – larghezza m.
                   2,28 altezza m. 2,37
Motore: diesel, potenza 125 hp
Velocità: 32 km/h, fuori strada 15 km/h
Autonomia: 200 km su strada, 12 ore fuori strada.
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 25 mm
Armatura: 1 cannone semiautomatico 47,32. 3 mitragliatrici  cal 8 mm. Breda  38
Produzione: circa 710
Carro M 13 40.JPG
M 14/41
L’M14 era una versione leggermente migliorata dell’M13, con un motore un po’ più potente. Diede un sostanziale contributo alla vittoria nella battaglia di Gazala (1942), una delle più difficili e cruente. L’M14 combatterà con minore fortuna a El Alamain, ormai superata dalla qualità e dai numeri dei mezzi nemici.
Anno di entrata in servizio: 1941
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 14,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 4,91 – larghezza m.
                   2,28, altezza m. 2,37
Motore: diesel potenza 145 hp
Velocità: 35 km/h su strada, 15,6 km/h fuori strada
Autonomia: 200 km su strada. 12 ore fuori strada
Corazzatura: frontale 30 mm, laterale 25 mm
Armatura: 1 cannone semiautomatico 47/32, 3 mitragliatrici Breda 38 cal 8 mm.
Produzione: circa 695
M14 slash 41 Bovington museum.jpg
Semovente da 75/18 M40 e M41
I cannoni semoventi furono senza dubbio i migliori mezzi corazzati del Regio esercito. Realizzati sullo scafo dei carri M13 e M14 e denominati rispettivamente M40 e M41 erano molto simili, e dotati in casamatta di un cannone da 75/18
Anno di entrata in servizio: 1941
Equipaggio: 3 uomini
Peso: 13,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 4,91 
Motore: M40 Diesel, potenza 125 hp – M41
Velocità: 25 km/h su strada, 12 km/h fuori strada
Autonomia: 10 ore in terreno vari, 200 km su strada
Corazzatura: massima 25+25 mm. minima 15mm
Armatura: 1 cannone 75/18 in casamatta, 1 mitragliatrice Breda 38 cal. 9.
Produzione: 60 M40 e 162
Ansaldo 75-18.jpg
M15/42
Si cercò di rimediare alle carenze dei carri armati medi italiani costruendo un modello meglio armato, ma la corazzatura continuò a essere troppo leggera. Ne entrarono in esercizio circa 150
Anno di entrata in servizio: 1942
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 15,5 t.
Dimensioni: lunghezza m 5,09– larghezza m.
                   2,28, altezza m. 2,37
Motore: a benzina potenza 190 hp
Velocità: 18 km/h su strada, 20 km/h fuori strada
Autonomia: 220 km su strada, 120 km fuori strada
Corazzatura: frontale 50 mm, laterale 42 mm
Armatura: 1 cannone da 47/40 5 mitragliatrici cal. 8 Breda 38
Produzione: 220
M15-42-Saumur.0004yfcp.jpg
P26/40
All’Armistizio ce n’era uno solo. Ne entrarono poi in servizio una decina, ma vennero impiegati soprattutto dalle truppe tedesche di occupazione.
Anno di entrata in servizio: 1943
Equipaggio: 4 uomini
Peso: 26 t.
Dimensioni: lunghezza m 5,61 – larghezza m 2,8 – altezza m 2,5 
Motore: M40 Diesel, potenza  420 hp
Velocità: 42 km/h su strada, 15 km/h fuori strada
Autonomia: 275
Corazzatura: frontale 50 mm laterale 42 mm
Armatura: 1 cannone 75/34, 2 mitragliatrici Breda 38 cal. 9.
Produzione: 1
P26-40 tank.jpg

La guerra di rapido corso. Nella seconda metà degli anni Trenta il Regio Esercito intraprese un percorso di rinnovamento delle dottrine e intraprese un percorso di rinnovamento delle dottrine e degli ordinamenti che, almeno sotto questo aspetto, intendeva portarlo ad allinearsi con le altre maggiori nazioni. Il sottosegretario alla Guerra, generale Federico Baiostrocchi, emanò nel 1935 una prima serie di riforme con le “Direttive per l’impiego delle grandi unità”, e con le “Norme per il combattimento della divisione”, mentre il suo successore generale Alberto Parriani nel 1938 poneva ufficialmente la guerra di movimento – chiamata guerra di rapido corso – al centro delle pratiche belliche del Regio Esercito. Nel complesso si tratto di provvedimenti parziali e con molti difetti ma che cercavano di modernizzare le Forze Armate italiane compatibilmente con i limiti strumentali del sistema paese che le penalizzavano. Seppure in ritardo rispetto alle altre potenze europee, il Regio Esercito riprese a considerare nella propria dottrina l’impiego di carri armati  di maggior peso e meglio armati, almeno per sostituire gli antiquati Fiat  3000.
Definiti nel documento “carri di rottura”, a loro sarebbe stato affidato il compito di scardinare le difese più ostiche, affiancandoli ai “carri d’assalto”, che avrebbero dovuto sostenere con il loro fuoco ravvicinato l’azione delle fanterie, e ai “carri veloci” il cui compito rientrava nell’azione di sfruttamento del successo delle formazioni “celeri”, al momento ancora composte prevalentemente dalla cavalleria. Anche riguardo i carri d’assalto si iniziò a valutare la possibilità di renderli più pesanti e protetti, e armati con un cannone. Tuttavia queste ipotesi di aggiornamento dei mezzi non vennero perseguite con particolare energia: Ansaldo e Fiat sottoposero al Regio Esercito prototipi insoddisfacenti ma indubbiamente anche quest’ultimo non manifestò grande sollecitudine nell’esaminarli.
Le ristrettezze del bilancio militare non consentivano di affrontare spese aggiuntive, tanto più che si era convinti che il carro L3, nonostante fosse armato solo di una coppia di mitragliatrici leggere montate sullo scafo, e poco corazzato, potesse essere impiegato efficacemente nel doppio ruolo di carro d’assalto e di carro veloce. Ovviamente inadatto alla funzione di carro di rottura, il Comando Supremo riteneva che la necessità di questo tipo di carro sarebbe stata l’eccezione e non la regola, e che in ogni caso l’azione di rottura avrebbe dovuto essere sostenuta in primo luogo dalle artiglierie e dalla fanteria.

Una visione strategica miope. In Italia si privilegiavano i numeri a discapito della qualità, mentre i futuri belligeranti in quegli anni si dotavano, fabbricandoli o comperandoli, di carri da 10 tonnellate con un cannone in torretta, di buon calibro, normalmente un 37 mm, che costavano come tre 1,3 ma dal punto di vista bellico valevano molto di più. La guerra per la conquista dell’Etiopia (1933-36), e soprattutto la successiva partecipazione italiana alla Guerra civile spagnola (1936-39) resero evidenti l’inadeguatezza di questa impostazione e si cercò di correre ai ripari accelerando la produzione di carri medi di rottura e d’assalto. Dopo molte incertezze e ritardi, appesantiti dalla cronica scarsità italiana di materie prime – ulteriormente aggravata dalle sanzioni internazionali comminate all’Italia dopo l’invasione dell’Etiopia – il primo carro medio fu prodotto solo nel luglio del 1939. L’M11/39 era dotato di un cannone in casamatta e di due mitragliatrici in torretta, una scelta che lo faceva nascere già antiguato, e nell’ottobre di quello stesso anno l’Ansaldo produsse il prototipo di un nuovo carro, il futuro M13/40. Di fatto l’Italia rispetto alle altre nazioni era rimasta indietro di una generazione di carri armati: un paio di anni soltanto, ma che in un combattimento tra carri fanno la differenza tra la vittoria e la sconfitta, tra la vita e la morte.
Nel giugno del 1940, all’entrata in guerra, l’Italia disponeva di circa 1400 carri leggeri (tra i quali un centinaio più che obsoleti) e di 96 carri M11. La Gran Bretagna, principale avversario dell’Italia nel teatro dell’Africa settentrionale, contava invece su una forza corazzata molto meglio strutturata e più numerosa e potente, carri leggeri sulle 4-5 tonnellate, analoghi al Carro Veloce CV33 ma meglio armati, carri Cruiser destinati ad azioni indipendenti, pesanti dalle 12 alle 15 tonnellate e forniti di cannoni da 40mm, e un carro di rottura, il Matilda, di 26 tonnellate e dotato anch’esso di un cannone da 40mm, che per quanto lento e soggetto a cedimenti meccanici, aveva il non piccolo pregio di disporre di una corazzatura che lo rendeva praticamente invulnerabile ai cannoni anticarri italiani.

Un ritardo che ha fatto differenza. Il programma complessivo di riarmo del Regio Esercito, partito solo nel 1939, prevedeva la sostituzione del carro L3 con un nuovo cingolato leggero da 6 tonnellate, denominato L6, più protetto e armato con una mitragliatrice da 20 mm, l’ingresso in servizio del carro medio M13/40 – cui seguirono l’M14/41, che sarà il più impegnato in battaglia, e l’M15/42 che però combatté solo per la difesa di Roma – e un carro pesante da 26 tonnellate, il P26/40l sollecitato dallo stesso Mussolini nell’agosto del 1940. Se questo programma fosse stato realizzato prima dell’inizio della guerra, al di là di una limitata arretratezza nelle dottrine tattiche italiane (enfatizzata da scarsa esperienza e addestramento), è facile supporre che l’invasione dell’Egitto avrebbe conosciuto un andamento diverso e forse i 275 carri armati della 7a divisione corazzata britannica non sarebbero riusciti ad avere ragione di una forza più che doppia di carri armati italiani durante la controffensiva “Compass” – che costò all’Italia la perdita della Cirenaica, 6mila morti, 10mila feriti e quasi 120mila prigionieri. Ci furono anche felici sorprese, come il successo dei cannoni semoventi da 75/18, e i modelli ispirati che seguirono, ma in generale il programma non ottenne i risultati attesi: il carro L6 fu distribuito solo nel 1942, quando era ormai superato sotto ogni aspetto, i carri del tipo medio M13 e M14 furono sempre in numero troppo scarso rispetto alle esigenze e fu solo grazie all’impegno, alla sagacia tattica e allo spirito di sacrificio degli equipaggi che essi riuscirono tenere testa agli avversari, almeno fino all’arrivo del carro americano M3 Grant da 27 tonnellate con un cannone da 75 mm, e soprattutto dello M4 Sherman da 30 tonnellate. Alla data dell’armistizio esisteva un unico carro pesante P26/40 e come le altre poche decine che vennero prodotte in seguito fu utilizzato dai tedeschi.

Articolo in gran parte di Nicola Zotti pubblicato su Storia di Guerre e guerrieri del mese ottobre n, 21 Sprea edizioni. Altri testi e foto da Wikipedia.


martedì 17 dicembre 2019

L’epoca delle congiure.

L’epoca delle congiure.
Nel ‘500, per risolvere problemi e rivalità politiche si ricorreva spesso alla cospirazione.
Intrighi di corte, cospirazioni e omicidi: oltre che dai fervori artistici e culturali, il Rinascimento italiano fu segnato da una lunghissima serie di sordide trame, spesso sfociate in cruenti fatti di sangue. Sia che a morire fossero le vittime designate, oppure i congiurati, contro cui, in caso di fallimento, puntualmente si abbatteva la vendetta. Nel Quattrocento finirono per esempio ammazzati, nell’ambito di complotti nobiliare, i duchi di Milano Giovanni Maria Visconti (1412) e Galeazzo Maria Sforza (1476), mentre a Firenze nel 1478, Lorenzo de’ Medici riuscirà a sopravvivere (a differenza del fratello Giuliano) alla congiura ordita dalla famiglia de’ Pazzi. Oltre a queste cospirazioni, diventate celebri, ve ne furono molte altre, a volte meno note. Un modo di regolare i conti del potere, con relativa scia di sangue, che proseguì per tutto il Cinquecento, continuando a coinvolgere, nei molteplici Stati e Staterelli della Penisola, le più illustre famiglie del tempo, dai Borgia ai d’Este e dai Gonzaga ai Farnesi. Eccone alcuni.


1500 le nozze rosse dei Baglioni. Fu un orribile di sangue che sconvolse Perugia. Uno sfarzoso matrimonio, due settimane di festa e, una strage: le nozze divennero “rosse” come il sangue che vu versato. I Baglioni appartenevano a una nobile famiglia che le XV secolo affermò il proprio potere su Perugia, con il condottiero Braccio I. Morto Braccio (1479), il governo della città passò ai suoi fratelli, Rodolfo e Guido, e poi al figlio di questi, Astorre, che il 28 giugno 1500 sposò la nobile Lavinia Orsini Colonna. Una bella festa che coinvolse con i suoi banchetti e danze, tutta l’aristocrazia della città. Ma a guastare la festa ci pensarono alcuni membri della famiglia Baglioni, Grifonetto Baglioni, discendente diretto di Braccio I (che era il nonno), e suo zio Carlo, detto Barciglia. I due, ostili ad Astorre e a suo padre Guido volevano usurparne il potere. i congiurati agirono nottetempo e, tra il 14 e il 15 luglio, trucidarono nelle rispettive abitazioni gli sposi, il padre  di Astorre e altri loro consanguinei. Gettarono poi i corpi martoriati in strada e al mattino si proclamarono signori di Perugia. Chi la fa l’aspetti. Il loro potere durò però poche ore. Giampaolo Baglioni, il cugino di Astorre, scampato alla strage, radunato un piccolo esercito, tornò in città e ne prese le redini. I congiurati fuggirono, tutti tranne Grifonetto che prima di essere passato a fil di lama, chiese perdono. E sua madre, Atalanta, per ricordare la tragica fine del figlio, commissionò a Raffaello la cosiddetta Pala Baglioni (1507), una deposizione del Cristo, oggi conservata al Museo Borghese di Roma.


1502 La congiura della Magione e la vendetta di Senigallia. Il capitano di ventura Vitelozzo Vitelli, che aiutò Giampaolo Baglioni a rientrare a Perugia dopo la congiura di Grifanetto, fu a sua volta protagonista, nel 1502, di una storica cospirazione ai danni di Cesare Borgia. Cardinale e uomo d’arme, quest’ultimo, detto “il Valentino” (duca di Valentinois, in Francia), fu tra i personaggi più potenti d’epoca, al cui servizio vi era anche Vitelozzo. Dopo aver preso il controllo di parte dell’Italia Centrale, Borgia mise gli occhi anche su Bologna, ma i condottiero che lo sostenevano iniziarono a temere che le sue smanie di conquista potessero condurre a una disfatto. Per fermarlo alcuni crearono  una cospirazione, nota come “congiura della Magione” dal nome della località (poco distante da Perugia) in cui fu ordita. Tra i congiurati, oltre Vitellozzo, figurarono condottieri noti, come Oliverotto da Fermo, appoggiati dai nobili di altre città, favorevoli all’eventuale scomparsa del Borgia.
Il magnifico inganno. Tuttavia il complotto non andò a buon fine perché Cesare ne fu informato e, con un’astuta mossa, decise di fare circolare la voce che sapeva tutto, che era pronto a perdonare i ribelli e che avrebbe addirittura offerto loro paghe più alte. Così in molti decisero di desistere dall’oscuro piano, forse più intimoriti che lusingati. Si diceva infatti che, in aiuto al Valentino, stessero arrivando le truppe di Luigi XII di Francia (di cui il Borgia era luogotenente). La congiura naufragò ancora prima di cominciare, ma il Valentino si vendicò senza pietà. Invitò Vitellozzo, Oliverotto e altri congiurati a Senigallia, fingendo di averli perdonati. Poi tra il 31 dicembre e il 18 gennaio del 1503 li fece uccidere tutti: nella strage di Senigallia, i primi a essere strangolati furono Vitellozzo e Oliverotto.

Vitellozzo Vitelli, qui ritratto da Luca Signorelli, fu uno degli ideatori della Congiura.

1506 Fratelli coltelli alla corte estense. Il 1505 si aprì con la morte del duca di Ferrara Ercole d’Este, avvenuta il 25 gennaio, il cui posto fu preso da Alfonso I. Il nuovo duca scelse quale suo consigliere di fiducia uno dei suoi fratelli, il cardinale Ippolito, con grande scorno degli altri due, Ferrante e Giulio, con i quali invece i rapporti divennero sempre più tesi. Soprattutto dopo che Ippoliti sequestrò e fece rinchiudere un musicista al servizio di Giulio. L’uomo fu liberato proprio da Giulio, con l’aiuto di Ferrante. E il cardinale se ne lamento con Alfonso.
Rivali in amore. Non fu però l’unico episodio. Tra Giulio e Ippolito scoppiarono nuove tensioni a causa di una donna. Entrambi iniziarono a corteggiare Angela Borgia, cugina di Lucrezia Borgia (moglie di Alonso) e tra i due pretendenti Angela scelse Giulio. Ippolito, pieno di rabbia, lo fece aggredire e sfregiare in volto. Ma la faida non era ancora finita: Giulio se la prese con Alfonso perché non era intervenuto dopo l’episodio per punire Ippolito, e per vendicarsi, organizzò una congiura contro di lui, con l’aiuto di Ferrante che ambiva a diventare duca. Il piano, messo a punto nella primavera del 1506 e a cui aderirono molti nobili, prevedeva che Alfonso e Ippolito fossero aggrediti di notte in strada e venissero uccisi con pugnali avvelenati. Tuttavia per una serie di errori andò tutto in fumo: il duca scoprì la congiura e mandò a giudizio i suoi fratelli e tre dei cospiratori. Questi ultimi furono condannati alla pena capitale, mentre Giulio e Ferrante furono rinchiusi in una torre nel castello di Ferrara. Il primo ne uscì nel 1559, ormai ultraottantenne, mentre il secondo morì nella torre nel 1540.

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Alfonso I d'Este

1547 Il giovane Fieschi contro l’anziano Doria. Nel 1547 anche la Liguria divenne teatro di una sanguinosa congiura nobiliare, ordita da Giovanni Luigi Fieschi, detto, Gianluigi, contro il principe e ammiraglio Andrea Doria, uomo forte della Repubblica di Genova (celebri le sue imprese contro i pirati barbareschi), e gli uomini a lui vicini. Quelle dei Fieschi e dei Doria erano due delle più illustri famiglie genovesi, l’una guelfa e l’altra ghibellina (Andrea aveva costruita la propria fortuna grazie agli ottimi rapporti con l’imperatore Carlo V). alla rivalità politico si sommò l’invidia del ventiquattrenne Gianluigi per la posizione di potere dell’anziano Doria (ottantunenne),
 Morte per annegamento. Il 2 gennaio 1547, raggiunto il porto con un manipolo di congiurati, Fieschi la flotta dei Doria. Nello scontro l’amato nipote di Doria, Giannettino, fu colpito a morte, ma anche Fieschi morì: cadde in mare e annegò a causa della pesante armatura. I congiurati si diedero quindi alla fuga, mentre Doria si rifugiava incolume nel vicino castello di Masone e uno dei fratelli di Gianluigi, Gerolamo, cercava disperatamente, invano, di sollevare la popolazione. Calmatesi le acque, l’ammiraglio tornò in città, fece recuperare il corpo di Fieschi e lo lasciò nel porto a decomporsi per due mesi, prima di rigettarlo in mare. Gerolamo e gli altri si asserragliarono nel castello di Montoggio, che fu poi assediato, espugnato e completamente distrutto dagli uomini di Doria. I pochi Fieschi sopravvissuti furono costretti ad abbandonare la Repubblica di Genova. E di loro fu cancellata ogni traccia.
Giovanni Luigi Fieschi


1547 I piacentini contro il bastardo del papa. A sostenere la congiura dei Fieschi del 1547 contro Andrea Doria, fu tra gli altri, Pier Luigi Farnese, il quale, per ironia della sorte, morì in quello stesso anno a causa di un complotto, in quel di Piacenza. Figlio di Paolo III era stato nominato gonfaloniere della chiesa e duca di Castro, nel 1545, aveva preso le redini del neonato ducato di Piacenza e Parma. Tuttavia per il suo carattere inquieto – in battaglia era noto per l’audacia e la brutalità – era malvisto dalla nobiltà emiliana e fu soprannominato con disprezzo il “bastardo del papa”. La sua figura era troppo autoritaria e ingombrante, e i nobili piacentini decisero così di sbarazzarsene alla maniera rinascimentale, con una congiura. Per l’operazione ebbero l’appoggio di Ferrante Gonzaga, governatore di Milano, vicino all’imperatore Carlo V.
 Finito nel fossato. La parte operativa del complotto fu coordinata dalle famiglie piacentine Pallavicino, Landi, Anguissola e Confalonieri. Il pomeriggio del 10 settembre 1547 i congiurati, con in prima fila il conte Giovanni Anguissola, si recarono nel fortilizio dove alloggiava il duca (la cittadella viscontea) e lo uccisero a pugnalate. Il suo corpo, dopo essere stato esposto in pubblico, venne gettato nel fossato sottostante (sarà poi ricomposto e sepolto). Il giorno dopo, mentre Ferrante entrava in città con le truppe imperiali, Paolo III si affrettò a rinominare nuovo duca Ottavio Farnese, uno dei figli di Pier Luigi, ma non riuscì a far punire i congiurati.
Pier Luigi Farnese di Tiziano.jpg
Pier Luigi Farnese ritratto da Tiziano (1546 ca), Museo nazionale di CapodimonteNapoli.


Articolo a cura di Matteo Liberti pubblicato su Focus Storia n. 144 – altri testi e immagini da Wikipedia. 

lunedì 16 dicembre 2019

John F. Kennedy


John F. Kennedy


Storia di un mito artificiale.
Errori politici e misfatti privati di John Kemmedy, un’icona della nobiltà e dell’eroismo costruita dai media. Il presidente, mito della sinistra salottiera, non era affatto liberale e pacifista. Ecco la storia di un brillante ragazzo di Boston diventato Presidente grazie all’onnipotente padre (e forse anche alla mafia di Chicago)
John Fitzgerald Kennedy
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John F. Kennedy nel 1963

35º Presidente degli Stati Uniti d'America
Durata mandato20 gennaio 1961 –
22 novembre 1963
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Kennedy in uniforme nel 1942.
I colpi esplosi da Lee Harvey Oswald nel primo pomeKennedy in uniforme nel 1942.riggio del 22 novembre 1963 a Dallas chiusero la breve e indimenticabile epopea presidenziale di John Kennedy e ne sigillarono il mito, oggi giudicato da molti storia un prodotto dei media, soprattutto della televisione, da poco entrata in tutte le case, che JFK utilizzò per primo come pedana di lancio per la sua vertiginosa, inarrestabile carriera.
L’immagine di quell’uomo giovane, colto, bello ed elegante rappresentò l’incarnazione stessa dell’american dream, quel sogno che la sua voce calda e suadente insieme agli slogan ad effetto coniate dai suo ghostwriters (“Non chiederti che cosa può fare il Paese per te, chiedici che cosa puoi fare tu per il Paese”, ma anche quel “Icj bin ein Berliner”, io sono berlinese, scandito nella città deturpata dal muro), trasformarono un brillante giovanotto di Boston in un mito indistruttibile.
la famiglia Kennedy


Il fascino personale vale più delle idee politiche. Fu una svolta epocale: il suo improvviso apparire sulla scena si portò via la politica impettita e formale degli anni Cinquanta e inaugurò quella dell’immagine familiare e insieme divinizzata, in cui i fattori emotivi abilmente suscitati e il fascino personale del leader, prevalgono delle idee. Dall’onda nuova fu travolta il più esperto Richard Nixon, competitor repubblicano alla Casa Bianca nella campagna presidenziale del 1960, surclassato dal rivale nei dibattiti televisivi, non tanto nel merito quanto nel tono, nella postura e nella naturale predisposizione a sfruttare il nuovo mezzo e le sue potenzialità persuasive, a far prevalere l’apparire sull’essere, un esercizio al quale Kennedy si era preparato con lunghe ore di training e pesanti sedute di trucco (forse non è un caso che la sua apparizione non fece altrettanta presa sugli elettori che ascoltarono i dibattiti via radio. Fatto sta che l’uomo nuovo si impose, sia pure per una manciata di voti, sul navigato lupo di mare della politica). Oggi a 55 anni dalla morte, JFK è tra i presidenti più popolari del dopoguerra, insieme a Regan e a Clinton. Non per gli storici, però, la figura di John Kennedy e dei suoi 1035 giorni trascorsi alla Casa Bianca sono oggetto di un dibattito dal quale emergono ambiguità, contraddizioni ed errori, tanto dell’uomo quanto del politico, che iniziarono sin dalla sua irresistibile ascesa.
Sul finire degli anni Cinquanta, JFK era a tutti gli effetti “l’uomo nuovo” della politica, ovvero privo di un pedigree pubblico: era esponente di una minoranza – irlandese e cattolica – estranea all’establishment, ma influente rampollo di una famiglia ricca e potente che faceva capo a una figura di grande spicco, Joseph Patrick Kennedy, e poteva contare sull’appoggio, oltre che sulla comunità irlandese di Boston, di una potente sete di amicizie e alleanze. L’erede delle ambizioni politiche del patriarca non poteva essere che John, dopo che il primogenito Joseph Patrick Jr. era morto in guerra, e su di lui si puntavano tutte le speranze del clan Kennedy. Tra gli appoggi alla sia carriera, John poteva contare su quello dell’allora potentissima mafia di Chicago, capace di veicolare grandi pacchetti di voti (con quei discutibili amici Joseph avrebbe fatto affari illeciti anche durante il Proibizionismo). Un nome, in particolare, ricorre con insistenza tra le presunte frequentazioni del patriarca, quello del gangester italo americano Sam Giancana, già autista e guardaspalle di Al Capone, che sarà poi collegato ad alcune teorie complottiste sull’assassinio di Dallas (è noto che alla fine la mafia fu delusa dall’amministrazione Kennedy). Un sostegno imbarazzante per la carriera di un futuro presidente che prometteva lotta alla corruzione. A questo si aggiunga un’ondata mal dissipata sulla simpatia per i regimi nazista e fascista, da lui manifestata durante gli anni universitari, quando aveva fatto un lungo viaggio in Europa. Un vizio di famiglia, del resto, visto che il padre si era fatto la nomea di essere filo-hitleriano quando era ambasciatore a Londra sotto la presidenza Roosvelt. Tra i meriti indubitabili del giovane Kennedy c’è il comportamento eroico tenuto durante la guerra, quando venne premiato con due medaglie al valore per un’azione nel Pacifico, ma per contro non si può ignorare che era amico e sostenitore del famigerato senatore Joseph McCarthy, accanito persecutore d chiunque fosse anche solo in odore di comunismo, con mediti di stampo nazista.


 
Il giuramento di Kennedy al suo insediamento come presidente.
File:Kennedy inauguration footage.ogv

Il matrimonio segreto di JFK.

In molte fotografie dedicate a Kennedy ricorre il nome di Durie Malcom, signora ricchissima e due volte divorziata, presenza costante nei salotti mondani dell’America del dopo guerra. Durie e John si conoscevano bene e alcuni giornali negli anni Quaranta, scrissero che i due facevano coppia fissa. Soltanto dopo l’elezione di Kennedy alla presidenza, però, emerse la storia di un matrimonio segreto, circostanza peraltro mai confermata da testimonianze e documenti di sorta, tanto dalla signora Malcom. Eppure, alcune ricostruzioni parlarono in dettaglio di un’unione celebrata nel marzo 1947 dopo una romantica fuga d’amore. Nozze che avrebbero mandato su tutte le furie l’inflessibile padre-padrone Joseph Kennedy, il quale impose al figlio il divorzio. Ma poi preferì l’annullamento del matrimonio, atto del quale non rimase traccia perché, grazie alle relazione del capostipite dei Kennedy, fu strappato dal registro comunale.

I molti flop in politica esteri. Kennedy non amava l’ala più progressista del suo partito, i Democratici, eppure la propaganda lo ha eppure la propaganda lo ha trasformato nel presidente liberal (ben più liberal di lui si dimostrarono i fratelli Bob e Teddy). Era invece un politico cauto, un conservatore attento al bilancio e promotore di un taglio di tasse che divenne il modello a cui avrebbe attinto Ronald Reagan nella sua campagna presidenziale del 1981. Luci e ombre come si vede. Il nome di JFK è stato anche virtuosamente legato al movimento per i diritti civili, ma la politica promossa nei due anni alla Casa Bianca non sembra confermarlo. Se durante la campagna elettorale si era guadagnato il favore dei progressisti manifestando solidarietà al reverendo Martin Luther King, capo del movimento afroamericano, arrestato dopo una manifestazione non violenta, in seguito, durante la sua presidenza, John si dimostrò molto tiepido sul problema della segregazione razziale, consapevole del fatto che l’elettorato bianco degli stati del Sud costituiva un consistente serbatoi di voti da non alienarsi. Tutto il clan Kennedy vide quindi con fastidio e preoccupazione la marcia dei diritti civili organizzata dallo stesso King nel 1963. Solo a quel punto, infatti, il presidente si decise, dopo quasi due anni e mezzo dal suo insediamento, a presentare una legge contro la segregazione (legge che vide la luce solo sotto la presidenza di London Johnson, più convinto del predecessore nell’appoggiare i diritti dei neri). Ma è sul versante della politica estera che si misura più forte la distanza tra il Kennedy pacifista e il presidente che, proprio su questo terreno, raccolse brucianti sconfitte (Cuba) e si rese protagonista di improvvide decisioni (Vietnam), capaci di segnare pesantemente il destino del Paese. La questione cubana l’aveva ereditata dall’amministrazione precedente e la patata bollente della progettata invasione dell’isola era stata apparecchiata dalla Cia sotto la presidenza Eisenhower; il neopresidente, però, poteva respingerla, ma non lo fece. Fu un disastro che normalmente avrebbe distrutto di colpo l’immagine di qualunque capo di stato. Ecco come andò. Dopo che la rivoluzione castrista prese il potere all’Avana, nel 1959, gli Usa videro con preoccupazione l’avvento di un governo socialista a poche miglia dalle coste della Florida, inizialmente si limitarono ad azioni di intelligence per studiare il possibile nemico, finché, nel 1961, la Cia non decise di mettere a punto un piano per invadere il Paese e mettere al governo dell’Avana un altro burattino filoamericano come era stato il deposto Fulgenzio Batista. Il progetto prevedeva lo sbarco alla Baia dei Porci (insenatura sulla costa sudoccidentale dell’isola) di 1400 uomini: un gruppo di esuli cubani e mercenari addestrati negli Usa, che avrebbe dovuto ribaltare il regime castrista. Ma nella “Brigada 2506” costituita da oppositori di Castro, soltanto 135 possedevano una certa esperienza in ambito militare, mentre la restante parte di invasori era costituita da volonterosi militanti anticastristi raccolti alla meglio.
L’improvvisata operazione fu un colossale fallimento perché i difensori castristi riuscirono a rispedire a casa gli invasori in meno di 72 ore, tra il 17 e il 19 aprile del 1961, tutto andò a rotoli. Per Kennedy fu uno smacco non solo militare, ma soprattutto politico. L’operazione rivelò, infatti, quanto il presidente democratico improvvisasse iniziative potenzialmente esplosive senza alcuna preparazione. Non solo, ma preferiva avvalersi di interventi armati per sostenere gli interessi statunitensi all’estero, anziché servirsi di canali diplomatici come aveva promesso in campagna elettorale. E ancora non si sapeva che, accantonata l’idea dell’invasione, Kennedy avrebbe continuato a perseguire l’eliminazione fisica di Castro con metodi sporchi: un incredibile numero di attenti, tutti falliti, talvolta in modo grottesco.

Un presidente da Premio Pulitzer.
Foto della Casa Bianca di Sorensen durante l'amministrazione Kennedy.
Nel passato di Kennedy c’è un episodio di gloria letteraria. Nel 1954, reduce da una complicata operazione alla schiena, dovendo sopportare un lungo e delicato periodo di riabilitazione, l’allora giovane senatore democratico si era dedicato alla stesura di un saggio dedicato a otto senatori americani che, in periodo storici e circostanze diverse, avevano dato prova di coraggio politico sfidando il loro stesso partito. Il libro “Profiles of Courage”, divenne un best seller con cui vinse, nel 1957, il prestigioso premio Pulizer. Un risultato sorprendente per uno scrittore alle prime armi, anche se la critica sostenne che il libro non fosse tutta farina del sacco di JFK, ma frutto, almeno in parte, del lavoro dell’amico e collaboratore Ted Sorensen, l’uomo che in seguito avrebbe scritto i suoi più importanti discorsi pubblici. Lo stesso Sorensen, all’interno della propria autobiografia, avrebbe in seguito rivelato di essere stato il coautore del libro vincitore del Pulizer.
 
Kennedy e Chruščёv.
Lo scontro con Chruscev risolto da un accordo segreto. Gli Stati Uniti finirono così per spingere il Lider maximo, già scottato dal blitz alla Baia dei Porci e perfettamente a conoscenza delle trame ordite contro la sua persona, a chiedere protezione all’Unione Sovietica di Nikita Chruscev, il quale fu ben felice di poter installare nell’isola caraibica un arsenale di missili atomici puntati contro gli Usa. Ma le foto della Cia svelarono la loro esistenza e precipitarono il mondo nell’incubo dell’apocalisse nucleare. Il terribile braccio di ferro tra le due superpotenze si risolse sabato 27 ottobre 1961, quando Chruscev, con gran sollievo del mondo intero, accettò di ritirare i missili in cambio della promessa americana di non invadere l’isola. La versione ufficiale di Washington accreditò la figura di un Kennedy risoluto vincitore dell’epico scontro, capace di piegare il leader sovietico ponendolo di fronte a un ultimatum. In realtà, e lo si sarebbe appreso soltanto vent’anni dopo, lo scontro si risolse con un accordo segreto: il ritiro dei missili della Nato puntati contro l’Urss dalla Turchia (cosa che avvenne in silenzio e a distanza di sei mesi per non dare nell’occhio).
La consapevolezza di essere stato ad un passo dalla catastrofe nucleare indusse Kennedy a inaugurare un virtuoso periodo di distensione con il blocco sovietico, consolidando la sua fama di salvatore della pace. Cosa che però non fece sullo scacchiere del sud est asiatico. Per tutelare il regime filoccidentale del Vietnam del Sud contro il comunismo, Kennedy aumentò il numero dei consiglieri militari statunitensi nel Paese, da 700 a 16mila, ponendo le premesse per quella escalation del coinvolgimento armato di Washington in Indocina che il suo successore, Lyndon Johnson, avrebbe portato a compimento con la disastrosa guerra del Vietnam.
Alla buona riuscita dell’immagine agiografica presidenziale partecipò non poco la presenza della First Lady, Jacqueline Lee Bouvier, donna affascinante, colta e raffinata, assunta velocemente a emblema di gusta e raffinatezza. Eppure, per lei non furono anni facili: dietro la retorica di palazzo si nascondeva la realtà di un marito traditore seriale, spinto da un appetito sessuale insaziabile. Col tempo le testimonianze delle sue avventure, comprese quelle consumate direttamente alla Casa Bianca, hanno prodotto un’infinta aneddotica all’interno della quale risulta difficile, distinguere il vero dalla pura invenzione. Nessun dubbio dei biografi, però, sulla relazione con Marilyn Monroe, la diva più famosa e desiderata del mondo, un legame che rischiò di sfregiare irrimediabilmente la figura paludata di JFK. Nell’immaginario collettivo, tutti associano Marilyn alla canzone “Happy birthday, Mr. President”, forse messo in allarme dalla sfacciata ostentazione della diva, decise di scaricarla, affidando il compito al fratello Bob. Secondo le malelingue, il giovane Ministro della Giustizia nell’eseguire il suo incarico si innamorò della diva come un ragazzino. Quando, la mattina del’agosto del 1962, l’attrice fu ritrovata senza vita, nella sua casa di Los Angeles, ufficialmente uccisa da una dose eccessiva di barbiturici, furono in pochi a credere alla tesi del suicidio. Le supposizioni furono molte e tutte gettavano un’ombra sul presidente. Marilyn era al corrente di qualcosa che non doveva sapere? O semplicemente sarebbe stata uccisa perché intenzionata a rivelare la sua relazione con entrambi i fratelli al vertice del potere? Incongruenze ed omissioni nell’indagine, presunti interventi di Fbi o Cia, registrazioni mancanti, rapporti della polizia scomparsi, misteriose presenze sul luogo del decesso, hanno finito per alimentare la teoria , mai provata e bugie, luci e ombre, c’è anche questo.

 
Kennedy e famiglia
Articolo in gran parte di Mario Galloni Giornalista ed esperto di Storia pubblicato su BBC History del mese di ottobre 2018 Sprea editori. Altri testi e immagini da Wikipedia.




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