lunedì 16 dicembre 2019

John F. Kennedy


John F. Kennedy


Storia di un mito artificiale.
Errori politici e misfatti privati di John Kemmedy, un’icona della nobiltà e dell’eroismo costruita dai media. Il presidente, mito della sinistra salottiera, non era affatto liberale e pacifista. Ecco la storia di un brillante ragazzo di Boston diventato Presidente grazie all’onnipotente padre (e forse anche alla mafia di Chicago)
John Fitzgerald Kennedy
John F. Kennedy, White House color photo portrait (3x4).jpg
John F. Kennedy nel 1963

35º Presidente degli Stati Uniti d'America
Durata mandato20 gennaio 1961 –
22 novembre 1963
 1942 JFK uniform portrait.jpg
Kennedy in uniforme nel 1942.
I colpi esplosi da Lee Harvey Oswald nel primo pomeKennedy in uniforme nel 1942.riggio del 22 novembre 1963 a Dallas chiusero la breve e indimenticabile epopea presidenziale di John Kennedy e ne sigillarono il mito, oggi giudicato da molti storia un prodotto dei media, soprattutto della televisione, da poco entrata in tutte le case, che JFK utilizzò per primo come pedana di lancio per la sua vertiginosa, inarrestabile carriera.
L’immagine di quell’uomo giovane, colto, bello ed elegante rappresentò l’incarnazione stessa dell’american dream, quel sogno che la sua voce calda e suadente insieme agli slogan ad effetto coniate dai suo ghostwriters (“Non chiederti che cosa può fare il Paese per te, chiedici che cosa puoi fare tu per il Paese”, ma anche quel “Icj bin ein Berliner”, io sono berlinese, scandito nella città deturpata dal muro), trasformarono un brillante giovanotto di Boston in un mito indistruttibile.
la famiglia Kennedy


Il fascino personale vale più delle idee politiche. Fu una svolta epocale: il suo improvviso apparire sulla scena si portò via la politica impettita e formale degli anni Cinquanta e inaugurò quella dell’immagine familiare e insieme divinizzata, in cui i fattori emotivi abilmente suscitati e il fascino personale del leader, prevalgono delle idee. Dall’onda nuova fu travolta il più esperto Richard Nixon, competitor repubblicano alla Casa Bianca nella campagna presidenziale del 1960, surclassato dal rivale nei dibattiti televisivi, non tanto nel merito quanto nel tono, nella postura e nella naturale predisposizione a sfruttare il nuovo mezzo e le sue potenzialità persuasive, a far prevalere l’apparire sull’essere, un esercizio al quale Kennedy si era preparato con lunghe ore di training e pesanti sedute di trucco (forse non è un caso che la sua apparizione non fece altrettanta presa sugli elettori che ascoltarono i dibattiti via radio. Fatto sta che l’uomo nuovo si impose, sia pure per una manciata di voti, sul navigato lupo di mare della politica). Oggi a 55 anni dalla morte, JFK è tra i presidenti più popolari del dopoguerra, insieme a Regan e a Clinton. Non per gli storici, però, la figura di John Kennedy e dei suoi 1035 giorni trascorsi alla Casa Bianca sono oggetto di un dibattito dal quale emergono ambiguità, contraddizioni ed errori, tanto dell’uomo quanto del politico, che iniziarono sin dalla sua irresistibile ascesa.
Sul finire degli anni Cinquanta, JFK era a tutti gli effetti “l’uomo nuovo” della politica, ovvero privo di un pedigree pubblico: era esponente di una minoranza – irlandese e cattolica – estranea all’establishment, ma influente rampollo di una famiglia ricca e potente che faceva capo a una figura di grande spicco, Joseph Patrick Kennedy, e poteva contare sull’appoggio, oltre che sulla comunità irlandese di Boston, di una potente sete di amicizie e alleanze. L’erede delle ambizioni politiche del patriarca non poteva essere che John, dopo che il primogenito Joseph Patrick Jr. era morto in guerra, e su di lui si puntavano tutte le speranze del clan Kennedy. Tra gli appoggi alla sia carriera, John poteva contare su quello dell’allora potentissima mafia di Chicago, capace di veicolare grandi pacchetti di voti (con quei discutibili amici Joseph avrebbe fatto affari illeciti anche durante il Proibizionismo). Un nome, in particolare, ricorre con insistenza tra le presunte frequentazioni del patriarca, quello del gangester italo americano Sam Giancana, già autista e guardaspalle di Al Capone, che sarà poi collegato ad alcune teorie complottiste sull’assassinio di Dallas (è noto che alla fine la mafia fu delusa dall’amministrazione Kennedy). Un sostegno imbarazzante per la carriera di un futuro presidente che prometteva lotta alla corruzione. A questo si aggiunga un’ondata mal dissipata sulla simpatia per i regimi nazista e fascista, da lui manifestata durante gli anni universitari, quando aveva fatto un lungo viaggio in Europa. Un vizio di famiglia, del resto, visto che il padre si era fatto la nomea di essere filo-hitleriano quando era ambasciatore a Londra sotto la presidenza Roosvelt. Tra i meriti indubitabili del giovane Kennedy c’è il comportamento eroico tenuto durante la guerra, quando venne premiato con due medaglie al valore per un’azione nel Pacifico, ma per contro non si può ignorare che era amico e sostenitore del famigerato senatore Joseph McCarthy, accanito persecutore d chiunque fosse anche solo in odore di comunismo, con mediti di stampo nazista.


 
Il giuramento di Kennedy al suo insediamento come presidente.
File:Kennedy inauguration footage.ogv

Il matrimonio segreto di JFK.

In molte fotografie dedicate a Kennedy ricorre il nome di Durie Malcom, signora ricchissima e due volte divorziata, presenza costante nei salotti mondani dell’America del dopo guerra. Durie e John si conoscevano bene e alcuni giornali negli anni Quaranta, scrissero che i due facevano coppia fissa. Soltanto dopo l’elezione di Kennedy alla presidenza, però, emerse la storia di un matrimonio segreto, circostanza peraltro mai confermata da testimonianze e documenti di sorta, tanto dalla signora Malcom. Eppure, alcune ricostruzioni parlarono in dettaglio di un’unione celebrata nel marzo 1947 dopo una romantica fuga d’amore. Nozze che avrebbero mandato su tutte le furie l’inflessibile padre-padrone Joseph Kennedy, il quale impose al figlio il divorzio. Ma poi preferì l’annullamento del matrimonio, atto del quale non rimase traccia perché, grazie alle relazione del capostipite dei Kennedy, fu strappato dal registro comunale.

I molti flop in politica esteri. Kennedy non amava l’ala più progressista del suo partito, i Democratici, eppure la propaganda lo ha eppure la propaganda lo ha trasformato nel presidente liberal (ben più liberal di lui si dimostrarono i fratelli Bob e Teddy). Era invece un politico cauto, un conservatore attento al bilancio e promotore di un taglio di tasse che divenne il modello a cui avrebbe attinto Ronald Reagan nella sua campagna presidenziale del 1981. Luci e ombre come si vede. Il nome di JFK è stato anche virtuosamente legato al movimento per i diritti civili, ma la politica promossa nei due anni alla Casa Bianca non sembra confermarlo. Se durante la campagna elettorale si era guadagnato il favore dei progressisti manifestando solidarietà al reverendo Martin Luther King, capo del movimento afroamericano, arrestato dopo una manifestazione non violenta, in seguito, durante la sua presidenza, John si dimostrò molto tiepido sul problema della segregazione razziale, consapevole del fatto che l’elettorato bianco degli stati del Sud costituiva un consistente serbatoi di voti da non alienarsi. Tutto il clan Kennedy vide quindi con fastidio e preoccupazione la marcia dei diritti civili organizzata dallo stesso King nel 1963. Solo a quel punto, infatti, il presidente si decise, dopo quasi due anni e mezzo dal suo insediamento, a presentare una legge contro la segregazione (legge che vide la luce solo sotto la presidenza di London Johnson, più convinto del predecessore nell’appoggiare i diritti dei neri). Ma è sul versante della politica estera che si misura più forte la distanza tra il Kennedy pacifista e il presidente che, proprio su questo terreno, raccolse brucianti sconfitte (Cuba) e si rese protagonista di improvvide decisioni (Vietnam), capaci di segnare pesantemente il destino del Paese. La questione cubana l’aveva ereditata dall’amministrazione precedente e la patata bollente della progettata invasione dell’isola era stata apparecchiata dalla Cia sotto la presidenza Eisenhower; il neopresidente, però, poteva respingerla, ma non lo fece. Fu un disastro che normalmente avrebbe distrutto di colpo l’immagine di qualunque capo di stato. Ecco come andò. Dopo che la rivoluzione castrista prese il potere all’Avana, nel 1959, gli Usa videro con preoccupazione l’avvento di un governo socialista a poche miglia dalle coste della Florida, inizialmente si limitarono ad azioni di intelligence per studiare il possibile nemico, finché, nel 1961, la Cia non decise di mettere a punto un piano per invadere il Paese e mettere al governo dell’Avana un altro burattino filoamericano come era stato il deposto Fulgenzio Batista. Il progetto prevedeva lo sbarco alla Baia dei Porci (insenatura sulla costa sudoccidentale dell’isola) di 1400 uomini: un gruppo di esuli cubani e mercenari addestrati negli Usa, che avrebbe dovuto ribaltare il regime castrista. Ma nella “Brigada 2506” costituita da oppositori di Castro, soltanto 135 possedevano una certa esperienza in ambito militare, mentre la restante parte di invasori era costituita da volonterosi militanti anticastristi raccolti alla meglio.
L’improvvisata operazione fu un colossale fallimento perché i difensori castristi riuscirono a rispedire a casa gli invasori in meno di 72 ore, tra il 17 e il 19 aprile del 1961, tutto andò a rotoli. Per Kennedy fu uno smacco non solo militare, ma soprattutto politico. L’operazione rivelò, infatti, quanto il presidente democratico improvvisasse iniziative potenzialmente esplosive senza alcuna preparazione. Non solo, ma preferiva avvalersi di interventi armati per sostenere gli interessi statunitensi all’estero, anziché servirsi di canali diplomatici come aveva promesso in campagna elettorale. E ancora non si sapeva che, accantonata l’idea dell’invasione, Kennedy avrebbe continuato a perseguire l’eliminazione fisica di Castro con metodi sporchi: un incredibile numero di attenti, tutti falliti, talvolta in modo grottesco.

Un presidente da Premio Pulitzer.
Foto della Casa Bianca di Sorensen durante l'amministrazione Kennedy.
Nel passato di Kennedy c’è un episodio di gloria letteraria. Nel 1954, reduce da una complicata operazione alla schiena, dovendo sopportare un lungo e delicato periodo di riabilitazione, l’allora giovane senatore democratico si era dedicato alla stesura di un saggio dedicato a otto senatori americani che, in periodo storici e circostanze diverse, avevano dato prova di coraggio politico sfidando il loro stesso partito. Il libro “Profiles of Courage”, divenne un best seller con cui vinse, nel 1957, il prestigioso premio Pulizer. Un risultato sorprendente per uno scrittore alle prime armi, anche se la critica sostenne che il libro non fosse tutta farina del sacco di JFK, ma frutto, almeno in parte, del lavoro dell’amico e collaboratore Ted Sorensen, l’uomo che in seguito avrebbe scritto i suoi più importanti discorsi pubblici. Lo stesso Sorensen, all’interno della propria autobiografia, avrebbe in seguito rivelato di essere stato il coautore del libro vincitore del Pulizer.
 
Kennedy e Chruščёv.
Lo scontro con Chruscev risolto da un accordo segreto. Gli Stati Uniti finirono così per spingere il Lider maximo, già scottato dal blitz alla Baia dei Porci e perfettamente a conoscenza delle trame ordite contro la sua persona, a chiedere protezione all’Unione Sovietica di Nikita Chruscev, il quale fu ben felice di poter installare nell’isola caraibica un arsenale di missili atomici puntati contro gli Usa. Ma le foto della Cia svelarono la loro esistenza e precipitarono il mondo nell’incubo dell’apocalisse nucleare. Il terribile braccio di ferro tra le due superpotenze si risolse sabato 27 ottobre 1961, quando Chruscev, con gran sollievo del mondo intero, accettò di ritirare i missili in cambio della promessa americana di non invadere l’isola. La versione ufficiale di Washington accreditò la figura di un Kennedy risoluto vincitore dell’epico scontro, capace di piegare il leader sovietico ponendolo di fronte a un ultimatum. In realtà, e lo si sarebbe appreso soltanto vent’anni dopo, lo scontro si risolse con un accordo segreto: il ritiro dei missili della Nato puntati contro l’Urss dalla Turchia (cosa che avvenne in silenzio e a distanza di sei mesi per non dare nell’occhio).
La consapevolezza di essere stato ad un passo dalla catastrofe nucleare indusse Kennedy a inaugurare un virtuoso periodo di distensione con il blocco sovietico, consolidando la sua fama di salvatore della pace. Cosa che però non fece sullo scacchiere del sud est asiatico. Per tutelare il regime filoccidentale del Vietnam del Sud contro il comunismo, Kennedy aumentò il numero dei consiglieri militari statunitensi nel Paese, da 700 a 16mila, ponendo le premesse per quella escalation del coinvolgimento armato di Washington in Indocina che il suo successore, Lyndon Johnson, avrebbe portato a compimento con la disastrosa guerra del Vietnam.
Alla buona riuscita dell’immagine agiografica presidenziale partecipò non poco la presenza della First Lady, Jacqueline Lee Bouvier, donna affascinante, colta e raffinata, assunta velocemente a emblema di gusta e raffinatezza. Eppure, per lei non furono anni facili: dietro la retorica di palazzo si nascondeva la realtà di un marito traditore seriale, spinto da un appetito sessuale insaziabile. Col tempo le testimonianze delle sue avventure, comprese quelle consumate direttamente alla Casa Bianca, hanno prodotto un’infinta aneddotica all’interno della quale risulta difficile, distinguere il vero dalla pura invenzione. Nessun dubbio dei biografi, però, sulla relazione con Marilyn Monroe, la diva più famosa e desiderata del mondo, un legame che rischiò di sfregiare irrimediabilmente la figura paludata di JFK. Nell’immaginario collettivo, tutti associano Marilyn alla canzone “Happy birthday, Mr. President”, forse messo in allarme dalla sfacciata ostentazione della diva, decise di scaricarla, affidando il compito al fratello Bob. Secondo le malelingue, il giovane Ministro della Giustizia nell’eseguire il suo incarico si innamorò della diva come un ragazzino. Quando, la mattina del’agosto del 1962, l’attrice fu ritrovata senza vita, nella sua casa di Los Angeles, ufficialmente uccisa da una dose eccessiva di barbiturici, furono in pochi a credere alla tesi del suicidio. Le supposizioni furono molte e tutte gettavano un’ombra sul presidente. Marilyn era al corrente di qualcosa che non doveva sapere? O semplicemente sarebbe stata uccisa perché intenzionata a rivelare la sua relazione con entrambi i fratelli al vertice del potere? Incongruenze ed omissioni nell’indagine, presunti interventi di Fbi o Cia, registrazioni mancanti, rapporti della polizia scomparsi, misteriose presenze sul luogo del decesso, hanno finito per alimentare la teoria , mai provata e bugie, luci e ombre, c’è anche questo.

 
Kennedy e famiglia
Articolo in gran parte di Mario Galloni Giornalista ed esperto di Storia pubblicato su BBC History del mese di ottobre 2018 Sprea editori. Altri testi e immagini da Wikipedia.




Nessun commento:

Posta un commento

I vichinghi, gli eroi delle sagre.

  I   vichinghi gli eroi delle saghe. I popoli nordici vantano un tripudio di saghe che narrano le avventure di eroi reali o di fantasia. ...