John F. Kennedy
Storia di un mito
artificiale.
Errori politici e
misfatti privati di John Kemmedy, un’icona della nobiltà e dell’eroismo
costruita dai media. Il presidente, mito della sinistra salottiera, non era
affatto liberale e pacifista. Ecco la storia di un brillante ragazzo di Boston
diventato Presidente grazie all’onnipotente padre (e forse anche alla mafia di
Chicago)
John Fitzgerald Kennedy | |
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John F. Kennedy nel 1963 | |
35º Presidente degli Stati Uniti d'America | |
Durata mandato | 20 gennaio 1961 – 22 novembre 1963 |
Kennedy in uniforme nel 1942.
I
colpi
esplosi da Lee Harvey Oswald nel primo pomeKennedy in uniforme nel 1942.riggio del 22 novembre 1963 a Dallas
chiusero la breve e indimenticabile epopea presidenziale di John Kennedy e ne
sigillarono il mito, oggi giudicato da molti storia un prodotto dei media,
soprattutto della televisione, da poco entrata in tutte le case, che JFK
utilizzò per primo come pedana di lancio per la sua vertiginosa, inarrestabile
carriera.
L’immagine di
quell’uomo giovane, colto, bello ed elegante rappresentò l’incarnazione stessa
dell’american dream, quel sogno che la sua voce calda e suadente insieme agli
slogan ad effetto coniate dai suo ghostwriters (“Non chiederti che cosa può
fare il Paese per te, chiedici che cosa puoi fare tu per il Paese”, ma anche
quel “Icj bin ein Berliner”, io sono berlinese, scandito nella città deturpata
dal muro), trasformarono un brillante giovanotto di Boston in un mito
indistruttibile.
la famiglia Kennedy
Il fascino personale vale più delle idee politiche. Fu
una svolta epocale: il suo improvviso apparire sulla scena si portò via la
politica impettita e formale degli anni Cinquanta e inaugurò quella
dell’immagine familiare e insieme divinizzata, in cui i fattori emotivi
abilmente suscitati e il fascino personale del leader, prevalgono delle idee.
Dall’onda nuova fu travolta il più esperto Richard Nixon, competitor
repubblicano alla Casa Bianca nella campagna presidenziale del 1960,
surclassato dal rivale nei dibattiti televisivi, non tanto nel merito quanto
nel tono, nella postura e nella naturale predisposizione a sfruttare il nuovo
mezzo e le sue potenzialità persuasive, a far prevalere l’apparire sull’essere,
un esercizio al quale Kennedy si era preparato con lunghe ore di training e
pesanti sedute di trucco (forse non è un caso che la sua apparizione non fece
altrettanta presa sugli elettori che ascoltarono i dibattiti via radio. Fatto
sta che l’uomo nuovo si impose, sia pure per una manciata di voti, sul navigato
lupo di mare della politica). Oggi a 55 anni dalla morte, JFK è tra i
presidenti più popolari del dopoguerra, insieme a Regan e a Clinton. Non per
gli storici, però, la figura di John Kennedy e dei suoi 1035 giorni trascorsi
alla Casa Bianca sono oggetto di un dibattito dal quale emergono ambiguità,
contraddizioni ed errori, tanto dell’uomo quanto del politico, che iniziarono
sin dalla sua irresistibile ascesa.
Sul finire degli anni
Cinquanta, JFK era a tutti gli effetti “l’uomo nuovo” della politica, ovvero
privo di un pedigree pubblico: era esponente di una minoranza – irlandese e
cattolica – estranea all’establishment, ma influente rampollo di una famiglia
ricca e potente che faceva capo a una figura di grande spicco, Joseph Patrick
Kennedy, e poteva contare sull’appoggio, oltre che sulla comunità irlandese di
Boston, di una potente sete di amicizie e alleanze. L’erede delle ambizioni
politiche del patriarca non poteva essere che John, dopo che il primogenito
Joseph Patrick Jr. era morto in guerra, e su di lui si puntavano tutte le
speranze del clan Kennedy. Tra gli appoggi alla sia carriera, John poteva
contare su quello dell’allora potentissima mafia di Chicago, capace di
veicolare grandi pacchetti di voti (con quei discutibili amici Joseph avrebbe
fatto affari illeciti anche durante il Proibizionismo). Un nome, in
particolare, ricorre con insistenza tra le presunte frequentazioni del
patriarca, quello del gangester italo americano Sam Giancana, già autista e
guardaspalle di Al Capone, che sarà poi collegato ad alcune teorie complottiste
sull’assassinio di Dallas (è noto che alla fine la mafia fu delusa
dall’amministrazione Kennedy). Un sostegno imbarazzante per la carriera di un
futuro presidente che prometteva lotta alla corruzione. A questo si aggiunga
un’ondata mal dissipata sulla simpatia per i regimi nazista e fascista, da lui
manifestata durante gli anni universitari, quando aveva fatto un lungo viaggio
in Europa. Un vizio di famiglia, del resto, visto che il padre si era fatto la
nomea di essere filo-hitleriano quando era ambasciatore a Londra sotto la
presidenza Roosvelt. Tra i meriti indubitabili del giovane Kennedy c’è il
comportamento eroico tenuto durante la guerra, quando venne premiato con due
medaglie al valore per un’azione nel Pacifico, ma per contro non si può
ignorare che era amico e sostenitore del famigerato senatore Joseph McCarthy,
accanito persecutore d chiunque fosse anche solo in odore di comunismo, con
mediti di stampo nazista.
Il giuramento di Kennedy al suo insediamento come presidente.
Il matrimonio segreto di JFK.
In molte fotografie dedicate a
Kennedy ricorre il nome di Durie Malcom, signora ricchissima e due volte
divorziata, presenza costante nei salotti mondani dell’America del dopo
guerra. Durie e John si conoscevano bene e alcuni giornali negli anni
Quaranta, scrissero che i due facevano coppia fissa. Soltanto dopo l’elezione
di Kennedy alla presidenza, però, emerse la storia di un matrimonio segreto,
circostanza peraltro mai confermata da testimonianze e documenti di sorta,
tanto dalla signora Malcom. Eppure, alcune ricostruzioni parlarono in
dettaglio di un’unione celebrata nel marzo 1947 dopo una romantica fuga
d’amore. Nozze che avrebbero mandato su tutte le furie l’inflessibile
padre-padrone Joseph Kennedy, il quale impose al figlio il divorzio. Ma poi
preferì l’annullamento del matrimonio, atto del quale non rimase traccia
perché, grazie alle relazione del capostipite dei Kennedy, fu strappato dal
registro comunale.
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I molti flop in politica esteri. Kennedy non
amava l’ala più progressista del suo partito, i Democratici, eppure la
propaganda lo ha eppure la propaganda lo ha trasformato nel presidente liberal
(ben più liberal di lui si dimostrarono i fratelli Bob e Teddy). Era invece un
politico cauto, un conservatore attento al bilancio e promotore di un taglio di
tasse che divenne il modello a cui avrebbe attinto Ronald Reagan nella sua
campagna presidenziale del 1981. Luci e ombre come si vede. Il nome di JFK è
stato anche virtuosamente legato al movimento per i diritti civili, ma la
politica promossa nei due anni alla Casa Bianca non sembra confermarlo. Se
durante la campagna elettorale si era guadagnato il favore dei progressisti
manifestando solidarietà al reverendo Martin Luther King, capo del movimento
afroamericano, arrestato dopo una manifestazione non violenta, in seguito,
durante la sua presidenza, John si dimostrò molto tiepido sul problema della
segregazione razziale, consapevole del fatto che l’elettorato bianco degli
stati del Sud costituiva un consistente serbatoi di voti da non alienarsi.
Tutto il clan Kennedy vide quindi con fastidio e preoccupazione la marcia dei
diritti civili organizzata dallo stesso King nel 1963. Solo a quel punto,
infatti, il presidente si decise, dopo quasi due anni e mezzo dal suo
insediamento, a presentare una legge contro la segregazione (legge che vide la
luce solo sotto la presidenza di London Johnson, più convinto del predecessore
nell’appoggiare i diritti dei neri). Ma è sul versante della politica estera
che si misura più forte la distanza tra il Kennedy pacifista e il presidente
che, proprio su questo terreno, raccolse brucianti sconfitte (Cuba) e si rese
protagonista di improvvide decisioni (Vietnam), capaci di segnare pesantemente
il destino del Paese. La questione cubana l’aveva ereditata
dall’amministrazione precedente e la patata bollente della progettata invasione
dell’isola era stata apparecchiata dalla Cia sotto la presidenza Eisenhower; il
neopresidente, però, poteva respingerla, ma non lo fece. Fu un disastro che
normalmente avrebbe distrutto di colpo l’immagine di qualunque capo di stato.
Ecco come andò. Dopo che la rivoluzione castrista prese il potere all’Avana,
nel 1959, gli Usa videro con preoccupazione l’avvento di un governo socialista
a poche miglia dalle coste della Florida, inizialmente si limitarono ad azioni
di intelligence per studiare il possibile nemico, finché, nel 1961, la Cia non
decise di mettere a punto un piano per invadere il Paese e mettere al governo
dell’Avana un altro burattino filoamericano come era stato il deposto Fulgenzio
Batista. Il progetto prevedeva lo sbarco alla Baia dei Porci (insenatura sulla
costa sudoccidentale dell’isola) di 1400 uomini: un gruppo di esuli cubani e
mercenari addestrati negli Usa, che avrebbe dovuto ribaltare il regime
castrista. Ma nella “Brigada 2506” costituita da oppositori di Castro, soltanto
135 possedevano una certa esperienza in ambito militare, mentre la restante
parte di invasori era costituita da volonterosi militanti anticastristi
raccolti alla meglio.
L’improvvisata
operazione fu un colossale fallimento perché i difensori castristi riuscirono a
rispedire a casa gli invasori in meno di 72 ore, tra il 17 e il 19 aprile del
1961, tutto andò a rotoli. Per Kennedy fu uno smacco non solo militare, ma
soprattutto politico. L’operazione rivelò, infatti, quanto il presidente
democratico improvvisasse iniziative potenzialmente esplosive senza alcuna
preparazione. Non solo, ma preferiva avvalersi di interventi armati per
sostenere gli interessi statunitensi all’estero, anziché servirsi di canali
diplomatici come aveva promesso in campagna elettorale. E ancora non si sapeva
che, accantonata l’idea dell’invasione, Kennedy avrebbe continuato a perseguire
l’eliminazione fisica di Castro con metodi sporchi: un incredibile numero di
attenti, tutti falliti, talvolta in modo grottesco.
Un
presidente da Premio Pulitzer.
Foto della Casa Bianca di Sorensen durante l'amministrazione Kennedy.
Nel
passato di Kennedy c’è un episodio di gloria letteraria. Nel 1954, reduce da
una complicata operazione alla schiena, dovendo sopportare un lungo e
delicato periodo di riabilitazione, l’allora giovane senatore democratico si
era dedicato alla stesura di un saggio dedicato a otto senatori americani
che, in periodo storici e circostanze diverse, avevano dato prova di coraggio
politico sfidando il loro stesso partito. Il libro “Profiles of Courage”,
divenne un best seller con cui vinse, nel 1957, il prestigioso premio
Pulizer. Un risultato sorprendente per uno scrittore alle prime armi, anche
se la critica sostenne che il libro non fosse tutta farina del sacco di JFK,
ma frutto, almeno in parte, del lavoro dell’amico e collaboratore Ted
Sorensen, l’uomo che in seguito avrebbe scritto i suoi più importanti
discorsi pubblici. Lo stesso Sorensen, all’interno della propria
autobiografia, avrebbe in seguito rivelato di essere stato il coautore del
libro vincitore del Pulizer.
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Lo scontro con Chruscev risolto da un accordo segreto. Gli
Stati Uniti finirono così per spingere il Lider maximo, già scottato dal blitz
alla Baia dei Porci e perfettamente a conoscenza delle trame ordite contro la
sua persona, a chiedere protezione all’Unione Sovietica di Nikita Chruscev, il
quale fu ben felice di poter installare nell’isola caraibica un arsenale di
missili atomici puntati contro gli Usa. Ma le foto della Cia svelarono la loro
esistenza e precipitarono il mondo nell’incubo dell’apocalisse nucleare. Il
terribile braccio di ferro tra le due superpotenze si risolse sabato 27 ottobre
1961, quando Chruscev, con gran sollievo del mondo intero, accettò di ritirare
i missili in cambio della promessa americana di non invadere l’isola. La
versione ufficiale di Washington accreditò la figura di un Kennedy risoluto
vincitore dell’epico scontro, capace di piegare il leader sovietico ponendolo
di fronte a un ultimatum. In realtà, e lo si sarebbe appreso soltanto vent’anni
dopo, lo scontro si risolse con un accordo segreto: il ritiro dei missili della
Nato puntati contro l’Urss dalla Turchia (cosa che avvenne in silenzio e a
distanza di sei mesi per non dare nell’occhio).
La consapevolezza di
essere stato ad un passo dalla catastrofe nucleare indusse Kennedy a inaugurare
un virtuoso periodo di distensione con il blocco sovietico, consolidando la sua
fama di salvatore della pace. Cosa che però non fece sullo scacchiere del sud
est asiatico. Per tutelare il regime filoccidentale del Vietnam del Sud contro
il comunismo, Kennedy aumentò il numero dei consiglieri militari statunitensi
nel Paese, da 700 a 16mila, ponendo le premesse per quella escalation del
coinvolgimento armato di Washington in Indocina che il suo successore, Lyndon
Johnson, avrebbe portato a compimento con la disastrosa guerra del Vietnam.
Alla buona riuscita
dell’immagine agiografica presidenziale partecipò non poco la presenza della
First Lady, Jacqueline Lee Bouvier, donna affascinante, colta e raffinata,
assunta velocemente a emblema di gusta e raffinatezza. Eppure, per lei non
furono anni facili: dietro la retorica di palazzo si nascondeva la realtà di un
marito traditore seriale, spinto da un appetito sessuale insaziabile. Col tempo
le testimonianze delle sue avventure, comprese quelle consumate direttamente
alla Casa Bianca, hanno prodotto un’infinta aneddotica all’interno della quale
risulta difficile, distinguere il vero dalla pura invenzione. Nessun dubbio dei
biografi, però, sulla relazione con Marilyn Monroe, la diva più famosa e
desiderata del mondo, un legame che rischiò di sfregiare irrimediabilmente la
figura paludata di JFK. Nell’immaginario collettivo, tutti associano Marilyn
alla canzone “Happy birthday, Mr. President”, forse messo in allarme dalla
sfacciata ostentazione della diva, decise di scaricarla, affidando il compito
al fratello Bob. Secondo le malelingue, il giovane Ministro della Giustizia
nell’eseguire il suo incarico si innamorò della diva come un ragazzino. Quando,
la mattina del’agosto del 1962, l’attrice fu ritrovata senza vita, nella sua
casa di Los Angeles, ufficialmente uccisa da una dose eccessiva di barbiturici,
furono in pochi a credere alla tesi del suicidio. Le supposizioni furono molte
e tutte gettavano un’ombra sul presidente. Marilyn era al corrente di qualcosa
che non doveva sapere? O semplicemente sarebbe stata uccisa perché intenzionata
a rivelare la sua relazione con entrambi i fratelli al vertice del potere?
Incongruenze ed omissioni nell’indagine, presunti interventi di Fbi o Cia, registrazioni
mancanti, rapporti della polizia scomparsi, misteriose presenze sul luogo del
decesso, hanno finito per alimentare la teoria , mai provata e bugie, luci e
ombre, c’è anche questo.
Kennedy e famiglia
Articolo in gran parte
di Mario Galloni Giornalista ed esperto di Storia pubblicato su BBC History del
mese di ottobre 2018 Sprea editori. Altri testi e immagini da Wikipedia.
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