I gladiatori.
Morire nell’arena.
Idoli delle folle, i
gladiatori conducevano una vita spartana, segnata da duri allenamenti e
scanditi da continui duelli nelle arene. Erano reclutati dai lanisti tra gli
schiavi e i prigionieri di guerra, ma non mancavano galeotti ed ex legionari in
cerca di fortuna. Ecco come vivevano e combattevano.
Mosaico del I secolo rinvenuto a Leptis Magna
Che
gli spettacoli nell’antica Roma fossero seguiti con grande clamore e passione è
cosa ben nota a tutti. Né, del resto, poteva essere diversamente in una società
per la quale i giochi, organizzati in concomitanza delle numerose festività
religiose e civili, erano non solo un’importantissima occasione di
aggregazione, ma anche un formidabile mezzo di propaganda politica. Ciò spiega
anche perché i loro protagonisti assoluti, i gladiatori, fossero venerati dalle
folle al pari delle odierne stelle del cinema, con tanto di donne (per lo più
ricche matrone) disposte a far folle pur di trascorrere una notte d’amore con
il campione di turno, ritenuto l’emblema della virilità e della potenza
sessuale. Né mancavano i fanatici che ne raccoglievano il sangue sparso sul
terreno dell’arena per venderlo, o addirittura chi come gli epilettici e gli
anemici – lo narra per esempio Plinio il Vecchio – si faceva condurre sul campo
per sorbirlo ancora caldo dai morenti, ritenendo così di poter guarire dai suoi
mali. Ma se è vero che i gladiatori erano ammirati (e temuti) per la prestanza
fisica e il loro coraggio, che li portava a mettere continuamente a repentaglio
la propria incolumità combattendo, lo è altrettanto che la loro immagine ha
subito, nel corso del tempo, una continua mistificazione, restando vittime di
molti luoghi comuni duri a morire e che solo un puntuale studio delle fonti e
dell’iconografia, confrontato con numerosi ritrovamenti archeologici, ha
permesso di interpretare correttamente.
Statuetta di terracotta, antico-romana, di gladiatore, conservata nell'Antiquarium di Milano
Armi e categorie di gladiatori.
In epoca repubblicana
l’equipaggiamento del gladiatore non era regolamentato ed era uguale a quello
dell’esercito. Da Augusto in poi, ogni categoria portava armi differenti:
elmi, scudi, gladii, lance, schinieri per le gambe e protezioni per le
braccia. Quasi tutti combattevano con il perizoma (subligaculum). Oltre ai
gladiatori “classici” esistevano i paegniani, sorta di buffoni che si
esibivano armati di bastoni e di pedum, la verga ricurva usata dai pastori.
Ecco le categorie principali:
MIRMILLONE. Combatteva con la
spada corta (gladius) e un grande scudo rettangolare (scutum). Le protezioni
erano costituite da un parabraccio (lonca manica) portato a destra, e uno
schiniere (ocrea), sul lato sinistro. L’elmo (decorato con il murma, un pesce
da qui il nome) era dotato di visiera e cresta diritta con piume colorate. Il
suo avversario era un trace.
TRACE. Così chiamato perché
l’armamento ricordava quello dei guerrieri traci, sfoggiava un grande elmo
piumato con visiera a testa di grifone. Il parabraccio e su entrambe le gambe
le ocreae. Usava una corta spada a lama ricurva (sica supina) e un piccolo
scudo rettangolare incurvato.
REZIARO. Dotato di tridente (fuscina),
pugnale (pugio) e rete da lancio non aveva né scudo né elmo ma proteggeva
l’arto superiore sinistro con il paraspalla (galerus) e il parabraccia. Il
suo avversario era normalmente il secutor.
Un reziario trafigge col suo tridente un secutor in un mosaico trovato nella cittadina di Nennig, comune di Perl, in Germania (ca. II-III secolo
SECUTOR. Il suo nome significava
letteralmente inseguitore. Combatteva contro il reziario per questo aveva un
elmo liscio e ovale (che impediva alla rete di attaccarsi) con due piccole
fessure per gli occhi (per evitare i colpi del tridente). Le sue armi erano
il gladio e lo scutum come il mirmillone.
PROVOCATOR. Il termine voleva dire
provocatore. Portava scudo di medie dimensioni che usava come arma. Dotato il
gladio come il secutor, indossava un elmo senza cimiero ma con visiera, le
protezioni per gli arti e un pettorale di metallo a forma di mezzaluna.
HOPLOMACHUS Molto simile al trace,
portava però oltre al gladio anche una lancia corta (hasta) e uno scudo
rotondo di dimensioni contenute. Di solito combatteva contro il marmillione,
ma a volte poteva scontrarsi anche contro il trace.
EQUES. Apriva i giochi entrando a
cavallo, poi proseguiva appiedato. Le armi erano elmo, scudo piatto e tondo,
lancia e spatha (lama più lunga del gladio). Non aveva il perizoma, ma la
tunica.
ESSEDARIUS. Entrava su un carro
(essedum), poi combatteva come l’eques a piedi. Era equipaggiato con un elmo
simile a quello del secutor, portava il parabraccio e fasciature su entrambe
le gambe. Anche lui era dotato di gladio.
|
Gli eroi dell’arena. Prima di parlare della
figura del gladiatore ed esaminare come veniva reclutato e come si addestrava,
occorre ricordare brevemente come funzionava uno spettacolo di combattimento e
che ne erano i protagonisti dietro le quinte. Allora come oggi il popolo era
interessato a due cose: il pane e i giochi circensi. Risolto il fabbisogno
alimentare, occorreva dare ai sudditi anche lo svago, meglio se sottoforma di
emozione forte, di spettacolo grandioso e indimenticabile. Finanziare i giochi
gladiatori, le naumachie (scontri tra navi), le venationes (cacce di animali
esotici), spettacoli teatrali e giochi equestri, era si dispendioso ma
garantiva ai potenti – spesso erano gli stessi imperatori a mettere mano al
patrimonio personale per promuovere questi passatempi – un credito politico
subito spendibile. Per questo motivo i giochi si chiamavano munera, a indicare
un’opera di munificenza privata offerta da un singolo a vantaggio di un’intera
comunità. Quanto più giochi riuscivano monumentali, tanto più cresceva la gloria
del loro sponsor e la gratitudine del popolo nei suoi confronti, riconoscenza
che poteva sconfinare nell’indulgenza riguardo la pratica di governo, anche
quando diventava abuso e malversazione.
A organizzare
materialmente i giochi erano l’editor (o munerarius), il quale li offriva a sue
spese, e il curatori, il responsabile dell’ufficio municipale che aveva il
compito di controllare la spesa pubblica destinata ai giochi. Ma i protagonisti
ovviamente erano loro, i gladiatori, combattenti professionisti che scendevano
materialmente nell’arena. Essi derivavano il loro nome dal gladius, la spada corta
che costituiva la loro arma per eccellenza. Si trattava di uomini provenienti
per lo più da categorie disagiate e relegate ai margini della società, come già
schiavi e i prigionieri di guerra: erano reclutati dai lanisti, individui
spesso di dubbia reputazione – eloquente, da questo punto di vista, era il loro
stesso nome, che deriva latino lanire, fare a pezzi, che li addestravano e poi
ne affittavano le prestazioni all’editor e per mettere in scena i giochi.
Resi duri e coriacei da
una vita di violenza e privazioni, tra le figure preferite dai lanisti c’erano
gli ex carcerati e galeotti, in grado di offrire quella brutalità che il
pubblico andava cercando. Altre volte a finire nell’arena erano invece persone
normali rovinate dai debiti, obbligate a vendersi ai lanisti e a combattere
come unica via d’uscita per racimo stele di Alicarnassolare il contante e tacitare il creditore. Si
imbracciava il gladio anche per vocazione. Succedeva soprattutto agli ex
legionari che, dopo una vita passata in battaglia, preferivano continuare a
farlo nei giochi, piuttosto che reinventarsi un altro lavoro per sbarcare il
lunario. Fama e guadagno attiravano anche non pochi avventurieri. Alla
variegata umanità protagonista degli spettacoli si aggiunsero con il tempo
anche le donne, considerate ovviamente in questo contesto un’intrigante rarità.
Proprio di questo si vantava, per esempio un tale Ostiliano in un’iscrizione
rinvenuta a Ostia: di essere stato, cioè il primo a offrire giochi con la
presenza di muleres ad ferrum (donne armate). Una stele conservata al British Musuem di Londra, ne dà una significativa testimonianza:
nel bassorilievo sono rappresentate due gladiatrici in combattimento.
Le tecniche di combattimento:
tanti gladiatori, un unico destino.
La tecnica di combattimento dei
gladiatori, così come il tipo di armamento sfoggiato, variavano a seconda
della familia (categoria o
specializzazione) di appartenenza. Grazie alle fonti storiche e alle
testimonianze iconografiche, in particolare pitture, bassorilievi e mosaici,
è possibile ricostruire con una buona approssimazione non solo l’armamento ma
anche le mosse caratteristiche che ciascuno di essi poteva utilizzare in
campo per tentare di prevalere sull’avversario. Normalmente i combattenti si
affrontavano a coppie e gli abbinamenti erano studiati tenendo conto del
diverso equipaggiamento, così da garantire che lo scontro fosse equilibrato e
prolungato nel tempo e soddisfare le aspettative del pubblico. Inutile dire
che per affrontare simili combattimento lunghi e impegnativi, era necessaria
una preparazione fisica impeccabile unita a una grande resistenza: gli allenamenti
a cui si sottoponevano i gladiatori, quindi, non erano solo improntati ad
apprendere le tecniche, ma anche a sopportare il peso (che poteva essere
ragguardevole) delle panoplie di armi e a resistere alla stanchezza e al
caldo. Il mirmillo (mirmillone) affrontava generalmente il traex (trace): lo
scontro consisteva in un furioso corpo a corpo che si risolveva quando uno
dei due riusciva a colpire l’altro con la lama, eludendo la protezione
offerta dallo scudo. Il mirmillone, solitamente un guerriero possente, era
armato in maniera molto più pesante del trace: il suo scudo, rettangolare,
era ben più grande della parmula e assai simile a quello in uso presso la
fanteria. Una delle mosse più efficaci per abbatterlo da parte del più agile
trace consisteva dunque nell’attaccarlo rapidamente di lato, approfittando il
più possibile della sua lentezza. Contro entrambi poteva opporsi anche
l’hoplomachus, il cui equipaggiamento ricordava quello degli opliti greci. Il
mimillne poteva per la verità anche incontrare il retiarus (reziario), munito
di rete e tridente, ma l’avversario tradizionale di quest’ultimo era comunque
normalmente il secutor (inseguitore) il quale, come chiarisce il nome, per
combattere incalzava il nemico fino a portarsi sotto misura per poi offendere
con il gladio. Il reziario, al contrario, tendeva a eludere e ritardare lo
scontro diretto, girando intorno all’avversario e tenendolo a distanza per
catturarlo con la rete: ma gli spettatori spesso si spazientivano per questa
tattica attendista, preferendo di gran lunga i più spettacolari e violenti
duelli diretti. Il reziario poteva anche colpire l’avversario alle parti
basse dopo averlo costretto, con cuna finta verso l’alto ad alzare lo scudo.
Il provocator (provocatore), armato in maniera simile a quella dei legionari,
aveva il compito di eccitare il pubblico all’inizio dello spettacolo e di
pungolare gli altri combattenti, provocandoli appunto. Vi era poi l’eques,
che in genere apriva i giochi entrando a cavallo e proseguiva appiedato, come
l’essedarius, il quale esordiva invece su un carro (essedum) trainato da due
o quattro equini e guidato da un auriga, per poi scendere e combattere
anch’egli a piedi. La tecnica dell’essedarius ricordava quella dei Galli, che
avevano messo in difficoltà gli eserciti della Roma repubblicana usando
proprio i loro micidiali carri da guerra. Tra gli altri gladiatori presenti
nell’arena (le familiae, come detto, erano parecchie) citiamo infine il
dimachaerus che combatteva con due lame corte come la sica del trace (macharal),
brandendole una per mano. Oltre a questi gladiatori combattenti, sul campo
scendevano probabilmente durante le lusio o prulusio – i paegnanrli, sorta di
buffoni che si esibivano armati di armi spuntate o del tutto particolari
quali bastoni, fruste e una specie di verga ricurva simile a quella usata dai
pastori.
|
Una vita per il combattimento. Non bastavano
però prestanza fisica e sprezzo del pericolo per diventare gladiatori occorreva
sottoporsi a uno specifico addestramento impartito in speciali scuole,
denominate ludi, strutture gestite dai lanisti. Non era ovviamente come
iscriversi in una semplice palestra. Il futuro gladiatore veniva di fatto
adottato dal lanista che lo faceva entrare simbolicamente nella sua famiglia legandolo
a sé con un contratto,spesso capestro. Se era libero, il gladiatore rinunciava
espressamente alla sua libertà diventando auctoratus, cioè proprietà del
lanista, e l’auctoramentum aveva le caratteristiche di un vero e proprio
contratto dove meticolosamente erano previsti i numeri dei combattimenti da
affrontare e anche gli eventuali guadagni in caso di vittoria. L’ingresso del
novizio nel ludus era seguito da alcune prove di resitenza ed abilità al quale
veniva sottoposto per permettere a una speciale commissione composta dallo
stesso lanista, coadiuvato dai magistri o doctores (istruttori) e dal medicus
(il medico) – di valutarne le caratteristiche fisiche e tecniche e assegnarlo
alla familia (disciplina) più idonea per esaltarne e affinarne le caratteristiche.
Da questo momento in avanti l’addestramento della recluta avveniva per gradi,
passando dalla simulazione del combattimento contro sagome (palum) per poi
approdare al corpo a corpo contro avversari veri e propri. Le armi da
addestramento erano ovviamente spuntate, o addirittura di legno, per evitare
inutili ferite che avrebbero compromesso il futuro del gladiatore e lo stesso
investimento del lanista. Anche per questo la vita del gladiatore era scandita
da divieti e rigide prescrizioni che non riguardavano soltanto l’allenamento,
ma anche la dieta, il tempo libero e la disciplina. Una clausura che per i
liberi o i liberti non era assoluta, prova ne sia che molti gladiatori
mettevano su famiglia, altri invece avevano il tempo di sollazzare, con le loro
prestazioni eseguite in arene ben più comode e piacevoli, le cupide matrone
della Roma bene.
Non c’è spazio per la pietà. Per la maggioranza,
però, si trattava di una vita quasi monacale, clausura dalla quale si evadeva
soltanto per andare a combattere e dove gli spazi di libertà erano assenti o
ridotti al minimo. Il ludus di Carnuntum, scoperto nel 2014 in una località
presso Vienna, con la sua severa sago di fortezza-prigione ci può dare un’idea
di queste esistenza tutta votata al combattimento e alla preparazione allo
stesso. Isolato e protetto dal resto dell’abitato, l’imponente complesso poteva
ospitare fino a un massimo di cento gladiatori, stipati in celle anguste e buie
di tre metri quadrati di superficie. La zona alloggio, una palazzina a due
paini, aveva una sola entrata, vigilata giorno e notte da guardie armate. Più
confortevoli erano invece le sistemazioni previste per i magistri e i doctores.
A disposizione dei gladiatori c’era un pianoro con pavimento riscaldato per
consentire gli allenamenti anche d’inverno il tutto era completato da un
impianto idrico che alimentava i bagni e da un piccolo cimitero destinato ad
accogliere i caduti in combattimento. Il ludus di Carnuntum era una delle tante
scuole gladiatore sparse per l’impero, le più importanti delle quali erano
ovviamente nell’Urbe, a partire da quella prossima al Colosseo, il Ludus
Magnum, cui era collegata tramite una galleria sotterranea. In città molto
famosi erano anche i ludus Gallicus e Dacicus, riservati rispettivamente ai
combattenti in arrivo dalla Gallia e dalla Dacia. Il Matutinus, invece, era il
ludus dove si svolgeva l’addestramento dei gladiatori destinati ad affrontare
le fiere durante le venationes. Tra le varie scuole si scatenava una fiera
concorrenza per accaparrarsi gli elementi più promettenti. Solida fama avevano
poi i ludi di Pompei, Capua e Ravenna.
All’interno delle
scuole vigeva una disciplina durissima che contemplava punizioni esemplari
commisurate alle violazioni. Per chi si ribellava o provava a fuggire c’erano i
ceppi, la fustigazione o l’isolamento in celle di rigore così basse da non
permettere al prigioniero di rimanere in piedi. Più raro, ma non del tutto
escluso, era il ricorso alla pena capitale. La morte del gladiatore era in
fatti un pessimo affare soprattutto per il lanista che sull’uomo e la sua
formazione aveva investito forte. E continuava a spendere per offrire al
combattente la dieta necessaria a sopportare gli sfiancanti allenamenti
quotidiani cui doveva sottoporsi.
Il gladio, un’arma simbolo.
L’arma simbolo dei gladiatori è il
gladio di tipo “Pompei” così chiamato dal luogo dove è stata rinvenuta la
maggior parte degli esemplari, ossia la città distrutta dall’eruzione del 28
a.C., sede di una importante scuola gladiatoria. Diffuso dalla seconda metà
del 1 secolo d.C., il gladio è dotato di una lama larga tra i 4 e i 4,5 cm e
lunga circa mezzo metro. L’arma ha i lati perfettamente paralleli ed è chiusa
da un pomello di legno o metallo che ne consente la perfetta bilanciatura. La
punta è corta e affilata, ideale per causare profonde ferite da taglio e da
affondo. L’efficacia del gladio Pompei nell’impiego corpo a corpo e la sua
forma semplice, che ne consentiva la produzione e la diffusione in grandi
quantità, ne decretò il successo non solo nelle arene, ma anche come arma
nelle legioni, dove finì per soppiantare un altro tipo di gladio più lungo,
il tipo Mainz o Magonza (con lama tra i 40 e i 59 cm), che a sua volta aveva
sostituito l’ancora più imponente e antico ispanico (lungo fino a 70 cm).
|
Un lauto banchetto. Al contrario di quanto
si possa pensare nell’alimentazione non prevale la carne, somministrata invece
in quantità modica, ma un’estrema varietà di alimenti: legumi e latticni,
vegetali e cereali, olio e miele e un’abbondanza di cibi fortemente energetici
come fichi e frutta secca. La sera prima del muns, inoltre, era il lanista a
pagare la cena al gladiatore e ai suoi tifosi, banchetto durante il quale
all’atleta era permesso di abbondare con focacce d’orzo speziate arricchite di
miele e fieno greco. Poteva essere la sua ultima cene, ma il più delle volte
non era così perché nemmeno all’editor conveniva che durante i giochi il
gladiatore perdesse la vita, eventualità che, da contratto, l’avrebbe costretto
a risarcire la perdita al lanista. Nonostante le preoccupazioni di ordine economico
che saldavano gli interessi di editor e lanista, la vita media di questi
combattenti a contratto era comunque piuttosto breve, poco più di vent’anni,
come ci raccontano i reperti ossei finora esaminati e le epigrafi dedicate ai
gladiatori defunti dalle loro mogli: emblematiche le iscrizioni dedicate da
Aurelia al marito Glauco, morto a 23 anni a Verona, e di Urbicus, rimasto
ucciso nell’arena di Milano a soli 22 anni.
Gli schiavi che
riuscivano a chiudere la carriera da vivi potevano riscattarsi e andare in
pensione, ricevendo una buona uscita e il rudis, la spada di legno che insieme
al rango di rudiarius, conferiva loro l’agognata libertà per ottenere la quale
avevano tanto lottato. Non erano in molti a riuscirci, ma soltanto il fatto che
fossero contemplate delle gratificazioni per chi andava a riposo, testimonia
come l’esistenza del gladiatore, per quanto dura e pericolosa, non era votata a
morte certa come invece proposto da alcune pellicole cinematografiche.
Altrettanto forzato è
ritenere che fosse demandato al pubblico di decidere della sorte dello
sconfitto, scelta che invece toccava all’editor, il quale non poteva ignorare
le pulsioni della folla, ma era solito ascoltare le ragioni del suo tornaconto
e decidere per il “mitte”, graziando lo sconfitto, piuttosto che pronunciare il
fatidico “iugula” (sgozzalo) che l’avrebbe perduto. Il luogo comune, però, è
duro a morire, così come la credenza che prima di battersi i gladiatori
salutassero l’imperatore con la frase “Ave Caesar, morituri te salutant” (l’uso
non è infatti attestato da alcuna fonte). Lo stesso può dirsi
dell’intramontabile mito del pollice verso, reso popolare da Hollywood e
ispirato al celebre quadro di Jean-Léon Gérome del 1872 che a sua volta nasce
da un’errata interpretazione di una frase di Giovernale (verso pollice vugus
cum iubet) sembra al contrario che quando si optava per la morte il pollice
venisse rivolto all’insù e non all’ingiù.
Stele del "secutor" (gladiatore) Urbico, fiorentino, morto dopo 13 combattimenti, a 22 anni, nel III secolo avanzato. Nella lapide è compianto dalla moglie (da sette anni) Lauricia e dalle figlie bambine, Olimpia e Fortunense. L'iscrizione conclude minacciando "chi uccide colui che aveva vinto" (?) e ammonendo che i tifosi (amatores) avrebbero coltivato il ricordo di Urbico. La stele è conservata nell'Antiquarium di Milano
Tante tipologie di scontri. Prima di combattere, i
gladiatori si esibivano in duelli non cruenti – la Iusio e la prolusio – per
riscaldarsi in visto dello scontro vero e proprio, ma i romani non amavano
molto questo tipo di spettacolo, preferendo sempre e comunque gli scontri veri
e propri che si consumavano, una volta scesi nell’arena, solitamente a coppie.
Mirmilloni, traci, reziari, secutores – queste le denominazioni delle
principali categorie – erano combattenti specializzati ed equipaggiati in modo
diverso gli uni dagli altri, contrastando ciascuno un preciso avversario,
vantaggi e svantaggi erano ridotti alla pari, garantendo che lo spettacolo non
terminasse dopo pochi rapidi assalti. I duelli non erano comunque improntati
alla cieca violenza. I resti dei gladiatori ritrovati nel 1993 in un cimitero
di Efeso (Turchia) e databili tra il II e il III secolo d.C. mostrano chiaramente
che i combattimenti erano regolati da arbitri – un dettaglio confermato
dall’iconografia – e secondo regole ben definite: i teschi presentavano vecchie
ferite rimarginate, mentre gli arti e il tronco tracce di lesioni anche gravi
ma non sempre mortali. Solo dieci dei crani presentavano un’unica ferita
letale: probabilmente era il colpo di grazia inferto al gladiatore, gravemente
ferito, da un boia travestito da Dis-Pater (Dite), divinità del sottosuolo e
personificazione della morte, per mezzo di un apposito martello. Il macabro
dettaglio conferma peraltro quanto tramandato tra il II e il III secolo dallo
scrittore cristiano Tertulliano, secondo il quale i corpi dei gladiatori morti
venivano trasportavi via da schiavi mascherati da Caronte oppure da Mercurio
Psicopompo. Il ritrovamento di fosse comuni a Londra e York, in Inghilterra,
contenente i resti di uomini giovani e robusti decapitati, con ferite
compatibili a quelle di gladiatori adusi a combattere nelle arene, ha però
suggerito che la morte del combattente ferito potesse essere inferta anche
tagliandoli la testa con un colpo di spada.
Il successo riscosso
dai giochi era tale che il numero dei munera aumentò esponenzialmente e durante
l’età imperiale non esisteva un solo centro durante l’età imperiale non
esisteva un solo centro di medie dimensioni che non avesse il suo anfiteatro e
potesse atteggiarsi a piccola Roma, dove durante la dinastia Flavia sorse
quello che poi sarebbe passato alla storia come il Colosseo: il più grande
anfiteatro del mondo, capace di ospitare tra i 50 e i 75mila spettatori. La
fortuna dei giochi cominciò a declinare a cominciare dal IV secolo:
l’imperatore Costantino non li amava e il Cristianesimo mal sopportava
l’esistenza di spettacoli così cruenti. I ludi cominciarono, uno dopo l’altro,
a chiudere finché i giochi vennero ufficialmente vietati. Grazie all’immensa
popolarità di cui godevano, continuarono però a essere messi in scena fin quasi
agli albori del Medioevo. Nel 439 il popolo salutò gli ultimi gladiatori impegnati
nell’arena e poco meno di un secolo dopo il Colosseo ospitò le ultime
venationes. Da allora, su quanti del combattimento cruento e spettacolare
avevano fatto per secoli la loro esaltante professione calò, mestamente e per
sempre, il sipario.
"Pollice verso" di Jean-Léon Gérôme, 1872, il quadro all'origine dell'equivoco gestuale.
Articolo in gran parte
di Elena Percivaldi pubblica su storie di guerre e guerrieri n. 22 Sprea
editori – altri testi e immagini daWikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento