martedì 30 aprile 2019

Numa Pompilio il re che amava le donne.


Numa il re che amava le donne.
Salito al trono dopo il bellicoso Romolo, Numa Pompilio diede a Roma regole di convivenza basate sul rispetto dei riti religiosi. Ad aiutarlo nel suo compito, una misteriosa figura femminile: la ninfa Egeria.

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Numa Pompilio
Numa Pompilius and Ancus Marcius coin 1.gif
La moneta ritrae NVMAE POMPILI e ANCI MARCI, nipote del primo. Sul retro la Vittoriasotto un arco ed una nave sotto la luna.
Re di Roma
In carica715 a.C. - 673 a.C.
PredecessoreRomolo[1][2][3]
SuccessoreTullo Ostilio[4][5]
NascitaCures[1]754 a.C.
Morte673 a.C.
DinastiaRe latino-sabini
ConiugeTazia
FigliPompilia

Numa Pompilio (Cures Sabini, 754 a.C.  673 a.C.) è stato il secondo re di Roma,[1] il cui regno durò quarantatré anni[2] 
La narrazione mitica riporta che la morte di Romolo nel 716 a.C, aprì a Roma un periodo di crisi politica. La fine del primo re, ammantata di mistero (sarebbe stato assunto in cielo durante una tempesta), nasconde probabilmente una realtà più cruda. Tra i patres, ossia i patrizi, e il monarca si era creata un frattura, dovuta all’assolutismo di Romolo. Ciò aveva indotto i patrizi a emarginare il sovrano, cercando d’istituire  una forma di governo differente. Come racconta Plutarco nelle Vite parallele “Romolo fu fatto improvvisamente sparire dal mondo”. Di lui non rimase traccia e non si seppe più nulla. Proculo Giulio affermò che, dopo la scomparsa, il re gli era apparso per annunciarli la futura gloria dell’Urbe. Plutarco, più prosaicamente narra che furono invece i senatori a uccidere di proprio pugno Romolo, all’intero del tempio dedicato a Vulcano, per poi farlo a pezzi e seppellirli sparsi qua e là.


 Numa Pompilio consulta gli dei

UN NUOVO RE. Romolo venne divinizzato e al suo posto non fu eletto un nuovo re. Il collegio dei patrizi, di cui facevano parte sia i Romani che Sabini, si assunse l’incarico di governare la città. secondo Plutarco, “I patrizi si divisero tra loro il potere, in modo che ciascuno di essi tenesse il potere per sei ore del giorno e sei della notte”. Secondo altri autori, il tempo di rotazione era più lungo (alcuni giorni), ma il tentativo di tramutare la monarchia di oligarchia non si dimostrò efficace e ben presto il popolo cominciò a protestare per la disorganizzazione e l’inefficienza del governo. Si stabilì quindi di eleggere un nuovo monarca. La scelta non era facile. Dopo la fondazione, Roma si era espansa e in città erano confluite diverse popolazioni. Dopo il rapimento delle loro donne, i Sabini si erano uniti ai Romani in un’unica entità. Tito Tazio, re sabino, aveva governato per cinque anni (dal 750 al 745 a.C.) assieme a Romolo, in una sorta di monarchia collegiale. Tra i due gruppi, comunque, non c’era completa armonia. Quando si trovarono in contrasto sul candidato da sostenere i Romani puntavano sul senatore Proculo, della loro stirpe, mentre i Sabini propendevano per il nome di Velesio. L’accordo apparve introvabile fino a quando non si giunse a escogitare un sistema di elezione bizzarro ma geniale: si decise che ciascuno dei due popoli avrebbe dovuto ai Romani e costoro si accordarono sul nome di Numa Pompilio.

Numa Pompilio parla con la ninfa Egeria che gli dona le leggi di Roma (mos maiorum)[

SOVRANO ILLUMINATO. Numa non faceva parte del gruppo di Sabini che si era stanziato sul Quirinale (i Romani, da parte loro, occupavano il colle del Campidoglio), ma risiedeva ancora nell’antica città di Curi (da cui deriva il nome “Quiriti” che i Sabini davano a se stessi e che poi si estese a tutti i Romani), capitale del popolo sabino, sulla riva sinistra del Tevere. Aveva fama di uomo virtuoso e pius, secondo l’antico significato latino di “colui che adempie ai doveri morali e religiosi”, “colui che onora i padri”. Aveva inoltre un ulteriore titolo d’onore: era marito di Tazia, la figlia di Tito Tazio, e pertanto genero del sovrano associato a Romolo. Pare, inoltre che fosse nato nel giorno di fondazione della città. il 21 aprile.
Proculo e Valesio, abbandonate le velleità di ascendere al trono, furono inviati a Curi come ambasciatori. Al principio, la reazione del re designato fu negativa. Vedovo già da tempo, amante della pace e dei luoghi tranquilli (si rifugiava spesso nei suoi possedimenti di campagna, abbandonando la città), Numa preferiva la saggezza alla politica. Si disse anche che fosse stato discepolo di Pitagora (cosa impossibile, visto che il matematico e filosofo greco visse un paio di secoli più tardi). Quando i due messi lo informarono della sua elezione rispose pacatamente: “Ogni uomo che vuol cambiare vita si espone a un rischio. Colui che non manca di nulla ,e non ha da dolersi di quello che possiede, solo se è pazzo può indursi a mutare la sua maniera di vivere. D’altronde, cosa sia un regno si può dedurlo dalle vicende di Romolo, accusato di aver teso insidie a Tazio. Inoltre, Romolo è celebrato come figli odi un dio. Io sono semplice figli od immortali. I costumi che in me vengono lodati (grande tranquillità, inclinazione alla filosofia, amore per la pace in cui fui allevato, preferenza per gli uomini non portati alla guerra) differiscono moltissimo da quelli richiesti a chi deve divenire re. A voi Romani, Romolo lasciò eredità di guerre per proseguire le quali la città ha bisogno di un re giovane di animo fervente. Le mie intenzioni, volte e onorare gli dei e amministrare la giustizia, sarebbero oggetto di derisione in una città più bisognosa di un capitano che di un re”. Si trattava di un garbato rifiuto, e forse i discendenti di Romolo avevano indicato Numa proprio per questo, volendo costringere poi i Sabini a scegliere un Romano per la carica suprema. Invece, un po’ per le insistenze del padre, un po’ per le insistenze del padre, un po’ per le insistenze del padre, un po’ per aver visto segni divini favorevoli al suo mandato, Numa alla fine accettò di recarsi a Roma per sedersi sul trono dell’Urbe. Anche in città fu accolto da auspici favorevoli al suo mandato, uccelli che arrivavano in volo da destra. All’età di quasi quarant’anni, Numa indossò il manto regale e si diede alla sua opera di riorganizzazione dello stato.

Calendario romano[modifica | modifica wikitesto]

Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calendario romano e festività romane.
A lui viene ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni (secondo Livio inviece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo[2]), con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre[39] (l'anno iniziava con il mese di marzo, da notare tuttora la persitenza di somiglianze dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre).
Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re seguì i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni.[27]
(LA)
«Atque omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat
(IT)
«E divise l'anno in dodici mesi seguendo prima di tutto il ciclo della Luna; e poiché la Luna non lo completa con i singoli mesi di trenta giorni, ma avanzano sei giorni per un anno intero che completi il ciclo dei solstizi, stabilì di interporre mesi intercalari in modo che nel giro di 19 anni i giorni, tornando alla stessa posizione del sole dal quale erano partiti, collimassero in pieno con gli anni. Distinse poi i giorni in fasti e nefasti,[10] perché in certi giorni non si dovessero prendere decisioni pubbliche.»
(Tito LivioAb Urbe condita libri, I)
L'anno così suddiviso da Numa, non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche[40].


DA UN MONARCA ALL’ALTRO.
Dalla moglie Tazia, figlio di Tito Tazio, che fu re di Roma in coppia con Romolo, Numa Pompilio ebbe un figlia, Pomilia. Altre fonti raccontano di altri eredi avuti da Tazia oppure da una seconda moglie, Lucrezia. I nomi di questi ulteriori discendenti, tutti maschi, sarebbero Pompo, Calpo, Pino e Mamerco. Da essi, secondo la tradizione, sarebbero discese importanti gens (famiglie) di Roma.
Più importante, però, la discendenza attraverso Pompilia. Questa, infatti, si sarebbe sposata con il senatore sabino Marcio, candidatosi alla successione di Numa dopo la morte del re. Gli fu però preferito, per alternanza, Tullio Ostilio, che era di stirpe romana. Per la delusione patita, Marcio si lasciò morire. Da lui e da Pomilia, tuttavia, era nato Anco Marzio (o Marcio). Che sarebbe salito al trono dopo Tullio, regnando dal 641 al 616,
     
Egeria nel parco di Wörlitz in Germania

LA NINFA EGERIA. In questo compito fu aiutato dalla ninfa Egeria. Si trattava di una delle quattro Camene, divinità delle sorgenti, alle quali venivano attribuite qualità profetiche e ispiratrici. Tra queste ninfe, due (Antevorra e Postvorta) erano invocate dalle donne perché le assistessero durante il parto; la terza, Carmenta, era una specie di musa della poesia e del racconto epico, la quarta era lei, Egeria, il cui nome è assonante con la parola ager (terra da coltivare): era probabilmente una divinità femminile arcaica e molto potente, legata al culto della terra.
Egeria ispirò al nuovo re saggezza, concordia e pacificazione. Secondo la leggenda, fu amante, consigliera e anche moglie di Numa. Quando il re morì, la ninfa si sciolse letteralmente in lacrime, dando origine a una fonte che divenne luogo sacro e viene identificato con la sorgente che si trova presso Porta Capena, nella zona dove ora sorge il Circo Massimo. Egeria era anche associata alla figura di Diana Nemorensis, la dea onorata dei boschi presso il lago di Nemi; un culto antico e cruento, che prevedeva sacrifici umani. Si è ipotizzato che dietro l’immagine della ninfa si nascondesse un personaggio reale, una sacerdotessa di qualche antico culto matriarcale, celebrato nei boschi, a cui Numa chiedeva consiglio per la sua opera di riforma religiosa. Fino alla sua elezione, infatti, i Romani, i Sabini e gli Etruschi che popolavano l’Urbe onoravano dei diversi, non sempre in accordo fra loro. Fu Numa a istituire una prima triade dei maggiori, da celebrare con cerimonie e riti particolari: Giove, Marte e Quirino (Jupiter, Mars, Quirinus). Divinità nelle quali lo storico francese Georges Dumézile (1898-1986) vide la conferma della sua teoria della “tripartizione funzionale” applicabile alle religioni dei popoli indoeuropei (come romani e Sabini): la funzione sacrale e giuridica rappresentata da Giove, la funzione guerriera di Marte e la funzione produttiva impersonata da Quirino.

Parole di Roma: REX.
La parola rex, che a Roma indicava il sovrano, è legata ad altri termini di origine indoeuropea diffusi non solo in Europa, ma anche in Asia. In gaelico (lingua parlata in Irlanda) esiste per esempio il vocabolo ri, in celtico rix (suffisso in nomi di condottieri, come Vercingetorix), in sanscrito (antica lingua indiana) si trova il vocabolo raj. Dalla radice della parola derivano anche il vergo regere, che significa “guidare, condurre, dirigere” e il participio passato è rectus (sia retto, in senso astratto che diritto). Il rex, infatti nel suo significato originale, più che un sovrano è colui che traccia una regola una via da seguire. Dopo la fine del periodo monarchico, con la cacciata di Tarquinio il Superbo, a Roma la figura del rex continuò a esistere: era il rex sacro rum, il sovrano delle cose sacre, personaggio che non aveva funzione politica, ma religiosa, e officiava i rituali a cui prima, tradizionalmente, aveva presieduto il re di Roma.

DALLA RELIGIONE AL CALENDIARIO. Numa proibì di venerare immagini degli dei con forma umana, cosa che riteneva sacrilega, e istituì il collegio dei Pontefici, presieduti dal pontefice massimo, che aveva il compito di vigilare sulla moralità pubblica e privata e sulle prescrizioni di carattere sacro. Istituì, inoltre, il collegio delle vergini Vestali, assegnando loro la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città, che non si doveva mai spegnere. Nominò i Feziali (sacerdoti guardiani della pace), che avevano il compito di appianare i conflitti con i popoli vicini e di proporre la guerra solo una volta esauriti gli sforzi diplomatici (durante il regno di Numa non si registrò alcun conflitto). Diede vita anche al collegio dei Salii, i sacerdoti che dovevano separare il gemp della pace e della guerra (che per gli antichi Romani andava da marzo a ottobre). Si trattava di un compito importante, perché stabiliva, durante l’anno, il passaggio dallo stato di cittadini (soggetti all’amministrazione civile) a guerrieri (che sottostavano alle leggi dell’amministrazione militare e dovevano dedicarsi alle esercitazioni). La tradizione attribuisce a Numa anche la definizione dei limiti tra le proprietà private e pubbliche, cosa che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis. Nel Foro, fece erigere il Tempio di Vesta e la Regia, che non era propriamente la dimore del re, ma una sorta di tempio in cui custodire gli oggetti più sacri. Fece inoltre edificare il Tempio di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace (e rimasero chiuse per i 43 anni del suo regno). Gli fu attribuita anche la riforma del calendario, che passò da 10 a 12 mesi, con l’aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio, posti dopo dicembre (l’anno romano iniziava a marzo). Il calendario conteneva anche l’indicazione dei giorni fasti (favorevoli) e nefasti (sfavorevoli), durante cui non si prendevano decisioni pubbliche. Anche queste riforme avvennero su consiglio di Egeria, cosa che ne sottolinea il carattere sacrale. Il regno di Numa Pompilio si risolse quindi in un lungo e prospero periodo di pace, che si chiuse con la sua morte di vecchiaia, a ottant’anni, Anco Marzio, che sarebbe diventato il quarto sovrano di Roma.

Articolo in gran parte di Edward Foster pubblicato su Civiltà Romana n.2 Sprea editori. Altri testi e immagini da Wikipedia.

lunedì 29 aprile 2019

Botticelli il pittore dei medici.


Botticelli il pittore dei medici.
Universalmente conosciuto come Sandro Botticelli, Alessandro Filipepi è l’artista forse più legato alla cerchia medicea, di cui rappresenta gli ideali umanistici di bellezza e armonia.

Sandro Botticelli


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Presunto autoritratto dall'Adorazione dei Magi degli Uffizi
Sandro Botticelli, vero nome Alessandro di Mariano di Vanni Filipepi (Firenze1º marzo 1445 – Firenze17 maggio 1510), è stato un pittore italiano.


Ultimo figlio di Mariano, un conciatore di pelli, e di Smeralda (della quale non si hanno notizie), Alessandro Filipepi nacque a Firenze, esattamente a Borgo Ognissanti, nel quartiere di Santa Maria Novella, nel 1445. Pare che da piccolo fosse cagionevole di salute: nel 1458 il padre affermò, in una sorta di dichiarazione dei redditi del tempo, che il figlio tredicenne era malsano, aggiungendo anche che il giovane “sta alleggere”. Molto si è detto sul significato di questa espressione: secondo una teoria, si tratta di un modo per dire “sta a leggere”, ovvero che era dedito agli studi; secondo un’altra, si tratta semplicemente di un errore di scrittura, perché il padre intendeva dire che Sandro “sta a legare”, ovvero che montava pietre preziose, forse come apprendista in una bottega orafa.
Probabilmente il nome Botticelli si ricollega alla professione di uno dei fratelli maggiori, “battiloro” come pure “battigello” e da qui il termine potrebbe essere stato deformato a livello popolare in “Botticello” e quindi in “Botticelli”. A ogni modo, Sandro doveva essere un giovane talentuoso perché fu presto notato dai facoltosi Vespucci, la famiglia di cui faceva parte anche il ben più noto Amerigo, il navigatore che diede il proprio nome al nuovo continente: erano, infatti, i vicini di casa dei Filipepi agli inizi degli anni sessanta. Furono probabilmente i ricchi confinanti a raccomandarlo al grande pittore Filippo Lippi. Il maestro, un ex carmelitano vicino alla famiglia dei Medici, aveva appena aperto una bottega a Prato, dove Botticelli realizzò le sue prime opere documentate come, per esempio, una Madonna con Bambino e un angelo, oggi conservata ad Ajaccio. Quando poi nel 1467 il maestro si trasferì a Spoleto, Alessandro non lo seguì. Prese invece a frequentare la bottega di Andrea del Verrocchio, attorno al quale gravitavano i maggiori artisti della nova generazione d’avanguardia, come Domenico Ghirlandaio e Leonardo.

La Fortezza, prima opera documentata di Botticelli (1470)

LA VITA DEL PITTORE.
1445 Alessandro Filipepi nasce a Borgo Ognissanti di Firenze.
1481 Viene chiamato a Roma dal papa per lavorare alla Cappella Sistina.
1485 Esegue la spalliera con la storia di Nostagio degli Onesti.
1495 Comincia i disegni della Commedia di Dante per Lorenzo de’ Medici.
1510 Muore il 15 maggio ed è sepolto nella chiesa di Ognissanti.


Sandro Botticelli, , Madonna col Bambino e due angeli, 1468 ca., Napoli, Galleria Nazionale di Capodimonte

AL SERVIZIO DEI MEDICI. Nel 1470, anno in cui dipinse la personificazione della Fortezza per il Tribunale della Mercanzia, Alessandro si era già messo in proprio aprendo una bottega direttamente nella casa paterna, dove abitava insieme al resto della famiglia. A differenza di molti artisti, non amava molto viaggiare. Infatti a eccezione di un soggiorno a Roma per lavorare alla Cappella Sistina su incarico del pontefice, e di pochi altri spostamenti, non lasciò mai Firenze.
Intanto la carriera progrediva rapidamente e in breve divenne una personalità di spicco nell’ambito della cultura umanistica promossa dalla Firenze medicea. La città in quegli anni vedeva il rinnovarsi della cultura classica e la scoperta del neoplatonismo: si trattava di una corrente che riproponeva alcuni temi della filosofia platonica e affermava la supremazia dello spirito sulla materia in un movimento ascensionale che conduceva l’anima, attraverso l’intelletto e l’amore, verso Dio. Nel 1459, su consiglio dello studioso greco Giorgio Gemisto Pletone, Cosimo il Vecchio aveva fondato l’Accademia neoplatonica fiorentina nella villa medicea di Careggi. Vi si riunivano intellettuali come Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano e il filosofo Marsilio Ficino, traduttore delle opere di Platone e teorizzatore delle opere di Platone e teorizzatore del neoplatonismo. L’adesione di Botticelli alla cultura fiorentina a lui contemporanea è evidente soprattutto in quattro opere a soggetto mitologico, ricche di riferimenti allegorici per certi versi ancora misteriosi, realizzati negli anni ottanta. La prima opera documentata per i Medici risale al 1475, quando realizzò per giuliano uno stendardo per una giostra (uno spettacolo di intrattenimento cavalleresco), la stessa cantata dal Poliziano nelle celebri Stanze. Da allora il rapporto con la famiglia dei mecenati fu duraturo e probabilmente non solo professionale: il fatto che Lorenzo il Magnifico in un suo verso lo canzonasse come “ingordo e ghiotto”, fa pensare che i due fossero stati anche compagni di momenti goderecci.

 

SCAPOLO E BURLONE. Botticelli fu uno scapolo impenitente e, a parte una denuncia anomina per sodomia nel novembre del 1502, non si hanno notizie sulle sue relazione amorose. Era avverso al matrimonio e raccontava che una notte, avendo sognato di essersi sposato, si era risvegliato di soprassalto e, nel timore di riaddormentarsi e riprendere l’incubo, aveva passato il resto della notte a vagare per Firenze.
Tuttavia non fu certo un solitario: Vasari racconta che era un uomo di compagnia e sempre pronto allo scherzo. Un giorno accanto alla sua bottega si era trasferito un tessitorie che utilizzava dei macchinari tanto rumorosi da far tremare le pareti. Alle rimostranze dell’artista, questi aveva risposto che in casa sua faceva ciò che voleva. Il caso volle che il muro della casa di Botticelli fosse più alto di quello della casa del tessitore, quindi pose in bilico una pietra, che a ogni vibrazione del muro rischiava di cadere in casa del vicino. Il tessitore allora gli chiese di toglierla, ma Botticelli replicò che in casa sua faceva ciò che voleva. In un’altra occasione si burlò di un suo allievo, Biagio, attaccando dei cappucci di carta sulle teste degli angeli che questi aveva dipinto per poi toglierli facendogli credere che aveva avuto delle visioni.
Con la morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492 e la comparsa del predicatore Girolamo Savonarola, che attaccò la corruzione dei costumi dell’epoca, può dirsi conclusa la stagione dell’umanesimo quattrocentesco. Botticelli risentì del clima mutato: le opere di questo periodo evidenziano una crisi interiore che non scomparirà nemmeno dopo la morte del frate nel 1498. L’artista si spense nel 1510, dopo aver attraversato con uno stile unico e inconfondibile tutta la parabola artistica medicea,  tanto da essere paragonato ad Apelle, il pittore di Alessandro Magno.

RITRATTI DEL SUO TEMPO. Sandro Botticelli eseguì numerosi ritratti per i membri di ricche famiglie fiorentine, primi tra tutti i Medici. Nel dipinto raffigurante L’Adorazione dei Magi, rappresentò anche se stesso, riccamente abbigliato, insieme a una rassegna di ritratti medicei, che probabilmente richiamarono l’attenzione dei mecenati sull’artista. Nel suo autoritratto, Botticelli volge lo sguardo verso lo spettatore: si tratta di una tecnica, diffusa tra gli artisti, per coinvolgerlo maggiormente nella scena. I ritratti di Botticelli sono basati sul giusto equilibrio tra la correttezza fisiognomica e una certa tendenza all’idealizzazione, come nel caso del ritratto del fratello di Lorenzo il Magnifico, Giuliano de’ Medici, quest’ultimo fu rappresentato più volte dall’artista, così come lo fu Simonetta Vespucci amata da Giuliano.
Nel gennaio del 1475 Giuliano partecipò alla giostra in piazza Santa Croce. In quell’occasione Botticelli realizzò per lui uno stendardo con l’immagine della dea Pallade con le fattezze di Simonetta. Morì pugnalato durante la congiura antimedicea dei Pazzi nel 1478.

Ritratto di Giuliano de' Medici, 1478, Washington, National Gallery

Cosimo il Vecchio: L’uomo, identificato probabilmente con Antonio, fratello del pittore, veste secondo la moda borghese del tempo: una lunga veste di colore nero e un berretto rosso. Tra le mani regge una medaglia raffigurante Cosimo il Vecchio. Antonio si era infatti occupato della doratura di alcune medaglie per i Medici.


Ritratto virile: questo giovane uomo è rappresentato frontalmente, contro uno sfondo scuro che esalta la luce proveniente da sinistra. Indossa una tunica marrone bordata da una pelliccetta e un berretto rosso. Gli occhi sono grandi e sembrano fissare lo spettatore con intensità.

Sandro Botticelli 070.jpg
ritratto virile.

LE CHIAVI DI UN CAPOLAVORO. Su LA PRIMAVERA, realizzata per Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (detto il popolano) esistono molte interpretazioni in chiave mitologica, allegorica, simbolica e storico-celebrativa della famiglia. Secondo l’interpretazione in chiave neoplatonica dello storico dell’arte Ernst Gombrich, per esempio, il tema centrale dell’opera è l’amore che, sotto l’influsso di Venere, da sensuale diventa intellettuale. La scena è ambientata in un prato primaverile circondato da alberi d’arancio e pieno di piante di ogni genere. Mercurio con la mano destra alzata agita un caduceo per scacciare le nubi, che non devono rovinare l’eterna primavera del giardino. Le Grazie, chiamate da Esiodo, Aglaia, Eufrosine e Talia, danzano coperte da vesti trasparenti che sembrano mosse dalla brezza. Venere, vestita di bianco e con un mantello vermiglio, sembra seguire con il gesto della mano la danza delle Grazie. Vicino a lei il mirto, il suo simbolo. Flora, dea della giovinezza,avanza verso il centro con la tunica decorata da fiori di vario genere. Regge un lembo della veste ricolmo di boccioli di rosa, che sparge nel cammino. Cupido, con gli occhi bendati, sta scagliando una freccia verso la più esterna delle tre Grazie, che intreccia le mani con le altre due. Zefiro, il vento di ponente che annuncia la primavera, è raffigurato come un essere alato bluastro che tenta di ghermire la ninfa Clori. Clori cerca di fuggire terrorizzata. Come risultato dell’incontro fecondante con Zefiro vengono generati i germogli che le escono dalla bocca.


 La Primavera
PALLADE E IL CENTAURO. Convenzionalmente si inseriscono nella serie mitologica quattro opere: oltre LA PRIMAVERA e LA NASCITA DI VENERE, Botticelli realizzò anche VENERE E MARTE, distesi in un prato e circondati da satiri che cercano di disturbare il sonno del dio addormentato, e PALLADE CHE DOMA IL CENTAURO (1484 circa). Anche quest’ultimo dipinto (collocato con LA PRIMAVERA nel palazzo di Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici) si presta a varie interpretazioni: una teoria nata a fine ottocento legge in quest’opera un’esaltazione di Lorenzo il Magnifico, che si era alleato con il Regno di Napoli per scongiurare la partecipazione di questo alla lega antifiorentina promossa da papa Sisto IV. Quindi il centauro rappresenterebbe Roma, mentre Pallade Firenze. La dea ha infatti ricamato lo stemma mediceo sulla veste trasparente e regge un’enorme alabarda. Sullo sfondo vi sarebbe il golfo di Napoli. In chiave neoplatonica, invece, il dipinto raffigurerebbe la vittoria della ragione sulla brutalità che, seppur armata, diventa docile al suo tocco.

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Pallade e il centauro

LADY MODELLA. Botticelli rappresentò spesso il soggetto della Madonna conferendole sempre eleganza e spiritualità. Questo è evidente per esempio nel tondo della MADONNA DEL MAGNIFICAT, datato tra il 1481 e il 1485. Realizzato probabilmente per la famiglia di Piero de’ Medici, si tratta di un vero e proprio esperimento ottico poiché le figure appaiono come riflesse in uno specchio convesso. Il titolo dell’opera rimanda a un passo del vangelo di Luca, che la Madonna sta scrivendo aiutata dagli angeli: Magnificat anima mea Dominum, l’espressione con cui Maria si rivolse a Dio durante l’incontro con Elisabetta. Un ulteriore riferimento all’incontro tra le due donne si trova nella pagina di sinistra del libro, dove si intravedono alcune parole della profezia circa la nascita di Giovanni Battista, il figlio di Elisabetta. Gesù seduto sulle ginocchia della madre , regge in mano il melograno, simbolo della sua futura Passione. qualche anno dopo Botticelli realizzerà un altro tondo, la MADONNA DEL MELOGRANO.
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Madonna del Magnificat


MUSA E MODELLA. Considerata una delle donne più belle della Firenze rinascimentale. Simonetta Cattaneo nacque a Genova (o a Portovenere) nel 1453 per poi andare in sposa, a quindi anni, a Marco Vespucci. Si trasferì quindi a Firenze, dove morì giovanissima, tra il 1475 e il 1476. Alla sua more divenne una vera e propria musa per artisti e letterati, che vedevano in lei la personificazione della bellezza. Lorenzo il Magnifico, che si era occupato delle cure di Simonetta durante la malattia che l’aveva portata alla morte (probabilmente la tisi) inviandole i migliori medici della sua corte, le dedicò ben quattro sonetti. Agnolo Poliziano, invece, la cantò nelle Stanze per la giostra del Magnifico Giuliano di Pietro dè Medici, nelle quali si alludeva ad un amore platonico tra Simonetta e lo stesso Giuliano. Sandro Botticelli realizzò alcuni ritratti di dame in cui  critici hanno riconosciuto la fisionomia di Simonetta, che ravvisano anche in LA PRIMAVERA con Flora, nonché nella NASCITA DI VENERE e nella dea dell’amore in VENERE E MARTE.

 Sandro Botticelli 069.jpg
ritratto di Simonettta. 

Articolo in gran parte pubblicato su STORICA NATIONAL GEOGRAFICA del mese di novembre 2018, altri testi e immagini da Wikipedia.  

domenica 28 aprile 2019

La vita in trincea durante la grande guerra.

La vita in trincea durante la grande guerra.

Cibo scarso, sete terribile, i cadaveri dei compagni e dei nemici impossibili da seppellire, malattie e parassiti. Durante il primo conflitto mondiale i soldati conobbero orrori difficili da immaginare.





Provate a immaginarvi accucciati dentro una buca nel terreno, in attesa di un cenno per uscirne, senza sapere cosa vi potrà succedere da quel preciso momento in avanti. Qualcuno soffia in un fischietto e subito dopo grida qualcosa: è l’ordine di avanzare. In una frazione di secondo, balzerete fuori dalle vostre postazioni e inizierete a correre più velocemente possibile in tute le direzioni, pregando o imprecando tra avvallamenti, grumi di filo spinato, sbarramenti, trappole ed insidie di ogni genere, compresi i cadaveri in putrefazione e i resti di altri uomini smembrati. Intorno a voi il terreno è divelto in continuazione dal fuoco d’artiglieria: innumerevoli schegge e frammenti vengono scagliati dappertutto tra pallottole che sibilano, assordanti deflagrazioni che dilaniano e mutilano, una strana nebbia che avvolge ogni cosa e mitragliatrici che crepitano falciando vite in continuazione. Altri combattenti, poco più indietro, schierati di rincalzo alla prima linea, attendono con angoscia il loro turno: chi riuscirà, tra successive ondate d’assalto, a sopravvivere in qualche modo e a raggiungere le trincee avversarie, usando come protezione, lungo il martoriato percorso, anche i corpi dei compagni, potrò finalmente sparare, lanciare una bomba, saltare dentro a quella maledetta fossa e, se ancora in forze, affrontare il nemico all’arma bianca.
Il Primo conflitto mondiale, a dispetto delle previsioni, si trasformò presto in una logorante guerra di trincea nella sfibrante attesa del contatto con il nemico distante pochi passi. In alcuni punti la linea italiana era lontana da quella austriaca appena una decina di metri, tanto che i soldati potevano facilmente ascoltare gli avversari mentre parlavano normalmente e in qualche caso, seppure fosse assolutamente vietato dalle disposizioni, scambiarsi genere di conforto (come le sigarette) e qualche gesto di umanità.
Una sentinella del Reggimento Cheshire in una trincea vicino a La Boisselle durante la battaglia della Somme, luglio 1916

I guastatori e il tubo di gelatina.

Un Bangalore esposto al museo Batey ha-Osef di Tel AvivIsraele

Le squadre dei cosiddetti guastatori, composte da esperti artificieri e da volontari del Genio, avevano il delicatissimo compito di aprire dei varchi nei reticolati per l’assalto delle fanterie. Partivano in missione all’alba oppure al tramonto, protette talvolta da altre squadre di fucilieri, con poche armi leggere addosso (pistole e qualche bomba a mano): trasportavano un equipaggiamento molto pesante. Per proteggerli si studiarono apposti elmi e paraguance, piastre per il torace, le spalle e la schiena, gambali e paraginocchia, guantoni, scudi e corazze di vario genere, ma non c’era protezione che resistesse al fuoco nemico. Raramente questi temerari facevano ritorno: non a caso le loro formazioni era soprannominate “Squadre della morte”. Molte protezioni, nel corso della Grande Guerra, vennero riciclate, dotandole di cavalletti di sostegno ed impiegandole come scudi piantati sul parapetto della trincea. Dal 1916 una nuova rama, la bombarda, servì ad aprire i varchi garantendo maggiore efficacia e sicurezza per gli stessi soldati.
Molto utilizzato dai guastatori fu anche il tubo di gelatina, in ferro, contenente esplosivo gelatinizzato di consistenza plastica, gommosa o pastosa, a elevato potere dirompente. Dotato di miccia, tale contenitore veniva allungato sotto i reticolati e fatto quindi esplodere. L’operazione era altamente rischiosa per il fatto che l’accensione della miccia faceva spesso individuare il soldato addetto al brillamento. I tubi di gelatina servivano a svellere i reticolati dal terreno e ad aprire i varchi necessari all’irruzione delle fanterie. I tradizionali proiettili di artiglieria non avevano lo stesso effetto, giacché tendevano ad aggrovigliare ancora di più la matassa di filo spinato. La gelatina esplosiva era confezionata in cartucce e veniva utilizzata, oltre al caricamento dei tubi al fine di far saltare i reticolati, per effettuare lavori di mina, per il brillamento di proiettili inesplosi e per lavori di demolizione.


Trincee austriache sul Carso

Avvicendamenti delle truppe[modifica | modifica wikitesto]

Trincea italiana sulle Alpi durante la prima guerra mondiale
Fanteria di marina britannica all'attacco
Generalmente i soldati trascorrevano nelle trincee di prima linea un periodo di tempo molto limitato, da un giorno a due settimane, dopodiché si procedeva ad un avvicendamento delle unità. È vero che vi furono eccezioni: il 31º Battaglione australiano trascorse 53 giorni in prima linea nei pressi di Villers-Bretonneux. Ma furono casi rari, almeno per quel che riguarda il fronte occidentale. In un anno, un soldato mediamente suddivideva il proprio tempo come segue:
  • 15 % nelle trincee di prima linea
  • 10 % nelle trincee di appoggio
  • 30 % nelle trincee della riserva
  • 20 % pausa
  • 25% altro (ospedale, addestramento, trasferimenti, etc.)

LA VITA APPESA A UN FILO. Nei primi mesi di guerra del 1915, le trincee dei nostri soldati erano sovente poco profonde, con parapetti non sufficientemente spessi. In particolare, sul fronte dolomitico e carsico il tipo di terreno non rendeva possibile lo scavo di fossati che penetrassero più a fondo, cosicché si utilizzavano come fortificazioni ammassi rocciosi, mucchi di sassi e a volte bassi muretti costruiti a secco. Le trincee avversarie erano invece molto solide. All’inizio gli austriaci si ritirarono strategicamente su posizione già in parte fortificate con l’intenzione di resistere a oltranza, effettuando enormi sforzi per garantire la messa in opera di trincee e ricoveri adeguati a condurre una guerra di difesa lunga e logorante. La strategia italiana, al contrario, almeno sulla carta, prevedeva la condotta di una campagna all’insegna dell’attacco per avanzare e guadagnare terreno: nelle prime fasi, le trincee italiane furono per questo costruite senza particolare cura sia per la fortificazione sia per gli alloggi delle truppe. Spesso poco profonde, esse rendevano impossibile per un uomo stare in piedi per il rischio di esporre la testa al nemico. Di conseguenza i soldati venivano costretti a trascorrere ogni momento della giornata curvi per essere sicuri di rimanere al riparo. La dimenticanza di questo precetto, anche per un solo secondo, quasi sempre significava la morte. A soccorre molte volte il soldato era il “sacchetto a terra” (o sacco da terra), un piccolo sacco di iuta ripieno appunto di terra, utilizzato per eseguire opere come piccoli ripari, rafforzamenti di trincee, postazioni d’armi, ricoveri e lavori simili. Durante gli attacchi i soldati portavano con sé sacchetti pieni o da riempire, nel caso avessero dovuto approntarsi un riparo d’emergenza oppure rinforzare una posizione appena conquistata. Nel corso della Grande Guerra le trincee italiane richiesero milioni di sacchetti da riempire. Se non si conquistava la posizione, i combattenti avevano l’ordine di costruire una linea di resistenza nel posto in cui si trovavano. Per tale specifico scopo gli ordini erano di agire in coppia: un soldato scavava mentre il compagno aveva il compito di proteggerlo e coprilo sparando verso le linee nemiche.


Il soccorso ad un ferito, Fiandre, agosto 1917

Bombe a mano italiane.
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Bomba a mano tipo SIPE
Granata SIPE WW1.jpg
Bomba a mano tipo SIPE
Tipobomba a manodifensiva
OrigineItalia Italia
Impiego
UtilizzatoriItaliaRegio Esercito
ConflittiPrima guerra mondiale
Produzione
CostruttoreSocietà italiana prodotti esplodenti
Entrata in servizio1915
Varianti"Gallina"
"Strazza speroni"
Descrizione
Peso530 g
Altezza100-120 mm
Diametro55-60 mm
Tiro utile35 m
voci di granate presenti su Wikipedia
La bomba a mano tipo SIPE fu una bomba a mano italiana prodotta dalla Società italiana prodotti esplodenti (SIPE) di Milano ed impiegata dal Regio Esercito durante la prima guerra mondiale. Adottata nel 1915, è la bomba più famosa della Grande Guerra, citata anche da Emilio Lussu nel capolavoro Un anno sull'Altipiano. Rimase in servizio ben oltre la grande guerra, trovando addirittura impiego nei primi anni della seconda guerra mondiale.
La bomba frammentazione più usata dal Regio Esercito durante la Prima guerra mondiale fu la SIPE. Del peso di 530 grammi, a forma d’uovo e somigliante a un piccolo ananas, la bomba conteneva una carica esplosiva di 70 grammi di polvere nera. Utilizzata ben oltre il conflitto, trovò addirittura impiego nei primi anni della Seconda guerra mondiale. La sua accensione avveniva tramite strofinamento su appositi accenditori fissati al polso o infilati sulle dita. Considerando le condizioni del suo impiego ed il tempo atmosferico, l’intera operazione risultava molto macchinosa: la SIPE non era quindi sempre affidabile. In caso di forte umidità, si poteva comunque accendere su una fiamma libera oppure con un sigaro. Se ne svitava il tappino, poi si procedeva all’accensione e quindi la si lanciava dopo pressappoco 7-8 secondi l’ordigno esplodeva. La distanza massima di lancio della SIPE era di circa 40 metri. Il corpo della bomba era realizzato in ghisa per fusione in conchiglia, la cavità interna era invece ricavata con un’anima di sabbia; successivamente veniva lavorata la filettatura sinistrorsa sulla quale si avvitava l’accenditore. I soldati ne fecero un largo uso anche quand’essa era inservibile o inertizzata, producendo dei manufatti di originale fattura, utili per svariati usi (come fermacarte, lumi a olio e così via). Al termine della guerra solo le SIPE distribuite all’esercito furono oltre 3 milioni e mezzo. Altro ordigno difensivo a percussione era la BDP: un cilindretto di ghisa, alto circa 12 centimetri per un diametro di 5 centrimetri e pesante poco più di un chilogrammo, con una carica di balistite e fulmicotone. Il fante italiano, già caricato di tutto il peso dello zaino e dell’armamento individuale, nel momento dell’azione doveva svitare il coperchietto copricapsula; impugnare l’ordigno con la mano destra rivoltando in basso la capsula; battere con forza la bomba contro una superficie dura e intuire se la capsula era esplosa e aveva innescato la carica; valutare la distanza del nemico e lanciare infine la BDP, a opportuna distanza di sicurezza, entro 6-7 secondi. L’esplosione vera sarebbe avvenuta entro circa 14 secondi.  

TERRIBILI CONDIZIONI. La Grande Guerra vissuta nelle trincee fu caratterizzata in larga parte da fame, sete, sonno e dissenteria, dalla sporcizia, dai topi, dalle pulci e dai pidocchi (questi ultimi soprannominati “cavalleria delle trincee” dagli italiani), e ovviamente dai ricordi di un’altra vita fatta da affetti, consuetudini e attività quotidiane per un esercito in gran parte formata da contadini e artigiani. L’esistenza del soldato, condannato allo spirito gregario e alla passività, si svolgeva principalmente nei trinceramenti, all’insegna di quanto prescritto dai Comandi: “Pazientare, resistere, reggere alla fatica”. Nei diari dei soldati se ne ritrovano testimonianze significative, come quello del bersagliere Pietro Osella, contadino partito per il fronte nell’ottobre del 1916, che ricordando il proprio posizionamento sul Carso, scrive: “Faceva molto caldo, non c’era acqua, si soffriva di sete e anche della fame che tante volte le mitraglie austriache non lasciavano passare il rancio”. Il conflitto che visse la maggior parte dei soldati al fronte, oltre all’essere segnato da un’interminabile attesa, una paura paralizzante e il costante terrore della morte, fu contraddistinto da vari momenti di noia e patimenti causati dall’estrema variabilità del clima e del tempo. Per giorni e notti senza fine, a volte per settimane, i soldati in trincea furono costretti a vivere chini tra acqua e fango, al gelo (nel rigidissimo inverno tra il 1916 e il 1917 in alcuni punti del fronte si depositarono dai 6 ai 10 metri di neve), sguazzando nella melma oppure boccheggiando sotto il sole  cocente, protetti da qualche sacchetto di sabbia, da un riparo di legno, da un sasso, oppure dal corpo di qualche soldato morto in precedenza. Molte patologie erano la conseguenza della presenza di migliaia di cadaveri, che nessuno poteva seppellire, accanto a migliaia di vivi, stretti negli angusti spazi delle trincee. Nelle sue memorie anche il celebre giornalista e scrittore modenese Paolo Monelli ricordò: “Sopra un morto ho dormito”.
Non erano solo le armi a mietere vittime. Moltissimi soldati subirono gravi conseguenze a causa delle precarie condizioni igieniche. Se l’uso delle più moderne armi (tra cui le mitragliatrici, vero e proprio flagello) causò enormi perdite di vite umane, sui belligeranti infierirono pure le carestie e le malattie infettive, come la pandemia influenzale della cosiddetta Spagnola, una forma influenzale particolarmente devastante che, secondo stime attendibili, causò la morte di oltre 20 milioni di persone, cioè più vittime dell’intero conflitto mondiale. Le ferite, se non rapidamente curate, anche nei casi in cui non si rivelarono letali potevano diventarlo in breve a causa delle infezioni, degenerando in cancrene, setticemie e tetano. Nell’estate del 1915, prima le truppe austro-ungariche e in seguito tra quelle italiane, si diffuse anche il colera. Tra  i soldati dei due eserciti serpeggiavano inoltre malattie veneree, meningite, scabbia, tifo addominale, tigna, tubercolosi e febbri malariche. Vi erano poi le affezioni determinate dal clima, in particolare dall’esposizione al freddo e all’umidità, come congelamenti, febbri, malattie polmonari e reumatismi. I soldati, non potendo costruire latrine sotto il fuoco nemico, gettavano gli escrementi al di là del parapetto: la conseguenza inevitabile era che il sole, insieme alla putrefazione e ai liquami, moltiplicava le mosche e i parassiti. Fra i turni di guardia, chi era in trincea passava i momenti liberi a prendersi cura di sé spidocchiandosi, rattoppando e rammentando calze e guanti, lavando pezze da piedi o camicie e altri capi del vestiario. Molti dimostrarono una grande capacità di adattarsi nell’arrangiarsi servendosi degli utensili più disparati. Tutto ciò era normale: la vita di ogni soldato, prima che di un combattente, era infatti molto spesso quella di un contadino o artigiano particolarmente abile a ricavare oggetti più o meno utili da materiali poveri o di scarto. La Grande Guerra incise molto anche sulla tenuta mentale dei soldati. Vi sono varie testimonianze raccapriccianti su militari colpiti da turbe psicologiche, fino a ossessioni e sintomi di follia. Placido Consiglio, alienista dell’ospedale militare di Roma e futuro generale della Sanità, tra i tanti casi di anomalia del carattere dei militari in guerra studiò per esempio quello di un fante classe 1887, allontanatosi durante un combattimento, imputato di “diserzione di faccia al nemico”: “Fu trovato dopo due giorni a vagare per un paese, con aspetto intontito, pronunziando parole tronche e incomprensibili, maneggiando il fucile con atti strani e puntandolo contro i passanti che prendeva per nemici”.

La guerra dei veleni.

Il primo impiego su vasta scala dei gas avvenne il 22 aprile 1915 nei pressi della cittadina di Ypres, nelle Fiandre: i tedeschi lanciarono sulle linee alleate ben 168 tonnellate di cloro, una sostanza di cui in quegli anni producevano 60 tonnellate al giorno. I fanti francesi gasati furono 15mila, i morti otre cinquemila. Un paio di giorni dopo toccò ai canadesi, che cercarono di contenere i danni con fazzoletti bagnati di acqua e urina, tenuti premuti sulla bocca: i morti furono settemila. Gli italiani, invece, con ovvero gli effetti devastanti dei gas il 29 giugno 1916, quando subirono per la prima volta un attacco con l’aiuto chimico nel settore del monte San Michele, lungo il Carso, poco a sud di Gorizia. Alle ore 5,30 gli austriaci aprirono i rubinetti di seimila bombole disposte in casse. Il gas utilizzato era il fosgene, una miscela di cloro e ossido di carbonio, originariamente impiegato per la preparazione dei colori e la tintura di stoffe: i gasati furono ottomila e più di cinquemila le vittime nel girono di poche ore. In pratica, una cifra di poco inferiore alla somma di tutte le perdite italiane nelle guerre del periodo risorgimentale. Nella terza battaglia di Yepres, i tedeschi utilizzarono un nuovo gas vescicatorio contro il quale le maschere non potevano fare nulla: era l’iprite, determinante anche per lo sfondamento austro-tedesco su fronte italiano a Caporetto. Indossare la maschera anti-gas fu per tutti i combattenti della Grande Guerra un vero e proprio tormento, sia fisico sia psicologico. La respirazione con essa era piuttosto difficoltosa, ed era aggravata dallo sforzo fisico del combattimento, dalla paura e dalla tensione nervosa. La vista stessa dei soldati era ostacolata dall’appannamento delle lenti e dalle condizioni del terreno su cui ci si trovava. Vennero così studiati modelli sempre più perfezionati che portarono al termine del conflitto, al comune utilizzo dei “respiratori”, , facendo così diminuire drasticamente il numero delle vittime per opera dei gas. Se all’inizio del conflitto le vittime per ogni tonnellata di cloro lanciata erano oltre un migliaio, i progressi nella difesa fecero drasticamente calare tale numero a cinque nel 1918.
 
UNO SQUALLIDO RANCIO. Ai soldati italiani in trincea il cibo e le bevande non mancarono mai. Il vero problema era la loro qualità. Ottenere un rancio commestibile era spesso un’impresa. Dalle retrovie, dove si trovavano magazzini e depositi di viveri, partivano plotoni e squadre di soldati addetti alla corvè (dal francese corvè di epoca feudale, relativo a un servizio reso dal vassallo al signore tramite giornate di lavoro gratuito) con i rifornimenti. Il rancio, parzialmente cotto nelle cucine delle retrovie, veniva trasportato alle linee avanzate per mezzo delle casse di cottura, contenenti marmitte tecniche capaci di 25-30 razioni l’uno, che mantenevano costante a circa 60° per un’ora la minestra o zuppa: ciò consentiva di portare a termine la cottura durante il tragitto, di solito svolto in orario notturno oppure quando le condizioni di cattivo tempo limitavano la visibilità al nemico. I soldati potevano mangiare di notte o di mattina presto. Poiché la distribuzione del rancio era irregolare, spesso il cibo giungeva a destinazione freddo e scotto, praticamente colloso, sia in estate che in inverno. Al fine di rimediare alle frequenti condizioni penose dei pasti che pervenivano al fronte, particolarmente cari e preziosi per i combattenti furono gli “scaldaranci”, cilindretti di carta (più frequentemente rotolini di giornali) grossi come un rullino di pellicola fotografica dell’epoca, impregnati di paraffina e dotati di un fornelletto la cui costruzione era delegata al volontariato. Per tale attività di preparazione manuale concorrevano massicciamente le donne e i bambini riuniti nei vari comitati di assistenza sparsi per il Paese. La carta, avvolta e pressata più volte, veniva legata stretta. Gli “scaldaranci”, una volta confezionati, venivano spediti di fronte all’interno dei pacchi dono. Quattro “scaldaranci” facevano bollilre mezzo litro d’acqua in circa 15 minuti. Nonostante la produzione imponente, non erano comunque molto apprezzati in quanto non rispondenti alla effettiva necessità d’uso. Ecco perché il nomignolo “scaldaranci” fu attribuito durante la Grande Guerra dai soldati all’aspirante ufficiale, o utilizzato per bollare gli aspiranti inetti. A scarseggiare era invece l’acqua. Per chi era costretto all’immobilità sotto il sole estivo, a ridosso di muretti di pietra ardente, la sua mancanza fu un vero e proprio tormento (sul Carso, arido e roccioso, si soffrì la sete oltre ogni limite). “Se ne avessi un solo bicchiere lo pagherei magari 50 centesimi , anche sporca”, confessa nel suo diario il caporalmaggiore Enrico Conti (che morirà sul Carso nell’ottobre del 1915), disposto a dare, per placare quell’arsura, il corrispettivo della paga giornaliera di un soldato. Aggiungendoci anche le precario condizioni igieniche generali, la difficoltà di pulire la propria gavetta dai residui di cibo e il fatto che i soldati al fronte fossero spesso costretti a vere acqua inquinata, tutto ciò causò facilmente inconvenienti vari di salute, come le infezioni intestinali.

La vanghetta, il piccozzino e la baionetta.
Ogni combattente, italiano e austriaco, aveva una vanghetta (o badiletto) in dotazione. In alternativa, c’era il piccozzino. Gli italiani tenevano di solito entrambi sul lato sinistro esterno, fissati da legacci di cuoio, oppure in una borsetta di cuoio che serviva anche per portare la baionetta.
Sull’intero fronte di guerra venne prodotto un infinito lavoro di vanghette, picconi e trivelle per ricavare e rinforzare, molto spesso nella roccia, chilometri di trinceramenti, ma la vanghetta si rivelò anche indispensabile per l’assalto e la difesa (non a caso i soldati italiani ne affilavano i bordi), oltre a rappresentare, qualora conficcata, un minimo riparo per il viso del combattente: nell’angusto spazio della trincea, in mezzo alla grande confusione di materiali e uomini, nella concitazione degli scontri corpo a corpo, essa era ampiamente preferita come arma bianca rispetto alla baionetta. L’esercito italiano utilizzò 5 modelli di attrezzi leggeri, studiati per differenti impieghi: il piccozzino da fanteria di primo tipo serviva pure per tagliare rami se impiegato dalla parte della piccola ascia, risultando più utile della vanghetta nei convulsi e interminabili momenti in cui il soldato, raggiunti i reticolati posti dai nemici, cercava di aprire un varco. Il piccozzino era inoltre letale nel corpo a corpo. Negli scontri, gli austriaci usavano invece maggiormente il calcio del fucile e la baionetta. Quest’ultima a causa della crescente portata, precisione e cadenza di tiro dei fucili, aveva visto diminuire il proprio ruolo rispetto al passato, ma non venne mai abbandonata: l’impatto emotivo e la carica sia psicologica sia simbolica che creava, più che la sua efficacia offensiva, non persero mai il loro peso. Nonostante le ferite provocate dall’artiglieria e dalle armi moderne fossero decisamente più micidiali, ogni soldato teneva comunque la baionetta. Quando iniziò la guerra, le lame erano lunghe, ma nei combattimenti ravvicinati risultarono poco pratiche e furono sostituite da armi più adatte ed efficaci, i coltelli, con lame più corte e a doppio taglio. 
Cortesie tra nemici.
I contatti e gli scambi di qualsiasi natura tra soldati di opposti schieramenti erano proibiti e in caso di aggressione, pesantemente puniti. Un episodio che costò una punizione ufficiale avvenne per esempio tra il 24 e il 24 dicembre1916 fra soldati appostati nelle trincee sul Monte Zebio, nell’Altopiano dei Sette Comuni. A un certo punto gli Austriaci esposero un cartellone con sopra scritto in lingua tedesca, a grandi carattere, Buon Natale. Un caporale di 23 anni del 129° fanteria contraccambiò gridando un ringraziamento nella stessa lingua. Una voce domandò allora dove fosse finito un austriaco fatto prigioniero quello stesso giorno: l’italiano rispose che non lo sapeva. La notizia di tali scambi di cortesia fra combattenti contrapposti giunse al comando del battaglione il quale, essendo state impartite precise istruzioni da parte del comando del corpo d’armata, denunciò il graduato, condannato quindi il 14 febbraio 1917 dal Tribunale militare a un anno di reclusione “per rifiuto d’obbedienza e conversazione con il nemico”. Nella parte settentrionale del fronte occidentale, a sud di Ypres, in Belgio, durante la notte di Natale 1914 venne concordata una tregua tra soldati nemici. Non fu ordinata a seguito di un accordo tra i comandi dei due schieramenti: si trattò invece di un fatto inaspettato e impensabile, un cessate il fuoco spontaneo dichiarato da britannici, francesi e tedeschi che usciti allo scoperto dalle opposte trincee s’incontrarono nella Terra di Nessuno scambiandosi solidarietà, cibo, bevande e materiali di conforto. “Gli ufficiali tedeschi hanno detto di volere un armistizio per seppellire i caduti. Eravamo tutti contenti del cessate il fuoco, e ci siamo messi a seppellire i mort. Il nostro cappellano ha potuto celebrare. Finita la messa abbiamo iniziato a fraternizzare con i tedeschi, come fossimo vecchi amici”, scrive un soldato britanni in una lettera. La notizia della tregua giunse anche alle orecchie di un caporale tedesco che nel suo diario appuntò indignato: “Dove è andato a finire l’onore dei tedeschi?”. Quel testo sarebbe stato pubblicato anni dopo con il titolo di Mein Kampf: il suo autore era Adolf Hitler.  
Fino all’ultimo respiro.
I momenti più angoscianti per un soldato non erano quelli dell’assalto, bensì dell’attesa, nell’immobilità. Nel diario dell’alpino Giuseppe Beltrami, presente nella battaglia della Bainsizza, del 18 agosto 1917, si legge: “Prima di arrivare in prima linea di combattimento, preghiamo chiedendo perdono al Signore per i nostri peccati. Mi metto a ridosso delle stuoio di mascheramento. Sono in piedi. Il rombo di un aereo nemico mi fa sussultare; pare si allontani ma poi fa ritorno; dopo qualche minuto una granata brilla sulla collina provocando una pioggia di sassi, uno dei quali, ricadendo, mi sfiora e colpisce gravemente un compagni alla spalla”. E quando finalmente scattava il momento in cui bisognava uscire dai trinceramenti, tutto diveniva precario. Si legge ancora nella testimonianza scritta dal soldato italiano: “Un nostro sergente, posto nell’avvallamento alle mie spalle, in preda all’eccitazione e urlando ai propri soldati di avanzare, si mette a sparare colpendo involontariamente il povero e valoroso maggiore, il quale si accascia vicino a me esalando l’ultimo respiro. Il nostro caporalmaggiore trombettiere, vista la situazione moto grave e pericolosa, ci ordina di avanzare consentendoci di lasciare la coperta, la mantellina e la gavetta per correre con più agilità. Inizio a muovermi e passo in un punto stretto fra due sassi: la cassetta del telefono si incastra e mi impedisce di avanzare. Il tenente mi ordina minacciosamente di andare avanti gridandomi che mi sparerà  se non mi sbrigo. Non gli occorre molto tempo per rendersi conto della mia impossibilità a muovermi. Mi sorpassa frettoloso sulla destra e tira dritto sulla cima della collina. Un colpo di mitraglia lo colpisce e muore. La mischia è furibonda, da ogni parte morte e feriti. È difficile mantenere la postazione raggiunta; siamo costretti a retrocedere per porci al riparo. Alle 5 di sera il nostro capitano fa l’appello: di 280 siamo rimasti solo 73!”-
La battaglia della Somme.
Soldati in trincea durante la battaglia della Somme, luglio 1916

Dopo un massiccio fuoco di preparazione durato una settimana (oltre un milione di granate ad alto potenziale sparate da più di 1500 bocche da fuoco inglesi e da 850 pezzi francesi) e lo scoppio di dieci enormi mine, sul fronte della Somme, fiume della Francia settentrionale, il 1° luglio 1916 iniziò l’attacco della fanteria contro le linee tedesche. Tutti, comandi e truppe, erano fermamente convinti che dopo una simile aggressione dei nemici non fosse rimasto molto. I soldati inglesi uscirono così dalle trincee per marciare vittoriosamente: li attendeva invece un tragico e beffardo destino. I tedeschi avevano avuto a disposizione un intero anno per preparare le proprie difese e scavato rifugi di enormi dimensioni nel sottosuolo calcareo della Somme: linee presidiate da truppe bene addestrate e preparate alla mobilità, difese da masse di filo spinato larghe fino a 25 metri, trinceramenti collegati a posti di pronto soccorso, depositi, riserve di munizioni e ricoveri scavati fino a una profondità di 30 metri sotto la superficie, con luce elettrica e collegamenti telefonici che consentivano di comunicare con le retrovie la posizione dell’artiglieria. In pratica, una strutturata, ben servita ed efficiente città  sotterranea. Alle 7,25 di un azzurro mattino, migliaia di fanti avanzarono lentamente a ondate che si susseguivano come in una parata: i comandi avevano infatti dato ordine d’avanzare in linea con un carico individuale supplementare di trenta chili di munizioni, razioni alimentari, utensili per il trinceramento e bobine di filo spinato. I tedeschi, che grazie alle resistenti protezioni adottate in precedenza contro i calibri inglesi avevano subito lievi perdite, dopo una lunga attesa sbucarono a sorpresa da trincee, ripari e rifugi iniziando a martellare i nemici, letteralmente spazzati via da un fuoco incrociato e in parte annientati tragicamente dal fuoco amico della propria artiglieria, incapace di correggere il tiro. Nel giro di poche ore la British Expeditionary Force perse circa 57mila uomini (più del 50% dei quali soltanto nella prima ora). Si trattò del giorno più sanguinoso nella storia dei conflitti dell’esercito del Regno Unito.    

UN ESERCITO DI INVALIDI. In trincea le defezioni non mancarono, e i reati di codardi, come lo sbandamento e la fuga, oppure quelli di ammutinamento portarono a esecuzioni che spesso non vennero documentate ufficialmente. Nei processi ai disertori monti confessavano d’essersi allontanati per nostalgia di casa. I soldati vivevano infatti continuamente nell’angoscia di non riabbracciare i propri cari, e i brevi allontanamenti per salutare i congiunti prima di partire per la prima linea avveniva sotto la spinta di un’intensa emotività. Il senso dell’estrema precarietà delal vita conferiva un grande valore a quegli incontri che potevano essere gli ultimi. Se oltre 600mila soldati italiani morirono in battaglia, soltanto il 50% perì a causa di ferite. Pur di passare un certo periodo in retrovia o di essere esonerati dal servizio militare, molti militari schierati in prima linea furono disposti a procurarsi ferite, simulare malattie e ingerire sostanze tossiche. Mentre le statistiche ufficiali in merito risultano approssimative, gli episodi in tal senso si contano nell’ordine delle migliaia: tale fenomeno assunse proporzioni tanto vistose da obbligare i Comandi a istituire ospedali dedicati agli autolesionisti e ad applicare una disciplina di ferro. Una moltitudine di solti preferì barattare la guerra con il proprio corpo, condannandosi così a un’esistenza infelice.

Articolo in gran parte di Saverio Mirijello pubblicato su Storie di guerre e guerrieri anthology n. 1 altri testi e immagini da wikipedia

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