Combattere in trincea
L’attacco frontale.
Durante la prima guerra
mondiale in un infinito dedalo di buche di fango si lottava per la vita e la
vittoria, cercando di contrastare l’avanzata del nemico e guadagnare terreno.
Ecco come cambiarono le tattiche militari.
attacco frontale e ammaestramento tattico
Ivan Stanislavovic Bloch (polacco: Jan Gotlib Bloch; russo: Иван Станиславович Блиох, Ivan Bliokh; tedesco: Johann von Bloch; francese: Jean de Bloch; Radom, 24 luglio 1836 – Varsavia, 25 dicembre 1902) è stato un banchiere e un finanziere delle ferrovie polacco.
Dedicò la sua vita privata allo studio della moderna guerra industriale. Fu affascinato dalla devastante vittoria dellaGermania/Prussia sulla Francia del 1870, che gli suggerì che la soluzione dei problemi diplomatici attraverso la guerra industriale era diventata obsoleta in Europa. Pubblicò il suo capolavoro in sei volumi La Guerre Future a Parigi nel 1898, reso popolare nella versione inglese Is War Now Impossible?.
Il banchiere ebreo polacco Jan Gotlib Bloch (1836-1902) era
stato testimone della Guerra Franco-prussiana. Fu così impressionato dai
terribili effetti delle armi che vi furono impiegate, che dedicò il resto della
sua vita allo studio dei progressi bellici nella sua epoca in ogni campo, dagli
armamenti alle produzioni industriali e agricole. Verso la fine dell’Ottocento
pubblicò, inizialmente in russo, una voluminosa opera (migliaia di pagine)
intitolata: E’ oggi possibile la guerra? Basandosi su calcoli matematici era
arrivato alla profetica conclusione che la successiva guerra avrebbe
confrontato gli apparati industriali prima che gli eserciti, e che sarebbe
stata una guerra di trincea, vita dalla nazione con la maggiore capacità di
resistere alle privazioni e a una carneficina senza precedenti: sempre che
l’esasperazione delle popolazioni non sfociasse prima in una rivoluzione. A
conflitto concluso l’Europa sarebbe stata un irriconoscibile cumulo di macerie
morali, prima ancora che sociali e politiche. Animato da un sincero spirito
umanitario, Bloch le tentò tutte per farsi ascoltare, compreso convertirsi al
Calvinismo, li di religione ebraica, per avere udienza tra i potenti della
Terra. Ascoltare lo ascoltarono, perché nientemeno che lo zar Nicola II
organizzò una conferenza di pace all’Aia nel 1899, dove il banchiere venne
invitato e poté distribuire ai partecipanti il suo lavoro. Il tentativo di
composizione pacifica delle tensioni internazionali però fallì e le previsioni
di Bloch si avverarono: lo zar di Russia fu seppellito dalla rivoluzione,
mentre l’imperatore di Germania e il re-imperatore di Austria-Ungheria,
sconfitti, verranno deposti dall’avvento di regimi repubblicani. La ricezione
delle idee di Bloch da parte dei vertici militari non fu in realtà fredda.
Lessero il lavoro e ne rimasero anche impressionati. Certo l’autore del
trattato non apparteneva all’élite di militari di professione, eppure
l’attenzione che ricevette superò questo ostacolo. Dato che però la guerra
sembrava ormai inevitabile, per i militari la questione era completamente
diversa: volevano sapere come vincere il conflitto, non che sarebbe stato
difficile farlo. Nessuno però aveva ancora capito come vincere una guerra di
trincea, tanto più che quella in arrivo sarebbe stata di dimensioni mai prima
conosciute.
Tra
l’altro i calcoli di Bloch sulle perdite potenziali potevano anche essere
sbagliati: e in effetti lo erano, però per difetto, non avendo previsto il
banchiere la terribile letalità delle artigliere a tiro curvo. Su un punto i
militari si ritrovarono d’accordo con Bloch: qualsiasi tattica sarebbe fallita
se il morale delle truppe non fosse stato abbastanza alto. Il Darwinismo
sociale aveva fortemente influenzato le culture politiche e le ideologie
dell’Occidente: per i popoli come per le specie animali valeva la regola della
sopravvivenza del più adatto, e in guerra era più adatta la nazione con il più
alto spirito di sacrificio. Dal punto di vista militare questo si traduceva
nell’esaltazione del valore di un popolo misurandolo in base al numero dei
morti e di privazioni che era disposto a sopportare per giungere alla vittoria:
una supremazia antropologica che le dottrine tattiche tradussero
inevitabilmente in un’irresistibile congenita propensione all’offensiva del
fante armato di fucile e baionetta. Così i francesi nel loro Réglement del
1913, opera in gran parte del colonnello Louis de Grandmaison, precisavano che “L’esercito francese, tornando alle proprie
tradizioni, da ora in poi non conosce altra legge che l’offensiva”. E per i
tedeschi le cose non erano diverse: la guerra sarebbe stata furor gallicus
contro furor teutonicus. Lo scopo principale dell’addestramento era quello di
coltivare ed esaltare nelle truppe le proprie naturali inclinazioni belliche e
a questo scopo puntavano anche espedienti psicologici come l’uniforme con i
pantaloni rossi con i quali le truppe francesi affrontarono i primi mesi di
battaglie: un orgoglioso retaggio del passato che doveva collegare i
combattenti di oggi alla tradizione dei loro padri e nonni, ma che li
distingueva nitidamente dal paesaggio circostante, trasformandoli in bersagli
perfetti. In questo clima dottrinario la funzione di coordinamento tattico
degli ufficiali diveniva secondaria, rispetto a quello più urgente di esaltare
negli uomini, con il proprio esempio e lo stimolo, le loro caratteristiche
etniche. In Italia, nel 1888 il trentottenne maggiore Luigi Cadorna aveva
spiegato in un articolo della Rivista militare, come per vincere una guerra
moderna, si dovesse puntare unicamente all’annientamento del nemico. Un
obbiettivo che era inevitabilmente destinato a sfociare in un brutale attacco
frontale e che sarebbe stato risolto a vantaggio del combattente più
determinato e numeroso. Quasi trent’anni dopo il “generalissimo” Cadorna non
aveva cambiato opinione. Quel suo articolo, con poche revisioni e modifiche,
diventò nel 1915 la dottrina ufficiale dell’Esercito italiano, pubblicata in un
libretto con la copertina rossa intitolato: attacco frontale e ammaestramento tattico.
Attaccando una vasta fronte dello schieramento nemico si poteva individuare il
punto di cedimento sul quale esercitare un’ulteriore pressione allo scopo di
provocargli il massimo delle perdite. Semplice, razionale, infallibile. Inutile
anzi, controproducente, cercare soluzioni di attacco alternative, quando, in
definitiva, quell’imbuto logico avrebbe inevitabilmente condotto a uno scontro
frontale tra masse disciplinate e determinate. Se non funzionava, la colpa
andava cercata nell’indisciplina e nella svogliatezza delle truppe e di chi le
comandava sul campo.
Con la Prima battaglia della Marna (15-12 settembre 1914)
sul Fronte occidentale, si concluse quella che noi oggi chiamiamo la Fase di movimento della
Grande Guerra e con essa l’illusione che il conflitto potesse essere breve.
Durante le prime settimane delle operazioni era già parso evidente che bastava
una minima pausa o il minimo intoppo nella conduzione di un’operazione
offensiva per consentire ai difensori di attestarsi in un trinceramento. Per
quanto improvvisato e precario fosse (e ben lontano dalle elaborate opere degli
anni successivi) esso era comunque sufficiente per garantire ai difensori di
resistere a forze molto superiori, con un chiara economia di soldati che
potevano esser impiegati altrove. La posizione campale aveva alle proprie
spalle una lunga storia. Durante le fasi conclusive della Guerra civile
americane, per esempio, i Confederati erano ricorsi a estesi trinceramenti, che
anche precedentemente nella Battaglia di Fredricksburg (11-15 dicembre 1862)
erano costati agli Unionisti perdite gravissime. E in tempi più recenti le
Guerre Balcaniche (1912-13) e la Guerra Russo-giapponese
(1904-1905) avevano conosciuto un ampio impiego di trinceramenti e fasi della
guerra di posizione. Non si può dire, quindi, che per le armate europee le
trincee costituissero una sorpresa. Fu piuttosto la dimensione del fenomeno a
cogliere alla sprovvista i militari e soprattutto la sua rapida evoluzione
verso un sistema già molto sofisticato nell’autunno 1914. alla
cristallizzazione del conflitto contribuirono diversi fattori correlati tra
loro in una catena diabolica capace di trasformare una banalissima buca nel
fango in un incubo per gli apparati militari, con un’infinita serie di problemi
che da quella buca risalivano fino agli alti comandi strategici dislocati nelle
retrovie. In primo luogo, la combinazione tra copertura e potere di fuoco
creava agli attaccanti un vero e proprio enigma tattico. Le fortificazioni
campali fornivano protezione ai difensori durante la fase di fuoco preparatorio
di artiglieria: pensati per appoggiare un attacco in campo aperto, i cannoni
erano a tiro diritto e non penetravano le postazioni difensive, risultando
scarsamente efficaci. Appena questo fuoco cessava per permettere l’assalto
delle fanterie, i difensori uscivano dai propri rifugi e prendevano posizione
facendo fuoco sui nemici, ormai allo scoperto. Ben presto i difensori
impararono a tenere in prima linea il minor numero di truppe possibili, in modo
che bombardarla fosse praticamente inutile, tenendo il grosso dei soldati in
rifugi arretrati, al riparo dai cannoneggiamenti più violenti. Anche se alcuni
difensori erano stati messi fuori combattimento dal fuoco preparatorio, i
moderni fucili con la loro cadenza di 20 colpi al minuto, e a maggior ragione
le mitragliatrici capaci di spararne 600, consentivano a pochi uomini di avere
la meglio su forze largamente superiori, dando alle riserve fresche il tempo
necessario per occupare le trincee. La mitragliatrice aveva alle sue spalle una
storia relativamente recente: i primi modelli di armi automatiche moderne erano
stati usati sui campi di battaglia nella Guerra Civile americana (vedi articolo
sulla Gatling, pubblicato su questo blog) e della Guerra Russo-giapponese e in
varie operazioni coloniali. Qualche dato di esperienza sulla loro efficacia era
dunque disponibile, ma le conclusioni cui erano arrivati gli alti comandi
erano, purtroppo, solo parzialmente esatte. La prima, quella che più
interessava i militari, viste le dottrine offensive del primo Novecento,
riguardava l’inutilità della mitragliatrice nell’attacco: era infatti troppo
pesane e ingombrante per seguire l’azione in avanzata e, paradossalmente,
sparava troppi colpi e quindi richiede di essere accompagnata da una squadra di
portamunizioni, aggravando ulteriormente la sua praticità d’uso. La seconda
considerazione riguardava i dubbi sul suo funzionamento: l’arma non era ancora
perfezionata, si inceppava frequentemente e si surriscaldava dopo poche
raffiche, divenendo inutilizzabile. Francesi e tedeschi iniziarono la guerra
con solo due mitragliatrici per battaglione: una quantità risibile eppure
sufficiente a cambiare il corso della guerra di movimento in guerra di
posizione. Una squadra di mitraglieri poteva valere quanto una compagnia di
fucilieri e confondeva gli attaccanti sull’entità delle forze avversarie.
Inoltre era sufficiente la raffica di una mitragliatrice occultata in un
approntamento difensivo improvvisato per arrestare l’avanzata anche di forze consistenti,
che dovevano organizzare un assalto in piena regola per averne ragione, con un
conseguente rallentamento dell’azione che poteva avere ripercussioni sul
coordinamento generale delle operazioni. All’efficacia delle mitragliatrici
contribuì notevolmente l’impiego su vasta scala del filo spinato. Nato per
contenere le grandi mandrie di bestiame, il filo spinato proteggeva le trincee
con disposizioni intricate e profonde anche decine di metri che incanalavano
l’attaccante verso il tiro incrociato delle mitragliatrici. L’artiglieria non
lo danneggiava in modo significativo e le fanterie erano costrette a sforzi
enormi per avanzare anche solo pochi passi. Questo senza parlare delle
artiglierie, la cui qualità e il cui numero crebbero molto negli anni di
guerra. Come abbiamo visto, inizialmente erano a tiro dritto, una
caratteristica che le rendeva poco utili contro un nemico in trincea. Dal punto
di vista operazionale la trincea presentava altri dilemmi di non facile
soluzione per manovre di aggiramento alle quali si suppliva con uno studio
maniacale del terreno e della disposizione delle forze nemiche come in una
gigantesca partita a scacchi. L’unica opzione disponibile per l’offensiva
sembrava essere l’attacco frontale a ondate di linee di fanterie, ma come
anticipato pochi uomini e poche armi automatiche erano sufficienti a tenere una
posizione contro forze preponderanti, tanto più che gli enormi eserciti
popolari degli stati nazione, permettevano di ammassare un numero di uomini mai
raggiunto prima: in media 16 e più per metro lineare del sistema ininterrotto
di trincee che dal Canale della Manica proseguiva fino alle Alpi svizzere, per
riprendere poi su quelle italo-austriache. Questa abbondanza di truppe
consentiva di conservare consistenti riserve alle spalle delle unità nella
prima linea, non solo per rimediare a un suo eventuale sfondamento, ma
soprattutto per un contrattacco che riconquistasse il terreno perduto. I
sistemi difensivi trincerati si fecero via via sempre più sofisticati e
profondi, orientati ad assorbire lo sforzo nemico: le difese tedesche
raggiunsero anche i 15
chilometri , ma quelle alleate non erano di molto
inferiori.
Il piano britannico per l'assalto frontale alle trincee tedesche nella Battaglia della Somme
L’assalto
frontale.
carica alla baionetta.
L’assalto frontale a ondate successive fu
la tattica più comune per larga parte della Grande Guerra. Dispendiosa in
termini umani e materiali, non otteneva mai risultati eclatanti, ma fu anche
l’unico sistema che si riteneva avesse qualche probabilità di riuscita. Nel
corso della guerra questa tattica fu costantemente perfezionata utilizzando tecniche
organizzative d’avanguardia: per esempio programmando fasi di intervento,
coordinando tra loro azioni con direttrici di attacco diverse, stabilendo con
precisione inizio e fine dei bombardamenti.
PRIMA FASE –
Prima di un attacco i comandi svolgevano
una lunga e meticolosa preparazione. La conformazione geografica
dell’obiettivo era attentamente studiata utilizzando ogni strumento
possibile: dall’osservazione diretta alla fotografia aerea. Venivano poi
predisposte le posizione di artiglieria affinché bombardassero l’area in modo
coordinato a seconda del loro raggio di tiro. Un eventuale successo
dell’attacco doveva poi essere accompagnato da un avanzamento della stessa
artiglieria e anche queste sue future posizioni dovevano essere stabilite in
anticipo. Nelle retrovie si accumulavano riserve di munizioni, proporzionate
all’entità del martellamento di artiglieria. Le unità da impegnare
nell’attacco venivano fatte affluire in centri di raccolta, per quanto
possibile lontani dalla vista del nemico.
SECONDA FASE- L’ASSALTO
L’assalto frontale a ondate veniva
condotto con altrettanta meticolosità, secondo una precisa tabella di marcia.
Quando si riteneva che il bombardamento avesse ottenuto i risultati sperati,
pattuglie armate di cesoie iniziavano ad aprire il varco nei reticolati
nemici, per sgombrare la strada alle truppe d’attacco. All’ora designata le
unità sarebbero andate all’assalto succedendosi l’una dietro l’altra seguendo
lo stesso schema: la prima linea era composta da uomini armati di fucile e
mitragliatrici leggere, distanziati tra loro da due a dieci metri, il cui
scopo era rispondere con maggior efficacia possibile al fuoco nemico, come
una piattaforma di fuoco mobile. Seguiva una linea di rincalzi e di uomini
armati di lanciagranate o mortai leggeri che con il loro tiro curvo
contribuivano al fuoco di soppressione contro il nemico trincerato.
TERZA FASE: IL COMBATTIMENTO ALL’INTERNO
DELLA TRINCEA.
Una terza e ultima linea era composta
dagli assaltatori armati soprattutto di bombe a mano e strumenti per il corpo
a corpo, ai quali spettava l’arduo compito della conquista materiale della
trincea. Questa era una fortezze in se stessa e veniva contesa metro per
metro. Nella conformazione a “greca”, come in altre similari, le parti
rientranti, chiamate traverse, servivano ad impedire che il difensore fosse
colpito di infilata. L’interno della trincea diventava teatro di un lungo e
faticoso combattimento condotto passo passo con meticolosa determinazione
dagli assalitori e strenuamente difeso dagli occupanti: bombe a mano lanciate
oltre la traversa preparavano l’intervento degli assaltatori con armi bianche
e contundenti che finivano nemici feriti o storditi, o venivano impiegate nei
corpo a corpo contro chi poteva opporre resistenza.
|
L’ORGANIZZAZIONE LOGISTICA. Per avere ragione di
un simile apparato difensivo, l’attaccante doveva ammassare nelle retrovie
enormi quantità di uomini e materiali: un’operazione di tale impegno ed entità
che non poteva passare inosservata. Richiedeva settimane, se non mesi, di
preparazione per il solo tempo necessario ad accumulare le munizioni di
artiglieria del bombardamento preparatorio. Il fattore sorpresa era già dunque fatalmente
compromesso prima che questo fuoco di ammorbidimento preliminare avesse inizio.
La sua durata poteva poi prolungarsi per settimane per essere di qualche
utilità, facendo perdere qualsiasi dubbio su quale fosse il settore del fronte
che il nemico era intenzionato ad aggredire. Infine, quella buca nel fango
creava un problema di organizzazione logistico-strategica di dimensioni
assolutamente inedite. Una guerra che doveva durare poche settimane stava al
contrario bruciando risorse inimmaginabili e non preventivate persino dai
profeti di sventura. Al di là degli sforzi produttivi delle industrie nazionali
per tenere il passo dell’avidità delle munizioni e armi da guerra, nessun
sistema di trasporto dell’epoca, su ferro o su gomma, poteva soddisfare questa
insaziabile fame di uomini e armamenti, e la scarsità di proiettili favoriva il
difensore, che ne necessitava in quantità molto inferiore all’attaccante. Già
nelle prime settimane del 1915 gli eserciti avevano consumato le loro riserve e
si trovarono a combattere con i colpi contati. Questo congiurare di fattori
verso la cristallizzazione del conflitto in una guerra di trincea era un
problema che le gerarchie militari si affannarono inutilmente a risolvere. Le
dottrine non prevedevano alternative all’attacco frontale, anzi le
sconsigliavano. La prima risposta ai suoi sanguinosi fallimenti fu
perfezionarlo con l’esperienza, accumulando più uomini e più cannoni e
soprattutto introducendo bocche da fuoco di calibro sempre maggiore a tiro
curvo, più efficaci contro le trincee. Gli assalti di fanteria fallivano
comunque, perché difesa e con attacco erano troppo avvantaggiate. I gas
aggiunsero forza all’azione offensiva ma si dimostrarono ugualmente incapaci di
favorire uno sfondamento decisivo degli approntamenti difensivi disposti in
profondità.
La
battaglia di Verdun, durata quasi l’intero 1916, ideata dal generale tedesco
Erich von Falkenhayn, rappresentò una completa rivoluzione tattica e un
implicito rovesciamento delle dottrine con le quali gli eserciti europei
avevano iniziato il conflitto. La fanteria era universalmente considerata la
regina delle battaglie e l’artiglieria il suo supporto, ma Verdun ribaltò il
paradigma: il nuovo dogma divenne “L’artiglieria conquista, la fanteria
occupa”. I grandi calibri delle artiglierie a tiro curvo, e magari anche i gas,
potevano polverizzare l’avversario, purché fossero in numero e con munizioni
sufficienti, e ai fanti sarebbe bastato farsi una passeggiata sulle macerie per
vincere la battaglia. C’erano però due errori in questa svolta tattica: il
primo era quello di riservare alle fanterie un ruolo subalterno che negava
tutte le pretese di superiorità antropologica sbandierate prima del conflitto,
compromettendo la forza morale degli uomini, il secondo era che l’artiglieria
poteva effettivamente distruggere ogni essere vivente nella prima e magari
anche nella seconda linea difensiva, ma poi ce n’erano una terza e una quarta e
forse anche una quinta intatte, di fronte alle quali la fanteria sfiduciata si
trovava a combattere senza alcun sostegno. Il progresso tattico nella Grande Guerra
era destinato a conoscere nuovi passaggi evolutivi che si dimostrarono forieri
di grandi sviluppi negli anni successivi, ma che non furono comunque
sufficienti a risolvere il dilemma trincea. I tedeschi elaborarono già a
partire dal 1916 la dottrina di impiego delle unità d’assalto, le Sosstruppen
che venivano specificatamente addestrate per aprire varchi nelle difese
nemiche, attraverso i quali sarebbero penetrate altre forze per il
proseguimento dell’azione. Precedute da un bombardamento breve ma intenso e
concentrato in una ristretta porzione del fronte, le Stosstruppen facevano un
uso esteso di armi d’appoggio come lanciafiamme, mortai d’accompagnamento e lanciagranate, mitragliatrici leggere,
cannoni di fanteria. Potere di fuoco e aggressività effettivamente consentivano
rapidi sfondamenti e penetrazioni iniziali, che era però difficile sfruttare in
modo altrettanto efficiente con le truppe di rincalzo. Così dopo un iniziale
successo l’operazione si arenava prima di ottenere risultati decisivi. I britannici
ricorsero invece a una soluzione tecnologica: i Tank. I carri armati, però,
erano ancora troppo inaffidabili, lenti e vulnerabili all’artiglieria nemica.
Potevano anche ottenere successi iniziali strabilianti, analoghi a quelli delle
Stosstruppen, ma alla fine il risultato era sempre lo stesso: le difese
trincerate, sviluppate in profondità, resistevano mortificando qualsiasi
volontà offensiva. Alla fine la trincea prevalse su qualsiasi tentativo di
superarla, regina crudele e inviolabile dei campi di battaglia della Grande
Guerra.
Evoluzione
della tattica nelle battaglie.
|
|
TANNEBERG 26-30 agosto 1914
Sul
fronte orientale i russi avevano forze praticamente doppie rispetto
all’esercito germanico e assunsero prepotentemente l’offensiva, rispondendo
alla richiesta di aiuto dei loro alleati, in gravi difficoltà sul fronte
occidentale. I tedeschi però, in una settimana distrussero i propri
avversari, approfittando di un’intercettazione radio che svelò i loro piani.
Si comprese così che la tattica militare doveva avvantaggiarsi e
padroneggiare le innovazioni tecnologiche, e si ebbe conferma del potere
distruttivo raggiunto dalle armi a disposizione, capaci di ribaltare
qualsiasi rapporto di forze.
I generali Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff sul campo di battaglia di Tannenberg |
VERDUN
21
febbraio- 20 dicembre 1916
Dissanguare
a morte il nemico: questo l’obiettivo dell’alto comando germanico nella
battaglia di Verdun, una gabbia dove i francesi dovevano essere confinati e
distrutti. Un radicale cambiamento tattico. I ruoli tra fanteria e
artiglieria si invertirono: l’artiglieria avrebbe distrutto e la fanteria si
sarebbe limitata ad occupare il terreno. 303 giorni di battaglia e forse un
milione di morti e feriti da entrambe le parti non furono sufficienti per
piegare i francesi. Ampi tratti del territorio di Verdun sono ancora oggi talmente
inquinati da essere pericolosi e vietati all’insediamento umano.
i 300 giorni d'inferno di Verdun.
|
5-12
settembre 1914
I
francesi lo chiamarono il miracolo della Marna, e fu effettivamente una
vittoria decisiva che salvò
La manovra dell'esercito tedesco prevista dal piano Schlieffen |
24
ottobre – 12 novembre 1917
Il disastro italiano a Caporetto fu il risultato più
eclatante delle innovazioni tattiche della Grande Guerra: gas, bombardamenti
intensi e improvvisi e, soprattutto la novità rappresentata dalle
Stosstruppen. Superiori di circa un terzo rispetto agli italiani, con il
doppio di artiglierie, e anche agevolati dall’impreparazione del dispositivo
italiano e all’inadeguatezza della reazione degli alti comandi, le truppe
austro-tedesche penetrarono in profondità lungo le valli, aggirando i capisaldi
in montagna per provocare il caos nelle retrovie. Morti e feriti furono quasi
alla pari, ma i prigionieri italiani furono 265mila.
|
SECONDA BATTAGLIA DI YPRES
22
aprile – 25 maggio 1915
La
tecnologia entra nuovamente nell’evoluzione della tattica, corroborando la
convinzione che la risposta per risolvere il dilemma della guerra di trincea
fosse un ulteriore balzo nella distruttività delle armi. A Yepres i tedeschi
inondarono i loro avversari con oltre 170 tonnellate di gas cloro, concentrate in poco più di
trincea di Ypres |
CAMBRAI.
20
novembre-7 dicembre 1917
Una forza di 476 tank britannici sferraglianti assalì
all’improvviso le difese tedesche. Invulnerabili alle mitragliatrici,
nonostante la loro lentezza sfondarono reticolati e travolsero trincee.
Furono più i mezzi bloccati da guasti meccanici che quelli distrutti dal
nemico e questo bastò a spegnerne l’impeto e a fermarne l’avanzata. Senza il
loro appoggio la fanteria britannica si trovò isolata e vulnerabile ai
contrattacchi nemici. Il mezzo era senza dubbio interessante, ma il suo
sviluppo tecnologico era ancora troppo acerbo per risultare decisivo come
sarà invece nella Seconda Guerra Mondiale.
carro armato inglese distrutto durante la battaglia. |
Le
truppe d’assalto.
Un soldato delle truppe d'assalto posa con il suo MP 18. È possibile vedere il caratteristico Stahlhelm, la divisa modificata con toppe di rinforzo su gomiti e ginocchia e le ghette a sostituire gli stivaloni del 1914.
L’esercito tedesco fu il primo a dotarsi di
truppe d’assolto, le famose Stosstruppen, destinate a diventare un modello al
quale si ispirano tutt’ora gli eserciti moderni. Capaci di azioni decise e
potentemente dotati di armi d’appoggio quali lanciafiamme, mitragliatrici
leggere e cannoni da fanteria, le Stosstruppen agivano su un fronte ristretto
rispetto agli assalti frontali, contando sull’effetto sorpresa e
sull’avanzata in profondità. L’esercito italiano nel 1917 introdusse i reparti di Arditi:
tra i loro successi la conquista da parte del IX reparto d’assalto del Col
Moschin, il 16 giugno 1918, del massiccio del Monte Grappa, in 10 minuti di
furiosi combattimenti corpo a corpo.
Stoßtruppen in azione nella regione dello Champagne coperti da una cortina fumogena, 1917 circa.
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Il fucile era l’arma più diffusa sul campo
di battaglia della Grande Guerra ed aveva caratteristiche abbastanza comuni
in tutti i modelli: il calibro oscillava tra i
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