Il popolo degli indesiderabili.
Prostitute e carnefici, saltimbanchi e
giocolieri, attori e balie da latte: la “corte dei miracoli” medievale era
formata da una miriade di uomini e donne, tutti accomunati dall’identico
marchio d’infamia.
Un articolo con altri reietti nel Medieovo era stato pubblicato sul blog vedi il titolo Vite ai
margini.
Per gran parte della lunga
epoca medievale, esercitare un mestiere “infamante” portava a una riduzione,
spesso consistente, dei diritti individuali e a una marginalizzazione della
vita sociale. Ciò non accadeva solo in Italia, ma in tutti i Paesi della
cristianità europea: in Francia, tali lavori si definivano con il termine
latino illecites, mentre nell’aerea di lingua tedesca li si etichettava come
unehrliched, disonorevoli. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un
tipo d’infamia ipso iure,ossia un marchio che ricadeva sul soggetto nel momento
stesso in cui costui iniziava a praticare l’attività degradante, senza bisogno
di alcun processo. Sant’Agostino, elaborando una sintesi tra mestieri infamanti
del diritto romano e quelli identificati dalla religione ufficiale del tardo
Impero, distingueva tra occupazioni infami (come ladro, cocchiere, gladiatore,
commediante) poco onorevoli (quasi tutte legate al commercio) e quelle che
invece permettevano di mantenere l’onestà morale come agricoltore, e artigiano.
Nei secoli successivi alla caduta di Roma, però il numero di mestieri infamanti
divenne molto più ampio. Città e campagne medievali erano infatti molto
gerarchizzate, e ancor più di quelle di età romana mostravano la tendenza a
disegnare una piramide di categorie sociali. Alcuni studiosi hanno tentato di
sistematizzare le varie specie dei mestieri infami, dividendoli essenzialmente
in tre categorie. La prima comprendeva i lavori che avevano un qualche tipo di
rapporto con il sangue, la morte e le deiezioni: parliamo di becchini,boia,
scuoiatori, barbieri (che spesso erano anche chirurghi), macellai e così via.
Chi esercitava questi mestieri
lavorava a stretto contatto con cose sporche, immonde, che segnavano per sempre
chi se ne occupava. Gli appartenenti al secondo gruppo, invece, si macchiavano
con il guadagno ottenuto attraverso l’esposizione o la vendita del proprio
corpo. In questa categoria ricadevano, com’è facile immaginare, le prostitute,
ma anche gli attori e i commedianti. Quanto al terzo tipo di mestieri
infamanti, esser era composto da mendicanti, girovaghi e scapestrati, ossia
coloro che oggi definiremmo “senza fissa dimora”. L’esempio più utilizzato, sia
nelle fonti dell’epoca che nella storiografia odierna, per definire le
caratteristiche del mestiere infamante è quello del boia. In Germania,
l’esecutore capitale doveva provenire da un nucleo familiare con una tradizione
in tal senso: in pratica, il figlio di un boia nasceva con il marchio d’infamia
già cucito sulla pelle. Inoltre, egli adempiva spesso ad altri compiti
degradanti che avevano poco a che fare con il suo ruolo fondamentale, come
pulire le strade o controllare l’andamento delle case di tolleranza. Queste ultime
rappresentavano, a propria volta, un covo di persone infami: le prostitute
diventavano tali non appena iniziavano a esercitare la professione, così come
chi le sfruttava, ossia i lenoni.
prostitute in un bordello nel medioevo
Il Gesù descritto nei Vangeli ha un atteggiamento molto personale nei confronti delle prostitute, non solo le tratta gentilmente ma fa di loro addirittura un esempio di fede: "In verità vi dico, i pubblicani e le prostitute vi precederanno nel regno dei cieli" (Matteo 21.31). Nel cristianesimo delle origini la prostituta è colpevole di un grave errore morale, ma può essere salvata dalla fede: "... neanche io ti condanno. Va e non peccare più. La tua fede ti ha salvata."
Durante il Medioevo, la prostituzione si poteva comunemente ritrovare nei contesti urbani. Anche se tutte le forme di attività sessuale al di fuori del matrimonio sono stati considerati come peccaminoso dalla Chiesa Cattolica Romana, la prostituzione era di fatto tollerata (seppur in maniera riluttante) perché si riteneva evitasse mali maggiori come lo stupro, la sodomia e la masturbazione[18]; nonostante ciò erano molti i canonisti che premevano ed esortavano le prostitute a convertirsi e cambiare vita.
Molti governi cittadini stabilirono che le prostitute non dovessero esercitare il loro mestiere all'interno delle mura cittadine, ma solamente al di fuori della giurisdizione comunale; in varie regioni francesi e tedesche si adibirono certe strade come aree in cui la prostituzione era consentita. A Londra i bordelli di Southwark erano di proprietà del vescovo di Winchester[19].
In seguito divenne pratica comune nelle grandi città dell'Europa del Sud di istituire bordelli sotto il controllo delle autorità, vietando al contempo qualsiasi forma di prostituzione svolta al di fuori di tali locali; l'atteggiamento a cui ci si atteneva maggiormente in gran parte dell'Europa del nord era invece quello del laissez faire[20]. La prostituzione trovò infine un mercato molto fruttuoso durante tutto il periodo delle Crociate
La dinastia
dei boia.
Le vicende relative alla trasmissibilità
dell’infamia sono ben spiegate da un
episodio avvenuto nella Germania di metà Cinquecento. Nel 1553, dopo aver
preso la città bavarese di Hof, il condottiero tedesco Albrecht II di
Alcibiades decise di mettere a morte tre armaioli locali che avevano complottato
per ucciderlo. Invocando un’antica tradizione cittadina, ordinò che a
eseguire fosse una delle persone presenti nella piazza. Tra tutti indicò un
tale Heinrich Schimidt. Per capire il
motivo della scelta bisogna andare indietro nel tempo, a un episodio che
aveva avuto come protagonista Peter Schmidt, padre di Heinrich, e il suocero
Gunther Bergner (Peter aveva sposato la figlia di Gunther). A causa di alcuni
problemi con la giustizia, quest’ultimo aveva ricevuto un marchio d’infamia
formale e la messa ala bando di tutti i mestieri. Era diventato quindi boia, mentre Peter
Schmidt aveva continuato a esercitare il suo mestiere, così come il figlio Heinrich.
Qualche decennio dopo, in quel di Hof,qualcuno indicò proprio quest’ultimo ad
Alcibiades, ricordandogli che in fondo, avrebbe potuto avere qualche
conoscenza del mestiere.
Heinrich supplicò Alcibiades di non
costringerlo a eseguire una condanna a morte, gettando l’infamia su tutta la
sua famiglia, ma il condottiero fu irremovibile. La più importante dinastia
di carnefici della Germania ebbe così inizio: Heinrich passò infatti il
mestiere al figlio Franz, che divenne il più rinomato boia dei Paesi
tedeschi. .
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DI PADRE IN FIGLIO. I mestieri infami erano comunque fondamentali per
l’organizzazione di città, campagne e villaggi. Gli studiosi si sono spesso
soffermati sulla dicotomia tra le parole mestiere, che si presenta come
intrinsecamente virtuosa, e infamante, aggettivo del tutto negativo. In questa
ambigua locazione sta tutta la contraddittorietà di un’epoca che accettava, e
anzi cercava di inserire nel proprio disegno etico e sociale, ruoli e soggetti
che risultavano al contempo indispensabili e rivoltanti. Non si trattava,
infatti di persone che praticavano attività criminali o fuorilegge, come i
briganti o i ladri, bensì di uomini e donne impegnati in lavori socialmente
utili per quanto intrinsecamente ripugnati e disdicevoli.
Marchiare
come infame una persona era anche un modo per circoscrivere l’esercizio delle
pratiche più degradanti all’interno di un certo gruppo sociale, senza
contaminare l’intera comunità. L’infamia passava di padre in figlio: così come
spesso i buoni natali erano fondamentali per entrare in una corporazione,
nell’ordine ecclesiastico o al servizio di qualche potente locale, altrettanto
accadeva per le pratiche indesiderabili. Attorno a figure reputate infami ve
n’erano altre la cui fortuna dipendeva dalle consuetudini, dagli usi e dalle
leggi locali. A volte si trattava di diventare bersaglio di un pregiudizio
culturale ed esser considerati, usando una locuzione latina, personae viles et
abiectae; altre volte, invece, si veniva legalmente privati di alcuni
diritti parliamo sempre di professioni
in cui il contatto con le impurità, sia organiche (umane o animali) che inorganiche,
si trasmetteva dall’oggetto al soggetto. Soprattutto le secrezioni corporee
umane portavano a una contaminazione fisica e spirituale irrimediabile. Nella
lunga e mutevole scala di grigi che andava dagli infami alle personae vilies et
abiectae, rientrarono, a seconda dei tempi e dei luoghi, macellai, custodi di
bagni pubblici, musicisti, acrobati, buffoni e diverse altre categorie di
professioni. L’esclusione sociale si manifestava anche nell’impossibilità di
formare una propria corporazione, in un’epoca (specie fra il Due e il Seicento)
in cui tali gilde formavano il vero volano economico nella maggior parte dei
Paesi europei.
Una
delle testimonianze più interessanti in materia di mestieri medievali e
rinascimentali è la piazza universale di tutte le professioni del mondo, un
volume scritto da Tommaso Garzoni nel 1585. Si tratta di un’opera ricca di
dettagli e considerazioni sul lavoro dell’uomo. Quando si parla di degradazione
l’autore non usa mezzi termini: dedica un intero paragrafo a chi ha a che fare
con escrementi, latrine e pozzi neri che, allora come oggi, andavano svuotati a
intervalli regolari per evitare che il contenuto tracimasse: di ciò si
occupavano i cavatori di pozzi o “purgatori”. L’autore è quasi dispiaciuto che
debbano esistere persone di tal genere, ma afferma che si tratta pur sempre di
pozzi, dove gettare le deiezioni. Ancora peggiori sono, per Garzoni, i
‘curadestri’ (in latino Purgatores latrina rum), che provengono dalla “peggiore feccia del volgo”. A
differenza dei cavatori a costoro toccava svuotare le latrine pubbliche. In
alcune piazze e vie c’erano infatti angoli preposti all’espletazione dei
bisogni corporali, e probabilmente bastavano poche ore affinché si creassero
accumuli nauseabondi che andavano rimossi. Garzoni è, in questo caso, esplicito
quando scrive che i “I curadestri che col
solo nome putiscono (puzzano) da sterco per ogni banda, non dovrebbero venire
in questa piazza ad ammorbare tanta honorata gente, come in essa si ritrova; ma
perché anco in piazza vi son de’ luoghi acconci per loro, gli assegneremo i
canti del piscio remotissimo dal luogo, ove passeggia la nobiltà per non
imbrattare con le loro toghe de’ dottori, o le spade dei soldati, che vanno
volentieri sguzzando per terra a rischio ogn’ora di pigliar su qualche
immondizia, come quella de’ curadestri”.
Si
tratta della ripugnanza morale di cui abbiamo parlato all’inizio che confinava
questi soggetti ai margini della vita cittadini non solo in senso lato, ma
anche in senso stretto: erano letteralmente indegni di calpestare la stessa
terra dei ceti superiori. Ed è per questo motivo che, nel passo di cui
sopra, l’autore parla espressamente
della necessità di relegarli ai “cantoni del piscio”. Prima dei poveri cura destri, Garzoni parla
di un’altra categoria: “A quei mestieri,
che han del vile, e del sordido assai, si può numerare ancor il mestiero de’
spazzacamini (…). È parimenti huomo di maloaugurio, perché per il più è nato
questo, che, quando i Spazzacamini vanno in volta ,il tempo si conturba, quasi
che il cielo di sdegni di ricevere il fumo, e la caligine, che da’ camin leva
il rasciatore della spelonca fumicosa per sua onta, e dispetto”. Ancora una
volta, sono il contatto con la sporcizia e l’aspetto volgare a disegnare un
alone di disgrazia intorno a questi soggetti. E non basta: gli spazzacamini,
nell’immaginario comune registrato dall’autore, portano anche sforno e sono, di
fatto, invisi al cielo per i fumi che gli levano contro. E il cielo, nel
Medioevo, ha uno stretto rapporto con il divino.
Senzatetto
in uniforme
In Spagna, come altrove, le professioni
considerate infamanti furono condannate e emarginate in vario modo. Basti
pensare che un’ordinanza reale comminava una pena consistente ai vagabondi,
corrispondente a 8 anni di servizio nell’Esercito o in Marina.
Le caratteristiche distintive del
vagabondo venivano specificate nell’ordinanza stessa: chi, senza motivo
plausibile, rendeva sua moglie infelice così da provocare scandalo pubblico
(e quindi chi abbandonava il tetto coniugale per un certo periodo), chi
esercitava il mestiere di giocatore o saltimbanco; i mercanti foranei che
percorrevano il Paese vendendo ciambelle,, confetti ecc. Com’è facile da
immaginare, si trattava di una norma che non definiva in modo esaustivo la
figura del vagabondo, mettendosi all’arbitrio del giudice. Provvedimenti
simili furono comuni fino al Novecento inoltrato.
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STREGATI DA UNA BALIA. A ricevere il marchio d’infamia sono anche mestieri del
tutto insospettabili, almeno nei nostri giorni. nella Piazza universale
troviamo gravi accuse nei confronti di balie e nutrici: “Fra gli altri loro difetti ce n’è uno gravissimo, che qualche volta
ammaliano i fanciulli (nel senso di “fare una malia o un maleficio” come le
streghe che sono, e li fascinano in modo che, con dolore estremo delle madri, e
furore infinito dei padri, passano miseramente di questa vita. E altre, come
maledette furie infernali gli ammaccono il cervello, o gli succhiano il sangue,
o gli sorbiscono il fiato, con pietà immensa veramente di quelle povere e
infelici creature”. Ma non è solo l’Europa cristiana a prevedere un marchio
d’infamia per questo o quel mestiere. Anche nelle città islamiche, dall’altro
lato del Mediterraneo, esistevano lavori considerati ripugnanti. L’usuraio, per
esempio, era moralmente condannato (così come in Europa, dove però la sua colpa
era di carattere personale), così come i venditori di vino o di maiale, i
cantori e le cantanti, i commedianti, le ballerine, i lottatori, i macellai, i
cacciatori. A parte le ovvie differenze dovute alle prescrizioni contenute nel
Corano, c’era una certa omogeneità, quindi, tra i mestieri infami e disprezzati
in Europa e nell’Islam: l’esibizione del corpo e il contatto con sangue e feci
(umane e animali) portava spesso alla discriminazione sociale. Allo stesso
modo, la mancanza di una residenza fissa faceva sospettare alle autorità civili
e religiose, una simmetrica mancanza di moralità e di principi. La società
medievale vedeva nei rapporti gerarchici, sia tra le famiglie che tra le varie
componenti della comunità, i momenti fondamentali per la costruzione di quella
regolarità e quell’ordine che permettevano alla società di procedere
correttamente. Viandanti e artisti itineranti rappresentavano l’esatto
contrario: la mancanza di legami, di stabilità nei rapporti e nella vita
sociale. Anche in questo caso, ci viene in soccorso, con la sua testimonianza
diretta, Tommaso Garzoni. Gli attori, sia comici che tragici, vengono
considerata alla stregua di cialtroni e buffoni; colpevoli, oltretutto, di essere
diventati molto peggiori, quanto a volgarità e scherno, rispetto ai loro
omologhi latini. Ma sono i buffoni a ricevere le critiche maggiori: “Ora nei moderni tempi la buffoneria è
salito in pregio, che le tavole signorili son più ingombre di buffoni, che di
alcuna specie di virtuosi (…) non arrossisce il buffone a vedersi nell’alta
catedra, perché tra le altre cose, non conosce cosa sia la vergogna, e sebbene
porta le bolle alla fronte dell’infamia, reputa un sommo onore essere
circondato da tante persone per virtù famose” (vedi articolo su questo blog
c’è poco da ridere).
Articolo
in gran parte di Gabriele Campagnano storico medievista pubblicato su Medioevo
misterioso Sprea Editori.
Nella costruzione del bellissimo duomo di Modena, patrimonio Unesco, si è tenuto presente anche il boia, con un benefit particolare ad esso riservato.
RispondiEliminaNella navata centrale del Duomo, esattamente sulla colonna posta di fronte al pulpito, vi è un piccolo sgabello di legno, murato nella colonna e chiuso da un lucchetto.
L'unico che ne possedeva le chiavi era proprio il boia, che poteva quindi sedervi proprio in prima fila e in posizione rialzata, lì dove erano seduti solitamente le più alte cariche e figure della città modenese.