giovedì 6 settembre 2018

Naufragio a Capo Guardafui

Naufragio a Capo Guardafui.
È una storia emozionante come un avventuroso film di mare, ma autentica. L’odissea di una fregata che nel 1843, nonostante l’avvento dei motori a vapore, navigava ancora a vele e a ruote a pale, nella traversata tra Bombay e le coste africane. E, alla fine dell’incubo il suo efficiente capitano fu processato per la perdita della nave.

mmagine satellitare del braccio di mare che separa il capo Guardafui, a ovest, dall'isola di Socotra a est.
Il Memnon, una fregata diretta a Suez, partì da Bombay il 22 luglio 1843 con 163 uomini d’equipaggio, sette passeggeri, merci varie e numerosi sacchi di posta. Era stata varata tre anni prima dagli stimati cantieri Fletcher & Sons di Limehouse, presso Londra, per conto della Marina indiana. Il generoso piano velico si sviluppava su due alberi e si allungava ben oltre la linea di galleggiamento, grazie alla prua slanciata e a un bompresso molto pronunciato, un po’ demodé nell’epoca del vapore ma indicativo della ricerca delle migliori prestazioni riguardo alla navigazione a vela, utile per risparmiare carbone, ma anche perché i costruttori non si fidavano ancora abbastanza delle nuove macchine. A mezza nave, due grandi ruote a pale sulle murate assicuravano la propulsione in caso di assenza di vento o per risalire il fiume, ma erano d’impiccio quando si navigava a vela. Col mare in burrasca, ulteriormente disturbavano, perché una delle due ruote, per effetto del rollio, girava spesso a vuoto, causando una spinta asimmetrica che il timoniere faticava a contrastare. Ma era ciò che passava il convento, e il capitano F.T. Powell, marinaio esperto, conosceva bene la sua nave e non se ne lamentava.
Quel giorno, il 31 luglio, le condizioni del vento e del mare non sono peggiori di quelle che normalmente ci si aspetta in questa stagione, però il vento rinforza, e verso le 4,00 del pomeriggio investe il Memmon con grande violenza. Alle ore 11,00 dell’indomani, 1° agosto, in piena burrasca, si verifica un’avaria. Fortemente sollecitato dalla forza del mare, il timone rimane bloccato tutto a dritta. La nave, ingovernabile, è una trave di legno in balia delle onde. Il capitano Powell ordina di spaccare il ponte a colpi d’ascia, in modo da accedere alla testa del timone e alla relativa tiranteria, per liberarlo. Pur nella furia del mare, in cui i marinai rischiano di cadere in ogni momento, alla fine l’operazione ha successo e la fregata riprende la navigazione. Ma per troppo tempo è stata spinta fuori rotta e ora si trova a ridosso della costa. Come se non bastasse, entra in gioco il fattore stanchezza.
Mappa di localizzazione: Somalia

La valigia delle Indie.
Risultati immagini per Valigia delle Indie
Per rendere possibile alla posta proveniente da Bombay e diretta a Londra di proseguire il suo viaggio fino al Mediterraneo, ed essere imbarcata ad Alessandria (il canale di Suez sarebbe stato inaugurato quarant’anni più tardi), un ex ufficiale della Royal Navy, Thomas Fletcher Waghorn (1800-1850), aveva avviato nel 1829 un servizio di trasporto via terra: 400 km  di deserto a dorso di un cammello. Inizialmente la posta proseguiva attraverso lo stretto di Gibilterra, ma nel 1839 lo sviluppo delle reti ferroviarie aveva resto conveniente il percorso attraverso la Francia, con approdo a Marsiglia. In seguito, col nome di Valigia delle Indie, il servizio si svolgeva anche attraverso l’Italia con approdo a Brindisi:un viaggetto che si compiva soltanto in una sessantina di giorni, con un risparmio di ben quaranta giorni rispetto agli oltre cento di navigazione, prima necessari per aggirare l’Africa, toccato il capo di Buona Speranza.

UN’IMPRECAZIONE POI LO SCHIANTO. Scriverà il Bombay Times, nella sua inchiesta sul naufragio del Memnon: “…il capitano Powell, logorato da due giorni di veglia e fatica, affidò il comando al primo ufficiale e si ritirò nella sua cabina, ordinando che fosse svegliato non appena fosse stata avvistata la costa”. Poco più tardi, l’avvistamento. Il primo ufficiale scende sottocoperta e dà uno scossone al capitano , senza riuscire a svegliarlo. Basterebbe un altro scossone più energico, ma l’ufficiale si trattiene, per rispetto di quel meritato riposo. La stanchezza, del resto, non risparmia neppure lui. Il suo livello di attenzione si è abbassato, e solo quando reagisce al torpore si rende conto del pericoloso avvicinarsi della nave alla costa sotto la spinta del mare. Scende nella cabina del capitano e stavolta lo sveglia senza troppi complimenti. Powell si precipita sul ponte, alza le braccia al cielo, impreca, ordina di invertire le macchine. Inutilmente. Le pale girano a vuoto, non possono vincere l’impeto del mare e la furia del vento. Pochi minuti dopo lo schianto. Tremendo: ogni persona a  bordo è scaraventata lontano, alcuni rischiano di finire tra i flutti ruggenti. Le ruote si frantumano, la carena si squarcia, l’acqua irrompe in sala macchine. L’ondata successiva solleva la nave e la trascina ancora di più verso la riva. Il Memnon è ora arenato a un centinaio di metri dalla spiaggia, appoggiato sul fianco destro con il ponte, completamente sposto ai marosi. Lo storico Charles Rathbone Low (1837-1918), nella sua monumentale History of the Indian Navy, fa una cronaca dettagliatz di quei momenti concitati: “Il capitano Powell, temendo ulteriori danni, ordina di tagliare il sartiame sottovento, in forte tensione. Privo di sostegno, l’albero di trinchetto si schianta e finisce in acqua; l’albero maestro invece resiste. Viene abbattuto a colpi d’ascia, e quando cade trascina con sé la lancia di dritta. Un attimo dopo viene giù anche l’imponente fumaiolo nero, vanto del Memnon”.
L’equipaggio e i passeggeri si mettono al riparo sul bordo sottovento. Nessun uomo risulta disperso, non ci sono feriti. Non resta che aspettare l’alba, soffrendo senza rimedio il freddo e l’umidità della notte, mentre i marosi, implacabili, tormentano il relitto, che ansima come un cetaceo spiaggiato. Il capitano Powell vorrebbe stabilire un collegamento con la terra, per trasferirvi gli uomini e le cose necessarie per la sopravvivenza. Ordina a un ufficiale di prendere degli uomini e di calare in mare la lancia sottovento, la sola rimasta. La manovra non riesce: la gomena che trattiene la lancia si spezza e la lancia, con l’ufficiale a bordo viene rapidamente trascinata a riva dai frangenti. A ogni frustata del mare, le assi del tavolato di coperta si aprono e richiudono come le branchie di un pesce nella rete: sinistro segnale del progressivo cedimento della struttura.
Finalmente una squadra di marinai, i più robusti, utilizzando assi di legno come galleggianti, riescono a tirare a riva la gomena della nave creando un filo di connessione tra la nave e la spiaggia. Ora si può condurre con una certa sicurezza la lancia fino al bordo sottovento. I passeggeri e gli ammalati sono i primi a essere portati a riva. Si trasportano anche le poche provviste che è stato possibile salvare: razioni di biscotti per dodici giorni, carni conservate, armi e munizioni. Ma niente acqua. Verso mezzogiorno anche il capitano Powell abbandona il Memnon: per ultimo, come impone il protocollo della marineria.
la città di Aden che fu raggiunta dopo una perigliosa traversata in barca.


SI SCAVA PER TROVARE L’ACQUA. I naufraghi, tra loro una donna, si trovano al sicuro su una spiaggia deserta ma senz’acqua, sotto l’uragano che imperversa senza tregua. Alcuni indigeni, che hanno assistito allo sbarco, offrono un po’ d’acqua, una generosità che si fanno pagare cara: due rupie per otre. Le priorità sono due: prima trovare un pozzo e appena possibile informare le autorità britanniche affinché siano inviati i soccorsi. Venti marinai, guidati da un ufficiale, si mettono in marcia per arrivare a un pozzo che, secondo le indicazioni degli indigeni, si troverebbe a una decina di miglia. Gli altri rimangono a presidio del campo.
L’estenuante marcia sulla sabbia rovente e sotto un sole implacabile si trasforma presto in un incubo. Un marinaio impazzisce e con uno scatto improvviso si lancia a testa basa contro una  roccia. Un’emorragia celebrale se lo porta via in pochi minuti. Il suo corpo viene abbandonato sotto un leggero tumulo di sabbia. Si riprende la marcia, ma alcuni si accasciano. I più resistenti arrivano al pozzo e portano l’acqua ai compagni che si sono arresi. La sera i naufraghi sono di nuovo riuniti al campo con l’acqua che sono riusciti a trasportare. È iniziata la lotta per la sopravvivenza. Il 5 agosto si rimettono tutti in cammino, accompagnati da un capo somalo che ha promesso loro nuova acqua e imbarcazioni in numero sufficiente per portarli tutti ad Aden. Il somalo sostiene che il governatore della colonia saprà compensarlo generosamente. Ma intanto si fa pagare  800 rupie, quasi tutto il loro denaro. La mattina del 7 agosto, giunti sul luogo convenuto, una spiaggia chiamata Bunder Lug, i naufraghi scoprono di essere stati ingannati; le barche sono poche e troppo piccole per affrontare la traversata del golfo. E di acqua neppure una goccia. Il tenente Crawofrd, uno dei passeggeri del Memnon, racconterà al giornalista del Times: “Aspettammo sotto il sole fino alle 3,00 del pomeriggio, dopodiché, non vedendo arrivare i portatori d’acqua, prendemmo posto sulle poche barche disponibili, stringendoci l’uno all’altro come pesci in barile. Dopo ventiquattr’ore di navigazione in quelle condizioni, giungemmo a Hulloolah, 40 miglia dal luogo del naufragio. Dormimmo sulla spiaggia e la mattina eravamo bagnati fradici. In compenso avevamo l’acqua: bastava scavare la sabbia e a due piedi di profondità la vedevamo affiorare. Era di gusto sgradevole, ma abbondante. Il cibo invece scarseggiava e venne razionato: una manciata di biscotti e due manciate di datteri a testa al giorno. Powell ottenne che il nostro accompagnatore somalo ci lasciasse una barca, che pagò con gli ultimi soldi rimasti, dopodiché disse a quell’imbroglione di togliersi dai piedi. Quella barca, un sambuco di 40 piedi, era la nostra speranza di salvezza. Purtroppo, il viaggio ad Aden, almeno 500 miglia, avrebbe comportato diversi giorni di navigazione; altri giorni avrebbero comportato gli aiuti ad arrivare. La questione era: come sopravvivere fino ad allora? La risposta arrivò il 16 agosto nella persona di Rubeah bin Salem, un mercante arabo di Fetuk, che ci offrì tutto ciò che serviva per resistere un mese. E tutto a credito! Il capitano Powell decise allora che era il momento di inviare ad Aden dieci uomini sulla sola barca che ci restava”.

Le notizie viaggiavano in mare.

Nel settembre del 1843 i londinesi attesero invano l’arrivo della posta dall’India. Un fatto senza precedenti che suscitò preoccupazione. Ma la conferma di ciò che tutti temevano arrivò soltanto il 21 ottobre, quando il Times rivelò in poche righe il naufragio del Memnon: “Il piroscafo Hindoostan, arrivato a Suez alle ore 4 del mattino del 12 settembre con 103 passeggeri provenienti da Calcutta, ha recato la notizia della perdita del Memnon, naufragato sulla costa africana di fronte ad Aden. Tutta la posta contenuta è andata irrimediabilmente persa. I passeggeri sono salvi; due di loro sono giunti a Suez a bordo dell’Hindoostan”.


SENSO DEL DOVERE E VOLONTA’ DI SOPRAVVIVENZA.  Il giorno seguente gli uomini prescelti per la missione, accompagnati dai beneauguranti applausi dei loro compagni sulla spiaggia, prendono il largo. Tra loro il tenente Crawford, che così prosegue il suo racconto sul Times: “Salpammo il 17 agosto e navigammo verso ovest, lungo la costa somala, spinti da forti e improvvise raffiche di vento. Il giorno 23 avvistammo un relitto: era la Capitain Cook, semiaffondata con un carico di carbone. Io e il tenente Southey salimmo a bordo e trovammo i somali che la stavano saccheggiando. Pochi giorni prima – dissero i somali – l’equipaggio era stato raccolto da un brigantino e portato ad Aden. Lasciammo ai somali un foglio con l’indicazione di Hulloolah e una descrizione del relitto del Memnon rimasto arenato, affinché lo consegnassero alla prima nave di passaggio, perché noi non eravamo affatto sicuri di farcela. La mattina del 23, considerato che eravamo a corto di acqua e non avevamo alcuna possibilità di procurarcene, decidemmo di affrontare il mare aperto e di attraversare il golfo. Non avevamo né bussola, né sestante. In compenso sapevamo il punto della costa in cui ci trovavamo. Calcolammo che Aden fosse approssimativamente 130 miglia a nord ovest, e così procedemmo. Alle 10,10 del giorno 25 avvistammo terra: una baia chiusa da due promontori…Incredibile, era Aden la salvezza per noi e i nostri compagni. Entrammo nella baia alle 21,00 del 25 agosto e subito informammo del naufragio il commissario, capitano Haines, che inviò un piroscafo a Hullolaha”
Il fatto che i naufraghi siano sopravissuti un mese in una terra arida e abitata da popolazioni inospitali, senza assistenza sanitaria,senza un riparo, con gli unici vestiti che avevano indosso quando avevano abbandonato la nave, è quasi un miracolo. Tanto più sapendo che da quelle parti, solo vent’anni più tardi, il 13 novembre 1862, un ufficiale britannico e tredici marinai del Penguin, benché armati di fucili Enfield, furono attaccati dai somali e uccisi. Secondo Rathbone Low, la salvezza dei 159 naufragi rimasti a Hulloolaha ad attendere i soccorsi fu dovuta alla disciplina e all’ordine del capitano Powell, i cui ufficiali seppero mantenere in una situazione così difficile, senza mai ricorrer a punizioni. Il 3 aprile 1844 il comandante, accusato della perdita del Memnon, fu portato davanti alla corte marziale. Ascoltati i testimoni, la corte concluse che il Memnon era incappato in “una serie di circostante maledettamente sfortunate, che il capitano Powell aveva affrontato con indubbia perizia”, e lo assolse da ogni colpa.

Corno d’Africa un cimitero per navi.


Un coccodrillo acquattato, pronto a ghermire la preda: così appariva capo Guardafui – in somalo ras Asir – ai naviganti che da sud-est erano diretti nel mar Rosso. La somiglianza non era solo metaforica: quello sperone roccioso, punta estrema della Somalia, che si erge per 244 metri sul mare, intrappolava davvero nelle sue secche ogni nave che gli capitava a tiro. E ogni volta erano danni economici vertiginosi per i Lloyd’s di Londra, chiamati a risarcire le navi e il loro carico. D’altra parte, il nome Guardafui, “guarda e fuggi”, coniato verso nel XVI secolo la dice lunga sulla pessima reputazione di cui gode presso i naviganti quello sperone calcareo, preceduto e seguito da altre protuberanze della costa, che gli assomigliavano maledettamente e inducevano i naviganti a fatali equivoci. Alle inside del luogo (bassi fondali, correnti, foschie, monsoni) si aggiungeva la pirateria, una delle principali risorse economiche del sultanato della Migiurtinia, assieme alla pesca delle perle e alla raccolta dell’incenso. Nella seconda metà dell’Ottocento le acque intorno a capo Guardafui erano punteggiati di scheletri di navi. Arredi, strumenti di bordo, ottoni, rami e naturalmente il carico: tutto veniva depredato. La pacchia dei pirati migiurtini durò fino al 1924, quando l’Italia eresse sul promontorio un potente faro dedicato a Francesco Crespi, modellato a forma di fascio littorio, che oggi è ancora là, con la mannaia rivolta al mare. Un’opera bruttissima, ma molto utile e dal formidabile effetto propagandistico per l’Italia di Mussolini.
Ecco un elenco parziale delle navi naufragate sulla costa del corno d’Africa:
1825 Mary Ann (Gb)
1843 Captain Cook (Gb)
1843 Memnon (India)
1877 Mei-Kong (GB)
1877 Cachemire (GB)
1879 Overijssel (Olanda)
1881 Matthew Curtis (GB)
1882 Hammonia (Russia)
1884 Aveyron (Francia)
1905 Chodoc (Francia)
1908 Norman Isles (Norvegia)
1911 Fifeshire (GB)
1921 Siam Maru (Giappone9
1934 Fernglen (Norvegia)



Articolo in gran parte di Raffaele Laurenzini scrittore ed esperto di storia sui mari, pubblicato su BBC HISTORY ITALIA altri testi e immagini da Wikipedia      

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