Il
massacro dei cavalleggeri di Saluzzo.
L’Unità
d’Italia, impopolare in molte contrade del Sud e non solo, diede al fenomeno
del brigantaggio la dignità di una resistenza armata all’esercito di
occupazione del governo sabaudo. Ecco la ricostruzione di un drammatico evento
verificatosi in quel contesto di illegalità e di odio.
Elementi della banda del brigante Agostino Sacchitiello di Bisaccia, uno dei luogotenenti di Carmine Crocco (foto del 1862).Data1860 - 1870Luogoprovince continentali dell'ex Regno delle Due SicilieCausaribellione contro il governo italiano per cause economiche, sociali e politicheEsitovittoria del Regno d'Italia
«Per quanto io sappia, anche le monarchie più potenti non sono riuscite a estirpare del tutto il brigantaggio dal reame di Napoli. Tante volte distrutto, tante volte risorgeva; e risorgeva spesso più poderoso. […] Come le cause non erano distrutte, né si poteva ogni repressione era vana.»
(Eroi e briganti, Francesco Saverio Nitti, pagg. 9-33[9] · [10])
Per brigantaggio postunitario italiano, nel linguaggio storiografico, si identifica una forma di brigantaggio - spesso associato a fenomeni di banditismo armato ed organizzato - nell'Italia meridionale e nella Sicilia, già presente negli stati italiani preunitari, che assunse connotati tipici durante il Risorgimento, in special modo dopo la realizzazione dell'Unità d'Italia, assumendo spesso i caratteri di una rivolta popolare.
Va evidenziato che il brigantaggio postunitario, inteso come rivolta antisabauda e generalmente antiunitaria, interessò quasi esclusivamente i territori meridionali continentali ex-borbonici, mentre in pratica non si verificò nei territori di tutti gli altri Stati preunitari italiani annessi al Regno di Sardegna per formare l'Italia unita durante il Risorgimento; tale diversità di avvenimenti e comportamenti indica la profonda differenza, già esistente nel 1861, tra il nord ed il centro da un lato, ed il sud della penisola dall'altro, divario che sarà in seguito meglio noto con la locuzione questione meridionale, fonte di discussioni e di dibattito ancora oggi, né definita unanimemente nelle sue cause dagli storici e studiosi, nonché oggetto del dibattito nelle interpretazioni revisionistiche del Risorgimento.
Uno degli effetti collaterali più sgradevoli dell’Unità d’Italia fu senza dubbio la
resistenza dei briganti, che agivano in odio al governo sabaudo, il quale pretendeva di amministrare le loro
terre. E l’opposizione ai Savoia divenne un buon pretesto per chi il
brigantaggio lo esercitava come professione e lo avrebbe esercitato sotto
qualunque governo, ma forse più volentieri se la repressione veniva da Torino.
Il 12 marzo 1863 avvenne
uno degli episodi più emblematici delle difficoltà incontrate dal Regio
Esercito nella lotta contro le bande criminali che facevano le loro scorrerie
soprattutto nelle provincie del Sud, del Napoletano in particolare.
Ecco il resoconto
dettagliato e inedito di un drammatico evento ricostruito attraverso le carte
d’archivio, che rende appieno l’immagine del pantano in cui il governo di
Torino si venne a trovare dopo essersi annesso le terre dei Borbone.
Abusivamente, secondo l’opione di una parte degli italiani dell’epoca e in
parte anche di oggi.
Nel primo pomeriggio
del 12 marzo 1863 il prefetto di Potenza riceveva un telegramma da Melfi:
all’alba di quel giorno, il capoluogo dell’omonimo circondario della provincia
era stato colpito da un terremoto ondulatorio, senza causare gravi danni a cose
o persone.: “Tranquillità pubblica
inalterata”, riferiva laconicamente il dispaccio. Tranquillità che sarebbe
durata solo poche ore, perché una notizia ben più grave giunta da Melfi avrebbe
allarmato il signor prefetto, arrivando a destare seria preoccupazione persino
nelle stanze del Palazzo delle segreterie a Torino, prima sede del ministero
degli Interni del Regno d’Italia.
Carmine Crocco, detto Donatello[1] o Donatelli[2] (Rionero in Vulture, 5 giugno 1830 – Portoferraio, 18 giugno 1905), è stato un brigante italiano, tra i più noti e rappresentativi del periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del Vulture, sebbene agissero sotto il suo controllo anche alcune dell'Irpinia e della Capitanata
TERRA DI PROTESTA E DI BRIGANTI. La presenza di
folti boschi e montagne, il fatto che molti capi briganti famosi provenissero
dai paesi di questo circondario, la sua posizione strategica – territorio a
cavallo tra Campania, Basilicata e Puglia – avevano eletto il Melfese quale
naturale centro delle operazioni di brigantaggio. Il circondario di Melfi era
anche crocevia delle diverse zone militari del 6° Gran Comando di Napoli (il
centro delle operazioni militari nel Sud d’Italia), istituite in maniera rigida
dal generale Cialdini, nell’estate del 1861, per salvare le città più grandi
dall’eventualità, non troppo remota, di un’insurrezione generale del Sud. Col
tempo, le bande di briganti divennero sempre più abili nel muoversi ai limiti
delle divisioni militari, sicuri che i comandanti non avrebbero operato oltre i
confini delle zone di competenza. La capitale dei Normanni era stata il centro
più importante conquistato dalle bande di Carmine Crocco, che il 15 aprile 1861
sbaragliò le guarnigioni sabaude in poco tempo e venne accolto trionfalmente
dalla popolazione locale. Crocco era il capo riconosciuto di un esercito di
ribelli, formato da contadini e pastori, che, spinti dalle persistenti
ingiustizie sociali e incentivati dalla dinastia borbonica in esilio, avevano
dichiarato guerra allo Stato unitario. Erano la vera resistenza all’Italia Unita,
leggitimata dai plebisciti popolari.
Ma nel marzo 1863 le
cose erano cambiate: per i briganti lucani erano tramontati i tempi delle
campagne militari legittimiste della primavera e del’autunno del 1861, quando
il generale dei briganti poteva permettersi scontri in campo aperto contro il
Regio Esercito e l’occupazione di molti centri abitati. Nonostante la dura
repressione contro interi centri abitati, si era bene lontani dallo scopo
teorico di pacificare il Mezzogiorno, obbiettivo per il quale il nuovo governo
unitario aveva Nazionale. Già nell’anno precedente, il 1862, si era assistito a
un’evoluzione del modo di guerreggiare brigantesco. L’esperienza insegnava che
le manovre congiunte di reparti diversi dell’esercito, in campo aperto
equivalevano ad una carneficina per le forze irregolari. Le effimere conquiste
dei paesi, poi, erano tanto più dispendiosi, dal momento che le posizioni non
erano difendibili, attiravano l’arrivo di numerose truppe nel territorio di
pertinenza dei briganti ed esponevano le popolazioni alla repressione
dell’esercito. L’obiettivo dei briganti divenne quindi quello di arrecare il
maggior danno possibile al nemico con il minor dispendio di risorse. Crocco
suddivise la sua armata in 43 bande che si riunivano all’occorrenza con gruppi
armati anche di altre regioni in caso di scontri: i capi briganti divennero
campione nell’arte di fiaccare il nemico con mille piccole punture di spillo,
come venne definita la guerriglia, un secolo più tardi da Mao Zedong.
Nel corso del 1863 le
tecniche dell’agguato e le azioni di sorpresa inflissero reiterati rovesci a
piccoli drappelli isolati del Regio Esercito. Gli agguati e i colpi di mano
erano possibili solo grazie a una vasta rete di spionaggio popolare che, grazie
ai segnali convenzionali di ogni tipo, permetteva ai briganti di conoscere i
movimenti e la consistenza numerica delle truppe regolari di stanza nelle
provincie dell’ex Regno delle Due Sicilie.
Lettera datata: Melfi, 6 marzo 1865, manoscritta dal generale Govone che termina col commento: "il brigantaggio nel Melfese è ora completamente distrutto" - Scritta su carta intestata "Comando generale delle zone riunite di Melfi, Lacedonia e Bovino
IL TERREMOTO, ANNUNCIO DI SCIAGURA. All’alba
del 12 marzo del 1863, un terremoto aveva risvegliato gli abitanti di Melfi.
Quel giovedì mattina sembrava non fosse sorto il sole, il cielo scuro, una
pioggia ininterrotta cadeva dal giorno prima e continuava a mondare strade e
campi. Nessun buon auspicio per il distaccamento di Cavalleggeri di Saluzzo di
stanza nella piccola caserma della cittadina lucana, comandato dal luogotenente
Giacomo Bianchi di Origgio (Va), che ad uscire per l’ennesima perlustrazione
nei boschi del circondario. Il giorno prima, una sessantina di di pubblica
sicurezza presso la masseria Spagnoletti di Gaudiano. In seguito a questa
segnalazione, il colonnello Bendini, comandante delle forze regolari del
circondario di Melfi, aveva disposto un movimento congiunto di truppe con
l’intento di accerchiare i briganti. Le operazioni militari furono ostacolate
dalla pioggia copiosa che rallentava il movimento delle truppe e la visibilità
delle strade. Il comandante dei Cavalleggeri di Saluzzo, capitano Laiolo, era
partito con la sua truppa da Melfi di buon mattino per ritornare entro sera a
Venosa, dove lo squadrone era di stanza.
Sulla strada, avvertito
della presenza di briganti, decise di rimandare indietro un soldato ad ordinare
al suo sottoposto, luogotenente Bianchi, di raggiungerlo con dei rinforzi.
Bianchi, radunati i suoi uomini, raggiunse lo squadrone e poche miglia dopo
fatte di conserva (quando cioè due unità procedono tenendosi a vista per difendersi
e soccorrersi reciprocamente) gli venne ordinato dal capitano di ritornare a
Melfi. Non è dato sapere il motivo di questa decisione contraria a quella
precedente. Dalle relazioni delle autorità civile si legge che il Bianchi “anziché prendere la via consolare che porta
a Melfi, decise di fare delle perlustrazioni verso il fiume Ofanto, a nord di
Melfi”. Non è chiaro il motivo che spinse l’ufficiale a disattendere la
consegna del suo capitano: forse Bianchi credeva che i suoi superiori fossero
troppo prudenti e statici, forse era stanco di una guerra dove quasi mai si
vedeva il nemico, fatta di logoranti perlustrazioni e pochi combattimenti. Probabilmente,
a condizionare le decisioni dell’ufficiale fu l’idea di riuscire in un colpo di
mano sui briganti (la guerra al brigantaggio rappresentava un importante banco
di prova per assicurarsi una carriera nel neonato esercito italiano). L’unità
d’Italia si era compiuta due anni prima a corno manto dell’ubriacatura
risorgimentale, e il futuro della nuova nazione era ancora tutto da inventare.
Quando il volenteroso Bianchi giunse nei pressi della masseria denominata
Catapano, a cinque miglia di distanza da Melfi, i capibanda Carmine Rocco,
Agostino Sacchitiello, Giuseppe Caruso, Giovanni Coppa, Domenico Zappella detto
Malacarne, Teodoro Gioseffi, soprannominato Caporal Teodoro, e Giuseppe Nicola
Summa, alias Ninco-Nanco, erano già pronti a tendere un’imboscata, avvertiti
dalle loro sentinelle appostate nei posti più elevati di quella contrada, come
era regola delle bande brigantesche. La compagine di settanta briganti si
divise in due gruppi: una ventina di uomini appiedati, si nascose dietro le
siepi dei giardini di Catapano, mentre il resto del piccolo esercito, a
cavallo, si appostò nelle stalle della masseria. Quando giunsero a portata dei
fucili briganteschi, i Cavalleggeri di Saluzzo furono accolti dal fuoco di
moschetteria che proveniva dalle siepi della masseria, mentre i briganti a
cavallo uscivano dalla stalla come tante furie e tra urla e imprecazioni caricarono
il drappello sabaudo, che presto sbandò, nonostante i tentativi del
luogotenente di tenre unito il gruppo per una ritirata ordinata. I soldati,
scappando disordinatamente, si trovarono nel vallone di Camarda (che ancora
oggi costeggia l’unica strada che porta alla Masseria Catapano), il cui
torrente era ingrossato dalla forte pioggia, dovettero prendere un’altra
direzione, verso i terreni detti di Celano, una terra argillosa, dove ancora
oggi si coltiva grano. La forte pioggia di quel giorno di marzo aveva reso quel
terreno un pantano dove si arenarono gli zoccoli dei cavalli del Regio
Esercito. Raggiunti facilmente dai briganti, furono massacrati uno ad uno.
Senza un vero scontro e senza onore morirono 17 cavalleggeri, in prevalenza
toscani, piemontesi e lombardi.
1863,
l’anno nero della cavalleria.
I
comandanti dei reparti militari del nuovo regno si resero ben presto conto
che le tecniche tradizionali d’impiego delle truppe, ovvero le concezioni
strategiche degli eserciti di caserma, che avevano dominato il XIX secolo,
non erano adatte a contrastare la guerriglia nel M;mezzogiorno. Ma lo
impararono a costo di lezioni molto amare. Il 1863 fu l’annus horribilis per
la gloriosa cavalleria sabauda, che subì diverse imboscate. Il logoramento
della guerra civile colpì i migliori reparti dell’appena istituito esercito
italiano. Oltre alla strade dei Cavalleggeri di Saluzzo presso la masseria
Catapano, bisogna ricordare che gli Ussari di Piacenza, l’8 maggio 1863,
ebbero 8 morti e 4 feriti a Calitri e che, il 23 luglio 1863, in località
Rendina a Rapolla (Pz) nel Melfese, il tenente Borromeo con 35 cavalleggeri
cadde in un agguato ordito da 100 briganti, lasciando sul campo 22 cavalieri.
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ALLA VENDETTA SEGUI’ LA REPRESSIONE SABAUDA. Dalla
relazione del sottoprefetto di Melfi sul massacro scopriamo che: “Quattro soli soldati riuscirono a salvarsi,
due in Melfi, uno in Lavello ed un altro ferito fu accolto nella masseria dei
signori Aquilecchia. E una guida locale, requisita dal Bianchi in una masseria,
venne pure trasportata a Melfi gravemente ferite da quattro proiettili”.
Gli ultimi a morire furono il Luogotenente
Bianchi e un sergente polacco di 50 anni (reduce della Guerra di Crimea
e delle Guerre d’Indipendenza italiane), giustiziati dal brigante Gioseffi
sull’aia da masseria Carlo-Francesco
dei signori Araneo, non molto distante da luogo dell’imboscata. Le teste recise
dei due cadaveri furono esposte su di un albero insieme a un pezzo di legno
dove si incise con un coltella la scritta “Vendicati i caduti di Rapolla”.
I militi uccisi
appartenevano infatti allo stesso squadrone di Cavalleggeri di Saluzzo che
quattro mesi prima a Rapolla (Pz), il 21 novembre 1862, aveva catturato e fucilato
sul posto i briganti della banda Petrone dopo un conflitto a fuoco. La notizia
del massacro allarmò per prime le autorità presenti a Melfi: il colonnello Bendini,
comandante delle truppe del circondario di Melfi e il sottoprefetto Castaldi.
Era difficile spiegare ai propri superiori a Torino come, pur disponendo di un
ingente numero di truppe nel circondario (un reggimento intero, il 46°
fanteria, un battaglione di bersaglieri e due squadroni di cavalleggeri di
Saluzzo) ed essendo a conoscenza di 70 briganti nelle campagne circostanti,
fosse stato comandato ad un piccolo drappello di cavalleggeri di uscire in
perlustrazione senza l’ausilio di altra truppa. Le relazione militari e civili,
quindi, misero subito l’accento sulla “imprudenza
della cavalleria che si spinse in una masseria prossima al bosco”. Il
colonnello Bendini spedì immediatamente altre forze verso la masseria Catapano,
ma la pioggia e l’ora tarda non permisero di raggiungere quel luogo. Tanto era
fitta l’oscurità, che si dovettero accendere dei fuochi sul castello della
città, per permettere alla truppa di far ritorno a Melfi.
Silvio Spaventa, dal
ministero dell’Interno, quando la notizia giunse a Torni, diramò l’ordine ai
prefetti di disporre “I più energici
provvedimenti a rialzare spirito popolazione ed operare un colpo di rivincita
sui briganti”. Il sottoprefetto di Melfi, in una sua relazione del 18 marzo
ammetteva che le popolazioni non hanno alcuna fiducia sul sistema tenuto finora
per combattere il brigantaggio e l’agguato alla masseria Catapano lasciò una
profonda impressione “negli animi delle
truppe regolari da cui ora ci si aspetta un certa e sicura vendetta”.
Passarono ancora molti mesi prima che avesse fine quella “guerra atroce e bassa, dove non si procede che per tradimenti e
intrighi, dove spogliamo il carattere dei soldati per assumere quello di
sbirri” (così si esprimeva in una lettera ai familiari il sottotenente
Gaetano Negri, impegnato nella repressione in Irpinia). Il punto di svolta nella
guerra al brigantaggio avvenne proprio quando le azioni di polizia divennero
preponderanti. Le deportazione di massa della legge Pica, le rappresaglie, le
fucilazioni arbitrarie, il sistema del tradimento remunerato dalle autorità, valse ad assottigliare la base
sociale che sosteneva i briganti, che divennero, in tal modo, più simili a
delinquenti comuni. Era questo l’obiettivo primario del Governo. Dalla fine del
1863 si iniziò ad avvertire un certo distacco fra le bande e l popolazioni
contadine. Un risultato che si era ottenuto con costi umani e sociali altissimi
e ferite indelebili per le provincie napoletane.
Il brigantaggio
rappresentò la manifestazione più evidente di uno scontento popolare per
l’unità d’Italia così come era stata realizzata, che persistette a lungo in una
parte della popolazione, soprattutto al Sud. Per i contestatori, il governo di
Torino non era meglio di un oppressore straniero; aveva occupato con la forza
il Mezzogiorno ed era interessato soprattutto a consolidare e ramificare sempre
di più il suo potere.
Articolo in gran parte
di Dario Marino (studioso e ricercatore di Storia e politica) pubblicato su BBC
History edizioni Sprea del mese di agosto 2018. Altri testi e immagini da
Wikipedia
s
strano che si parli solo dei briganti, e non vengono citati i nomi dei caduti, del Reggimento Cavalleggeri di Saluzzo 12, come se chi muore per la patria non sia degno di nota. In oltre in questo sito si dovrebbe commemorare la strage??? perchè emettere i Loro nomi???
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