Pancrazio il wrestling
degli antichi.
Un combattimento totale, nato dalla mescolanza di lotta e
pugilato e diffuso anche sui campi di battaglia. Un confronto senza esclusione
di colpi, ma con regole ben n
Nel
1894, quando Pierre de Coubertin codificò le Olimpiadi moderne, la più antica
arte di combattimento totale fu ritenuta
troppo violenta per lo spirito dei nuovi giochi; fu così che una delle
discipline più antiche e complesse della storia delle arti marziali finì
lentamente in una nicchia riservata a pochi appassionati. Si tratta del
pancrazio, in greco pan (tutto, tutti insieme) unito a kratos (forza, potere).
Un combattimento totale, assoluto, in cui si deve utilizzare tutta la forza che
si dispone secondo tecniche codificate, che partono dall’unione delle altre due
discipline marziali olimpiche: il pugilato (pygmachia) e la lotta (pale). Il
pancrazio venne ammesso fra le discipline dei Giochi olimpici antichi nel 648
a.C., ma per trovarne le origini bisogna andare molto più indietro nel tempo,
fino ai campi di battaglia micinei dell’Età del Bronzo. All’epoca, infatti, non
esisteva un sistema che permettesse ai combattenti rimasti senza la propria
arma di rientrare nelle retrovie, prenderne una nuova, e tornare al fronte per
continuare a battersi (come sarà possibile, invece, ai legionari romani),
perciò poteva capitare che i soldati si ritrovassero disarmati ancora faccia a
faccia con il nemico. Durante uno scontro, perdere l’arma equivaleva a perdere
la vita, a meno che non si riuscisse a sopravvivere quel tanto che bastava per
raccogliere quella di un morto, rubarla all’avversario o farsela dare una di
scorta da un compagno.
L’origine
della palestra.
In Grecia, e
poi a Roma, i bambini venivano istruiti fin da piccoli all’arte del
combattimento. Nei ginnasi (gymnasion, cioè luogo in cui ci si allena da
nudi) si insegnavano svariate discipline, tra cui, appunto, lotta, pugilato e
pancrazio. L’importanza della lotta nell’istruzione dei giovani si ritrova
nell’etimologia stessa del termine che, oggi indica il locale adibito allo
sport in generale: la palestra.
Nell’antichità
palaistra indicava la parte del gymnasium dedicata alla lotta, e in generale
all’atletica pesante, questo luogo, come scrive Vitruvio (80-15 a.C.),
consisteva in un cortile rettangolare circondato da collonati. Nelle stenze che vi si avvicinavano si
potevano trovare tutti gli strumenti necessari all’allenamento, come sacchi e
colpitori.
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LOTTARE PER VIVERE. A
questo scopo, si cominciano a sviluppare tecniche di sopravvivenza per uomini
che vivono il combattimento armato come pane quotidiano. La più antica
testimonianza iconografica di una scena di pancrazio si trova su una coppa
ritrovata a Creta e risalente al 1700-1600 a.C., molto prima della nascita
delle Olimpiade greche. Nel corso dei secoli sono molte le raffigurazioni che
consentono di scorgere nella tecnica del pancrazio i segni della sua origine
militare. L’utilizzo del pugno a martello, ad esempio, ricorda il colpo che
veniva scagliato dal’improvvisato pancraziasta sul paragnatide (la parte
dell’elmo che proteggeva le guance) dell’avversario, sufficiente a distrarre
quest’ultimo o a intontirlo, senza però procurarsi ferite alla mano (come
accadrebbe colpendo le nocche).
Con il passare dei
secoli, la tecnica andò affinandosi e la disciplina iniziò a essere in tutto e
per tutto un’arte marziale olimpica, pur mantenendo la sua connotazione di
combattimento totale. Calci, pugni, prese micidiali, proiezioni, gomitate,
ginocchiate: tutto era permesso, tranne morsi e accecamenti. Filostrato
(172-247 d.C.) scrittore greco, autore anche un’opera intitolata Ginnastica,
parla di “tutte le mosse corrette per il
pancrazio”, che gli atleti avrebbero dovuto eseguire; molte, infatti, sono
le peculiarità che lo differenziano da qualunque altra forma di combattimento
antica o moderna, come ad esempio la guardia dell’Arciere (sagittaria), i colpi
a martello, le leve alle braccia portate in posizione eretta o la mancanza di
schiene a terra nella lotta al suolo. La tecnica era perfezionata e studiata in
modo da sfruttare le caratteristiche di ogni struttura fisica, dato che in
quasi 1000 anni di storia olimpica non ci furono mai categorie di peso. Inoltre
si combatteva a oltranza, a mani nude, in una ripresa unica, senza round né
punteggi: l’incontro terminava con la sottomissione di uno dei due contendenti,
che poteva essere per ko, oppure per resa.
Due pancratiasti. Gruppo scultoreo romano da originale bronzeo pergameno, conservato nella Tribuna della Galleria degli Uffizi a Firenze
UNO SPORT PER SOLDATI. Il pancrazio non rimase
relegato al solo ambiente olimpico, e la sua forte collocazione militare lo
portò sui campi di addestramento di opliti, falangisti e legionari. Filostrato
racconta di come, nell’epica resistenza dei 300 alle Termopoli, quando ormai
lance e spade erano ormai perse o spezzate, pur di non arrendersi al nemico,
gli Spartani continuarono a combattere a mani nude, usando proprio le tecniche
del pancrazio. La fama di quest’arte marziale , che portava gloria e onore nei
Giochi olimpici (e negli altri giochi panellenici), e al contempo migliorava le
prestazioni dei soldati, finì per superare i confini della Grecia. Filippo di
Macedonia (382-336 a.C.) decise di utilizzarla come addestramento della sua
falange, che marciò vittoriosa alla conquista del mondo antico. Voleva usare il
pancrazio per avere soldati più resistenti in battaglia, che sapessero
affrontare qualunque tipo di sfida e che, all’occorrenza, potessero, appunto,
combattere con le mani nude. Con l’espansione verso oriente e la sua politica di
integrazione dei popoli assoggettati al dominio macedone, Alessandro portò il
pancrazio fino alla valle dell’Indo, insegnandolo all’ingente numero di soldati
locali reclutati nel suo esercito, che dovevano essere addestrati secondo le
tecniche della falange. Curzio Rufo, storico romano di età imperiale, racconta pancrazista
e vincitore dei Giochi olimpici del 336 a.C., abbia sfidato e sconfitto
Coragus, uno dei migliori soldati di Alessandro (armato di tutto punto), usando
solamente un bastone e le sue doti atletiche, guadagnandosi il rispetto e la
stima dello stesso Alessandro. Il pancrazio (con il nome di pancratium) giunse
infine a Roma, dove fu incorporato nei ludi e molto apprezzato dei legionari,
che lo utilizzarono come parte integrante del loro addestramento. Tutto questo
ebbe termine nel 393 d.C. con l’editto dell’imperatore Teodosio, che scrisse la
parola fine sulla gloriosa storia dell’atletica antica, almeno finché
quest’ultima non venne riscoperta, studiata e riproposta.
Tra le discipline olimpiche,
accanto al pancrazio troviamo un paio di altre arti del combattimento:
pygmachia e pale, due discipline a sé stanti, ognuna con una storia sulle
spalle.
la statua bronzea del Pugile in riposo, conosciuta anche come Pugile delle Terme o Pugile del Quirinale, è una scultura greca alta 128 cm, datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a Lisippo o alla sua immediata cerchia; rinvenuta a Roma alle pendici del Quirinale nel 1885, è conservata al Museo nazionale romano (inv. 1055).
IL PUGILATO E LA LOTTA.
Il
pugilato (pygmachia) era presente ai Giochi olimpici fin dal 688 a.C. ed era
l’unica disciplina a prevedere l’uso di protezioni, che variarono nel corso dei
secoli. Fino al VI secolo a.C. si parla di himantes, fasce di cuoio avvolte
attorno alle nocche che lasciavano però libere le dita, per permettere la
massima mobilità; dal V secolo troviamo invece gli sphirai, fasce più spesse e
più dure sul lato che sarebbe entrato in contatto con l’avversario, grazie a
uno speciale trattamento che prevedeva l’affumicatura. Dal IV secolo, infine,
furono introdotti i caesti, veri e propri guantoni muniti di fasce e borchie,
ben visibili nella statua in bronzo del pugile a riposo, conservata al Museo
nazionale romano. Queste protezioni non vennero mai utilizzate per la parte
pugilistica del pancrazio, in primo luogo per mantenere quell’identità di arte
militare che non scomparve nel momento in cui entrò a far parte del mondo
olimpico, ma anche perché le protezioni, di qualunque genere, erano
incompatibili con la fase lottatoria, in cui era necessario avere le mani
libere per le prese e le proiezioni. Per questo motivo, nei ginnasi e nelle
competizioni dei novizi si sviluppò l’akrocherismos, ovvero il pugilato
praticato con la mano aperta, dove a colpire era la base del palmo. Questo
permetteva di trasformare agilmente il colpo in una presa, per poi passare alla
fase di lotta. Anche per il pugilato non esisteva il concetto moderno di punti
né di riprese: il combattimento proseguiva ad oltranza, fino alla resa
dell’avversario o alla sua totale sconfitta, contrariamente a quanto accadeva
nella lotta, dove la vittoria si otteneva dopo aver ottenuto tre punti. Nelle
competizioni olimpiche di pale (lotta) veniva assegnato un punto all’avversario
ogni qualvolta un atleta poggiava a terra la schiena, o anche solo l’anca o la
spalla. La lotta fu il più antico sport da combattimento a essere inserito nei
Giochi olimpici, nel 708 a.C., ben prima degli altri due sport. L’origine di
questa disciplina affonda le radice nel mito. Si natta infatti che il celebre
eroe ateniese Teseo abbia sconfitto il Minotauro, essere mostruoso metà uomo e
metà toro, proprio con un combattimento di pale, dopo aver raggiunto il centro
del labirinto grazie all’aiuto di Arianna e del suo celebre filo. Il
corrispondente mitico della lotta è necessariamente Eracle (Ercole), simbolo
per eccellenza della forza dell’uomo e della sua volontà di diventare eroe. Non
a caso, lo stesso Eracle sarà in seguito l’eroe venerato dai gladiatori. Nella
prima delle sue 12 fatiche, il figlio di Zeus affronta il terribile leone di
Nemea, invulnerabile ad ogni arma ma sconfitto con le sole mani e le tecniche
della lotta che portano Eracle a sottometterlo e a strangolarlo. Anche gli eroi
omerici ben conoscevano e utilizzavano queste arti marziali. Quando, nel XXIII
canto dell’Iliade, vengono descritti i giochi in onore di Patroclo, subito dopo
la corsa dei carri (considerata la gara più spettacolare in assoluto) vengono
citati, nell’ordine, combattimenti di pugilato e lotta, in cui gli Achei si
sfidano per onorare la memoria dell’eroe defunto.
Arrachion:
strana storia di una vittoria.
Nelle
competizioni agonistiche, si sa, vincere è la cosa più importante: ogni
atleta è spinto dal desiderio di prevalere e conquistare gloria e onore. Così
era anche per Arrachion pancrazista
vincitore della 52a Olimpiade, svoltasi nel 572 a.C. Non ancora soddisfatto,
quattro anni dopo l’atleta si presentò a Olimpia per difendere il suo titolo.
Pausania
e Filostrato ci narrano il suo combattimento, poi passato alla Storia.
Bloccato in una morsa che gli avvolgeva il collo, pur di non arrendersi.
Quando però i giudici alzarono il braccio dell’atleta per decretarlo
nuovamente vincitore, si accorsero che era morto soffocato. Ciò tuttavia, non
lo privò del titolo: il suo corpo fu incoronato d’alloro e venne una statua
in suo onore nella città di Phigalia, sua patria d’origine.
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Articolo in gran parte
di Elisa Filomena Croce pubblicato su Civiltà Romana, bimestrale di storia
della Roma grandiosa, Sprea editori. Altri testi e foto da wikipedia.
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