La conquista del Polo
Nord. – Il polo della discordia: la spedizione di Nobile
Nel XIX secolo vari
esploratori si avventurarono oltre il circolo polare artico alla ricerca del
punto più settentrionale del pianeta. Lo statunitense Robert Peary disse di
averlo raggiunto nel 1909.
Il carattere inospitale delle regioni polari ha
rappresentato per millenni una barriera praticamente insormontabile per gli
esseri umani. Solo piccole comunità di eschimesi si erano stabiliti nelle aree
periferiche del Polo Nord, ma la loro misera esistenza non offriva nessuna
attrattiva commerciale ai mercanti provenienti da altre latitudini.
E così
le zone artiche rimasero isolate e inesplorate per secoli. Fino a che la
presenza di un gran numero di cetacei nei mari circostanti non risvegliò le
attenzioni dell’industria baleniera. Ma per quanto i cacciatori di balene si
avvicinassero ai confini di quel mondo gelato alla ricerca di prede, nessuno
proseguiva verso nord. Che senso aveva? Il polo era una semplice chimera
geografica, un punto situato a 90° esatti di latitudine senza alcun valore
reale, lontanissimo dalle necessità concrete dell’esistenza quotidiana. Alla
fine del XVIII secolo questa situazione cambiò. Da un lato non erano più solo i
mercanti ad avere interesse per la navigazione: anche i governi organizzavano
spedizioni militari in funzione dei propri obiettivi geostrategici. Dall’altro
la scienza assunse un protagonismo crescente nelle esplorazioni. Ebbe ruoli di
primo piano anche l’opinione pubblica, che iniziò a dimostrare curiosità per le
avventure geografiche, in particolare per quelle che si svolgevano tra i
ghiacci, cioè nell’ambiente più inospitale del piante.
Fu in
questo contesto che la Gran Bretagna
– all’epoca potenza egemone – intraprese una serie di spedizioni polari. Molte
di queste non avevano uno specifico interesse per il polo in sé. ,a miravano a
raggiungere lo stretto di Bering attraverso il mar Glaciale Artico, ce secondo
le credenze del tempo era un oceano aperto circondato da una cintura di
ghiaccio. Gli inglesi non ottennero però i risultati sperati. La banchisa
bloccava l’avanzata delle navi, e i marinai che decidevano di lasciare le
imbarcazioni per proseguire in slitta scoprivano con stupore che la massa di
ghiaccio su cui avanzavano faticosamente si muoveva spesso in direzione opposta
alla loro. Quando si fermavano a riposare, la deriva della superficie gelata li
sospingeva all’indietro, come se stessero camminando su un tapis roulant.
1852-1909:
la corsa verso il Polo Nord
Il tentativo di ritrovare la spedizione di
Franklin, scomparsa nel 1845 mentre cercava il mitico Passaggio a nord-ovest,
alimentò l’interesse per l’esplorazione dell’Artico e la conquista del polo.
|
||
1852: il britannico Inglefield ha l’idea
peregrina di raggiungere il polo risalendo il canale di Smith, tra l’isola di
Ellesmere e
|
1853-1870:
Molti esploratori approfittano dei tentativi di trovare Franklin per studiare
la regione. Alcuni sostengono di aver visto un mare aperto in direzione del
Polo.
|
|
1871-1873:
L’imprenditore di Cincinnati Charles Francis Hall arriva a 82°11’ di
latitudine. Alla sua morte, la spedizione finisce nel caos e viene salvata
dopo sei mesi alla deriva su un iceberg.
|
1872-1874: Mentre cerca
un accesso all’Artico tramite la corrente del Golfo, una spedizione
austro-ungarica scopre alcune isole sconosciute:
|
|
1875-1876. Georges Nares
risale il canale di Smith sulla Alert, che resta intrappolata tra i ghiacci.
La spedizione prosegue in slitta raggiungendo gli 83°20’.
|
1879-1881: Nel tentativo
di raggiungere il polo dallo stretto di Bering, George De Long naufraga a
bordo della Jeannette. Venti uomini, tra cui De Long, muoiono nel delta del
Lena.
|
|
1882-1884: L’ufficiale statunitense Adolfo
Greely e la sua squadra scientifica arrivano fino agli 83°23’. Solo sei dei
25 membri della spedizione sopravvivono al durissimo viaggio di ritorno.
|
1893-1896: Fridjof Nansen tenta di
raggiungere il polo sulla Fram, facendosi portare alla deriva dalla corrente
artica. Quindi tenta di proseguire con le slitte e gli sci, ma si ferma a
86°33’.
|
|
1899-1900: L’italiano Umberto Cagni, a capo
di una spedizione italiana in partenza dalla Terra di Francesco Giuseppe,
stabilisce un nuovo record di latitudine raggiungendo gli 86°33’.
|
1909: Peary e (l’anno prima) Cook
rivendicano di essere stati i primi a mettere piede al polo. Il merito viene
riconosciuto a Peary. Entrambi i loro resoconti presentano delle lacune.
|
|
La spedizione perduta di Franklin fu un viaggio di esplorazione artica guidato dal Capitano Sir John Franklin partito dall'Inghilterra nel 1845. Franklin, ufficiale della Marina britannica ed esperto esploratore, aveva già preso parte a tre precedenti spedizioni artiche, le ultime due come comandante in capo. Con la sua quarta e ultima, che intraprese all'età di cinquantanove anni, si proponeva di attraversare l'ultimo tratto, fino ad allora mai percorso da nessuno, del passaggio a nord-ovest. Dopo alcune traversie le due imbarcazioni sotto il suo comando rimasero bloccate dai ghiacci nello stretto di Vittoria, nei pressi dell'Isola di Re William nell'artico canadese. Tutti i membri della spedizione, Franklin e 128 uomini, non furono mai più ritrovati.
Oggetti ritrovati dai soccorritori facenti parte dell'equipaggiamento della spedizione Franklin del 1845, disegno tratto dall'Illustrated London News, 1854.
ALLA RICERCA DI FRANKLIN. La maggior parte delle spedizioni britanniche aveva come
obiettivo individuare il Passaggio a nord-ovest, ovvero la rotta che metteva in
comunicazione l’Atlantico con il Pacifico. Nel 1845 una flotta composta da due
navi e oltre un centinaio di uomini agli ordini di Sir John Franklin scomparve
nel nulla. La tragedia creò una forte mobilitazione nella società anglosassone,
e nel giro di una decina di anni più di cento imbarcazioni salparono alla
ricerca dei dispersi. Alcune di queste missioni di soccorso furono organizzate
dalla marina britannica, altre da facoltosi cittadini statunitensi o inglesi
che armarono delle navi per esplorare il dedalo di isole e canali dell’Artico
canadese nel vano sforzo di rintracciare i naufraghi.
Normalmente
il comandante di un’imbarcazione deve attenersi scrupolosamente alle istruzioni
ricevute, tanto nel caso di spedizioni militari quanto di viaggi commerciali.
Ma se l’obiettivo della navigazione è la ricerca di superstiti, esiste un certo
margine di manovra che non sarebbe consentito nelle situazioni precedenti. Fu
così che nel 1852 Edward Inglefield, capitano di una delle navi coinvolte nelle
operazioni di soccorso, pensò di cercare i sopravvissuti lungo il canale di
Smith, tra la costa occidentale della Groenlandia e l’isola di Ellesmere.
Secondo quanto dichiarò in seguito, una volta lì “ebbe l’idea peregrina di raggiungere il polo”. Ma non riuscì né a
trovare le imbarcazioni disperse, né ad arrivare ai 90° di latitudine, perché
il ghiaccio gli impedì di proseguire. Ma disse di aver visto un mare aprirsi
davanti a sé in direzione nord.
Edward Augustus Inglefield Phoenix and Breadalbane in Melville Bay
Sempre
più a nord.
A partire dal 1871
le spedizioni per la rotta americana di Hall, Nares e Greely si avvicinarono
sempre di più al polo, ma fu Peary a raggiungere la meta.
|
Una
porta aperta?
Nel 1852 il piroscafo britannico Isabel,
agli ordini del comandante Edward Inglefield, si addentrò nella zona del
canale tra
|
IL SOGNO DEL MAR GLACIALE ARTICO. Molti avventurieri statunitensi ritennero che attraverso
quello stretto fosse possibile accedere a un mare aperto e raggiungere il Polo
Nord, e trovarono alcuni facoltosi magnati disposti a finanziare le loro
ambizioni di gloria. Nel ventennio successivo varie spedizioni nordamericane
tentarono di avanzare lungo il canale di Smith. Nonostante le continue
avversità e la strenua lotta contro il freddo, la fame e lo sfinimento,
riuscirono ad avvicinarsi sempre di più all’estremo nord. Ma alla fine le navi
venivano invariabilmente bloccate o affondate da quella spietata distesa di
ghiaccio e gli equipaggi, scoraggiati, erano costretti a tornar indietro a
bordo di fragili scialuppe o ad attendere i soccorsi su un iceberg alla deriva.
Sul
fronte europeo, tra il 1869 e il 1870, una spedizione tedesca cercò senza fortuna di
dimostrare la tesi di August Petermann: il celebre geografo sosteneva che la
corrente del golfo del Messico penetrava
fino al centro dell’Artico, facendosi strada tra i ghiacci grazie alla
temperatura delle sue acque. Nonostante il fallimento della missione, due anni
più tardi una nave battente bandiera austroungarica ritentò l’impresa.
All’inizio tutto sembrò andare al meglio: la corrente effettivamente esisteva.
Ma ben presto i ricercatori si resero conto che non era sufficientemente calda.
La spedizione durò circa 27 mesi. Fu in quell’occasione che l’equipaggio scoprì
un arcipelago fino ad allora sconosciuto, che fu ribattezzato Terra di
Francesco Giuseppe, in onore dell’imperatore asburgico. Purtroppo
l’imbarcazione si schiantò sulle coste di un’isola, e per salvarsi i membri
della spedizione dovettero caricare le scialuppe di salvataggio su slitte e
trainarle in direzione sud. Fu un’operazione ardua e frustante, perché la
corrente marina spingeva la massa di ghiaccio su cui procedevano in senso
opposto al loro, ossia verso nord. Dopo due mesi di marcia sfiancante si erano
avvicinate alle coste di neanche 28 chilometri . Fortunatamente alla fine
raggiunsero il mare aperto e riuscirono ad arrivare in Russia dove furono
soccorsi da un peschereccio.
Un percorso lungo e
duro. Quando una nave veniva bloccata dalla banchisa (la superficie dei
ghiacci marini delle zone polari), l’equipaggio trascorreva mesi in
condizioni durissime, in attesa di riuscire ad allontanarsi a bordo delle
scialuppe o ricevere soccorso.
Un oceano congelato.
Quando l’Alert raggiunse gli 82° di latitudine, George Nares scrisse: “Non si vedeva altro che ghiaccio compatto
e invalicabile (…) che neppure con molta fantasia poteva assomigliare a un
mare aperto”. Dopo aver trascorso l’inverno in una baia bloccati dal gelo
e tormentati dallo scorbuto, nell’estate del 1876 i membri dell’equipaggio si
aprirono una breccia segando il ghiaccio che li circondava e si diressero
verso sud.
La Alert bloccata dai ghiacci nel 1876
Tentativi falliti:
L’italiano Umberto Cagni cercò di raggiungere il polo in slitta, mentre lo
svedese Salomon August Andrée ci provò in mongolfiera. Fallirono entrambi, ma
Cagni riuscì a sopravvivere mentre Andrée morì lungo il viaggio di ritorno.
La spedizione in mongolfiera avvenne nel 1897. I corpi dei tre svedesi furono
ritrovati nel 1930 accanto ad appunti e immagini che rivelarono che avevano
avuto un incidente poco dopo la partenza ed erano morti cercando la via del
ritorno. Invece Cagni, dopo aver battuto d
La nave Stella Polare, 1899
Aspettando la morte. “Stiamo morendo…come uomini. ho raggiunto
il mio obiettivo…Battere il record”. Furono queste le parole di un
Adolphus Greely praticamente moribondo quando fu ritrovato nel 1884. 18 dei
25 membri dell’equipaggio erano deceduti, e un altro morì lungo il cammino di
ritorno. Gli uomini erano sopravvissuti in una tenda nutrendosi delle carni
dei compagni morti.
Nansen: mille giorni
tra i ghiacci. Nel 1893 Fridtjof
Nansen si imbarcò sulla Fram per un viaggio che secondo i suoi calcoli
sarebbe durato cinque anni. Lasciò che la nave fosse imprigionata dai ghiacci
nella speranza che la corrente lo trascinasse fino al polo. Dopo 18 mesi alla
deriva decise di proseguire a piedi insieme a Fredrik Hjalmar Johansen. I due
raggiunsero gli 86° di latitudine l’8 aprile 1895, poi tornarono indietro,
prima in slitta e quindi in canoa fino alla Terra di Francesco Giuseppe.
Rientrarono in Norvegia nell’agosto del 1896.
Rotta di Nansen il 1888.
Peary raggiunse il
Polo Nord? Dopo varie spedizioni fallite, nel 1909 Roberto Peary effettuò il
suo ultimo tentativo di raggiungere il punto più settentrionale del globo.
Percorse i mille chilometri che separano l’isola di Ellesmere dal polo in 37
giorni, e al suo ritorno ricevette gli onori che aveva ossessivamente
cercato. Ma le sue misurazione imprecise e i tempi relativamente brevi in cui
percorse distanze lunghissime sollevano ancora oggi dubbi sull’attendibilità
del suo resoconto. La spedizione era formata da un piccolo gruppo che
dipendeva dall’aiuto dei nativi. Gli eschimesi fecero strada alle slitte con
i loro cani e spiegarono agli statunitensi le proprie tecniche per
sopravvivere alla lunga notte polare. Peary puntò sulla rotta americana:
risalì in nave il canale di Smith e il successivo canale di Nares, e quindi
dal nord di Ellesmere continuò in slitta. L’inizio fu difficile, ma le
condizioni meteorologiche erano favorevoli, e il ghiaccio piatto e omogeneo.
Il 6 aprile 1909 Peary raggiunse il traguardo con altri cinque uomini. solo
lui sapeva calcolare la latitudine e molti ricercatori dubitano delle sue misurazioni.
La velocità con cui la spedizione percorse il tragitto di ritorno getta
ulteriori ombre sull’impresa.
Roberto Ediwin Peary
(1856-1920) era un uomo alto e corpulento, dai baffi folti, secondo la sua
stessa definizione, ed era anche un nuotatore infaticabile e un cavallerizzo
provetto. Di carattere ostinato, in un’occasione dichiarò: “Non voglio morire senza che il mio nome
sia conosciuto al di fuori di un ristretto circolo di amici”.
Robert Edwin Peary
|
Non servirono a molto gli avvertimenti dei balenieri della
zona, che conoscevano per esperienza la scarsa forza della corrente e la
pericolosità di quel mare. Dopo essersi inoltrata nelle fredde acque polari, la
nave si ritrovò imprigionata tra i ghiacci e affondò nel giro di due anni. I
membri della spedizione furono costretti a trascinare le scialuppe lungo la
banchisa, fino a quando non trovarono condizioni favorevoli per poterle
rimettere in acqua. Solo un terzo dell’equipaggio sopravvisse all’odissea e
riuscì a raggiungere lo coste della Siberia nell’autunno del 1891.
Tre anni dopo il relitto della Jeanette fu inaspettatamente
localizzato lungo le coste della Groenlandia. Questa scoperta spinse lo
scienziato ed esploratore norvegese Fridtjof Nansen a ipotizzare l’esistenza di
una corrente marina che attraversava tutto il mar Glaciale Artico. Secondo
questa teoria, un’imbarcazione che fosse stata intrappolata dai ghiacci nella
zona dove era affondata la nave statunitense avrebbe attraversato tutto
l’Artico ala deriva passando per il Polo Nord.
L’ODISSEA DI NANSEN. Nansen decise di provare a dimostrare
la sua teoria. A questo scopo progettò una nave con uno scafo in grado di
sopportare l’urto dei ghiacci, che chiamò Fram (avanti). La traversata iniziò
nel 1893. Inizialmente l’imbarcazione resse bene alla pressione della banchisa
e fu trascinata dalla corrente marina nella direzione sperata. Ma, dopo più di
un anno alla deriva, l’esploratore si rese conto che la rotta non lo stava
portando verso il Polo Nord. A quel punto, come altri prima di lui, Nansen si
lasciò sedurre dal canto delle sirene polari e decise di abbandonare la Fram per proseguire a piedi.
Non riuscì a raggiungere il polo, anche se batté il record precedente di 300 chilometri . Il
suo viaggio di ritorno, durato oltre un anno, rappresenta una delle imprese più
straordinarie nella storia delle missioni poliari.
Sei anni dopo l’avventura della Fram, una spedizione
italiana diretta da Luigi Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, riuscì a
migliorare il risultato del norvegese. Un gruppo capitanato da Umberto Cagni
partì dalla terra di Francesco Giuseppe, a nord della Russia, e dopo aver
superato numerose avversità si fermò a 381 chilometri dal
polo. Sembrava ormai chiaro che quel mitico punto geografico non era
raggiungibile dall’Europa. L’attenzione si spostò verso le coste nordoccidentali
della Groenlandia, da dove passava la rotta degli esploratori statunitensi. Uno
di loro, Robert Peary, tentava ormai da anni di raggiungere i leggendari 90°
gradi di latitudine nord. Se risalire le coste della Groenlandia era già di per
sé difficile, la parte più scoraggiante iniziava dopo, quando le spedizioni si
trovavano di fronte l’oceano Polare congelato. Le correnti marine spostavano di
continuo la banchisa, e pertanto era impossibile lasciare scorte di cibo o di
materiali per il ritorno. Inoltre, le imbarcazioni erano costrette di continuo
ad aggirare i canali che si aprivano sui banchi di ghiaccio a causa della
deriva, o ad attendere che le acque tornassero a congelarsi. Con uno sforzo
encomiabile l’esploratore statunitense fece sei tentativi di arrivare al polo
in 18 anni. Apprese le tecniche di sopravvivenza degli eschimesi e riuscì a
migliorare i suoi risultati a ogni missione. Finalmente, il 6 aprile 1909 toccò
il punto più settentrionale del globo.
Nel 1948,
in piena guerra fredda, Stalin decise di giocare
d’anticipo sul sottomarino statunitense Nautilus, che doveva arrivare ai 90° di
latitudine nord navigando al di sotto della banchisa. La squadra agli ordini
del colonnello Aleksandr Kuzbecov si fece lasciare da un aereo nelle vicinanze
del Polo e fu la prima a raggiungerlo in maniera incontestabile. In seguito le spedizioni polari passarono di
moda, fino a quando, il 6 aprile 1969 l’esploratore britannico Wally Herbert
attraversò in solitaria tutto l’Artico diventando la prima persona a poter
documentare in modo certo di essere arrivato al Polo Nord a piedi. Il sogno di
decine di spedizioni si era finalmente realizzato, dopo quasi due secoli di
vicissitudini.
Al giorno d’oggi le cose sono molto più facili: ormai da
anni i turisti attraversano l’Artico su aerei e navi rompighiaccio, per poter
documentare di aver raggiunto il punto più settentrionale della terra.
Articolo in gran parte di Javier Cacho Scienziato scritto
pubblicato da STORICA NATIONAL GEOGRAPICH del mese di agosto 2018 – altri testi
e immagini da Wikipedia.
Il Polo
della discordia – La spedizione di Nobile.
Roald Amundsen
Roald Amundsen
Il cipiglio dell’esploratore norvegese
Roald Amundsen, nel busto che troneggia al centro di Ny-Alesund (un
insediamento artico nell’isolo di Spitsbergen, Svalbard) è cupo. Ha tutte le
ragioni per essere contrariato: è la vittima più illustre della sventurata
missione di Umberto Nobile, che 90 anni fa precipitò al Polo con il suo
dirigibile Italia. Morirono in 17: 8 membri dell’equipaggio e 9 soccorritori, tra i quali Amundsen,
che era corso alla ricerca dei superstiti sebbene intrattenesse con il
comandante Nobile rapporti di reciproca ostilità. Tanto il norvegese che
l’italiano sono stati due personaggi mitici nella storia dell’esplorazione
polare e dell’aeronautica. Insieme realizzarono l’impossibile per l’epoca:
sorvolare il Polo. I loro destini si sono incrociati negli anni Venti del
secolo scorso due volte.
dirigibile Italia durante l'attracco a Stolp, inPomerania, una delle tappe intermedie nel viaggio verso il Polo Nord.
Per farsi un’idea di come doveva essere il clima a bordo,
basti dire che durante il lancio sul Polo delle bandiere italiana, norvegese e
statunitense, si scoprì che il tricolore era molto più grande di quanto
concordato. Amundsen diffidava di Nobile, anche perché si ritrovò relegato nel
ruolo di passeggero, con il solo compito di guardare dal finestrino. Inoltre
l’italiano gli impose parte dell’equipaggio e… la cagnetta Titina. Nobile, uomo
da cerimonie e caffè e vestito in alta uniforme, ricambiava l’antipatia per
quel nordico che girava in pelliccia, calzari foderati d’erba e pipa.
Nobile e la cagnetta Titina
La ricerca continua.
La vera continuità tra
le avventure di ieri e di oggi si svolge a Ny-Alesund in un pugno di case, strade
e lavoratori piantati in pieno Circolo Polare Artico: siamo nel più
settentrionale insediamento umano permanente, 79° N di latitudine, un
migliaio di km a sud del Polo e 1500 più in su della Norvegia. Se un secolo
fa gli esploratori volevano capire cosa ci fosse nelle latitudini più remote
della Terra, oggi gli scienziati lavorano per migliorare quelle conoscenze.
BASE ITALIANA.
L’Italia è stabilmente presente in Artico dalla metà degli Anni ’90, quando
il Consiglio nazionale delle ricerche, aprì una stazione dedicata al
dirigibile Italia, a poche centinaia di metri dal pilone di attracco delle
vecchie avventure polari. “La nostra
ricerca contribuisce ad aumentare la conoscenza dei cambiamenti climatici
nella regione, anche al fine di mitigarne gli impatti a livello mondiale”,
spiega il presidente del Cnr Massimo Inguscio. Soltanto nel 2018 la stazione
artica sta portando avanti una ventina di progetti di ricerca in fisica
dell’atmosfera, oceanografia e biologia marina, geologia e climatologia.
Sempre quest’anno è stato istituito un Comitato scientifico artico presieduto
dal rappresentante italiano nel Consiglio artico, Carmine Robustelli. I
ricercatori lavorano per comprendere e contrastare i cambiamenti ambientali e
climatici studiando il cosiddetto “amplificatore artico”: fenomeni quali la
riduzione dei ghiacci, drammatica in termini di estensione, durata e
spessore, e lo scioglimento del permafrost, lo strato di terreno ghiacciato
che potrebbe liberare in atmosfera enormi quantità di metano, un gas serra
ben più potente dell’anidride carbonica.
|
TANTI NEMICI. Dopo la missione, per Amundsen cominciò
un periodo di depressione, mentre Nobile venne accolto come un eroe da
Mussolini, che gli appuntò una medaglia, lo abbracciò e lo promosse generale a
soli 41 anni. Ma Nobile aveva anche parecchi nemici, come fu chiaro poco dopo
quando il generale iniziò a progettare una nuova missione polare.
Il più ostile di tutti era il comandante dell’aviazione
Italo Balbo, che a Cesco Tommaselli, l’inviato del Corriere della Sera che
seguì la spedizione confidò: “Sono una
persona coraggiosa, ma su un dirigile non metterei mai piede”. Per il
gerarca il futuro dell’aereonautica italiana erano gli aerei, come chiarì con
la trasvolata atlantica del 1933. Nobile era invece convinto che i dirigibili
fossero perfetti soprattutto per le spedizioni scientifiche: permettevano di
fare lunghe traversate senza soste per i rifornimenti e consentivano di
stazionare su un’area da studiare.
Nobile e la tenda rossa
Un gruppo di uomini dispersi tra i ghiacci per quarantotto giorni, un contorno di polemiche, tradimenti e riabilitazioni, e un protagonista che a distanza di un secolo è ancora discusso: Umberto Nobile.
Svelare il mistero della 'Sfinge polare', era una delle immagini poetiche che i grandi esploratori usavano per descrivere la loro missione. In tanti hanno provato ad avvicinarsi al Polo Nord via mare, ma solo con l'arrivo dei dirigibili, l'impresa è stata possibile. I voli delle aeronavi ‘Norge’ del 1926 e ‘Italia’ del 1928 sono stati frutto di una preparazione tecnica e scientifica di avanguardia per quei tempi, ma - date le difficoltà - gli incidenti di percorso erano numerosi. E la tragedia del Dirigibile Italia e della tenda rossa riempirono le cronache dei tempi.
Nobile e la tenda rossa
con Francesco Perfetti
di Chiara Chianese
con Francesco Perfetti
di Chiara Chianese
SULL’ITALIA. Sul nuovo aerostato, che stavolta si
chiamava Italia, assieme ad altri 12 uomini e a Titina, salirono il fisico
italiano Aldo Pontremoli, fondatore dell’istituto del radio di Praga, il
geofisico e meteorologo svedese Finn Malmgren e una strumentazione
all’avanguardia (anche se sulle scelte tecnologiche e di comunicazione le
polemiche infurieranno). La missione ottenne il patrocinio della Reale Società
Geografica Italiana, mentre i finanziamenti arrivarono dal Comune di Milano e
da un consorzio di imprenditori. Il dirigibile partì da Milano il 15 aprile
1928, raggiunse la Baia
del Re il 6 maggio e compì due voli di studio, accertando alcuni aspetti fisici
della regione artica quali l’assenza di terre emerse, la sterilità e la bassa
ionizzazione dell’aria, le profondità marine e le derive dei ghiacci. Il Polo
venne raggiunto la mezzanotte del 24 maggio 1928 ma, proprio come due anni
prima, no fu possibile atterrare, a causa del vento fortissimo. E il mattino
dopo,alle 10,30 una perturbazione travolse l’aeronave. L’Italia precipitò sul
pack: dieci uomini, tra i quali il comandante, ferito, furono scaraventati sul
ghiaccio, altri sei vennero portati via dalla tempesta e dispersi per sempre. “Tutto si era svolto in due o al massimo in
tre minuti”, raccontò in seguito Nobile. I titoli del Corriere della Sera viravano
dal trionfale: il tricolore e la croce sul polo (papa Pio XI aveva consegnato
un crocifisso all’equipaggio) al cauto: Il ritorno di Nobile rallentato da
forti venti contrari.
IN SALVO. Il 19 giugno l’idrovolante del
maggiore Umberto Maddalena localizzò finalmente la Tenda Rossa e lanciò cibo, coperte
e abbigliamento. E quattro giorni dopo, il 23 giugno, il Fokker 31 dello
svedese Einar Lundborg (1896-1931) riuscì a portare a borda e a trasportare
sulla nave Città di Milano Umberto Nobile. Il generale protestò, voleva che la
priorità fosse data al capo tecnico Natale Cecioni, gravemente ferito a una
gamba, ma i soccorritori gli imposero di trarsi in salvo per coordinare le
ricerca dei compagni. Una decisione subita, che come vedremo, gli costò cara.
Dopo altri 48 giorni anche gli altri superstiti vennero recuperati. Ci riuscì,
in un complicato avvicinamento, il rompighiaccio sovietico Krassin. In totale
le operazioni di recupero costarono la vita a 9 soccorritori.
UN BRUTTO RITORNO. Il ‘generale dei ghiacci’ in Italia, in
un primo momento, venne accolto con affetto. Ma poi la distruzione del
dirigibile e la disponibilità a mettersi in salvo per primo portarono la Commissione
d’inchiesta ad addebitargli colpe infamanti: errata manovra, limitate qualità
tecniche di pilota, negative capacità di comando. I suoi avversari, Italo Balbo
in prima linea, non avevano che da essere contenti: la carriera di Nobile era
stroncata. L’orgoglioso generale ci mise poi anche del suo: armato di un
pessimo carattere e pessimo tempismo alzò la voce persino con Mussolini, quando
questi finalmente accettò di riceverlo per ascoltarne le ragioni. Venne
accompagnato alla porta. Umiliato e amareggiato, Nobile si dimise
dall’Aereonautica e si trasferì prima in Urss e poi negli Stati Uniti. Rientrò
in Italia nel 1942 e, dopo un’esperienza all’Assemblea costituente tra gli
indipendenti del PCI, una nuova commissione lo riabilitò, senza però sopire del
tutto le polemiche. Morirà a Roma nel 1978, a 93 anni.
Articolo in gran parte di Marco Ferrazzoli, pubblicato su
Focus Storia n. 143. altri testi e foto da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento