giovedì 18 ottobre 2018

I lupanari: vizio e lussuria nell'antica Roma


I lupanari vizio e lussuria.
Ambulatrix, fornicatrix, feretri: molti nomi per definire una sola, quella della prostituta, che nella Roma antica era considerata una misura di salute pubblica.
 
Fascinus sull'acciottolato di Pompei, indica la direzione da prendere per raggiungere il lupanare
L'arte erotica a Pompei Ercolano è stata rinvenuta a seguito di una lunga serie di scavi archeologici iniziati nel XVII secolo, svoltisi in particolare attorno alle antiche città di Pompei ed Ercolano affacciate sul golfo di Napoli. Il sito è risultato esser pieno di arte erotica, sia in forma di affreschi che di sculture ed oggettistica il cui simbolismo fallico veniva accentuato con evidenza.
Tutti questi reperti sono stati subito considerati dai suoi scopritori come eminentemente pornografici, pertanto immediatamente occultati alla vista tramite teloni o rinchiusi in magazzini senza alcuna possibilità di accedervi da parte del pubblico, ma aperti solo su esplicita richiesta degli studiosi[1].
Senza la lupa che allattò Romolo e Remo, Roma non sarebbe esistita. Ma lupa era anche uno dei nomi dati alle prostitute, e a crescere i gemelli fatali fu Acca Larenzia, che di mestiere pare facesse appunto “la lupa”: così il cerchio si chiude, legando indissolubilmente la prostituzione alla fondazione dell’Urbe. A Roma i bordelli non erano né uno scandalo né un’anomalia, ma costituivano un elemento primario per la coesione del tessuto sociale. A dichiararlo ufficialmente sono due personaggi al di sopra di ogni sospetto: Catone, il Censore (234-149 a.C.) e Cicerone (106-43 a.C.). Il primo, severissimo fustigatore dei costumi, a proposito dei bordelli sosteneva che “quando la turpe lussuria gonfia le vene è giusto che i giovani la estinguano qui, e non vadano a insidiare le moglie altrui”. Quanto a Cicerone, considerava le prostitute “necessarie sia all’igiene sia alla tranquillità delle donne di nascita libera, e quindi hanno una funzione di salute pubblica”. Del resto non avrebbe potuto essere diversamente, perché Roma imponeva alle sue donne una morale sessuale rigidissima, che condannava a morte le adultere. L’unico modo lecito per consentire il giusto sfogo all’esuberanza virile era dunque il mantenimento di una categoria di professioniste non soggette ai vincoli del buoncostume e in grado di placare i vivaci appetiti dei maschi romani, che vivevano la sessualità come un sano bisogno fisiologi da soddisfare, proprio come la fame, la sete e il sonno.




Murale di Mercurio (divinità)/Priapo esageratamente dotato, trovato sulla facciata di una bottega.

SCANDALOSA POMPEI. La dimostrazione più clamorosa di questa verità si ebbe quando nell’Ottocento, gli scavi archeologici riportarono gradualmente alla luce la città di Pompei, sepolta il 25 agosto del 70 d.C. dalla spaventosa eruzione del Vesuvio. Dai lavori affiorò, assieme ai corpi delle vittime e agli oggetti loro appartenuti, anche un elemento centrale della vita di allora: la celebrazione disinvolta della sessualità in tutti i suoi aspetti. A testimoniarla, un’enorme quantità di reperti che sembravano fatti apposta per offendere il comune senso del pudore diffuso in quel secolo: pitture licenziose, iscrizioni e graffiti apertamente pornografici, enormi falli campeggianti materiale sconcertante (per l’epoca) finì sotto chiave nelle stanze proibite del Museo Nazionale di Napoli, ma intanto cominciava a diffondersi l’idea suggestiva, ma falsa, di Pompei come città del peccato. Ad alimentare l’equivoco contribuì anche un piccante romanzo scritto dall’inglese Edward Bulwer-Lytton The last Day of Pompei. Uscito nel 1834, il libro narrava, con una buona dose di fantasia, gli ultimi giorni di una città depravata, dedita ad ogni piacere lecito e illecito del culto pagano della dea egizia Iside. Fino a una ventina di anni fa, sulla base di un’errata interpretazione delle tracce archeologiche, si pensava che nella sola Pompei esistessero non meno di una quarantina di bordelli: cifre sorprendente per una città per una città che all’epoca (I secolo d.C.), contava forse tra i 12 e i 15mila abitanti, compresi donne, bambini e anziani. Più realisticamente studi più recenti hanno dimostrato che a Pompei in realtà, esisteva un solo bordello. Nove, invece erano le cellae meretriciae, stanzette annesse alle taverne, ostelli, negozi o case private, generalmente di proprietà del protettore, in cui le prostitute non inquadrate nel bordello esercitavano la loro professione. Si trattava di locali privi di finestre, ai quali si accedeva direttamente dalla strada e il cui unico arredamento era un letto in muratura, essenziale strumento del mestiere, sul quale veniva gettato un pagliericcio.




Rilievo fallico proveniente da Pompei, 1-50 d.C. circa


BELLE DI GIORNO. Ben diversa, naturalmente, era la situazione nell’Urbe, in cui ai numerosi bordelli si affiancava una considerevole varietà di prostitute. La noctiluca, come la nostra lucciola,si prostituiva di notte; quella che adescava i clienti per strada era una ambulatrix, ossia una passeggiatrice; chi lo face sotto le arcate dei ponti, chiamati fornices, era una fornicatrice (da cui arriva il verbo fornicare, intrattenere rapporti sessuali peccaminosi); quella che esercitava nei pressi dei cimiteri era detta bustuaria, da bustum, che significa appunto tomba.  Ma la prostituta per eccellenza era la lupa, chiamata anche feretri per via del fatto che si guadagnava da vivere (in latino merere significa guadagnare) vendendo il proprio corpo in un luogo in un luogo detto appunto lupanar, lupanare. Atri termini erano decisamente dispregiativi e insultanti: come per esempio scortum, cioè pelle, con riferimento alla pelle degli animali scuoiati che si sbatte per la concia; e l’ancora più immediato spurca, cioè sozza.
Difficile quantificare il numero dei bordelli di Roma; un po’ più facile, calcolare, almeno approssimativamente, quello delle prostitute, che intorno al 100 a.C., arrivò alla cifra massima di 32mila. Lo sappiamo perché a quel tempo la prostituzione era legale, così come il suo sfruttamento. Lo Stato faceva obbligo alle lavoratrici di iscriversi in un registro (anche con un nome d’arte) e imponeva loro una tassazione che andava dal 17 al 25 per cento dell’incasso mensile. Alcune portavano parrucche gialle o arancioni, oppure si tingevano i capelli di quel colore: probabilmente l’uso di insultare una donna dandole della flava coma, cioè della bionda, nacque da quell’abitudine. Altre optavano per il rosso (parrucca o tintora) e per questo erano solite farsi chiamare rufa, rossa, o altri diminutivi dello stesso nome (Rufilla, rufilia, rufina).

Amuleto di bronzo raffigurante un "fallo volante" (I secolo a.C.)

C’erano anche i lupi.
Nel disinibito panorama sessuale dell’antica Roma aveva un posto come anche la prostituzione maschile, che tuttavia presenta caratteri molto diversi da quella femminile. I Romani, stando a quanto emerso dagli studi, non facevano distinzioni tra rapporti etero e omosessuali: per loro l’importante era il ruolo che si assumeva. Il maschio doveva essere sempre attivo e dominante, mentre la passività era oggetto di scherno e guardato con sdegno. A causa di questa concezione, per un romano gli unici possibili parter maschili erano gli schiavi. Ma quando a Roma venne di moda il vizio greco, , com’era chiamata la pederastia, le cose cambiarono. Se le prostitute, nella maggior parte dei casi, costavano poco, i prostituti rappresentavano un vero lusso. L’inflessibile Catone il Censore si diceva indignato per il fatto che i depravati concittadini fossero disposti a pagare i servigi sessuali di un giovanetto con somme sufficienti a comprare un’intera fattoria.     



Danza in nudità, Villa dei misteri a Pompei antica.
La prostituzione nell'antica Roma era legale e autorizzata; anche gli uomini romani di più alto status sociale erano liberi d'impegnarsi in incontri con persone che esercitavano la prostituzione, sia femmine sia maschi, senza alcun pericolo d'incorrere nella disapprovazione morale[1]. Tutto questo purché avessero dimostrato autocontrollo e moderazione nella ricerca del piacere sessuale.


I LUOGHI DEL PIACERE. I bordelli erano quasi tutti nella Suburra, intorno al Circo Massimo e sull’Aventino, zone abitate prevalentemente dai plebei, ma anche al Celio, dove si trovavano le caserme dei Vigili, o presso il Castro Pretorio, poco lontano dagli accampamenti militari. Perlopiù sudici e infestati da parassiti, questi rifugi si riconoscevano facilmente da scritte o disegni espliciti sulla porta d’ingresso. Varcata la soglia, i clienti venivano accolti dal leno, il lebnone, tenutario del bordello. In attesa del proprio turno potevano mangiare e bere, mentre sceglievano tra le numerose specialità offerte e solitamente illustrate dagli affreschi che decoravano le pareti. Le ragazze erano giovanissime, ma raramente in buona salute: la loro carriera iniziava intorno ai 14 anni (l’età da marito era fissata a 12), ma poiché erano sfrutta fino allo stremo duravano ben poco e venivano presto rimpiazzate da merce più fresca. Generalmente si trattava  di schiave o di libertae (schiave emancipate) che non avevano trovato di meglio da fare, oppure donne delle classi più povere, spesso vedove, che non altro modo per sbarcare il lunario. Spesso, proprio a causa dell’indigenz, erano gli stessi genitori ad avviare le figlie al mestiere. Visto il pessimo stato dei bordelli, i ricchi preferivano ricevere le prostitute a casa, così da garantirsi migliori condizioni igieniche. Simili alle moderne squillo, queste donne lavoravano a chiamata. Costavano ovviamente di più, ma assicuravano discrezione e prestazioni decisamente superiori. I prezzi variavano molto a secondo del rango della prostituta: la tariffa più bassa era di due assi, equivalenti a mezzo sesterzio, cioè quanto costava un bicchiere di vino in una taverna. Era la somma richiesta per il rapporto più sbrigativo, ovvero il sesso orale, o per le prestazioni delle prostitute dette da pergula, una tettoia sotto cui sedevano le meretrici troppo brutte o troppo vecchie per esercitare nei lupanari e che si offrivano ai più miserabili per somme irrisorie. Sempre Cicerone, volendo insinuare che la nobildonna Clodia fosse sul piano morale, pari a una prostituta delle più spregevoli, la definì quadrantaria, cioè da quattro soldi, come le prostitute più laide. Si consideri che, nel I secolo d.C., la paga di un soldato era più o meno di due sesterzi e mezzo al giorno, ma c’erano prostitute che, per una sola prestane, ne chiedevano più di cinque. Un caso a parte erano le prostitute d’alto bordo, che non ricevevano denaro ma gioielli, abiti preziosi e beni di varia natura. Non venivano pagate per singole prestazioni, ma il cliente le affittava per un certo periodo, che poteva durare anche un anno, durante il quale le mantenute si impegnavano a garantirgli l’esclusività dei rapporti sessuali. In caso di trasgressione, la prostituta perdeva interamene il suo compenso. Questo tipo di meretrici era considerato il più pericoloso, perché in grado di far perdere la testa agli uomini e di ridurre sul lastrico intere famiglie. Le prostitute avevano anche una dea protettrice, Venere Erycina, a cui rendevano omaggio in due particolari occasioni, il 23 aprile e il 25 ottobre di ogni anno. Quei due giorni erano forse i soli in cui la loro dignità era pari a quella di ogni altra donna dell’Urbe.

Pompei a luce rosse.

Scena sessuale da un murale pompeiano.

Tra il Sette e Ottocento, la sorpresa destata dal rinvenimento delle rovine di Pompei fu enorme. Ma a sconcertare gli archeologi fu soprattutto la scoperta di un mondo assai distante dall’immagine della Roma tradizionale: un mondo ad altissima gradazione erotica, almeno per gli standard dell’epoca. Così innumerevoli reperti pompeiani furono occultati nel Gabinetto segreto del Museo Nazionale di Napoli, per riemergere soltanto nel 2000, vietati ai minori di 14 anni. Grande scalpore suscitarono i graffiti che decoravano i muri cittadini, e in particolare quelli del bordello.
Fra i tanti, l’invito di una prostituta a buon mercato che dichiara “sono tua per una monetina” il dubbio di un giovane che chiede “il fiore di Venere mi sarà dato?” e il vanto di una famosa meretrice, che racconta “qui stette Euplia con uomini vigorosi messi fuori combattimento”, né manca il disappunto per una delusione sotto le lenzuola: “Phileros è un eunuco”. A suggello, il sospiro di un passante che quei graffiti doveva averli letti proprio tutti: “Mi meraviglio, o muro, che tu non sia crollato sotto il peso di tante sciocchezze”.  

Articolo in gran parte di Alessandra Colla, pubblicato su Civiltà romana bimestrale di Storia della Roma grandiosa, altri testi e immagini da Wikipedia.




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