I lupanari vizio e
lussuria.
Ambulatrix,
fornicatrix, feretri: molti nomi per definire una sola, quella della
prostituta, che nella Roma antica era considerata una misura di salute
pubblica.
L'arte erotica a Pompei Ercolano è stata rinvenuta a seguito di una lunga serie di scavi archeologici iniziati nel XVII secolo, svoltisi in particolare attorno alle antiche città di Pompei ed Ercolano affacciate sul golfo di Napoli. Il sito è risultato esser pieno di arte erotica, sia in forma di affreschi che di sculture ed oggettistica il cui simbolismo fallico veniva accentuato con evidenza.
Tutti questi reperti sono stati subito considerati dai suoi scopritori come eminentemente pornografici, pertanto immediatamente occultati alla vista tramite teloni o rinchiusi in magazzini senza alcuna possibilità di accedervi da parte del pubblico, ma aperti solo su esplicita richiesta degli studiosi[1].
Senza
la lupa che allattò Romolo e Remo, Roma non sarebbe esistita. Ma lupa era anche
uno dei nomi dati alle prostitute, e a crescere i gemelli fatali fu Acca
Larenzia, che di mestiere pare facesse appunto “la lupa”: così il cerchio si
chiude, legando indissolubilmente la prostituzione alla fondazione dell’Urbe. A
Roma i bordelli non erano né uno scandalo né un’anomalia, ma costituivano un
elemento primario per la coesione del tessuto sociale. A dichiararlo
ufficialmente sono due personaggi al di sopra di ogni sospetto: Catone, il
Censore (234-149 a.C.) e Cicerone (106-43 a.C.). Il primo, severissimo
fustigatore dei costumi, a proposito dei bordelli sosteneva che “quando la turpe lussuria gonfia le vene è
giusto che i giovani la estinguano qui, e non vadano a insidiare le moglie
altrui”. Quanto a Cicerone, considerava le prostitute “necessarie sia all’igiene sia alla tranquillità delle donne di nascita
libera, e quindi hanno una funzione di salute pubblica”. Del resto non
avrebbe potuto essere diversamente, perché Roma imponeva alle sue donne una
morale sessuale rigidissima, che condannava a morte le adultere. L’unico modo
lecito per consentire il giusto sfogo all’esuberanza virile era dunque il
mantenimento di una categoria di professioniste non soggette ai vincoli del
buoncostume e in grado di placare i vivaci appetiti dei maschi romani, che
vivevano la sessualità come un sano bisogno fisiologi da soddisfare, proprio
come la fame, la sete e il sonno.
SCANDALOSA POMPEI. La dimostrazione più
clamorosa di questa verità si ebbe quando nell’Ottocento, gli scavi
archeologici riportarono gradualmente alla luce la città di Pompei, sepolta il
25 agosto del 70 d.C. dalla spaventosa eruzione del Vesuvio. Dai lavori
affiorò, assieme ai corpi delle vittime e agli oggetti loro appartenuti, anche
un elemento centrale della vita di allora: la celebrazione disinvolta della
sessualità in tutti i suoi aspetti. A testimoniarla, un’enorme quantità di
reperti che sembravano fatti apposta per offendere il comune senso del pudore
diffuso in quel secolo: pitture licenziose, iscrizioni e graffiti apertamente
pornografici, enormi falli campeggianti materiale sconcertante (per l’epoca)
finì sotto chiave nelle stanze proibite del Museo Nazionale di Napoli, ma
intanto cominciava a diffondersi l’idea suggestiva, ma falsa, di Pompei come
città del peccato. Ad alimentare l’equivoco contribuì anche un piccante romanzo
scritto dall’inglese Edward Bulwer-Lytton The last Day of Pompei. Uscito nel
1834, il libro narrava, con una buona dose di fantasia, gli ultimi giorni di
una città depravata, dedita ad ogni piacere lecito e illecito del culto pagano
della dea egizia Iside. Fino a una ventina di anni fa, sulla base di un’errata
interpretazione delle tracce archeologiche, si pensava che nella sola Pompei
esistessero non meno di una quarantina di bordelli: cifre sorprendente per una
città per una città che all’epoca (I secolo d.C.), contava forse tra i 12 e i
15mila abitanti, compresi donne, bambini e anziani. Più realisticamente studi
più recenti hanno dimostrato che a Pompei in realtà, esisteva un solo bordello.
Nove, invece erano le cellae meretriciae, stanzette annesse alle taverne,
ostelli, negozi o case private, generalmente di proprietà del protettore, in
cui le prostitute non inquadrate nel bordello esercitavano la loro professione.
Si trattava di locali privi di finestre, ai quali si accedeva direttamente
dalla strada e il cui unico arredamento era un letto in muratura, essenziale
strumento del mestiere, sul quale veniva gettato un pagliericcio.
Rilievo fallico proveniente da Pompei, 1-50 d.C. circa
BELLE DI GIORNO. Ben diversa,
naturalmente, era la situazione nell’Urbe, in cui ai numerosi bordelli si
affiancava una considerevole varietà di prostitute. La noctiluca, come la
nostra lucciola,si prostituiva di notte; quella che adescava i clienti per
strada era una ambulatrix, ossia una passeggiatrice; chi lo face sotto le
arcate dei ponti, chiamati fornices, era una fornicatrice (da cui arriva il
verbo fornicare, intrattenere rapporti sessuali peccaminosi); quella che
esercitava nei pressi dei cimiteri era detta bustuaria, da bustum, che
significa appunto tomba. Ma la
prostituta per eccellenza era la lupa, chiamata anche feretri per via del fatto
che si guadagnava da vivere (in latino merere significa guadagnare) vendendo il
proprio corpo in un luogo in un luogo detto appunto lupanar, lupanare. Atri
termini erano decisamente dispregiativi e insultanti: come per esempio scortum,
cioè pelle, con riferimento alla pelle degli animali scuoiati che si sbatte per
la concia; e l’ancora più immediato spurca, cioè sozza.
Difficile quantificare
il numero dei bordelli di Roma; un po’ più facile, calcolare, almeno
approssimativamente, quello delle prostitute, che intorno al 100 a.C., arrivò
alla cifra massima di 32mila. Lo sappiamo perché a quel tempo la prostituzione
era legale, così come il suo sfruttamento. Lo Stato faceva obbligo alle
lavoratrici di iscriversi in un registro (anche con un nome d’arte) e imponeva
loro una tassazione che andava dal 17 al 25 per cento dell’incasso mensile. Alcune
portavano parrucche gialle o arancioni, oppure si tingevano i capelli di quel
colore: probabilmente l’uso di insultare una donna dandole della flava coma,
cioè della bionda, nacque da quell’abitudine. Altre optavano per il rosso (parrucca
o tintora) e per questo erano solite farsi chiamare rufa, rossa, o altri
diminutivi dello stesso nome (Rufilla, rufilia, rufina).
Amuleto di bronzo raffigurante un "fallo volante" (I secolo a.C.)
C’erano
anche i lupi.
Nel
disinibito panorama sessuale dell’antica Roma aveva un posto come anche la
prostituzione maschile, che tuttavia presenta caratteri molto diversi da
quella femminile. I Romani, stando a quanto emerso dagli studi, non facevano
distinzioni tra rapporti etero e omosessuali: per loro l’importante era il
ruolo che si assumeva. Il maschio doveva essere sempre attivo e dominante,
mentre la passività era oggetto di scherno e guardato con sdegno. A causa di
questa concezione, per un romano gli unici possibili parter maschili erano
gli schiavi. Ma quando a Roma venne di moda il vizio greco, , com’era
chiamata la pederastia, le cose cambiarono. Se le prostitute, nella maggior
parte dei casi, costavano poco, i prostituti rappresentavano un vero lusso.
L’inflessibile Catone il Censore si diceva indignato per il fatto che i
depravati concittadini fossero disposti a pagare i servigi sessuali di un
giovanetto con somme sufficienti a comprare un’intera fattoria.
|
La prostituzione nell'antica Roma era legale e autorizzata; anche gli uomini romani di più alto status sociale erano liberi d'impegnarsi in incontri con persone che esercitavano la prostituzione, sia femmine sia maschi, senza alcun pericolo d'incorrere nella disapprovazione morale[1]. Tutto questo purché avessero dimostrato autocontrollo e moderazione nella ricerca del piacere sessuale.
I LUOGHI DEL PIACERE. I bordelli erano quasi tutti nella Suburra, intorno al Circo Massimo e sull’Aventino, zone abitate prevalentemente dai plebei, ma anche al Celio, dove si trovavano le caserme dei Vigili, o presso il Castro Pretorio, poco lontano dagli accampamenti militari. Perlopiù sudici e infestati da parassiti, questi rifugi si riconoscevano facilmente da scritte o disegni espliciti sulla porta d’ingresso. Varcata la soglia, i clienti venivano accolti dal leno, il lebnone, tenutario del bordello. In attesa del proprio turno potevano mangiare e bere, mentre sceglievano tra le numerose specialità offerte e solitamente illustrate dagli affreschi che decoravano le pareti. Le ragazze erano giovanissime, ma raramente in buona salute: la loro carriera iniziava intorno ai 14 anni (l’età da marito era fissata a 12), ma poiché erano sfrutta fino allo stremo duravano ben poco e venivano presto rimpiazzate da merce più fresca. Generalmente si trattava di schiave o di libertae (schiave emancipate) che non avevano trovato di meglio da fare, oppure donne delle classi più povere, spesso vedove, che non altro modo per sbarcare il lunario. Spesso, proprio a causa dell’indigenz, erano gli stessi genitori ad avviare le figlie al mestiere. Visto il pessimo stato dei bordelli, i ricchi preferivano ricevere le prostitute a casa, così da garantirsi migliori condizioni igieniche. Simili alle moderne squillo, queste donne lavoravano a chiamata. Costavano ovviamente di più, ma assicuravano discrezione e prestazioni decisamente superiori. I prezzi variavano molto a secondo del rango della prostituta: la tariffa più bassa era di due assi, equivalenti a mezzo sesterzio, cioè quanto costava un bicchiere di vino in una taverna. Era la somma richiesta per il rapporto più sbrigativo, ovvero il sesso orale, o per le prestazioni delle prostitute dette da pergula, una tettoia sotto cui sedevano le meretrici troppo brutte o troppo vecchie per esercitare nei lupanari e che si offrivano ai più miserabili per somme irrisorie. Sempre Cicerone, volendo insinuare che la nobildonna Clodia fosse sul piano morale, pari a una prostituta delle più spregevoli, la definì quadrantaria, cioè da quattro soldi, come le prostitute più laide. Si consideri che, nel I secolo d.C., la paga di un soldato era più o meno di due sesterzi e mezzo al giorno, ma c’erano prostitute che, per una sola prestane, ne chiedevano più di cinque. Un caso a parte erano le prostitute d’alto bordo, che non ricevevano denaro ma gioielli, abiti preziosi e beni di varia natura. Non venivano pagate per singole prestazioni, ma il cliente le affittava per un certo periodo, che poteva durare anche un anno, durante il quale le mantenute si impegnavano a garantirgli l’esclusività dei rapporti sessuali. In caso di trasgressione, la prostituta perdeva interamene il suo compenso. Questo tipo di meretrici era considerato il più pericoloso, perché in grado di far perdere la testa agli uomini e di ridurre sul lastrico intere famiglie. Le prostitute avevano anche una dea protettrice, Venere Erycina, a cui rendevano omaggio in due particolari occasioni, il 23 aprile e il 25 ottobre di ogni anno. Quei due giorni erano forse i soli in cui la loro dignità era pari a quella di ogni altra donna dell’Urbe.
Pompei a luce rosse.
Scena sessuale da un murale pompeiano.
Tra il Sette e Ottocento, la
sorpresa destata dal rinvenimento delle rovine di Pompei fu enorme. Ma a
sconcertare gli archeologi fu soprattutto la scoperta di un mondo assai
distante dall’immagine della Roma tradizionale: un mondo ad altissima
gradazione erotica, almeno per gli standard dell’epoca. Così innumerevoli
reperti pompeiani furono occultati nel Gabinetto segreto del Museo Nazionale
di Napoli, per riemergere soltanto nel 2000, vietati ai minori di 14 anni.
Grande scalpore suscitarono i graffiti che decoravano i muri cittadini, e in
particolare quelli del bordello.
Fra i tanti, l’invito di una
prostituta a buon mercato che dichiara “sono tua per una monetina” il dubbio
di un giovane che chiede “il fiore di Venere mi sarà dato?” e il vanto di una
famosa meretrice, che racconta “qui stette Euplia con uomini vigorosi messi
fuori combattimento”, né manca il disappunto per una delusione sotto le
lenzuola: “Phileros è un eunuco”. A suggello, il sospiro di un passante che
quei graffiti doveva averli letti proprio tutti: “Mi meraviglio, o muro, che
tu non sia crollato sotto il peso di tante sciocchezze”.
|
Articolo in gran parte di Alessandra Colla,
pubblicato su Civiltà romana bimestrale di Storia della Roma grandiosa, altri
testi e immagini da Wikipedia.
Nessun commento:
Posta un commento