mercoledì 24 ottobre 2018

Guerre indiane - fuoco nella prateria


Fuoco nella prateria.
Le grandi praterie al di là del Mississippi erano, dalla notte dei tempi terra indiana. Quando l’uomo bianco vi si spinse, prima con i pionieri, poi con la ferrovia, la guerra divenne inevitabile: uno scontro destinato a sconvolgere l’America.

Oltre il corso del fiume Mississippi e le creste delle Montagne Rocciose si stendevano da secoli immense praterie. Pochi bianchi, ardimentosi o irresponsabili, si erano spinti fin laggiù. Era un territorio affascinante, ma difficile, popolato da immense mandrie di bisonti, branchi di coyote, orsi, grizzly e indiani spesso ostili. Il primo incontro tra gli europei e i pellerossa che abitavano il cuore del grande continente avviene all’inizio dell’Ottocento, quando i trapper, cacciatori delle foreste, si spingono in cerca di pellicce. Tutto il territorio che si trovano davanti è inesplorato e sconosciuto: all’Ovest solo la California e i territori vicini, colonizzati dagli spagnoli, sono abitati. Il governo degli Stati Uniti, che è riuscito a scacciare gli indiani dell’est allettandoli con la promessa di lasciar loro le praterie, incoraggia, nel medesimo tempo, nuovi immigrati a stanziarsi nell’ovest. Tra il 1840 e il 1860 circa quattro milioni di coloni si spostano verso le terre degli indiani. La stampa pubblica annunci pubblicitari in cui gli organizzatori di carovane danno appuntamento ai futuri coloni. Ogni primavera, dal Missouri partono colonne di carri, bestie e uomini diretti verso il West. Sono centinaia di migliaia le persone che si fanno attirare. Il 1843 è l’anno della grande migrazione. Incolonnati in una carovana chilometrica, i pionieri viaggiano per cinque mesi lungo una pista di 3200 km. È il “grande sentiero”, reso celebre anche da un film con John Wayne. Un sentiero irto di pericoli, tra cui i terribili attacchi dei nativi, desiderosi di difendere il loro territorio. Prima dell’avvento della ferrovia transcontinentale nel 1869, almeno 20mila sono i pionieri che restano uccisi durante il percorso.
Oltre le Montagne Rocciose, sono due le piste dirette a ovest, una a nord, verso l’Oregon, che attraversa i territori dei Sioux e degli Arapaho, e una a sud, verso la California, nel cuore del territorio cheyenne.

Questo dipinto di John Gast (1872 circa) intitolato Progresso Americano è una rappresentazione allegorica del Destino manifesto. Nella scena, una donna angelica (talvolta identificata come Columbia, una personificazione degli Stati Uniti d'America del XIX secolo) porta la luce della "civilizzazione" verso ovest assieme ai coloni statunitensi, che stendono i cavi del telegrafo durante il viaggio. Gli indiani d'America e gli animali selvatici scappano (o aprono la strada) nel buio del West "incivilizzato".
Destino manifesto (in ingleseManifest destiny) è una frase che esprime la convinzione che gli Stati Uniti d'Americaabbiano la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia. I sostenitori del destino manifesto credevano che l'espansione non fosse solo buona, ma che fosse anche ovvia ("manifesta") e inevitabile ("destino"). In origine frase ad effetto della politica del XIX secolodestino manifesto divenne un termine storico standard, spesso usato come sinonimo dell'espansione degli Stati Uniti d'America attraverso il Nord America e verso l'Oceano Pacifico.


Il destino manifesto. Lungo queste vie, gli europei occupano terre coltivabili, le recintano, costruiscono villaggi e sterminano il bestiame, in particolare i bisonti, che sono la più importante risorsa alimentare degli indiani delle pianure. A partire dal 1870, molti cacciatori cominciano a uccidere bisonti esclusivamente per la pelle. È uno sterminio. Migliaia di carcasse scuoiate imputridiscono al sole. Non solo, il bisonte viene colpito anche dalle malattie portate dal bestiame dei coloni. Intere tribù sono condannate alla fame e alla miseria dalla penetrazione costante e sempre più massiccia dei bianchi. Anche gli indiani meno ostili e aggressivi iniziano a manifestare odio nei confronti degli uomini che considerano non solo invasori, ma anche distruttori di un sistema di vita consolidato. Siamo di fronte a quello che il giornalista John L. O’Sullivan chiamò “destino manifesto”, cioè la convinzione che l’espansione degli Stati Uniti e del loro dominio non potesse avere un limite. Il governo degli Stati Uniti si muove indeciso tra tre opzioni: spingere la colonizzazione a un punto estremo (sterminando, di fatto, i nativi); concedere agli indiani delle riserve permanenti dove possano vivere seguendo i loro usi; offrire agli indiani denaro perché cedano i loro territori. Chi guida le carovane segue quest’ultima strada: concede denaro agli indiani per fare in modo che le piste risultino sicure e accessibili. Ma la tensione resta costante. Non tutte le tribù possono essere tacitate a suon di dollari. Nel 1851, a Fort Laramie, i rappresentanti di Sioux, Cheyenne e Arapaho trattano la pace con Washington. Gli Stati Uniti ottengono il diritto di transito nei territori indiani e il permesso di costruire strade e insediamenti militari. In cambio, il governo si impegna a proteggere i nativi dagli attacchi dei bianchi e a versare alle tribù, per 10 anni, 50mila dollari all’anno. Il trattato stabilisce anche i confini dei territori spettanti a ogni tribù firmataria e chiarisce che l’accordo non toglie agli indiani i diritti di possesso sui territori e i privilegi di caccia, pesca e transito.
Per una decina d’anni la pace regge. La Guerra di secessione è un periodo favorevole agli indiani. Sia i Nordisti che i Sudisti cercano di rabbonirli per averli dalla loro parte. Tuttavia, solo pochi guerrieri Cherokee e Creek parteciperanno al conflitto (uno di essi diviene anche generale confederato). Con gli eserciti impegnati, la tensione accumulata si avvia a esplodere. I coloni, che il trattato di Laramie ha penalizzato, non forniscono più cibo ai nativi, con la chiara intenzione di affamarli.

John L. O'Sullivan, ritratto nel 1874, fu un influente editorialista, ma oggi è generalmente ricordato solo per il suo uso della frase "Destino manifesto" per sostenere l'annessione del Texas e dell'Oregon.

Un forte in pace e in guerra.
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Fort Laramie fu fondato negli anni Trenta dell’Ottocento, durante il boom del commercio di pellicce. All’epoca, il forte era una stazione commerciale privata. Nel 1849, fu acquistato per 4000 dollari dall’esercito degli Stati Uniti, che lo usò per proteggere i coloni che si muovevano lungo le piste che portavano all’ovest. La guarnigione del forte era costituita da tre compagnie di cavalleria e una di fanteria. A queste truppe appartenevano gli uomini che il 19 agosto 1854 furono uccisi nel cosiddetto massacro di Grattan, uno dei primi episodi delle guerre indiane nelle praterie. I soldati avevano raggiunto un accampamento indiano per arrestare un nativo accusato di furto di bestiame. Ne scaturì una sparatoria durante la quale vennero uccisi 2 indiani (fra cui il capo Orso Conquistatore) e 31 militari (cioè tutto il reparto che aveva raggiunto il campo), compreso il tenente Grattan e il suo interprete. I militari che, qualche giorno dopo raggiunsero il luogo del massacro scoprirono che gli uccisi erano stati mutilati. Il corpo di Grattan fu identificato grazie all’orologio.
Fu la stampa a dare all’episodio il nome di massacro di Grattan, ignorando il fatto che furono i soldati a scatenare il fuoco, sparando nella schiena a Orso Conquistatore.

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Lapide dedicata al massacro di Grattan, 2003

 

Prospettori minerari nella regione del Pikes Peak, circa 1858.
Alla metà del XIX secolo una gran massa di coloni provenienti da est e dall'Europa iniziò a spostarsi dalla costa orientale degli Stati Uniti d'America alla volta dei territori della California e dell'Oregon a ovest, recentemente acquisiti dopo la fine della guerra messicano-statunitense, attratti dalla scoperta di vasti giacimenti di oro nella regione (corsa all'oro californiana); percorrendo le cosiddette "Oregon Trail" e "Santa Fe Trail", le carovane di coloni e cercatori penetrarono nella regione delle Grandi Pianure settentrionali, una zona parte degli Stati Uniti fin dall'acquisto della Louisiana del 1803 ma ancora scarsamente colonizzata e abitata in massima parte solo da varie tribù nomadi e seminomadi di nativi americani[1]. Il 17 settembre 1851 commissari incaricati del governo statunitense siglarono con i rappresentanti delle principali tribù dei nativi della regione il trattato di Fort Laramie: in cambio dell'accettazione di un sicuro passaggio per le carovane dirette a ovest e del permesso per gli Stati Uniti di costruire strade e presidi dell'esercito nella regione, i nativi ricevettero la promessa di un pagamento di un'indennità annuale di 50.000 dollari in beni per quindici anni (poi ridotti a dieci); il trattato definì poi i confini territoriali delle zone spettanti alle varie tribù, oltre a sancire la piena proprietà dei nativi sulle terre loro assegnate con i relativi diritti di caccia, pesca e transito[2][3].
Il trattato riconosceva alle tribù degli Cheyenne meridionali e degli Arapaho un vasto territorio compreso tra i contrafforti orientali delle Montagne Rocciose e i fiumi North Platte e Arkansas, zona comprendente la porzione orientale dell'odierno Stato del Colorado, all'epoca non ancora esistente[4]. La firma del trattato garantì una certa pace nella regione almeno fino al luglio del 1858, quando si aprì la cosiddetta "corsa all'oro del Pike's Peak"[5]: la scoperta di vasti giacimenti auriferi nelle Montagne Rocciose nei pressi del monte Pike's Peak spinse quasi 100.000 cercatori nella regione, allora parte del Territorio federale del Kansas[4], invadendo le terre spettanti ai nativi; i minatori iniziarono ben presto a costruire villaggi e insediamenti stabili, fondando il primo nucleo della città di Denver nel novembre del 1858[6]. Ai minatori si unirono poi i coloni che iniziarono a rivendicare i terreni della valle del fiume Platte, di importanza vitale per i nativi nomadi in quanto zona di pascolo di vaste mandrie di bisonti[6]; separandosi dal Kansas, nell'ottobre del 1859 le autorità locali istituirono il "Territorio di Jefferson", un'entità amministrativa extralegale e non riconosciuta dal governo statunitense[7].
Carta del Territorio di Jefferson nel 1859; con alcune modifiche ai confini, la regione divenne lo Stato del Colorado nel 1861.
Sul finire del 1860, le pressioni dei minatori e delle autorità locali spinsero il governo di Washington ad avviare dei negoziati per ridefinire i confini del territorio spettante agli Cheyenne meridionali e agli Arapaho[4]. Il 18 febbraio 1861 il Commissario agli Affari indiani Alfred Greenwood siglò con un gruppo di capi Cheyenne e Arapaho il trattato di Fort Wise: in cambio di un nuovo pagamento i nativi rinunciarono a quasi due terzi della loro precedente riserva[4], accettando di insediarsi in un'area più ristretta compresa tra i fiumi Arkansas e Big Sandy Creek; i capi intesero dalle trattative che la loro libertà di movimento e di caccia estiva nel precedente territorio non sarebbe stata limitata, una questione vitale visto che la nuova area di insediamento era scarsa di selvaggina e difficilmente coltivabile, ma questo punto del trattato rimase controverso[6]. I capi firmatari furono appena cinque per gli Cheyenne (Pentola Nera, Antilope Bianca, Orso Magro, Lupo Piccolo e Orso Alto) e altrettanti per gli Arapaho (Piccola Cornacchia, Bocca Grande, Bufera, Barba-in-Testa e Mano Sinistra)[8], una percentuale piuttosto misera sul totale dei capi delle due tribù che rendeva il trattato di dubbio valore legale e di difficile applicazione[9]. Il 28 febbraio seguente il governo statunitense istituì formalmente il Territorio del Colorado sulla zona prima occupata dal Territorio di https://it.wikipedia.org/wiki/Massacro_di_Sand_CreekJefferson[7



LA STRAGE DEL SAND CREEK. Nel 1862 i Sioux di Piccolo Corvo attaccano fattorie e fortini. Settecento bianchi vengono uccisi. Nel West dilaga la paura. Molti pionieri abbandonano case, terreni e bestiame. L’esercito federale si riorganizza per affrontare quello che si presenta come un nuovo fronte di guerra. Circa 2mila Sioux vengono fatti prigionieri. 300 di loro sono condanni a morte. Il presidente Lincoln ne perdona la maggior parte, ma 38 di essi, considerati colpevoli di rivolta contro il governo vengono impiccati nella cittadina di Mankato, in Minnesota, il 26 dicembre 1862. È la più grande esecuzione di massa della storia americana. La rivolta degli uomini di Piccolo Corvo è la prima di una serie. L’Ovest è in fiamme. Nel 1864 il maggiore John Chivington, alla guida di una truppa di miliziani volontari, attacca un villaggio indiano lungo il corso del fiume Sand Creek, in Colorado. Clivington è uno squilibrato, violento e paranoico, ma una sua frase, detta ai soldati prima della spedizione, è sintomatica di un clima diffuso: “Voglio che li uccidiate e li scalpiate tutti, grandi e piccoli. I pidocchi nascono dalle uova.”. Circa 150 Cheyenne vengono uccisi (Clivington, nel suo rapporto, parla addirittura di 600). Nell’Oregon invaso dai bianchi, gli indiani Modoc vedono scomparire le loro prede di caccia e cominciano a uccidere vacche e polli dei coloni. Si moltiplicano gli assalti ai convogli, i sabotaggi alla ferrovia e alle linee telegrafiche. I bianchi organizzano spedizioni punitive spietate. Nell’inverno del 1865, Grenville Dodge, ex ufficiale dell’esercito e ingegnere del telegrafo, organizza un rastrellamento nella valle del fiume Platte, in Nebraska. Dopo quindici giorni gli indiani sono spariti dal territorio. Dopo la fine della Guerra Civile, il governo cerca di chiudere la questione indiana. Il generale Sherman porta le sue truppe nelle praterie, deciso a costringere i Sioux ad accettare di ritirarsi nelle riserve, ma la resistenza dei capi Nuvola Rossa e Cavallo Pazzo, appoggiati da Cheyenne e Arapaho è superiore al previsto. Gli indiani bloccano le piste e attaccano i fortini. Si susseguono gli scontri in campo aperto. Nel 1868, governo e nativi firmano a Fort Laramie, un nuovo trattato, che riconosce agli indiani la sovranità sulle Black Hill (Colline Nere) e sulla valle del fiume Platte. Vengono anche distrutti alcuni forti. Nel 1874 però, la scoperta dell’oro sulle Black Hill, montagne sacre per i Sioux, porta una nuova ondata di pionieri. Si riaccendono gli scontri. Il governo si rimangia la parola e manda di nuovo l’esercito.


 Il massacro di Sand Creek in una rappresentazione artistica dello Cheyenne Lupo Ululante, uno degli scampati all'attacco.
Chivington, il boia del Sand Creek.
John Chivington era nato a Lebanon nell’Ohio, il 27 gennaio 1821. Nel 1844 fu ordinato pastore della chiesa metodista e cominciò il suo apostolato in Illinois e Missouri, stato che allora era terra di frontiera. Decisamente antischiavista, allo scoppio della Guerra di secessione divenne ufficiale con il grado di maggiore, distinguendosi nella battaglia di Glorieta Pass, vinta dai Confederati ma al costo di doversi quasi subito ritirare per mancanza di rifornimenti, tagliati dai nordisti.
Alla fine della guerra, avendo di mira una carica politica in Colorado, Chivington cavalcò il malcontento popolare contro gli indiani, che si concretizzò nella spedizione del 29 novembre 1864. I circa 700 uomini di Chivington attaccarono un villaggio Cheyenne e Arapaho nei pressi del fiume Sand Creek, uccidendo più di 150 indiani. Le vittime furono soprattutto donne e bambini, perché pochi guerrieri erano presenti nell’accampamento. Secondo vari testimoni, i corpi dei nativi uccisi furono scalpati e mutilati. Robert Bent, un proprietario di ranch obbligato a guidare Chivington lungo la strada verso il villaggio, stimò che i guerrieri indiani presenti al momento dell’attacco non furono più di 35. Lo stesso Bent descrisse così l’episodio: “una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini”. I soldati tagliarono le dita dei morti per prendere anelli e altri gioielli, e asportarono nasi e orecchie per farne trofei da esibire sui cappelli o sulle selle. Molti di questi trofei furono mostrati, nei giorni successivi, nei saloon. Fallito il tentativo di entrare in politica, Chivington fu prima direttore di un giornale e poi sceriffo di Denver, dove morì di cancro nel 1894. Fino all’ultimo si disse convinto che quella del Sand Creek fosse sta un’operazione ben riuscita.

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George Armstrong Custer

Toro Seduto
Toro Seduto (Sitting Bull in inglese - in lingua originale lakota Tatanka Yotanka Tatanka Iyotake) (Grand River1831 – Fort Yates15 dicembre 1890) è stato un condottiero nativo americano dei Sioux Hunkpapa. In realtà, il suo nome tradotto correttamente è "Bisonte Seduto".
Famoso capo indiano americano (chiamato anche Húŋkešni, cioè "Lento", a causa della sua abitudine di ben riflettere prima d'agire), è ricordato nella storia statunitense e dei nativi per aver mobilitato più di 3.500 guerrieri Sioux e Cheyenne nella famosa Battaglia di Little Big Horn, dove ottenne una schiacciante vittoria sul colonnello George Armstrong Custer del Settimo cavalleggeri, il 25 giugno 1876.

https://it.wikipedia.org/wiki/Toro_Seduto


LA FINE DI CUSTER. Nel 1876 tre colonne di cavalleria, guidate dal generale Crook, dal generale Terry e dal colonnello Gibbon, partono per porre fine alle ostilità. Tra gli ufficiali c’è anche il tenente colonnello Custer. Sopraffatto dalla superiorità numerica degli indiani e nell’impossibilità di ricevere rinforzi, Custer, che ha assalito in maniera improvvida un grande accampamento Sioux, va incontro a una irrimediabile sconfitta. È il 25 giugno 1876. Nella battaglia contro i guerrieri di Toro Seduto e Cavallo Pazzo, lungo la valle del torrente Little Bighorn, Custer perde la vita e, con lui, quasi 300 dei suoi uomini.
La sconfitta umiliante, resa ancor più drammatica dal fatto che sul campo di battaglia restano i corpi insepolti dei cavalleggeri uccisi, scuote l’opinione pubblica. I giornali vogliono la fine dei Sioux e dei loro capi. Il governo chiede risolutamente all’esercito di affrontare la situazione in maniera decisiva. Il generale Crook, con alcune migliaia di uomini ben armati, si mette alla caccia dei Sioux. Gli indiani, consci del fatto che le condizioni favorevoli presentatesi a Little Bighorn  non si riproporranno più, cominciano una lunga peregrinazione per le pianure. Toro Seduto elude l’inseguimento dell’esercito e, nel novembre 1876, si trasferisce in Canada, da dove continua a compiere scorrerie in America, cacciando bisonti e affrontando  piccole scaramucce con le giacche blu. Cavallo Pazzo, invece, resta sul campo di battaglia. Sulle su tracce, si mettono le truppe comandate dal generale Terry, forti anche di una massiccia artiglieria. Cavallo Pazzo cerca di giocare l’arma della sorpresa e della guerriglia, ma non ci sono più battaglie vittoriose per lui, perché la potenza di fuoco dei soldati a cavallo è nettamente superiore. Il 1° maggio 1877, Cavallo Pazzo e i suoi guerrieri si arrendono e accettano di ritirarsi in una riserva. Nonostante il coraggio e l’abilità in battaglia, i nativi devono riconoscere la sconfitta: archi e frecce, anche se micidiali (a Little Bighorn fecero più vittime dei fucili) non possono nulla contro i cannoni e le mitragliatrici.
Custer Massacre At Big Horn, Montana June 25 1876.jpg
Massacro di Custer a Big Horn, Montana (artista ignoto)
[1]La battaglia del Little Bighorn[2] fu uno scontro armato tra una forza combinata di Lakota (Sioux), Cheyenne e Arapaho e il 7º Cavalleria dell'esercito degli Stati Uniti d'America che ebbe luogo il 25 giugno 1876 vicino al torrente Little Bighorn, nel territorio orientale del Montana.[2] Si svolse quasi al termine della presidenza di Ulysses S. Grant.

La battaglia fu il più famoso incidente delle guerre indiane e costituì una schiacciante vittoria per i Lakota e i loro alleati. Delle dodici compagnie del 7º Reggimento di cavalleria US, cinque, comandate dal famoso tenente colonnello George Armstrong Custer, furono completamente annientate. Le altre rimasero assediate per quasi due giorni e subirono perdite sostanziose.

Cavallo Pazzo


La visione di Wovoka.
Wovoka, conosciuto anche con il nome di Jack Wilson, fu il leader del movimento della Ghost Dance, la Danza degli Spiriti, che agitò gli indiani delle pianure alla fine dell’Ottocento. Nato in Nevada nel 1856, Wovoka, una parola in lingua Paiute che significa taglialegna, era figlio di Numu-tibo, a sua volta fondatore, nel 1870, di un primo movimento della “Danza degli Spiriti”. Per molti anni Wovoka lavorò in un ranch, dove ricevette il nome di Jack Wilson e un’educazione cristiana. Il suo movimento spirituale mescolava infatti il cristianesimo con la religione tradizionale indiana. Si diceva fosse anche in grado di controllare gli agenti atmosferici, per esempio di far piovere in caso di siccità. Il 1ùà gennaio 1889, durante un’eclissi di sole, ebbe la visione da cui nacque il movimento. Wovoka vide le praterie ripopolate di animali, vide gli indiani morti ritornare in vita e gli invasori bianchi scomparire. Tutto ciò si sarebbe avverato se gli indiani avessero praticato la Danza degli Spiriti, durante riti della durata di cinque giorni. Molti nativi, specialmente nelle pianure, si avvicinarono al movimento, che i bianchi videro come l’inizio di un nuova ribellione e stroncarono con gli ultimi massacri, tra cui quello di Wounded Knee, il movimento non si spense, anche se destò sempre minor interesse. Wovoka morì il 20 settembre 1932.

CAPO GIUSEPPE E I NASI FORATI. Gli ultimi fuochi della guerra nelle pianure si scatenano in Oregon, dove Capo Giuseppe alla guida dei Nasi Forati, tiene in scacco l’esercito per mesi, guidando la sua gente in una marcia di migliaia di miglia fino in Montana. L’intenzione di Capo Giuseppe è quella di varcare il confine e riparare in Canada, come ha fatto Toro Seduto, ma nell’autunno del 1877 viene raggiunto dall’esercito e deve arrendersi. Tutti i prigionieri, caricati su un treno, sono trasferiti in Kansas. L’ultimo grande capo Sioux in libertà rimane Toro Seduto, ma anche lui, costretto dalla fame e dalla malattia, torna negli Stati Uniti, dove si arrende nel 1881. La guerra nelle pianure è conclusa. I grandi guerrieri diventano attrazioni per i giornalisti e i curiosi, si trasformano in star di spettacoli itineranti, come Toro Seduto, dove interpreta se stesso. È il triste destino di un popolo, costretto a fare l’imitazione di se stesso o a chiudersi nelle riserve. Si stima che, in tutte le battaglie che videro scontrarsi pellerossa e giacche azzurre, siano morti circa 4mila pellerossa e 7mila bianchi, fra militari e civili. Il genocidio indiano non è causato dalla guerra, ma dal progressivo impoverimento, dalla fame e dalle malattie, spesso portate ad arte dai bianchi. Le riserve, che originariamente erano state pensate come territori in cui gli indiani potessero vivere in maniera autonoma, si trasformarono, di fatto, in grandi campi di prigionia, con i nativi che devono dipendere per il loro sostentamento dagli aiuti del governo. È la fine delle guerre contro gli indiani delle praterie. L’ultimo baluardo dei nativi sopravvive al sudovest con Geronimo, il capo Apache, che con la sua guerriglia tiene gli yankee con il fiato sospeso fino al 1886, quando è costretto ad arrendersi al generale Nelson Miles.
                                                                    Capo Giuseppe

IL MESSIA INDIANO. La crisi spirituale e sociale, come spesso accade, porta alla ribalta santoni e profeti. Il più famoso profeta indiano dell’epoca è un certo Wovoka (vedi riquadro sopra), chenel 1890 annuncia che il Grande Spirito sta per tornare, portando con sé tutta la selvaggina scomparsa e gli indiani morti. Tra i nativi delle prateria la predicazione di Wovoka ha un seguito enorme. Gli indiani ascoltano la sua predicazione e assistono al rito sacro da lui inventato la Ghsot Dance, la danza degli spiriti,. Wovoka, dichiara che solo la danza può aprire la strada al ritorno delle antiche tradizioni. I Sioux accolgono la sua predicazione e il culto delle camicie sacre, indumenti benedetti durante un particolare rito propiziatorio che, secondo il santone, avrebbero protetto i guerrieri dalle pallottole. Ma proprio nel 1890 il movimento indiano venne represso del tutto. Il 15 dicembre Toro Seduto viene ucciso con suo figlio Piede di Corvo, perché si teme che voglia scatenare una rivolta assieme ai seguaci della Danza degli Spiriti. La morte del grande capo suscita una sommossa sedata nel sangue: il 29 dicembre, quattro squadroni di cavalleria massacrano 300 indiani (uomini, donne e bambini) in un accampamento sulle rive del torrente Wounded Knee. Un colpo di fucile, partito forse per errore, scatena il fuoco delle mitragliatrici puntate sulle tende. Gli ufficiali responsabili della strage furono ricompensati con medaglie al valore militare.

Articolo in gran parte di Stefano Bandera pubblicato su Conoscere la Storia n. 48 altri testi e articolo da Wikipedia  

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