mercoledì 27 maggio 2020

Dove nacque la parità dei sessi.

Dove nacque la parità dei sessi.

Operaie, contadine, infermiere, tramviere: costrette a sostituire gli uomini al fronte, le donne, durante la Grande Guerra, hanno scoperto ruoli e responsabilità, impegni e soddisfazioni prima sconosciuti. Così hanno preso coscienza della parità di diritti che avrebbe dato presto i suoi frutti.

 Le donne nella Grande Guerra - Cultura e Spettacoli - Trentino

I grandi conflitti armati sono tragedie ma, paradossalmente, anche stimoli di progresso: la Rivoluzione Francese e l’Impero Napoleonico hanno insanguinato l’Europa per quasi tre decenni, eppure hanno permesso di passare dal mondo dei privilegi settecenteschi al mondo dei diritti ottocentesco. Il 1914-15, a sua volta, ha transitato la società dal mondo delle élites borghesi e aristocratiche al mondo delle masse del XX. Milioni di uomini mobilitati nel primo conflitto mondiale  (5 milioni l’Italia, 7 la Francia, 8 la Germania) hanno infatti creato un evento epocale che, per la prima volta  nella storia, ha coinvolto tutta la popolazione dei paesi in guerra, qualunque casa, villa o catapecchia, dal villaggio più lontano della Russia zarista all’ultimo paese di pescatore della Sicilia mediterranea, ha al fronte qualcuno (un figlio, un padre, un parente, un amico). La guerra entra nella coscienza collettiva, tutti vogliono sapere come, dove, perché si combatte: l’informazione, prima riservata a pochi, si diffonde a macchia d’olio, le tirature dei giornali e dei periodi illustrati raggiungono numeri inimmaginabili qualche anno prima. Con la Grande Guerra nasce l’opinione pubblica: la società della partecipazione così come siamo stati abituati a conoscerla oggi. Sulla strada della modernizzazione c’è tuttavia un altro elemento caratterizzante, figlio indiretto delle trincee del Fronte occidentale e dell’Isonzo: l’emancipazione della donna. Movimento ispirati dalla battaglia per la parità di genere esistono sin dalla battaglia per la parità di genere esistono sin dalla seconda metà del XIX secolo, soprattutto nei Paesi del Nord Europa e negli Stati Uniti: sono i cosiddetti movimenti delle suffragette, termine sottilmente denigratorio con il quale si indicano i gruppi che si batto per il diritto delle donne al suffragio (perché non chiamarle siffragiste?). Si trattava tuttavia di movimenti elitari, che coinvolgevano donne delle classi alte, ai quali restavano fondamentalmente estranee le figlie del popolo, alle prese con il problema pratico di mettere in tavola la minestra o la polenta tutti i giorni.

 

Il reggiseno.

Il 12 febbraio 1914 Mary Phelps Jacob, una ricca ereditiera americana appena ventenne, pronipote del celebre inventore del battello a vapore Robert Fulton, richiede all’Ufficio brevetti di New York il riconoscimento di una sua curiosa invenzione, brevetto che gli venne concesso nel novembre successivo con il n. 1.115.674: si trattava di un paio di piccoli triangoli di stoffa uniti tra loro e sorretti da bretelle, in modo da fornire un adeguato sostegno al seno femminile. Apparentemente si tratta di un capo di abbigliamento vagamente  erotico per un pubblico femminile delle classi agiate: dal punto di vista pratico, si rivela invece un’invenzione fondamentale perché introduce una vistosa miglioria fisica e psichica nelle donne, sino ad allora costrette alla tortura delle stecche di balena dei corsetti. La Grande Guerra fa il resto: la mobilitazione della manodopera femminile innesca un processo di semplificazione del vestiario che trasforma l’intuizione di Mary Phelps Jacob non solo in un simbolo di emancipazione femminile ma anche in elemento di vestiario irrinunciabile, riprodotto in milioni di esemplari in tutto il mondo. Il nome iniziale, reggipetto, viene trasformato in reggiseno, le bretelle perfezionate, le fogge moltiplicate. Come afferma l’inventrice con tono profetico, “non ritengo che il reggiseno cambierà il mondo come il battello a vapore del mio antenato, ma quasi”. Certamente, esso è un’eredità che 1914-18 lascia alle posterità del mondo occidentale.

 

 La dedizione delle donne nella Grande Guerra 1915-1918

Donne al posto degli uomini. La situazione cambiò bruscamente nel 1914-18: la mobilitazione al fronte di milioni di maschi per un periodo ininterrotto di 4 anni determina infatti una frattura nell’ordine sociale e familiare. Per le donne rimaste a casa non ci sono solo lutto e ansia: la nuova realtà, l’assenza degli uomini significa anche assumere responsabilità in ambito familiare prima riservate ai mariti e ai padri, significa entrare nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini sotto le armi, significa uscire dalla gabbia (come affermano molte testimoni) e vedersi dischiudere nuovi orizzonti, inquietanti e stimolanti al tempo stesso. Il primo mutamento dell’ordine si registra in casa: accanto alla tradizionale educazione dei figli, le donne devono occuparsi di pratiche burocratiche, rapporti con gli uffici pubblici, acquisti e vendita di prodotti agricoli e di bestiame, contrattazione dei prezzi, controversie legali, rapporto con le banche. In alcuni casi (soprattutto nelle piccole aziende agricole) si tratta di decidere se ricorrere ai lavorati salariati, assumendo la responsabilità dei relativi costi; in altri di avviare lavori costosi di restauro (un tetto, un muro di recinzione, un’intonacatura); in generale, si tratta di far quadrare i bilanci con entrate inevitabilmente ridotte. Non a caso, nella corrispondenza privata si intrecciano affetti e affari, come scrive la contadina piemontese Angela Gottero, classe 1894, al marito Luigi nel gennaio 1916: “oggi ho ricevuto la tua cara lettera e mi ha fatto piacere nel sentire che hai speranza di venire in licenza: io desidero tanto quel giorno per poterti abbracciare e per aggiustare gli affari di interesse”. Il mutamento più vistoso si ha però nel mondo della produzione agricola e, soprattutto, industriale. Secondo calcoli riportati da Antonio Gibelli ne “La grande guerra degli Italiani”: “Nelle campagne restano attivi solo 2,2 milioni di uomini sopra i 18 anni, contro un totale di 6,2 milioni di donne”. Ne deriva l’occupazione femminile in mansioni agricole dalle quali erano solitamente esentate: da quelle più pesanti (ammucchiare i covoni, scaricare il grano, tagliare la legna) a quelle tecnologiche come la manovra delle macchine agricole. Altrettanto significativo l’ingresso nell’ambito della fabbrica: le esigenze belliche richiedono uno sforzo produttivo ingente, le donne vengono impiegate nelle officine metalmeccaniche che realizzano fucili, mitragliatrici, esplosivi, proiettili, cannoni di piccolo e medio calibro, alcune acquisiscono livelli alti di specializzazione (per esempio, quelle addette al montaggio di macchine di precisione per motori di aerei). Personale femminile compare negli uffici postali, nelle banche, nelle assicurazioni, sui tram e sui treni. Donne vengono coinvolte nell’estrazione dei minerali di ferro destinati all’industria siderurgica. Il Corriere della Sera titola “Donne al posto degli uomini” una pagina nella quale compaiono fotografie di donne italiane o straniere in mansioni come spazzine, tramviere, barbiere.

Il fenomeno, così rapido e dirompente, suscita curiosità e, insieme, sospetto: se Ugo Ojetti osserva che “per tutti gli interstizi una fiumana di donne è penetrata, gorgogliando e frusciando, nei luoghi degli uomini (i campi, le fabbriche … ), e le più di esse lavorano e sono preziose e s’ha bisogno di loro”, altri esprimono riserve e ironie, come il contadino emiliano mobilitato sull’Isonzo che, lamentando la lentezza della moglie nel rispondere alle lettere, scrive “adesso che fate tutto voialtre e niente noi uomini non avete tempo da perdere in tanti scritti”.

 

Il suffragio femminile.

Le suffragette britanniche Annie Kenney e Christabel Pankhurst manifestano a favore del suffragio femminile (1908 circa).

Nell’immediato dopoguerra la celebrazione “dell’indispensabile contributo femminile al conflitto”, da una parte accentua la campagna contro i rischi per la moralità pubblica, dall’altra, al contrario, apre notevoli spiragli al riconoscimento del movimento di emancipazione femminile, nel campo dei diritti civili, del diritto di istruzione, di accesso alle professioni, di emancipazione della tutela giuridica, di accesso al voto. In Germania nel 1918 viene concesso il suffragio femminile, in Inghilterra (pur con limitazione dei 30 anni di età), nel 1919, in Francia nel 1925 limitatamente alle elezioni municipali, in Italia la legge Sacchi nel 1919, comunemente definita “premio di smobilitazione”, decreta il riconoscimento della parità giuridica della donna con l’abolizione dell’autorizzazione maritale per tutti gli atti di proprietà all’esercizio delle professioni e degli impieghi pubblici, con eccezioni (peraltro molto restrittive). Solo nel 1925 Mussolini, prima di eliminare del tutto e per tutti il diritto di voto, concede il diritto di voto, concede il suffragio amministrativo alle donne “decorate della medaglia o della croce di merito di guerra” o che siano “decorate di medaglia al valor civile, o della medaglia di benemerite della sanità pubblica” o madri e vedove di cadute in guerra o donne che abbiano la patria potestà o licenze o diplomi e “paghino annuo contributo al Comune” (Laura Derossi, “1915 il voto alle donne”)

 

Si rompono i ceppi della tradizione. Il rapporto tra lavoro ed emancipazione è evidente: lavorare significa uscire dall’ambito della casa, uscire dall’ombra maritale o paterna, acquisire consapevolezza di sé, stabilire una nuova rete di rapporti sociali, avere la disponibilità di un salario con il conseguente senso di indipendenza, assumere comportamenti che prima erano considerati prerogative maschili (dal bere alcolici all’uscire di sera, al frequentare luoghi di divertimento). E, soprattutto, decidere il proprio destino, da sempre nelle mani degli uomini. In molti casi (soprattutto per le donne giovani ancora senza famiglia propria) lavorare significa spostarsi dalla campagna alla città, scoprendo nuovi orizzonti geografici e sociali, oppure trasferirsi da una fabbrica all’altra cambiando luogo e mansioni, in una dimensione di fluidità in netto contrasto con la tradizione di stabilità alla quale le classi popolari sono state educate. Questo mutamento nel rapporto tra spazio domestico e spazio esterno rappresenta un sensibile rimescolamento della vita sociale. Cambia persino il modo di vestire: se ancora all’inizio del Novecento le donne hanno i vestiti lunghi sino a terra, nel momento in cui esse entrano nel mondo del lavoro hanno bisogno di indumenti più pratici e funzionali e le gonne si accorciano sino al ginocchio. Allo stesso modo scompaiono i corsetti, i busti che stringevano il petto rendendo impacciati i movimenti, e vengono sostituiti dai più agili reggiseni. La donna del 1914-18 è una donna che si libera dai limiti augusti del ruolo femminile tradizionale e si avvia sulla strada della modernizzazione. Non a caso in molte testimonianze femminili sulla Grande Guerra si parla di “senso di libertà”, di andare a lavorare “quasi come un divertimento”, di “cose che non avremmo mai potuto fare prima”, mentre in quelle maschili la memoria è interamente collegata alla sofferenza e alla paura del fronte.

 

La lotta per la parità dei diritti. Il fenomeno emancipatorio, ovviamente, non va esagerato nelle sue implicazioni. Ogni momento di rottura comporta anche reazioni in contro tendenza. C’è chi, negli anni di guerra, lamenta l’allentarsi della moralità pubblica, chi accusa la manodopera femminile di scarsa professionalità e capacità di lavoro, chi è insofferente per l’irrequietezza esistenziale e denuncia una preoccupante indisciplina, chi cerca di imporre il “comando dei vecchi” per lasciare inalterate le gerarchie di genere. Alcuni giornali di ispirazione più conservatrice richiedono maggiore severità e vigilanza da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, la quale a sua volta opera sulla base di una legislazione che limita fortemente l’agibilità. Il tutto è comunque conferma di come i modi di vivere stiano cambiando. “La guerra cominciava a incrinare modelli di comportamento, relazioni tra generi e classi di età, nonché tra classi sociali, mettendo in discussione gerarchie, distinzioni di ruoli e autorità ritenute immutabili: un effetto che – contenuto per il momento dalla legislazione repressiva – sarebbe emerso più ampiamente nel dopoguerra, contribuendo a conferire alle lotte sociali un’impronta di contestazione radicale dell’ordine esistente”, afferma Gibelli nel suo libro. Sostenere che la donna si è emancipata durante il conflitto è improprio, è però vero che il movimento di emancipazione femminile ha trovato nelle condizioni eccezionali del 1914-18 le sue radici e la sua spinta propulsiva che avrebbe presto dato i suoi frutti. Non a caso in alcuni Paesi europei il diritto di voto viene concesso alle donne proprio dopo la fine della Prima guerra mondiale.

 

Articolo di Gianni Oliva storica e giornalista, autori di libri pubblicato su BBC History n. 91 Sprea editori, altri testi e immagini


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