Lettere dal fronte.
Anche i soldati romani
usavano scrivere lettere ai loro familiari. Che fossero stanziati in una
lontana provincia stesero viaggiando non dimenticano i parenti e spesso
invocavano gli dei per loro.
Legionario del I secolo. Molto ben corazzato, è armato di gladio e pugio. Indossa una lorica hamatacon pteruges e protezioni delle braccia tipiche della lorica manica, un elmo tipo Weisenau (imperiale gallico), cingulum, schinieri e caligae, e si protegge con uno scutumrettangolare.
A
molti
di noi è capitato di trovare per caso, in soffitta o in un cassetto, una
lettera spedita dal nonno o dal bisnonno dalla Russia, dal Grappa o dal Carso,
durante una delle due guerre mondiali. Vi si leggono molte cose: la
preoccupazione per i cari lontani, il timore per la battaglia incombente,
l’orgoglio di combattere per la patria, insieme a sprazzi di vita quotidiana:
tutte testimonianze preziose di quel periodo storico. Lettere simili, scritte
su papiri, cocci di ceramica (ostraka) o tavolette di legno, venivano spedite
alle famiglie anche dai legionari romani stanziati nelle parti più remote dell’impero.
Non sono molte diverse di quelle dei nostri nonni: anche loro si preoccupavano
per la salute di familiari ed amici, pregavano per loro, si scambiavano notizie
sulla vita militare e organizzavano spedizioni di armi, vestiti o cibo.
Inoltre, queste lettere ci permettono di conoscere ciò che la letteratura, i
grandi monumenti, gli editti e le memorie degli imperatori non potranno mai
rivelarci le emozioni, i sentimenti, le usanze, la vita quotidiana di persone
qualunque che hanno camminato sui sentieri della Storia. Una testimonianza
troppo spesso chiusa in archivi e biblioteche, che merita invece il giusto
risalto e di cui mostriamo di seguito alcuni esempi.
Parole di Roma.
Ostrakon.
Sentendo la parola ostrakon,
vengono subito in mente Atene, il V secolo a.C. e il sistema adottato per
liberarsi delle persone indesiderate: l’ostracismo. La pratica consisteva
nello scrivere su un coccio (ostrakon, in greco, significa conchiglia o
guscio, ma indica anche i frammenti di ceramica che avevano una forma simile
a quella delle conchiglie) il nome di chi si voleva condannare all’esilio e
contare poi i “voti” del malcapitato.
Successivamente, soprattutto nelle
provincie orientali, cocci di varie dimensioni, colori e fattezze furono
utilizzati per scrivere missive, conti, contratti e persino esercizi di
scolari. Si trattava del mezzo di comunicazione più economico in assoluto,
spesso a costo zero, trattandosi di materiale riutilizzato e, per questo
motivo, diffusissimo. Al contrario delle tavolette, che pure erano diffuse,
gli ostroka sono di materiale durevole, il che ha permesso agli archeologi di
ritrovarne a migliaia. Insieme ai papiri, costituiscono fonti documentarie
preziose per ricostruire la vita quotidiana di quelle provincie durante
l’epoca romana.
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trireme romana
SU UNA NAVE PER LA SIRIA. “Claudio
Terenziano saluta Claudio Tiberiano, suo maestro e padre. Prima di tutto, spero
davvero che tu sia in forma, di buon umore e in buona salute, come tutti noi.
Ogni volta che riceve tue notizie, mi sento felice. Sappi, padre, che ho
ricevuto il mantello, la tunica e le camicie di Nepoziano. Sappi anche che mi
sto imbarcando per la Siri, nella flotta Augusta di Alessandria.” “Ti chiedo e
ti prego, padre – dopo gli dei, non ho nessuno che mi sia più caro di te – di
mandarmi, tramite Valerio, un gladio, un’ascia, due punte di lancia della
migliore qualità, un mantello con cappuccio e una tunica con le maniche, da
mettere con le braghe perché ho usato la tunica che già avevo prima che mi
unissi all’esercito, dove mi hanno dato dei calzoni nuovi. Se hai intenzione di
mandarmi quanto detto, marca ogni cosa con il mio nome e indica bene come
indirizzo: “sulla liburna di Nettuno”. “Sappi che a casa, grazie agli dei,
tutto sta andando bene. Ti ho mandato due anfore di olive, una verde e una
nera. Mia madre ti saluta, mio padre Tolomeo e tutti i miei fratelli. Salutami
Afrodisia e Isitas e lo scriba Sereno, i vostri colleghi Marcello e Terenzio, e
tutti i tuoi fratelli d’arme. Ti auguro buona fortuna per molti anni con tutti
i tuoi. Arrivederci.”. Siamo ad Alessandria, nella provincia
romana d’Egitto, tra il 112 e il 115 d.C., e Claudio Terenziano scrive “al suo
maestro e padre”, Claudio Tiberiano, speculator (esploratore dell’esercito)
residente a Nicopolis, per avvisarlo che si è imbarcato nella Classis Augusta
Alexandrina, la flotta di stanza ad Alessandria, ed è in procinto di partire
per la Siria. Si notino il tono affettuoso della lettera, quel ricordare al
destinatario che nessuno gli è più caro di lui, il chiedere notizie sulla sua
salute prima di inoltrare richieste sulla sua salute prima di inoltrare
richieste. Per essere certo che il materiale non venga consegnato ad altri. Claudio
Terenziano specifica di contrassegnare tutto con il suo nome, e di indicare la
nave su cui si è imbarcato: liburna Neptuni. Poiché la lettera fa parte
dell’archivio di Claudio Tiberiano, rinvenuto
Karankis in Egitto tra il 1924 e il 1935, conosciamo anche il seguito
della vicenda: le merci che Claudio Terenziano ha chiesto sono arrivate a
destinazione, il legionario spera di essere trasferito in una coorte, ma sa di
non avere molte speranze. Sappiamo poi che sarà impegnato nella Seconda guerra
giudaica, nel 115 d.C. La Storia, quindi, quella con la S maiuscola, irrompe
prepotentemente nella vita del nostro soldato.
NESSUNA RISPOSTA. “Aurelio
Polione, soldato della Legio II Adiutrix, a Heron suo fratello e Ploutou sua
sorella, e a sua madre, Seinouphis, tanti cari saluti. Prego che siate in buona
salute giorno e notte, e reco sempre omaggio a tutti gli dei per vostro conto.
Non cesserò di scrivervi, anche se voi non pensate a me. Tuttavia, faccio la
mia parte scrivendovi sempre, e non smetto di avervi nella mente e nel cuore.
Ma voi non mi scrivete non mi scrivete mai sulla vostra salute, su come state”.
“Sono preoccupato per voi, perché sebbene abbiate ricevuto lettere da me, non
mi avete mai scritto in modo che io possa sapere come state. Mentre ero via, in
Pannonia, vi ho inviato sei lettere, ma voi mi trattate come uno straniero.
Otterrò un permesso dal comandante e verrò da voi, così che tu, Heron, possa
sapere che sono tuo fratello. non vi ho chiesto nulla per l’esercito, ma
capisco che vi ho deluso, perché anche se vi scrivo, nessuno di vuoi risponde
né ha considerazione di me. Scrivimi anche tu, scrivimi in risposta, scrivimi.
O chiunque di voi. Saluta mio padre Afrodisio e Atesio mio zio, sua figlia e
suo marito, Orsinouphis e figli della sorella sua madre, Xenophon e Ouenophis,
anche conosciuta come Protas. Da consegnare ad Acutoo Leon, veterano, da parte
di Aurelio Polione, soldato della Legio II Adiutrix, affinché possa mandarla a
casa.”. Questa, del II-III secolo d.C., è forse una delle
lettere più struggenti inviate da un legionario alla sua famiglia lontana.
Aurelio Polione, arruolato nella Legio II Adiutrix, è di stanza in Pannonia,
molto lontano da quell’Egitto dove, presumibilmente, si trovano i suoi cari. Si
percepisce l’angoscia del distacco, il tormento d’ignorare il motivo che spinte
i familiare a un lungo silenzio: ha scritto loro spesso, senza mai ottenere
risposta. Si sente abbandonato, pensa di averli delusi e assicura che farà di
tutto per andarli a trovare: sentimenti che potrebbero appartenere a un
qualsiasi fante della Prima Guerra mondiale, a un soldato di Napoleone o a un
cavaliere in partenza alle Crociate. Non abbiamo altre notizie su questa
vicenda: non sapremo mai (salvo nuovi ritrovamenti) se i familiari di Polione
hanno risposto, né il motivo di un silenzio così inquietante. Le lettere non
sono mai state recapitate? C’erano dissapori? Qualche calamità ha colpito la
famiglia? Solo un nuovo ritrovamento potrà svelare questo mistero.
Festa di compleanno al Castrum.
Tavoletta 343: lettera di Octavius a Candidus relativa a una fornitura di grano, pelli e tendini
Il forte di Vindolanda, in
Britannia, ci ha tramandato preziosissime testimonianze di vita militare, tra
cui celebri tavolette su cui possiamo leggere ordini, notizie, corrispondenza.
Una di queste è tanto interessante quanto rara. A scrivere non è un
legionario ma una donna: Claudia Severa, moglie di Aelius Brocchis,
comandante del forte di Briga. Claudia scrive alla sua amica carissima,
Sulpicia Lepedina, moglie di Ceriale, per un’occasione decisamente speciale:
il compleanno.
“Claudia Severa saluta la sua cara Lepedina. Ti invito, mia cara
sorella, il terzo giorno prima delle idi di settembre, a venire a festeggiare
il mio compleanno. Per favore, fammi il piacere di venire. Per me quella
giornata sarà resa ancora più bella dalla tua presenza, se verrai. Saluta tuo
marito Cerialie. Mio marito Aelius e mio figli ti salutano. Conto su di te,
mia cara sorella,. Stammi bene, anima mia, mio cuore, e starò bene anch’io
mia cara. Arrivederci.
A Sulpicia Lepedina, moglie di Ceriale, da Severa”.
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UN NUOVO NOME PER ARPIONE. “Arpione
ad Epimaco, signore e padre, molti saluti. Prima di tutto prego per te, per la
tua saluta, perché tutto possa essere sempre forte e baciato dalla fortuna,
insieme con mia sorella, sua figlia e mio fratello. Ringrazio Serpide, perché mentre
ero in pericolo in mare, egli mi salvò immediatamente. Quando sono arrivato a
Miseno ho ricevuto tre pezzi d’oro dall’imperatore come spese di viaggio. Va tutto
bene, per me. Quindi ti chiedo, mio signore e mio padre, di scrivermi una
lettera, riguardo prima di tutto la tua salute e in secondo luogo quella di mio
fratello e mia sorella. Ti ho mandato il mio ritratto tramite Euctemon. Il mio
nome, ora, è Antonio Massimo”.
Un altro marinaio del
II secolo, Apione, imbarcatosi sempre ad Alessandria, ma stavolta per
raggiungere la Classis Misenensis, la più importante flotta dell’impero,
ancorata a Capo Miseno, in Campania. Questa lettera ci conferma l’esistenza di
una pratica in uso all’epoca, quella del viaticum: un risarcimento di 3 pezzi d’oro
pagati dallo Stato per le spese della traversata. Un viaggio che non deve
essere stato affatto tranquillo, considerando che Apione ringrazia Serapide (divinità
diffusissima nell’Impero romano) per averlo salvato da un grave pericolo in
mare. Come gli altri legionari, anche lui si sincera della salute del padre,
del fratello e della sorella.
Tuttavia, la cosa che
più di tette rende questa lettera preziosa è l’ultima riga: “il mio nome ora è
Antonio Massimo”. Non un nome qualunque, ma quello di un cittadino romano. La breve
missiva ci attesta, per voce di uno dei
protagonisti della storia, ciò che conoscevamo solo dalle fonti ufficiali, ovvero
che ai legionari peregrini veniva concessa la cittadinanza romana. Lo sapevamo
già, ma detto da Antonio Massimo in persona ha tutto un altro sapore.
Articolo in gran parte
di Elisa Filomena Croce pubblicato su Civiltà Romana n. 3 Sprea editori. Altri testi
e immagini da Wiwipedia.
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