Cesare contro
Vercingetorige.
Il duello che cambiò il
mondo.
Da una sfida lunga ed
estenuante, che oppose due fra i più grandi capi militari della loro epoca,
uscì vincitore il futuro dittatore di Roma che con la sottomissione della
Gallia si preparò a conquistare l’Italia.
Vercingetorige (latino: Vercingetorix, "Il grandissimo re dei guerrieri"; 80 a.C.[1] – Roma, 26 settembre 46 a.C.) è stato un principe e condottiero gallo.
Figlio del nobile Celtillo, fu re degli Arverni, influente popolo gallico insediato nell'attuale regione dell'Alvernia. Nel suo disegno di respingere l'invasione romana, riuscì a coalizzare la maggioranza dei popoli gallici e dei loro comandanti. Fu uno dei primi capi in grado di federare una parte importante dei popoli gallici, vincendo le tradizionali divisioni storiche. Di fronte ad uno dei più grandi strateghi di sempre, mise in mostra i suoi eccellenti talenti militari. Nel 52 a.C. fu sconfitto nell'assedio di Alesia. Consegnatosi, fu imprigionato a Roma per 5 anni. Nel 46 a.C. fu trascinato in catene per ornare la celebrazione del trionfo di Cesare. Immediatamente dopo fu mandato a morte nel carcere Mamertino.
Nei secoli XVIII e XIX la sua figura, similmente a quella di Ambiorige in Belgio, conobbe in Francia una riscoperta in chiave nazionalista. Con Napoleone III,[2] la sua figura di rappresentante della civiltà gallo-romana fu largamente messa in rilievo. In seguito, nel clima revanscista della rivalità franco-tedesca, ha incarnato la figura mitica di eroe nazionale per una parte importante della storiografia francese del XIX secolo. Negli anni dal 1870 al 1950, l'insegnamento della storia per generazioni di studenti lo presenterà come il primo capo dei francesi.
“Similmente, Vercingetorige, figlio
di Celtillo, arverno, giovane di grande influenza, il cui padre era stato
l’uomo più autorevole della Gallia e, aspirando al regno, era stato giustiziato con pubblico decreto, convoca
i suoi e facilmente li infiamma. Aggiunge alla massima diligenza anche la
massima severità del comando, e costringe i dubbiosi a seguirlo”.
Con queste parole, tratte dal De Bello Gallico, Cesare descrive il suo
avversario: Vercingetorige, principe degli Arverni. Un uomo fiero e risoluto,
grazie alla figura (tramandata ai posteri attraverso la prosa asciutta del
resoconto di guerra di Cesare) la statura del geniale condottiero romano che lo
sconfisse rifulge in tutto il suo splendore. Alla metà del I secolo a.C. l’esercito
di Roma, guidato dall’ambizioso Gaio Giulio Cesare, era impegnato nella
conquista della Gallia Transalpina. Nativo della Suburra, benché di origini
patrizie, il condottiero si era fatto largo con l’astuzia e il denaro fino a
stipulare, nel 61 a.C. , un accordo con altri due politici in ascesa, Pompeo
Magno e Marco Licinio Crasso. Era il famigerato triumvirato, che non aveva le
caratteristiche della magistratura classica, ma consegnava, di fatto, a tre
privati cittadini la gestione dello Stato, a riprova dell’agonia in cui versava
l’antica, e un tempo gloriosa, repubblica oligarchica.
II De bello Gallico di Cesare in un'edizione del 1783
Vercingetorige: titolo
o nome proprio?
Statere d'oro, con legenda del suo nome ( [...]NGETORIXS, e probabile effigie del dio Apollo. Cabinet des Médailles della Bibliothèque nationale de France
Non è facile stabilire
se Vercingetorige fosse un nome proprio o, come nel caso altrettanto celebre
di Brenno (colui che nel 390 a.C., umiliò Roma con un saccheggio divenuto
proverbiale), rappresentasse piuttosto un semplice titolo. Dall’analisi
linguistico del nome, infatti, emerge che Ver è una forma di superlativo,
cingeto vuol dire combattente è il suffisso rix sta per capotribù.
Vercingetorix (da pronunciarsi “Uerkinghètorix”) significherebbe quindi “re
supremo dei guerrieri”. Tuttavia la scoperta, avvenuta nel 1852 a Trésor de
Pionsat nel dipartimento del Puy-de-Dome, di varie monete con la scritta
Vercingetorixs (emesse a metà del I secolo a.C) sembrerebbe provare che si
tratti di nome proprio.
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AMBIZIONE SCONFINATA. L’anno successivo.
Cesare aveva assunto il comando proconsolare in Gallia Cisalpina e Illiria,
provincie cruciali per la difesa dei confini e sottoposte alle pressioni,
rispettivamente di Galli e Daci. Il Senato aveva deciso di affidargli il
difficile in carico per mantenerlo il più lontano possibile dall’Urbe, ma il
generale aveva capito che si trattava di un’occasione per guadagnare prestigio
e puntare al comando della stessa Roma. Scongiurata la minaccia delle tribù
daciche, intimorite dalle legioni romane radunate ad Aquileia, Cesare poté
concentrare tutte le sue forze sulla Gallia, la zona meridionale (la Gallia
Narbonese), già in mano romana, era stata invasa dalla tribù celtica degli
Elvezi. La campagna militare iniziò con la distruzione del ponte sul Rodano,
allo scopo di tagliare le comunicazioni al nemico. Poi Cesare richiamò le
legioni da Aquileia e reclutò uomini in loco per far fronte all’inferiorità
numerica dei suoi. Quando ebbe le truppe necessarie, attaccò gli Elvezi e li
sconfisse a Bibracte. Fu poi il turno dei Germani di Ariovisto, che avevano
attraversato il Reno. Passato ai piedi dei Vosgi, Cesare fortificò il fiume per
coprirsi le spalle, poi mosse verso il nord della Gallia per sedare la
coalizione dei Belgi e dei loro alleati (Nervi, Viromandui, Atrebati), che nel frattempo
si erano sollevati sotto la guida di Boduognato: li sconfisse, nel luglio del
57 a.C., sul fiume Sambre. Ormai padrone di quasi tutta la Gallia, alla fine
dell’anno successivo diresse i suoi uomini verso le coste atlantiche, obbedendo
alla sconfinata ambizione che lo spingeva a tentare un approdo in Britannia,
dove nessun esercito romano aveva mai messo piede. La conquista dell’isola,
avviata con successo, fu interrotta dalla notizia di una nuova grande rivolta
che stava infiammando la Gallia.
L’ULTIMA RIVOLTA DEI CELTI. Ad animare la sommossa
era Vercingetorige, un condottiero arverno che era riuscito a superare le
tradizionali rivalità che serpeggiavano tra le tribù galliche, raccogliendole
intorno a sé in una grande coalizione. La strategia da lui messa in campo, pur
a costo di enormi sacrifici, aveva dato presto i suoi frutti: i Romani,
fiaccati dalla guerriglia nemica, erano stati ricacciati da quasi tutti gli
avamposti. La mossa vincente era la terra bruciata che Vercingetorige aveva
creato attorno a loro. Il principe arverno, come riporta laconicamente Cesare,
aveva infatti esortato i suoi a impedire con ogni mezzo che i nemici potessero
foraggiarsi e rifornirsi di viveri. Avevano cominciato aggredendo le truppe
nemiche che, divise in piccoli gruppi, si addentravano nei casolari alla
ricerca di cibo e vettovaglie, poi si erano messi a incendiare i villaggi e le
case. I Galli, infatti, grazie al supporto delle popolazioni locali, avevano
scorte sufficienti, mentre ai Romani mancava tutto e non potevano far fronte
alla penuria di viveri. In un moto d’orgoglio, Vercingetorige aveva anche
ordinato di incendiare tutte le città dei Biturigi (tribù cje abitava il centro
della Gallia) che, per mancanza di fortificazioni o per la posizione poco
portetta, non erano sicure: voleva impedire che vi si annidassero disertori o
che il nemico potesse entrarvi per approvvigionarsi. Era stata una decisione
sofferta, ma ai Galli bastava considerare il destino che sarebbe toccato ai
vinti (la schiavitù dei figli e mogli, e la loro stessa morte) per comprendere
che il sacrificio era l’unica via per garantirsi la salvezza. Soltanto una
città fu risparmiata: Avarico (l’odierna Bourges), la capitale dei Biturigi. I
suoi abitanti avevano implorato di non incendiare “la più bella città della
Gallia” e la cosa era stata concessa, a patto che il luogo venisse fortificato
e difeso nel miglior modo possibile.
Se Vercingetorige fosse
mosso da sincera pietà oppure da un freddo calcolo strategico, volendo attirare
Cesare nell’unica piazzaforte della regione rimasta in piedi per poi attaccarlo
in forze, ma non lo sapremo mai. Ma una cosa è certa: tornato precipitosamente
dalla Britannia, nel 52 a.C., il generale romano puntò proprio su Avarico e,
dopo un lungo ed estenuante assedio, ne ottenne la capitolazione e il massacro
degli abitanti. La bruciante sconfitta rappresentò per Vercingetorige uno
smacco, ma fiaccò anche le legioni romane, già provate dalla penuria di cibo.
Le fortificazioni romane ad Alesia, nella ricostruzione dell'Archéodrome de Beaune, sull'A6 a Merceuil.
La
riscoperta di un mito.
Fino
all’Ottocento, Vercingetorige ei Galli rimasero avvolti dall’oblio. La loro
riscoperta avvenne in epoca romantica, quando storici, letterati e
intellettuali francesi iniziarono a indagare il passato alla ricerca delle
origini del loro popolo. Decisiva fu nel 1828, l’Histoiredes Gaulais depuis
les temps les plus reculés di Amédée
Thierry, in cui si celebravano i Galli e la figura del loro capo. Convinto
fautore della rivalutazione celtica come componente essenziale dell’identità
francese fu Napoleone III che, pur ammirando Cesare, nel 1866 fece realizzare
sul sito di Alesia una statua di Vercingetorige alta ben 7 metri.
Il
sentimento che le imprese del rix degli Arverni suscitava negli animi del
tempo è sintetizzato in questa frase di Ernest Lavisse, pubblicata
nell’Histoire de France (1884) “La
Gallia fu conquista dai Romani, malgrado la valida difesa del gallo
Vercingetorige, primo eroe della nostra storia”. Seguì la strumentalizzazione
del personaggio in funzione antitedesca e revanchista durante la Terza
repubblica. Nel Novecento, l’analisi critica delle figura di Vercingetorige
ha contribuito a una sua rilettura più equilibrata, a volte non priva di
ironia, come mostra la sua apparizione, mentre getta le armi ai piedi di
Cesare, nelle strisce di Asterix.
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Vercingetorige getta le sue armi ai piedi di Cesare, dipinto di Lionel Royer, 1899, Musée Crozatier, Le Puy
SCONTRO ALL’ULTIMO SANGUE. Ciò diede coraggio alle
tribù che ancora tardavano ad aderire alla coalizione, così che tutte, compresa
quella degli Edui, fino a qual momento rimasti fedeli all’Urbe, passarono dalla
parte dei ribelli. Dopo aver battuto Cesare una prima volta a Gergovia (vicino
all’odierna Clermont-Ferrand), Vercingetorige, ormai leader indiscusso dei
suoi, scalpitava per combattere ancora; Cesare, invece, attendeva i rinforzi
guidati dal suo luogotenente, Labieno, certo di riuscire, pur trovandosi in
campo avverso e in inferiorità numerica, ad avere la meglio sull’avversario.
Dalla sua aveva non solo la proverbiale organizzazione dell’esercito romano e
il suo potente genio militare, ma anche le voci (alimentate ad hoc) che
volevano Vercingetorige in cerca di un abboccamento con il nemico romano per
diventare capo supremo delle Galli, sacrificando all’ambizione personale la
libertà del suo popolo.
Lo scontro decisivo
avvenne nel 52 a.C. ad Alesia, oppidum (cittadella) dei Mandubi. Il sito era
posto in cima a un colle, alla confluenza tra due fiumi, Ose e Oseraom. Dpve
sarebbe sorta l’odierna Alise-Sainte-Reine. Di fronte aveva un pianoro della
lunghezza di tre miglia, con i lati protetti da colline, Cesare decise di
cingerlo d’assedio, dando prova di eccezionale abilità strategica e dispiegando
una quantità impressionante di forze. Fece costruire un fossato profondo 20
piedi (circa 6 m) e poi, a circa 800 m di distanza, una circonvallazione di 10
miglia (oltre 15 km) tutt’intorno all’oppidum. All’esterno di questa prima
fortificazione ne fece erigere un’altra (la controvallazione), ampia circa 21
m. entrambe erano protette da una palizzata al 3,5 m. Lo spazio tra i due valli
fortificati fu colmato con un terrapieno alto 4 m, su cui scierò moltissime
macchine da guerra ed eresse decine di torri di guardia, vigilate notte e
giorno da sentinelle. Davanti al vallo più interno che guardava verso Alesia,
cesare fece scavare altri fossati e disseminare una serie infinta di trappole.
Vercingetorige chiamò in soccorso altre tribù, che inviarono un esercito
accampatosi su un colle a circa un miglio dalle fortificazioni romane; in tal
modo il comandante romano si trovò nell’inedita situazione di dover affrontare,
contemporaneamente, due attacchi, uno da assediante e uno da assediato. I
Romani riuscirono a respingere le numerose sortite della cavalleria celtica,
infliggendo loro gravi perdite. Il consiglio di guerra gallico guidato da
Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige che circondò i Romani, mentre lo
stesso Vercingetorige usciva con i suoi
a impegnare il nemico su più fronte. Sulle prime, lo scontro vide Cesare in
difficoltà, soprattutto sul lato settentrionale, più scosceso, dove i Galli
tempestarono i legionari con una pioggia di dardi. Per togliersi dall’impaccio,
il comandante romano decise una sortita, per attaccare il nemico alle spalle.
La mossa si rivelò vincente, i Galli furono sopraffatti dalla cavalleria, che
ne fece strage. La sconfitta, per Vercingetorige, era chiara. A quel punto il
consiglio di guerra doveva decidere che cosa fare: sacrificare il capo per
ingraziarsi i vincitori, oppure consegnarlo vivo, come prigioniero,e
risparmiare il popolo. L’assemblea scelse la seconda strada. Sulle circostanze
e sui motivi della resa, però, le fonti antiche sono discordi.
Vercingetorige si arrende a Cesare nel dipinto di Henri-Paul Motte.
Tre
assedi leggendari.
Diorama dell'assedio di Avarico
Quello
gallico fu una guerra ricca di episodi militari, ma gli scontri più
importanti si consumarono tutti in occasione di assedi. Il primo, vinto dai
Romani, fu quello di Avaricum (l’odierna Bruges), nel marzo del 52 a.C. L’oppidum
dei Biturgi era stato risparmiato dalla distruzione preventiva per attirare
Cesare in trappola. Spingendolo ad assediarlo. Tuttavia, i Galli non avevano
fatto i conti con l’intraprendenza del comandante romano che, nonostante il
clima freddo e i continui temporali, fece erigere un imponente terrapieno
stracolmo di macchine da guerra. L’assedio durò qualche settimana e si
concluse con il massacro di quasi 40mila Galli (solo 800, pare, riuscirono a
salvarsi).
Il
secondo assedio, stavolta favorevole a Vercingetorige, fu quello di Gergovia
(Clemont-Ferrand), capitale degli Arverni, avvenuto pochi mesi dopo. Le cause
della sconfitta romana vanno ricercate nella scelta di nascondersi nella
boscaglia. Nonostante un primo successo, infatti, i legionari furono
circondati e decimati. L’assedio alla città fu levato quando Cesare ebbe
notizia della rivolta degli Edui.
L’ultimo
episodio, destinato a rivelarsi decisivo, fu quello di Alesia, vero
capolavoro strategico e tattico di Cesare, coronato dalla resa definitiva e
incondizionata di Vercingetorige.
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EROE O TRADITORE? Dai resoconti, scritti
in tempi diversi e con differenti finalità ideologiche, dipende anche
l’immagine di Vercingetorige giunta ai posteri. Plutarco (46-125 d.C.) sostiene
che questi, “indossate le armi migliori,
bardò il cavallo e uscì dal campo: compiuto in giro attorno a Cesare seduto,
sceso da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e, postosi ai suoi piedi,
se ne stesse immobile”. Floro, morto nel 130 d.C., aggiunge che egli ammise
la socnfitta e riconobbe la superiorità dell’avversario, sentenziando: “hai
vinto un uomo valoroso, o tu che sei un uomo valorosissimo”. L’intento di
queste fonti è quello di mostrare un capo sopraffatto che, con dignità, si
rimette alla proverbiale clemenza romanza nei confronti dei venti. Entrambi gli
storici, del resto avevano descritto l’arverno come un eroe in grado di tenere
testa alla grandezza di Cesare.
Dione Cassio (125-235
d.C.), il cui ritratto di Vercingetorige è invece negativo, descrive l’epilogo
in maniera antieroica. L’arverno appare al cospetto di Cesare appiedato e non a
cavallo, lasciando intendere che si sia intrufolato furtivamente, sfruttando un
momento di distrazione dei suoi. Annota che Vercingetorige avrebbe potuto
fuggire, non essendo stato catturato o ferito, ma invece si presentò “davanti a Cesare, mentre quello era seduto
sul suo scranno, tanto che alcuni ne rimasero impressionati; era imponente e si
stagliava nello splendore delle sue armi. Non disse nulla, ma cadde alle sue
ginocchia (di Cesare) e stringendo le mani lo supplicava”. Il comportamento
di Vercingetorige è attribuito da Dione Cassio al fatto che egli sperava di
aver salva la vita “in virtù dell’antica amicizia” con il generale romano, che
avrebbe dovuto muoverlo a pietà nei suoi confronti. Invece, accadde il
contrario: mentre i legionari rimasero colpito dall’atteggiamento remissivo del
principe, per Cesare egli era soltanto un nemico che si era arreso,
sacrificando la libertà del suo popolo, nella speranza di salvarsi. Insomma, un
traditore. La sua punizione doveva essere esemplare: “Non ebbe pietà di lui nemmeno per un attimo, ma lo fece gettare in
catene e, dopo averlo trascinato nel corte di trionfo, lo fece uccidere”.
IL TOCCO DEL GENIO. Cesare aveva vinto ad
Alesia con 50mila legionari contro 60mila Galli assediati, cui erano giunti in
sostegno altri 240mila uomini. La ragione del suo successo va cercata nel suo
carisma e nel suo genio militare, ma anche nel fatto che sapeva motivare le truppe,
ricevendo in cambio dedizione totale. I Galli, invece, al di là del valore
dimostrato dal loro capo, non avevano un simile spirito di corpo. I contrasti
tra le tribù erano insanabili, alimentati da sospetti e inimicizie. Inoltre,
molte di esse avevano un rapporto ambiguo con Roma, oscillante tra ostilità e
alleanza. A seguito della sconfitta, stroncate le ultime resistenze, nel 51
a.C. l’intera Gallia fu riorganizzata in quattro province (alla Narbonese si
aggiunsero l’Aquitania, la Galli Lugdunense e la Gallia Belgica) e andò via via
romanizzandosi, grazie alla costruzione di città, strade, infrastrutture e
acquedotti. Dal sincretismo nacque la peculiare e fiorente cultura
gallo-romana, destinata a influenzare profondamente i Franchi, e dalle cui basi
sarebbe nato, con Carlo Magno, il Sacro Romano Impero. Le figure di Cesare e
Vercingetorige passarono direttamente dalla Storia al mito.
Articolo in gran parte
di Elena Percivaldi pubblicato su Civiltà Romana n. 3 Sprea editore. Altri
testi e immagini da wikipedia.
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