La strana coppia.
L’alleanza tra Mussolini e Hitler era soltanto il frutto di un
minuzioso calcolo politico o la spia di una reale identità di vedute?
L’opinione pubblica sovrappone i due leader, ma gli storici evidenziano ciò che
li divideva.
Come
ben sanno i pubblicitari, gli esperti di marketing e i grandi comunicatori,
l’arma più efficace di cui dispone la propaganda è la parola. Più ancora dei
fatti e delle idee, è il modo in cui si narrano gli uni e si trasmettono le
altre a far presa sulla gente. Anzi, sulle masse, per usare un termine che
andava di moda fra i due conflitti mondiali. Nel Novecento, le guerre furono
combattute non soltanto con le armi o mediante intrighi di spie, ma anche con
parole contate appositamente per stigmatizzare il nemico, rendendolo ridicolo,
abominevole o insidioso, secondo le necessità. Una di queste è nazifascismo.
Come spiegò lo storico Renzo De Felice, la categoria del nazifascismo “fu inventata dalla propaganda politica
degli Alleati, poi passò fra le parole d’ordine della Resistenza e da lì nel
linguaggio comune”. Dal 1940 in poi, ponendo sullo stesso piano ideologico
e politico il fascismo italiano e il nazionalsocialismo tedesco, gli Alleati
intendevano accomunare i due regimi in un unico intento. Attribuivano loro
un’identica responsabilità morale per lo spaventoso conflitto che stava
dilaniando l’Europa, sconvolgendo gli equilibri mondiali. Ma è davvero
possibile sovrapporre i due regimi? E, soprattutto, è corretto?
L'Olympiastadion di Berlino durante lo svolgimento dei Giochi olimpici del 1936
UN TOTALITARISMO A META’. Una prima risposta in
questo senso fu data nel 1951 dalla studiosa Hannah Arendt: il totalitarismo
non vuole soltanto che i cittadini, privati di ogni libertà, gli obbediscano in
modo assoluto, ma vuole anche farne dei fedeli, ligi a una sorta di religione
laica incentrata sul credo totalitario. È quello che fecero, a diverso titolo,
la dittatura nazionalsocialista di Hitler e quella comunista di Stalin. la
dittatura fascista di Mussolini, invece, fu sicuramente liberticida e talvolta
violenta, ma non instaurò mai un clima di terrore per mantenere il controllo
sulla popolazione, come accadde invece nei regimi tedesco e sovietico. La
posizione della Arendt, benché controversa, è particolarmente importante,
perché venne formulata a soli sei anni dalla conclusione della Seconda guerra
mondiale, ossia quando gli animi erano ancora scossi dagli esisti del recente
conflitto. Inoltre, la studiosa era di origini ebraiche, e ciò non poteva non
pesare su una sua valutazione del fenomeno nazifascista. La stessa posizione fu
sostenuta dallo storico francese Robert Aron (anch’egli di origine ebraiche),
che definì il fascismo un totalitarismo attenuato, cioè intermedio tra
autoritarismo e vero totalitarismo.
Per alcuni,
basterebbero già queste considerazioni a distinguere in modo inequivocabile i
due regimi, anche senza approfondirne le caratteristiche. Ma Renzo de Felice
andò oltre, affermando, per primo, che fascismo e nazionalsocialismo erano
regini radicalmente diversi sul piano sociale, culturale e di politica estera.
Tuttavia è innegabile che dal 1933 in poi l’Italia di Mussolini e la Germania
di Hitler svilupparono punti di contatto sempre più forti, tanto da
giustificare la loro percezione come due facce di una stessa medaglia, almeno
agli occhi dei loro contemporanei. Le vicende storiche del fascismo e del nazionalsocialismo
s’intrecciarono strettamente fin dagli inizi, in un complesso gioco d’influssi
reciproci venati, a seconda dei casi e dei momenti, di irritazione, emulazione
e ambiguità.
I Balilli
Diversi da (quasi) tutto.
Fascismo Nazismo
Esce da una guerra vittoriosa Esce da una guerra
persa
Ricostruzione del Paese Vendetta per
la sconfitta subita
Rivoluzione sociale Ritorno a un ordine tradizionale
Costruzione di uno Stato
forte Sostituzione
dello Stato con il Volk (popolo)
Colonialismo di popolamento Conquista di territori
slavi da germanizzare
Modernizzazione del Paese Ritorno a uno stile
di vita tradizionale
Corporativismo e sindacalismo Lavoratori militarmente
inquadrati
Su base indentitaria
nazionale Su base
identitaria razziale
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IL MODELLO ITALIANO. Nell’ottobre del 1922,
dopo la Marcia su Roma, Benito Mussolini fu nomato presidente del Consiglio dei
ministri. L’evento non solo suscitò scalpore nell’opinione pubblica
internazionale, ma rappresentò un’iniezione di entusiasmo negli ambienti di
destra e conservatori di tutta Europa. In Germania (soprattutto in Baviera,
dove le destre erano forti), i giornali presero a parlare di fascismo bavarese
e a definire Hitler il Mussolini tedesco. La Marcia su Roma veniva additata da
più parti come un modello che la Germania avrebbe dovuto seguire di lì a
poco.
Il 6 novembre, sulla
rivista Gewissen apparve un articolo significativamente intitolato Italia
docet, l’Italia insegna, firmato da Arthur Moeller van den Bruck. Ideologo
della rinascita nazionalista tedesca dopo il 1918 ed esponente di punta della
cosiddetta rivoluzione conservatrice, fu lui a introdurre nel lessico politico
l’espressione Terzo Reich. Almeno agli inizi, tuttavia, il Partito Nazista
(Nsdap) non era compatto nell’apprezzamento di Mussolini e il fascismo:
spiaceva la politica repressiva in Alto Adige, si nutriva diffidenza per il
venir meno di un’apertura al socialismo e infine si biasimava la mancanza di un
sentimento antisemita. Su quest’ultimo punto, Andton Drexler, uno dei fondatori
del Partito Nazista, sosteneva che Mussolini era probabilmente ebreo e che
comunque il fascismo era un movimento giudaico. Inoltre, sul giudizio negativo
nei confronti degli italiani in genere pesava il cambio di fronte della Prima
guerra mondiale, quando il Regno sabaudo, benché ufficialmente legato alla
Triplice Alleanza di Germania e Austria-Ungheria, aveva te, pareggiato per poi
schierarsi al fianco dell’Intesa.
Quando Mussolini derise il
razzismo tedesco.
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La difesa della razza | |
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Stato | Italia |
Lingua | Italiano |
Periodicità | Quindicinale |
Genere | Politica, razzismo, antisemitismo, imperialismo, fascismo |
Formato | Rivista |
Fondazione | 5 agosto 1938 |
Chiusura | 20 giugno 1943 |
Sede | Palazzo Wedekind, Roma[1] |
Editore | Editrice Tumminelli |
Record vendite | 85.000 (1938) |
Direttore | Telesio Interlandi |
Redattore capo | Giorgio Almirante (segretario di redazione) |
La difesa della razza, rivista diretta da Telesio Interlandi, vide il suo primo numero il 5 agosto 1938 e venne stampata, con cadenza quindicinale, fino al 1943 (l'ultimo numero, il 117 risulta uscito il 20 giugno 1943) dalla casa editrice Tumminelli di Roma.[2][3]
Il 25 luglio 1934, agenti nazisti
assassinarono il cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss, suscitando l’ira
di Mussolini, che era suo amico personale. Nei mesi seguenti il Duce non
perse occasione per esprimere apertamente il suo disprezzo nei confronti
della Germania hitleriana e delle sue pretese razziste, estranee alla
sensibilità italiana. Nel discorso tenuto “al popolo di Bari” il 6 settembre
1934, dichiarò: “Trenta secoli di
Storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di
oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con
la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma
aveva Cesare, Virgilio e Augusto”. L’assassino di Dollfuss avrebbe potuto
essere l’occasione per sottrarsi all’alleanza con Hitler. Ma la decisione
d’invadere l’Etiopia comportò le sanzioni e l’isolamento internazionale,
determinando la scelta obbligata verso l’unico Paese che tendeva la mano
all’Italia: la Germania. nemmeno 4 anni dopo il discorso di Bari, il 14
luglio 1938, la pubblicazione del “Manifesto della razza” avrebbe dato via al
razzismo italiano, perfettamente allineato a quello tedesco.
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MANOVRE DI AVVICINAMENTO. Le cose iniziarono a
modificarsi nel 1930, dopo la prima importante affermazione elettorale del
nazionalsocialismo, il 14 settembre di quell’anno, quando l’NSDAP s’impose come
secondo partito nazionale, con oltre sei milioni di voti. Ma questa volta fu il
fascismo a spaccarsi sull’apprezzamento del nazismo: il quindicinale “Critica
fascista”, fondato e diretto da Giuseppe Bottai, continuava a mostrare
un’aperta diffidenza nei confronti di Hitler e del suo schieramento, mentre la
rivista ufficiale del regime, “Gerarchia”, fondata e diretta da Mussolini
stesso, commentava il successo elettorale nazista affermando che “l’idea fascista
si fa strada nel mondo”. Ma si trattava soltanto di una mossa politica:
Mussolini considerava ancora Hitler alla stregua di un fanatico (“un pagliaccio
pazzo”, lo definì, parlando con un collaboratore), e non parebva attribuirgli
troppa credibilità. Al contrario, la venerazione di Hitler per l’italiano era
testimoniata dal busto di Mussolini a grandezza naturale che adornava il suo
ufficio nel quartier generale del partito, a Monaco. In realtà Hitler era
fermamente convinto di un comunità di destino da realizzarsi tra Germania e
Italia, e lo mise nero su bianco in una lettera indirizzata al Duce nel giugno
del 1931: “Le relazioni spirituali
esistenti tra i canoni fondamenti ed i principi del Fascismo e quelli del
movimento da me condotto, mi fanno vivamente sperare che dopo la vittoria del
nazionalsocialismo in Germania, vittoria alla quale ciecamente credo, si potrà
ottenere che anche tra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista si
formino le stesse relazioni per il bene delle due grandi nazioni.”
LA SALDATURA TRA ROMA E BERLINO. La svolta
decisiva ebbe luogo il 30 gennaio 1933, quando Hitler fu nominato cancelliere
del Reich. Ora i rapporti non erano più tra un modello da seguire e un devoto
ammiratore, ma tra due pari grado. E le conseguenze si sarebbero fatte sentire
molto presto. Hitler acquisì rapidamente sicurezza e autorevolezza, mentre
sotto la sua guida la Germania bruciava le tappe dell’ascel’sa sullo scacchiere
internazionale. Al contrario, l’invasione dell’Etiopia del 1935 costò a
Mussolini le sanzioni da parte della Società delle nazioni e l’isolamento
politico da parte dell’Europa. L’unico a
tenderli la mano fu Hitler: superando la freddezza seguita all’uccisione (da
lui stesso commissionata nel 1934) del cancelliere austriaco Engelbert
Dollfuss, amico personale di Mussolini, il Fuhrer, iniziò a tessere una tela
destinata a risucchiare l’Italia nel gioco della politica estera tedesca. Ogni
frizione parve scomparsa, e nell’ottobre del 1936 Germania e Italia siglarono
un protocollo d’intesa che impegnava le due nazioni a collaborare su vari
piani, da quello della politica estera a quello militare. Il 1° novembre, in un
discorso ufficiale tenuto a Milano, Mussolini dichiarò che “questa verticale Berlino-Roma non è un diaframma, è piuttosto un asse
attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati europei animati da volontà
di collaborazione e di pace”. Era nato l’Asse Roma-Berlino.
Da questo momento, le
sorti del fascismo furono indissolubilmente unite a quelle del nazismo, e nella
considerazione del mondo i due regimi finirono per coincidere. Nel settembre
1937. Mussolini si recò in Germania e, al termine del soggiorno, tenne un
discorso celebrativo in tedesco imperniato sull’alleanza che legava stabilmente
le due potenze. Nei due anni successivi, il fascismo parve ricoprire un ruolo
di secondo piano sulla scena internazionale, messo in ombra e quasi schiacciato
da una Germania sempre più trionfante. Anche per questo, Mussolini non poté
protestare contro l’Anschluss, l’annessione dell’Austria, avvenuta l’11 marzo
1938. Arrivò addirittura a realizzare il varo delle “leggi per la difesa della
razza”, annunciate il 18 settembre e ufficialmente approvate (con il
beneplacito di re Vittorio Emanuele III) a novembre. Erano volte a penalizzare
gli ebrei italiani e leggibili quasi come un omaggio verso il potente alleato
germanico. Mussolini non si oppose neppure all’invasione della Polonia, il 1°
settembre 1939. Fu quest’ultima concessione a segnare il destino dell’Italia,
costretta a entrare in guerra al fianco dell’alleato tedesco, a dispetto della
manifesta impreparazione tecnica e militare. Il Duce cercò di temporeggiare,
facendo presenti a Hitler le oggettive difficoltà del Paese; ciononostante, il
10 giugno 1940, gli itlaiani presero le armi.
Gli strepitosi successi
militari della Germania facevano pensare a una rapida risoluzione del
conflitto, e alla fine del 1940 Mussolini decise di imbarcarsi in una guerra
parallela invadendo la Grecia, ritenuta una facile preda, con l’intendo di
recuperare autonomia e credibilità agli occhi di Hitler (forse anche per far
intendere che, essendo occupato sul fronte greco, non avrebbe potuto seguire
l’alleato in altre avventure). Il calcolo si dimostrò drammaticamente errato e
gravido di conseguenze fatali: l’Italia poté uscire a fatica dal pantano greco
solo grazie all’intervento tedesco nell’aprile 1941, e con un enorme dispendio
di uomini e mezzi. Contemporaneamente, gli inglesi attaccavano in Africa del
Nord, cancellando per sempre il breve impero coloniale fascista. Poi, nel 1942
e nel 1943 Mussolini inviò consistenti truppe in Russia per supportare Hitler
nell’operazione “Barbarossa”, che si sarebbe rivelata una mossa suicida per
entrambi: per Hitler, in quanto l’impegno a Est diluì il potenziale bellico
tedesco su troppi fronti, per Mussolini perché il disastro dell’Armir, l’armata
inviata in Russia, determinò il definitivo scollamento tra il regime fascista e
il popolo italiano.
Kennedy sedotto dai fascismi.
Nel 1937, l’allora ventenne John
Fitzgerald Kennedy compì un viaggio di piacere in Italia e in Germania,
appuntando in un diario le sue impressioni. Il 3 agosto, a Milano, annotò di
essere “giunto alla conclusione che il
fascismo è la cosa giusta per la Russia e la democrazia per l’America e
l’Inghilterra. E che sono i mali del fascismo al confronto del comunismo?”.
Il 21 agosto, a Colonia, ammirando la superiorità delle “razze nordiche”
rispetto a quelle “romaniche” (intendeva latine) dichiarava: “I tedeschi sono davvero troppo in gamba,
per questo ci si mette tutti insieme contro di loro: per proteggersi”.
JFK tornò in Germania nell’estate del 1945, a guerra finita. Il 1° agosto
visitò il “Nido dell’aquila”, il rifugio di Hitler sulle montagne di
Berchtesgaden, e scrisse: “Chi ha visto
questi luogo può senz’altro immaginare come Hitler, dall’odio che adesso lo
circonda, tra alcuni anni emergerà come una delle personalità più importanti
mai vissute. Era fatto della stoffa con cui si fanno le leggende”.
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UN ABBRACCIO MORTALE. Il fascismo cadde il 25
luglio 1943. Mentre il re e Badoglio negoziavano un armistizio separato con gli
Alleati, che ormai stavano risalendo la penisola, Mussolini veniva confinato
prima a Ponza, poi alla Maddalena e infine sul Gran Sasso. Hitler lo rintracciò
e lo fece liberare con un’azione rocambolesca dai suoi reparti speciali.
Trasportato in Germania, Mussolini fu pressantemente sollecitato a tornare in
Italia per formare un nuovo governo che continuasse a battersi al fianco dei
tedeschi. Il Duce non aveva scelta: tra la fine di settembre e i primi di
novembre costituì la Repubblica Sociale Italiana, destinata a sprofondare nel
baratro scavato dallo stesso Hitler, mentre il resto della penisola cadeva
progressivamente in mano Alleata. Una sanguinosa guerra civile, senza
esclusione di colpi da entrambe le parti, dilaniava l’Italia forse ancora più
che i fitti bombardamenti e le battaglie combattute sul nostro territorio
nazionale. Benito Mussolini venne intervistato per l’ultima volta il 22 aprile
1945 da Gian Gaetano Cabella, direttore del “popolo di Alessandria” al quale
affidò quello che viene comunemente considerato il suo testamento politico. Vi
compare una definizione del fascismo che risulta particolarmente illuminante
per il tema dei rapporti con l’ideologia hitleriana: “l’idea che è stata e sarà
la più audace, la più originale e la più mediterranea ed europea delle idee”, a
voler sottolineare la profonda distanza che separava, e avrebbe sempre separato
(almeno nelle sue intenzioni), i due regimi e le rispettive visioni del mondo.
Che ciò fosse vero o meno, è ancora oggetto di aspri dibattiti.
Articolo in gran parte
di Alessandra Colla pubblicato su Conoscere la storia n. 49 – altri testi e
immagini da Wikipedia.
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