mercoledì 30 dicembre 2020

Adriano un grande imperatore che preferiva l’amore alla guerra.

 

Adriano un grande imperatore che preferiva l’amore alla guerra.

Iniziò il suo regno da tiranno spietato e vendicativo, ma ben presto si rivelò un uomo colto, tollerante, illuminato gestore dell’Impero, regalando a Roma una lunga stagione di pace e prosperità. Questo gli permise di riorganizzare lo stato, di occuparsi di arte e poesia, oltre a dedicarsi alle sue passioni, forse non tutte lodevoli.

 


Busto dell'imperatore Adriano
(Musei CapitoliniRoma)

Adriano era nipote di Traiano (figlio di un fratello), che diventò il suo tutore spiando il padre si spense per morte prematura e il bambino aveva appena 10 anni. Erano arrivati entrambi dalla città Romana di Italica, nella Spagna meridionale, in corrispondenza della moderna Santiponce, vicino a Siviglia. Perché Traiano abbia scelto proprio Adriano come successore al trono resta difficile da capire. Nonostante la comune origine ispanica e la stretta parentela, erano infatti molto diversi tra loro. Traiano era soprattutt2o un soldato, avido di gloria militare. Dopo la conquista della Dacia – l’attuale Romania – si era lanciato in una guerra contro i Parti, sognando di emulare le gesta di Alessandro Magno e rammaricandosi del fatto che l’età avanzata gli avrebbe impedito di ottenere gli stessi risultati del grande macedone. In effetti aveva conquistato la Mesopotamia e raggiunto le sponde del Golfo Persico: era stato il primo e l’ultimo generale romano a navigare in quel mare lontano e le sue flotte avevano devastato le coste dell’Arabia.

Ma il suo orgoglio per aver portato i confini dell’impero agli estremi limiti orientali fu di breve durata. Mantenere il controllo di quelle regioni desertiche, lontane migliaia di chilometri dalle basi di rifornimento della Sira, era impossibile. Lo aveva capito lui stesso, che morì in Cilicia di un colpo apoplettico mentre faceva ritorno a Roma. E lo capì ancora meglio Adriano, che come primo atto del suo governo rinunciò a quelle terre appena conquistate, ritirò le guarnigioni dall’Armenia, dall’Assiria, dalla Mesopotamia e riportò il confine dell’impero alle sponde dell’Eufrate, là dove aveva voluto Augusto.

 

Una travagliata successione al trono. Traiano prevedeva che il nipote avrebbe disfatto quello che lui andava costruendo. Lo conosceva, sapeva che Adriano non amava la guerra, anche se quando era stato chiamato a farla aveva combattuto con onore e si era conquistato il favore dei soldati. Preferiva le arti sottili della diplomazia alla forza brutale della armi. Non condivideva la politica ispanistica e, con tutta probabilità, non avrebbe proseguito su quella strada quando fosse stato investito del potere. Per questo Traiano non si decideva ad adottarlo, nonostante le insistenze di sua moglie, Plotina, che invece aveva una grande considerazione per il nipote ed era la sua più convinta sostenitrice. Traiano tenne duro fino agli ultimi giorni di vita resta da chiedersi che cosa gli fece cambiare idea in punto di morte.

Secondo quanto racconta la “Historia Augusta” – una controversa raccolta di biografie imperiali – Traiano morì senza aver fatto il nome dell’erede. Ma la furba Plotina, aiutata dalla nipote Matilda, ordì una messinscena che trasse tutti in inganno: un loro servo imitò la voce dell’imperatore appena deceduto per annunciare agli astanti, nella stanza in penombra che impediva di vedere i volti e le persone, di avere scelto Adriano come successore. Anche il ben più attendibile storico Cassio Dione assegna alla moglie dell’imperatore un ruolo decisivo nella nomina del nipote. Plotina avrebbe tenuto segreta la notizia del decesso di Traiano per alcuni giorni, il tempo di preparare che annunciava al senato l’adozione del nipote. Il senato non ebbe nulla da eccepire, meno che mai l’esercito, legatissimo sia all’imperatore defunto per le battaglie combattute insieme, sia al suo successore per i generosi donativi da lui ricevuti. Tutti d’accordo, quindi, a parte forse il defunto imperatore.

Comunque sia andata la successione, Plotina tornò a Roma con le ceneri del marito chiuse in un’urna tutta d’oro, che fece sotterrare alla base della Colonna Traiana. In quanto ad Adriano, pagò il suo debito di riconoscenza nei confronti dello zio facendo mirabilmente decoare quella stessa colonna con un bassorilievo che copriva per tutta la lunghezza e che ancora oggi illustra le imprese della guerra in Dacia.

Era l’anno 117 quando Publio Elio Traiano (acquisì il nome dello zio con l’adozione) assunse anche il titolo di Augusto, che qualificava gli imperatori. Appena salito al trono, Adriano regolò i conti con i suoi nemici, reali o immaginari. Allontanò dalla gestione del potere tutti quelli che avevano avuto a che fare con l’amministrazione di Traino, per non essere intralciato nei suoi progetti di riforma. Non ebbe scrupoli nel mandare a morte 4 senatori che considerava avversari e possibili concorrenti al trono. “Cominciamo bene”, commentarono gli altri membri del senato temendo un ritorno al terrore di Nerone e Domiziano. Ancora più fosche furono le previsioni quando il nuovo imperatore si prese una tardiva e crudele rivincita sul più grande architetto di quel tempo, Appolodoro di Damasco, che aveva edificato per Traiano le opere più insigni: il foro, la celebre colonna e i mercati traianei. La vecchia ruggine tra i due risaliva a un episodio in cui Adriano, che aveva la passione dell’architettura, criticò Apollodoro mentre illustrava un suo progetto a Traiano. Il grande architetto, punto sul vivo, gli rispose: “Non parlare di cose che non sai, pensa alle tue zucche” (il riferimento sprezzante era alle cupole orientaleggianti che tanto piacevano al giovane nipote dell’imperatore e di cui farà ampio uso nelle sue costruzioni). Adriano, uomo di tenaci rancori, non dimenticò quell’affronto e, una volta sul trono, mandò Apollodoro in esilio. Quando gli riferirono che l’architetto aveva criticato il più grande tempio della città, dedicato a Venere e Roma, fatto erigere da Adriano sulla Via Sacra con dispendio di fatica e risorse (furono ingaggiati 24 elefanti solo per spostare il Colosso, cioè la gigantesca statua di Nerone che diede il nome al Colosseo), ordinò di giustiziarlo. Roma perse un grande artista e si convinse ancora di più di essere tornata sotto il giogo di un imperatore tiranno e crudele.

 

 



Contro gli ebrei usò il pugno di ferro.

L'antica provincia romana di Giudea al tempo di Adriano.



Adriano visitò la Giudea nel 130 e decise che quel territorio, conquistato da Tito nel 70 d.C., ma di nuovo ribellatosi nel 115, dovesse essere uniformato – nella vita, nella cultura e nella pratica religiosa – alla civiltà ellenistica estesa a tutto il mondo romano. Cominciò dunque col vietare il sabato festivo, lo studio della Torah, cioè la legge di Mosè, l’uso del calendario giudaico e le cerimonie di culto. Ordinò che i rotoli con le Scritture fossero bruciati. Proibì la circoncisione rituale, considerata una mutilazione incivile esattamente come la castrazione, peraltro già bandita da Domiziano. Soprattutto, impose che dove sorgeva Gerusalemme si costrusse una città tutta nuova, che si sarebbe chiamata Aelia Capitolina, e un tempio a Giove sarebbe stato costruito sui resti del tempio di Erode. Finché Adriano restò nelle vicinanze, prima in Egitto e poi in Siria, gli Ebrei subirono senza reagire, ma appena si allontanò per tornare nell’amata Grecia e a Roma esplose la rivolta. Era la fine del 132: ammaestrati dai precedenti conflitti, i ribelli si guardarono bene dall’attaccare i Romani in campo aperto. Come racconta Cassio Dione: “Occuparono le posizioni vantaggiose del paese e le fortificarono scavando tunnel alzando muri, per avere luoghi dove rifugiarsi nel caso si fossero trovati sotto forte pressione e potersi incontrare senza essere visti, sotto terra. E praticarono dei fori dall’alto su questi passaggi sotterranei per assicurare aria e luce”. Li guidava un certo Simone, detto Bar Kokhba, che aveva, oltre che un indubbio talento militare, grandi doti di comando. A tutti i suoi uomini chiese di dimostrare il loro coraggio tagliandosi un dito. Non risulta che qualcuno si sia tirato indietro. Simone creò un vero e proprio stato indipendente, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue monete. Alla fine Adriano perse la pazienza e inviò il suo migliore generale, Giulio Severo, che nel 135 riuscì a soffocare la rivolta nel sangue. È ancora Cassio Dione a fornirci il lugubre conteggio dei morti: “in realtà pochissimi sopravvissero, 50 dei loro avamposti più importanti e 985 dei loro villaggi più famosi furono rasi al suolo. 500mila uomini furono trucidate nelle varie incursioni e battaglie, il numero di quelli che morirono di fame, di malattie e per incendi non si poté calcolare. Così quasi l’intera Giudea fu resa una desolazione”.

Le truppe vittoriose si accanirono contro Gerusalemme. La zona delle sepolture, dove secondo la tradizione era stato deposto il corpo di Gesù, fu ricoperta di terra e sopra fu eretto un tempio a Venere (questo in seguito faciliterà l’individuazione del Santo Sepolcro). Venne favorito l’insediamento di nuovi abitanti, mentre agli Ebrei era vietato anche avvicinarsi alla città. Infine, come era stato cancellato il nome di Gerusalemme, si cambiò anche quello della regione: non più Giudea, ma Palestina, derivato da quei Filistei contro i quali aveva combattuto e vinto re David.

Un poeta sul trono di Roma.

È una poesiola breve e facile. Ne proponiamo i 4 versi, che sono un’ininterrotta successione di vezzeggiativi, al punto da far pensare che sia stata scritta da una mano femminile. Invece è di Adriano che, da fine artista e letterato quale era, amava la poesia e si dilettava a comporre versi. Questa è l’unica rimastaci, riportata in quella “Historia Augusta” che ci fornisce anche molte informazioni sulla vita dell’imperatore. Adriano l’ha composta sul letto di morte, come a prendere congedo dalla sua anima. La scrittrice francese Marguerite Yourcenar la colloca in apertura delle sue imperdibili “Memorie di Adriano”, quasi un’istantanea capace di illustrarci meglio di mille parole il vero animo del suo personaggio. La proponiamo con la traduzione di Lidia Storoni Mazzolani, che è anche la traduttrice del libro.

 

Animula vagula, blandula,

hospes comesque corporis,

quae nunc abbis in loca pallidula,

rigida nudula,

nec, ut soles, dabis iocos…

 

piccola anima smarrita e soave

compagna e ospite del corpo

ora ti appresti a scendere in luoghi

incolori, ardui e spogli,

ove non avrai più gli svaghi consueti …

 


La Porta di Adriano, ad AdaliaTurchia meridionale, costruita per celebrare la visita dell'imperatore avvenuta nel 130.

 Un imperatore itinerante. Invece si sbagliava, almeno per la seconda parte della cupa previsione. Primo. Primo perché Adriano non esercitò mai più il suo potere di morte, secondo, perché dei 21 anni passati sul trono trascorse la maggior parte lontano dalla capitale dell’impero. Il successore di Traiano è infatti l’imperatore che ha viaggiato più di ogni altro. Non per necessità belliche, visto che di guerre non ne fece neanche una, se si esclude quella contro gli Ebrei, ma perché spinto dal bisogno di sapere, dal desiderio di vedere le cose con i propri occhi, dalla necessità di intervenire in prima persona. Adriano è un imperatore in continuo movimento, seguito da uno stuolo di funzionari che tutto registrano e a tutto provvedono. Dalla Britannia alla Siria, dall’Africa alla Pannonia, dalla Bitinia all’Egitto, non c’è provincia che Adriano non abbia visitato, e dove non abbia edificato fortificazioni e monumenti, templi e città. Mai l’impero romano ha avuto un’amministrazione così attenta ai bisogni delle provincie, anche le più lontane da Roma, così solerte nel rafforzamento delle frontiere (un esempio per tutti, la costruzione del celebre Vallo che separava l’odierna Inghilterra dalla Scozia), così accorta nella gestione delle imposte. “il suo spirito aperto e attivo era ugualmente portato alle più larghe vedute, come ai più minuti particolari del governo”, sottolinea lo storico inglese Edward Gibbon nella sua “Decadenza e caduta dell’Impero romano”. Questi continui spostamenti, se da una parte dimostravano quanto fosse saldo il suo potere, dall’altra assicurava il senato e le più alte magistrature: no, Adriano non era il tiranno che essi temevano. Al contrario, la sua figura si andava delineando come quella di un imperatore non solo giusto, ma anche autorevole e risoluto, contro il quale nessuno mai avrebbe osato congiurare e nessuno, dopo Apollodoro, avrebbe avuto ragione di temere per la sua vita. Infatti sotto il suo regno, l’impero fiorì in pace e prosperità. Quelli che parlavano di lui come un nuovo Augusto non lo facevano solo per adulazione o per sollecitare la sua vanità, che pure era grande, a giudicare dalla enorme quantità di ritratti che si fece fare. Le loro lodi erano il riconoscimento di una condizione di pace, di benessere e di prosperità, che a Roma non si vedeva dai tempi del fondatore dell’impero.

Non basterebbe un trattato di Storia dell’Arte per illustrare la magnificenza dei suoi monumenti. Oltre al già citato tempio di Venere e Roma e alla decorazione in bassorilievo della colonna Traiana, va almeno ricordata la ricostruzione del Pantheon, edificato al tempo di Augusto e poi crollato, con la magnifica cupola che ispirerà gli architetti del Rinascimento, e soprattutto il suo maestoso mausoleo, che i papi avrebbero poi trasformato nell’inespugnabile Castel Sant’Angelo, il più grande e più ricco di quello di Augusto che lo fronteggiava sull’altra riva del Tevere. Ma l’edificio che meglio rispecchia il suo animo di artista e la sia ammirazione per la civiltà ellenistica è la grande Villa Adriana, in prossimità di Tivoli. Depredata di marmi e statue nel 1500 dal cardinale Ippolito d’Este, che li utilizzò per costruire la sia Villa d’Este, Villa Adriana conserva ancora una parte degli arredi e degli elementi architettonici, come nel Senapeo e nel Canopo, che abbellivano i rari ozi romani dell’imperatore e gli davano l’illusione di vivere in un angolo dell’amatissima Grecia o dell’esotico Egitto.

Adriano ebbe una sola moglie, Vibia Sabina, figlia di quella Matilda che aveva complottato con Plotina per metterlo sul trono. Secondo alcune fonti, il matrimonio con Sabina sarebbe stato il favore che doveva ricambiare la complicità di Plotina. I rapporti tra loro furono improntati a una formale correttezza e ad una sostanziale freddezza. L’unione durò quasi 40 anni, fino alla morte di lei, durante i quali Sabina ottenne tutti gli onori che le erano dovuti, a cominciare dal titolo di Augusta. Accompagnò il marito in alcuni dei suoi lunghi viaggi in Oriente, ma per lo più stava da sola a Roma. Secondo la “Historia Augusta”, durante le assenze del marito Sabina avrebbe intrattenuto rapporti di eccesiva familiarità con alcuni personaggi del palazzo, come il prefetto del pretorio e lo storico Svetonio, i quali per questa ragione sarebbero stati allontanati. Certo è che non diede un figlio all’imperatore, perché era infeconda o forse perché i contatti con l’augusto consorte, ammesso che ci fossero, erano troppo saltuari.

 


 
Vibia Sabina

La cultura greca come modello di vita. Assai più della moglie, Adriano amava la Grecia, la sua storia, la sia arte, il suo pensiero. Ai Greci volle assomigliare anche nell’aspetto, lasciandosi crescere la barba come usavano gli antichi filosofi. Introdusse così a Roma una moda che sarà seguita dai suoi successori (prima di lui nessun imperatore aveva portato la barba se si esclude Nerone, che pure si atteggiava a cultore della civiltà greca). Inoltre, mostrò di apprezzare la pratica tutta greca della pederastia, cioè quello stretto legame che univa il maestro al discepolo e che spesso assumeva connotazioni apertamente critiche. Questo genere di omosessualità era ampiamente diffuso a Roma sin dai tempi della conquista della Grecia, quando la lingua, la cultura, i costumi di quel paese cominciarono a influenzare potentemente lo stile di vita dei romani. La disinvoltura sessuale di Cesare, per fare un esempio illustre, era così nota che i suoi soldati la celebravano nelle sfilate dei trionfi. Tiberio nella sua villa di Capri era solito nuotare in mezzo aschiere di adolescenti che chiamava ‘i miei pesciolini’. Anche un personaggio apparentemente austero come Traiano non disdegnava questo genere di legami. Ma a differenza di loro, che ne facevano un uso occasionale, per il passionale Adriano l’omosessualità diventò una scelta totalizzante quando incontrò il poco più che adolescente Antinoo. Nato in Bitinia, ma di origine greca, era giunto a Roma per completare l’istruzione superiore. Introdotto a corte, diventò subito il favorito dell’imperatore, che non se ne separò più.  Soggiogato dalla sua bellezza davvero statuaria, come documentano i tanti ritratti che ci rimangono di lui, oltre che dalla sua esuberanza giovanile, Adriano lo portò con sé in Africa, in Grecia e in Oriente. Lo introdusse alla conoscenza dei Misteri Eleusini (riti religiosi proveniente dall’antica Grecia), lo enne al suo fianco nelle battute di caccia in Asia Minore, lo volle accanto nella visita ai monumenti della Siria e dell’Egitto. Finché, nell’ottobre del 130, mentre navigavano sul Nilo, Antinoo cadde in acqua e annegò. Aveva solo 19 anni. Un incidente, si disse. Ma si parlò anche di suicidio legato al timore di perdere i favori dell’imperatore, ora che stava diventando un uomo, oppure di un sacrificio rituale per restituire al maturo amante la salute che stava declinando.

Andriano, travolto dal dolore, volle trasformare il favorito in divinità. In Egitto gli dedicò un’intera città, Antinopoli, dove Antinoo era rappresentato e venerato come un antico dio egizio. In ogni angolo dell’Impero furono erette statue cui erano riservati gli stessi onori dei membri della famiglia imperiale. Non bastandogli la terra ad esaltare il suo protetto, sostenne di averi visto la stella di Antinoo brillare in cielo e ordinò che una costellazione, prossima a quella dell’Aquila, avesse il suo nome. Follie d’amore di un uomo a cui restavano solo 8 anni da vivere, in gran parte dedicati alla memoria di quel ragazzo che, pur essendogli stato accanto per non più di 3 anni, aveva segnato in maniera indelebile la sua vita la sua figura nella Storia.

Passata, o meglio attenuatasi, la disperazione per la perdita dell’amante Adriano si dedicò alla ricerca di un successore, in vista di una fine che sentiva non lontana. Dopo aver passato in rassegna molti uomini meritevoli, nel 136 decise di adottare Elio Vero, un giovanotto frivolo e inconcludente che ai suoi occhi aveva però una dote decisiva: la straordinaria bellezza, paragonabile a quella di Antinoo. Adriano gli attribuì il titolo di Cesare, destinato al successore designato, e ne fece il suo amante. Ma anche Elio Vero morì prematuramente, il 1° gennaio del 138. Il giorno dopo avrebbe dovuto tenere un discorso al Senato per sancire il suo ruolo come erede di Adriano.

L’imperatore, sempre più malato, ripiegò su un senatore di circa 50 anni, da tutti ammirato per la sua condotta irreprensibile. Si chiamava Antonino e fu detto Pio per la sua pietas. Adriano lo proclamò figlio e successore a condizione a adottasse a sua volta Marco Aurelio, un ragazzo di 17 anni figlio di Faustina, la figlia di Antonino. Mai scelta si rivelò più azzeccata. I due Antonini regnarono complessivamente per 42 anni e questo periodo è forse stato “il solo della Storia nel quale la felicità di un grande popolo sia stata l’unico scopo di chi lo governava” parole del già citato Gibbon, da ascrivere anche a merito di chi quella scelta, sia pure di ripiego, l’aveva fatta. Pochi mesi dopo aver passato il potere ad Antonino, il 62 imperatore morì a Baia, dove si era ritirato, il 10 luglio del 138, dopo aver regnato per 21 anni e 12 mesi.

 


Antinoo come Osiride, con il nemes e l'ureo.

Articolo di Gianna Bragato (giornalista e scrittore di storia) pubblicato su BBC History n. 22 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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