Quando la guerra dettava la moda.
Nel Rinascimento armi e armature ebbero, per la classe
combattente un valore totalizzante. Non solo per il loro tradizionale uso in
guerra, ma anche perché si imposero come status symbol, ecco perché le botteghe
artigiani crearono capolavori artistici da sfoggiare in battaglia e nelle
occasioni mondane come i tornei.
“Come
trovasti, o scelerata e brutta invenzion, mai loco in uman core? / per te la
militar gloria è distrutta, / per te il mestier de l’arme è senza onore”. Con
questi versi dell’Orlando furioso Ludovico Ariosto lamentava, al principio del
Cinquecento, l’introduzione dell’”abonimoso ordigno”, quell’arma da fuoco rea a
suo dire di aver inferto un colpo mortale al concetto “cavalleresco” del “fare
la guerra”. Lungi dall’essere una semplice attività militare, la guerra per i
lunghi secoli medievali aveva rappresentato un insieme di valori peculiari,
incarnati appunto nella romanzesca (e ambigua, oltre che storicamente molto più
complessa) figura del cavaliere, concepito secondo la simbologia cristiana –
benché la realtà fosse assai meno oleografica – come il difensore dei deboli e
degli oppressi e il paladino della giustizia. Nel Rinascimento, però, l’arte
bellica divenne appannaggio dei nuovi “signori della guerra” , i capitani di
ventura, che combattevano al soldo dei potenti cambiando bandiera alla bisogna,
una circostanza deplorata, con amaro rimpianto, nelle chanson de geste e in
poemi fortemente nostalgici come la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e,
appunto il Furioso dell’Ariosto.
Il mondo simbolico
legato all’arte marziale non cessò, tuttavia, di esistere quando tuonarono i
primi colpi di bombarda e archibugio, ma anzi proseguì con inedite connotazioni
nel Rinascimento, quando per principi e condottieri indossare armi – e
soprattutto armature – straordinariamente elaborate divenne un modo per
autorappresentarsi e, dato il costo esorbitante, ribadire in maniera plastica
al mondo la propria ascendenza e il proprio rango.
Lancia in resta: le armature da
giostra.
Alle armature da piastra
utilizzate in battagliArmatura da giostra tp. Stechzeug di Giovanni, Elettore di Sassonia - Kunsthistorisches Museum di Viennaa si affiancavano, nel Quattrocento, quelle da
“giostra” sfoggiate durante gli
esercizi ludici (gli Hastliludi, giochi con l’asta o lancia) propedeutici
alla pratica militare vera e propria, i tornei divennero pratica comune
nell’aristocrazia europea a partire dal XIV secolo e conobbero nei secoli
successivi, fino alla loro scomparsa nel XVII secolo, un’evoluzione che
richiese un puntuale adeguamento tecnico anche per quanto riguarda le armi
utilizzate, sia da carica (la lancia da giostra era più pesante e precisa
dell’antica lancia da cinghiale) che da difesa. A infondervi grande impulso
fu, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’imperatore Massimiliano I
d’Asburgo, grande collezionista e appassionato di armi: presso la sua corte
si svilupparono due tipologie di tornei, il Rennen e lo Stechen, che
produssero le corrispondenti tipologie di armatura, la Rennzeug e la
Stechzeug, la prima notevolmente più leggera della seconda. Nel Rennen
infatti l’obiettivo era colpire soltanto lo scudo dell’avversario, mentre
nello Stechen il combattimento era a impatto pieno, ragion per cui la
Stechzeug si presentava come una massiccia gabbia d’acciaio che lasciava
scoperte solo le gambe protette dalla gualdrappa corazzata del destriero. La
testa del cavaliere era completamente coperta con un elmo a bigoncia la cui
evoluzione definitiva fu quella “a bocca di rana”. Le parti specifiche
dell’armatura erano invece la guarda stanca, una piastra d’acciaio destinata
a staccarsi non appena ricevuto il colpo da parte della lancia avversaria, e
la resta, una sorta di gancio a uncino che doveva sorreggere la parte
posteriore della lancia. Un altro tipo di scontro era il Kolbenturnier, nel
quale i contendenti si affrontavano a colpi di clava o mazza ferrata con un
tipo specifico di armatura a piastre: questa tipologia presentava
relativamente poche protezioni alle braccia, per lasciarle il più possibile
mobili, mentre viceversa concentrava l’attenzione sulla testa, coperta da
grossi caschi sferici in acciaio che ricordano quelli del palombaro, con
tanto di grata frontale per garantire la visibilità.
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Una funzione magico-sacrale. L’usanza di attribuire
alle armi un significato simbolico era già presente nel periodo tardo antico e
nel primissimo Medioevo. Presso i Longobardi, ad esempio, ogni uomo libero
aveva il diritto e il dovere di portare le armi e tale condizione era
simboleggiata dallo scramasax, un lungo coltello multiuso a filo unico – in
pratica, simile al gladio – lungo dai 40 agli 80 cm e adatto alla caccia e ai
combattimenti corpo a corpo. Grande importanza, inoltre, aveva la lancia. Lunga
almeno due metri, possedeva un forte significato magico-sacrale, ed era
connessa alla regalità: l’assemblea (gairethinx) dei guerrieri, riunita per
scegliere il sovrano, lo acclamava infatti con le lance alzate. Tale
circostanza ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che, analogamente ai Sassoni
i quali deriverebbero il loro nome dal seax (o sax, di cui lo scamasax
rappresenta una variante), lo stesso nome “Longobardi” significasse “uomini
dalle lunghe lance”. In realtà, com’è noto e ormai universalmente accettato,
sta per “uomini dalla lunga barba”, ma ciò nulla toglie alla portata simbolica
dell’arma nella loro cultura, tanto più che essa era utilizzata da
Godan/Wotan/Odino, il dio della guerra del pantheon germanico e norreno, e
anche dal santo più caro ai Longobardi dopo la loro conversione al
Cristianesimo, l’arcangelo Michele. Un’altra arma simbolica medievale fu la
Santa Lancia brandita da Ottone I contro gli Ungari nel 955 a Lechfeld: una
tradizione la collegava a quella utilizzata sul Golgotha dal legionario Longino
per trafiggere il corpo di Cristo crocifisso allo scopo di sincerarsi della sua
morte, e la presenza nell’impugnatura del metallo ricavato dai presunti chiodi
del patibolo elevò il sovrano sassone (nonché futuro imperatore del Sacro
Romano Impero) al rango di intermediario fra Dio e l’esercito, conferendogli
contro i temutissimi Ungari ancora pagani una sorta di missione soprannaturale.
In età feudale cavalleresca, l’arma per eccellenza divenne la spada, alter ego
del cavaliere da cui non si separava mai e che rappresentava anche il potere e
la giustizia (umana e divina). La tradizione tramanda nomi di spade illustri
appartenute a personaggi altrettanto celebri, storici o leggendari che fossero:
la Durilindana di Orlando, la mitica Excalibur (letteralmente, “che taglia
l’acciaio”) di re Artù, la Tizona di Rodigo Diaz de Vivar, meglio noto come il
Cid Campeador. Il duo spada-cavaliere si scindeva soltanto quando il secondo
moriva oppure decideva di donarla a un uomo del suo seguito particolarmente
meritevole: è il caso della Durlindana, secondo la leggenda ricevuta da Orlando
dal suo signore, Carlo Magno. La spada poteva essere abbandonata – ma mai in battaglia, cosa
considerata ignominiosa – solo se il cavaliere decideva di cambiare vita. Fu
ciò che fece il senese Gaiano Guidotti nel XII secolo quando scelse di
abbandonare la professione del guerriero per darsi all’eremitaggio. Salito sul
Monte Siepi, cercò del legno per costruire una croce ma non lo trovò: estrasse
allora la spada e l’affondò in una pietra. La “spada nella roccia” di Galgano,
ancora oggi visibile nell’eremo da lui fondato, ricorda del resto molto da
vicino la già citata Excalibur arturiana: lo stesso nome Galgano altro non è
che una variante del Gawain, un cavaliere legato alle imprese di Artù. Possiamo
qui soltanto accennare, inoltre, al fatto che, proprio per la sua grande
valenza simbolica e religiosa (esaltata in epoca crociata), la spada divenne
anche protagonista di molti trattati che insegnavano come maneggiarla,
trasformando il combattimento da fatto militare in arte.
Massimiliano I d’Asburgo,
l’imperatore che amava le armi.
Massimiliano I d’Asburgo
(1459-1519), Imperatore del Sacro Romano Impero, nutriva un’autentica
passione per le armi e le armature, che utilizzava non solo sui campi da
battaglio (creò il reparto dei Lanzichenecchi) e nelle giostre ma anche come
capo d’abbigliamento. Der letze Ritter (L’Ultimo cavaliere), come fu
soprannominato, era cliente fisso dei principali armaioli tedeschi, favorendo
così un’industria germanica, divenuta manifattura imperiale a Innsbruck, in
grado competere con quella italiana di Milano e di Venezia. Collezionò
inoltre moltissimi pezzi, gran parte dei quali originali, bizzarri e di gusto
decisamente “gotico”come la celebre panoplia donata a Enrico VIII
d’Inghilterra, realizzata nel 1514 da Konrad Seusemhoffer di Innsbruck, il
cui elmo era una maschera
rappresentante lo stesso Massimiliano ghignante con un grosso paio di
occhiali e due corna di capro in
ottone (oggi è esposta al Royal Armouries Museum di Leeds). All’imperatore e
a Seusenhoffer si attribuirsi l’invenzione (ma sarebbe meglio dire
perfezionamento) di una tipologia particolare di armature, le
Schott-Sonnenberg, eleganti nella forma ma da utilizzare anche per il
combattimento a piedi (come le precedenti Kastenbrust, diffuse già nel
Quattrocento), alleggerite di determinate componenti considerate superflue
come falde e spuntoni e munite invece di scarsella, una piastra di protezione
per l’inguine. Accanto a questo tipo di armatura gotica, esisteva infine la
Riefelhamisch (armatura scanalata), realizzata nella bottega dell’armoraro
Lorenz Helmscmied di Norimberga fino al 1530 circa e caratterizzata dalle
tipiche scanalature presenti su ogni parte dell’armatura stessa eccetto le
gambe.
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Le armature, corazze viaggianti. L’arma più
visibile era però l’armatura,che iniziò a farsi progressivamente più elaborata
nel Basso Medioevo, acquisendo di pari passo una valenza particolare che andava
ben oltre l’impiego bellico. La storia della sua evoluzione è lunga e
complessa, ma in estrema sintesi si può dire che fino al tutto il XII secolo le
armi difensive più diffuse fossero le antiche maglie di ferro, utilizzate già
dai Romani che le avevano mutate a loro volta dai Galli: flessibili e poco
ingombranti in quanto assimilabili, peso
e misure a parte, a un semplice indumento, erano indossate sopra a
un’imbottitura di tessuto o cuoio che permetteva di assorbire i colpi di taglio
limitando il rischio di fratture alle costole e agli arti. Le stoccate erano
invece ostacolate dagli anelli, rivettati e saldati, di cui era composta la
maglia, anche se nel caso di punte particolarmente aguzze (per esempio le
frecce) la protezione non sempre risultava efficace, riuscendo i proiettili a
infilarsi tra un anello e l’altro. dal Duecento in poi, per difendersi dai
micidiali colpi delle balestre, cominciarono a comparire le cosiddette
“lamerie”, lamiere anch’esse di metallo da indossare sopra la maglia in
corrispondenza dei punti vitali (come il busto): si trattava però di difese che
se offrivano sicuramente maggiore resistenza sia ai dardi che alle punte delle
spade, risultavano però molto più ingombranti e pesanti della cotta di maglia
(il cosiddetto usbergo) che si estendeva sul busto fino alle ginocchia e lungo
le braccia fino ai gomiti. A completare l’area fino ad allora protetta
dall’usbergo si aggiunsero schinieri di cuoio pesante. Lo stesso procedimento
avvenne per le protezioni al capo, che divennero via via più complesse: al classico elmo con nasale divo nell’XI-XII
secolo, che lasciava in gran parte il volto scoperto, si affiancò la
cervelliera e poi una tipologia di elmo chiuso da una visiera (grand’elmo) in
seguito evolutosi – dopo altri complessi passaggi qui impossibili da riassumere
– nella bigoncia o calata, che chiudeva completamente il capo lasciando una
feritoia per gli occhi ed eventualmente completato da una barbozza per
proteggere la gola. Nel corso del Trecento le protezioni del corpo si
arricchirono di ulteriori elementi evolvendo verso l’armatura cosiddetta “a
piastra” : le mani, coperte in genere da muffole di maglia, furono chiuse in
guanti scaglie e poi nelle manopole “a clessidra”, con difese articolate per le
dita; gli schinieri divennero di metallo e anche gli avambracci e le cosce
passarono dall’avere protezioni in cuoio ad essere coperte pressoché totalmente
in metallo. Queste protezioni, però, erano solo giustapposte, senza una visione
organica totale ma messe “in aggiunta” alla maglia, la quale restava presente a
coprire i varchi non difesi dalle piastre (ad esempio in corrispondenza delle
ascelle), la schiena e le spalle. Per vedere la nascita delle prime vere e
proprie “armature da uomo d’arme”, le cui parti erano una corazza toracica
(petto globoide) in acciaio, arnesi di piastra per le gambe (raccordati dal
ginocchiello) e bracciali composti da vambrace e rebrace uniti da una cubitiera
in corrispondenza del gomito, si dovette attendere la seconda metà del
Trecento. Nel secolo successivo, il Quattrocento, parallelamente
all’introduzione delle armi da fuoco (il primo esemplare pervenutoci data al
1417) l’armatura conobbe il suo assetto definitivo aggiungendo, in una vera e
propria “corsa agli armamenti”, ulteriori protezioni a quelle già presenti: lo
spallaccio a tutela delle spalle, raccordato al bracciale; la panciera a
rinforzare la corazza nella zona del ventre, il “batticulo” appena sopra il
fondoschiena, unica zona a restare scoperta (insieme all’interno coscia) per
consentire il combattimento a cavallo (del resto in quel frangente erano aree
già coperte già dalla sella). Nell’armatura italiana, infine, le protezioni del
braccio sinistro risultavano rinforzate rispetto a quello destro, dato che
quest’ultimo era in genere quello che brandiva la spada (mentre il sinistro,
reggente le briglie, risultava maggiormente esposto ai colpi avversari): questo
espediente permise di eliminare lo scudo della panoplia del cavaliere eccezion
fatta che nelle giostre e nei combattimenti appiedati.
Costosi capolavori artistici. Così celato, il
cavaliere era molto difficilmente riconoscibile, perciò si rese necessario
ricorrere all’araldica per consentirne l’identificazione: il combattente, cioè,
oltre a indossare vesti recanti il suo blasone, prese ad arricchire la propria
panoplia di elementi fortemente caratterizzanti e distintivi, ad esempio
cimieri decorati e vistosi. Nacque così l’armatura come forma di
“rappresentazione” do sé, del proprio casato e, a causa dell’altissimo costo di
realizzazione, anche della propria ricchezza.
Questa esigenza conobbe
la sua acme nel Rinascimento, quando ispirandosi al mondo classico, condottieri
e principi amavano farsi ritrarre come gli eroi dell’antichità, rispecchiando
tale magnificenza nelle armi che indossavano. Tra le figure più utilizzate come
modello ci fu, naturalmente, quella del semidio eroe Ercole, che compare ad
esempio sulla cinquedea, la tipica spada corta originatisi in ambito estense,
di Cesare Borgia, prodotta nel 1499 da Salomone da Sesso (che si faceva chiare
“Erculis Fidelis”). Sulle armature troviamo rimandi a imprese e personaggi
significati del passato come Traiano, Cesare e Orazio Coclite, ma anche il
Gorgoneion, un pendente che rappresentava la testa di una Gorgone utilizza come
decorazione ma soprattutto a scopo apotropaico. Queste armature, fastose e
monumentali come una scultura, avevano un costo esorbitante a causa della
necessità di conciliare la logica estetica con il funzionamento meccanico delle
parti, quindi erano appannaggio esclusivo dei principi e della casta militare,
i quali le utilizzavano come strumenti di affermazione nella loro sprezzante
superiorità e antica ascendenza, sovente ricollegata come si è detto al mito.
Nel Rinascimento i
centri di produzione delle armature erano essenzialmente due, l’Italia e la
Germania, pur non essendoci una netta dicotomia tra i due “stili”, si può però
osservare che se la scuola tedesca era caratterizzata da piastre dai profili
più appuntiti e nervosi, quella itlaina presentava armature più armoniose, con
piastre lisce e lucidate a specchio. Tra i maggiori centri di produzione
c’erano Venezia e soprattutto Milano, che nel Quattro e Cinquecento detenne il
primato assoluto con la presenza, in città, di decine di botteghe – tutte
concentrate nella zona delle odierne via Spadari e Armorari, che appunto le
ricordano nel nome – le quali fornivano armature al fior fiore della nobiltà e
alle coronate d’Europa.
Una armatura creata da Antonio Missaglia (1450 circa)
Conosciamo i nomi delle
dinastie di questi artigiani – i Negroli, i Missaglia, i Modrone, Mozio, Merate
e altre famiglie meno note – nonché dei prestigiosi committenti: gli imperatori
Federico III, Massimiliano I e Carlo V, re Carlo VII di Francia, Sigismondo
Malatesta, Luigi XI di Baviera. Ogni bottega contrassegnava i propri capolavori
di arte suntuaria – perché di ciò, in effetti, si trattava con il proprio
signum o marchio di fabbrica.
spada cinquedea
Dai campi di battaglia ai musei. Nonostante
queste armature fossero create per essere indossate sul campo di battaglia (si
ha una prova documentaria certa, per esempio, per gli apparecchi progettati dal
geniale Filippo Negroli), è un dato di fatto che il combattente perdesse in
mobilità e finisse per mostrare il fianco ai reparti di fanteria, sempre più
agguerriti e ben equipaggiati, come i balestrieri e gli arcieri: fu così ad
esempio per la cavalleria francese, travolta dagli inglesi a Crécy (1346) e ad
Agincourt (1415), in quest’ultimo caso affondando nel fango e finendo trafitti
da una pioggia di dardi. Sempre più pesante e impacciato, il cavaliere nel
tardo Medioevo fece dunque speso l’ingloriosa fine di un “povero crostaceo”
(l’espressione efficacissima, è dello storico Franco Cardini) infilzato dalla
plebaglia; tuttavia non è vero, come vuole lo stereotipo, che una volta caduto
a terra egli non potesse più muoversi, essendo questa un’eventualità che poteva
capitare durante giostre e tornei, laddove il cavaliere indossava vere e
proprie gabbie di ferro come le Stechzeug, queste si pesantissime e davvero
difficili da gestire. Il declino del cavaliere si accentuò con l’introduzione
delle armi da fuoco. Se ancora fino al XVII secolo le possenti armature
riuscivano a offrire una discreta protezione ai colpi dei moschetti, si
rivelavano però troppo pesanti e scomode e subirono, in battaglia, modifiche,
come la scomparsa delle scarpe di ferro e degli schinieri, la sostituzione dei
bracciali con maniche di maglia, fino all’eliminazione di tutte le pezze tranne
il petto e la schiena “a prova di pallottola”, indossate insieme all’elmo.
Chiusa ormai l’epoca degli eroi, era iniziata quella della guerra intesa non
più come “esercizio di virtù” ma come “insano macello”, una concezione acuito
dal protestantesimo e dalla Controriforma che alle esaltazioni epiche del
passato sostituiva la tetra lettura dell’inconsistenza delle fortune umane.
Con l’età napoleonica,
la gloriosa stagione delle armature può dirsi conclusa. Da allora corazze ed
elmi divennero “pezzi da museo” da esporre nelle armerie dinastiche
(l’inventario dell’Armeria medicea del 1715 contemplava quasi diecimila pezzi,
per lo più armi “da mostra” ossia di pregio realizzate con metalli preziosi e
riccamente ornate), da contendersi nelle aste oppure da far sfilare in collezioni
aperte al pubblico. Oggi possiamo ammirarle in vari musei in Italia e nel
mondo; da noi, le collezioni più complete si trovano al Museo Stibbert di
Firenze, all’Armeria Reale di Torino, e presso la Collezione Odescalchi di
Palazzo Venezia e il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma. Visitarle è
un modo per ripercorrere questa straordinaria storia rinnovandone la
suggestione.
Articolo in gran parte
di Elena Percivaldi pubblicato storie di guerre e guerrieri n. 21. Altri testi
e immagini da Wikipedia
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