martedì 11 febbraio 2020

Quando la guerra dettava la moda.


Quando la guerra dettava la moda.
Nel Rinascimento armi e armature ebbero, per la classe combattente un valore totalizzante. Non solo per il loro tradizionale uso in guerra, ma anche perché si imposero come status symbol, ecco perché le botteghe artigiani crearono capolavori artistici da sfoggiare in battaglia e nelle occasioni mondane come i tornei.

“Come trovasti, o scelerata e brutta invenzion, mai loco in uman core? / per te la militar gloria è distrutta, / per te il mestier de l’arme è senza onore”. Con questi versi dell’Orlando furioso Ludovico Ariosto lamentava, al principio del Cinquecento, l’introduzione dell’”abonimoso ordigno”, quell’arma da fuoco rea a suo dire di aver inferto un colpo mortale al concetto “cavalleresco” del “fare la guerra”. Lungi dall’essere una semplice attività militare, la guerra per i lunghi secoli medievali aveva rappresentato un insieme di valori peculiari, incarnati appunto nella romanzesca (e ambigua, oltre che storicamente molto più complessa) figura del cavaliere, concepito secondo la simbologia cristiana – benché la realtà fosse assai meno oleografica – come il difensore dei deboli e degli oppressi e il paladino della giustizia. Nel Rinascimento, però, l’arte bellica divenne appannaggio dei nuovi “signori della guerra” , i capitani di ventura, che combattevano al soldo dei potenti cambiando bandiera alla bisogna, una circostanza deplorata, con amaro rimpianto, nelle chanson de geste e in poemi fortemente nostalgici come la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e, appunto il Furioso dell’Ariosto.
Il mondo simbolico legato all’arte marziale non cessò, tuttavia, di esistere quando tuonarono i primi colpi di bombarda e archibugio, ma anzi proseguì con inedite connotazioni nel Rinascimento, quando per principi e condottieri indossare armi – e soprattutto armature – straordinariamente elaborate divenne un modo per autorappresentarsi e, dato il costo esorbitante, ribadire in maniera plastica al mondo la propria ascendenza e il proprio rango.

Lancia in resta: le armature da giostra.
KHM Wien S XVI - Jousting armour of John the Constant, c. 1497-1505, front.jpg

Alle armature da piastra utilizzate in battagliArmatura da giostra tp. Stechzeug di Giovanni, Elettore di Sassonia - Kunsthistorisches Museum di Viennaa si affiancavano, nel Quattrocento, quelle da
“giostra” sfoggiate durante gli esercizi ludici (gli Hastliludi, giochi con l’asta o lancia) propedeutici alla pratica militare vera e propria, i tornei divennero pratica comune nell’aristocrazia europea a partire dal XIV secolo e conobbero nei secoli successivi, fino alla loro scomparsa nel XVII secolo, un’evoluzione che richiese un puntuale adeguamento tecnico anche per quanto riguarda le armi utilizzate, sia da carica (la lancia da giostra era più pesante e precisa dell’antica lancia da cinghiale) che da difesa. A infondervi grande impulso fu, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, grande collezionista e appassionato di armi: presso la sua corte si svilupparono due tipologie di tornei, il Rennen e lo Stechen, che produssero le corrispondenti tipologie di armatura, la Rennzeug e la Stechzeug, la prima notevolmente più leggera della seconda. Nel Rennen infatti l’obiettivo era colpire soltanto lo scudo dell’avversario, mentre nello Stechen il combattimento era a impatto pieno, ragion per cui la Stechzeug si presentava come una massiccia gabbia d’acciaio che lasciava scoperte solo le gambe protette dalla gualdrappa corazzata del destriero. La testa del cavaliere era completamente coperta con un elmo a bigoncia la cui evoluzione definitiva fu quella “a bocca di rana”. Le parti specifiche dell’armatura erano invece la guarda stanca, una piastra d’acciaio destinata a staccarsi non appena ricevuto il colpo da parte della lancia avversaria, e la resta, una sorta di gancio a uncino che doveva sorreggere la parte posteriore della lancia. Un altro tipo di scontro era il Kolbenturnier, nel quale i contendenti si affrontavano a colpi di clava o mazza ferrata con un tipo specifico di armatura a piastre: questa tipologia presentava relativamente poche protezioni alle braccia, per lasciarle il più possibile mobili, mentre viceversa concentrava l’attenzione sulla testa, coperta da grossi caschi sferici in acciaio che ricordano quelli del palombaro, con tanto di grata frontale per garantire la visibilità.  




Una funzione magico-sacrale. L’usanza di attribuire alle armi un significato simbolico era già presente nel periodo tardo antico e nel primissimo Medioevo. Presso i Longobardi, ad esempio, ogni uomo libero aveva il diritto e il dovere di portare le armi e tale condizione era simboleggiata dallo scramasax, un lungo coltello multiuso a filo unico – in pratica, simile al gladio – lungo dai 40 agli 80 cm e adatto alla caccia e ai combattimenti corpo a corpo. Grande importanza, inoltre, aveva la lancia. Lunga almeno due metri, possedeva un forte significato magico-sacrale, ed era connessa alla regalità: l’assemblea (gairethinx) dei guerrieri, riunita per scegliere il sovrano, lo acclamava infatti con le lance alzate. Tale circostanza ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che, analogamente ai Sassoni i quali deriverebbero il loro nome dal seax (o sax, di cui lo scamasax rappresenta una variante), lo stesso nome “Longobardi” significasse “uomini dalle lunghe lance”. In realtà, com’è noto e ormai universalmente accettato, sta per “uomini dalla lunga barba”, ma ciò nulla toglie alla portata simbolica dell’arma nella loro cultura, tanto più che essa era utilizzata da Godan/Wotan/Odino, il dio della guerra del pantheon germanico e norreno, e anche dal santo più caro ai Longobardi dopo la loro conversione al Cristianesimo, l’arcangelo Michele. Un’altra arma simbolica medievale fu la Santa Lancia brandita da Ottone I contro gli Ungari nel 955 a Lechfeld: una tradizione la collegava a quella utilizzata sul Golgotha dal legionario Longino per trafiggere il corpo di Cristo crocifisso allo scopo di sincerarsi della sua morte, e la presenza nell’impugnatura del metallo ricavato dai presunti chiodi del patibolo elevò il sovrano sassone (nonché futuro imperatore del Sacro Romano Impero) al rango di intermediario fra Dio e l’esercito, conferendogli contro i temutissimi Ungari ancora pagani una sorta di missione soprannaturale. In età feudale cavalleresca, l’arma per eccellenza divenne la spada, alter ego del cavaliere da cui non si separava mai e che rappresentava anche il potere e la giustizia (umana e divina). La tradizione tramanda nomi di spade illustri appartenute a personaggi altrettanto celebri, storici o leggendari che fossero: la Durilindana di Orlando, la mitica Excalibur (letteralmente, “che taglia l’acciaio”) di re Artù, la Tizona di Rodigo Diaz de Vivar, meglio noto come il Cid Campeador. Il duo spada-cavaliere si scindeva soltanto quando il secondo moriva oppure decideva di donarla a un uomo del suo seguito particolarmente meritevole: è il caso della Durlindana, secondo la leggenda ricevuta da Orlando dal suo signore, Carlo Magno. La spada poteva essere  abbandonata – ma mai in battaglia, cosa considerata ignominiosa – solo se il cavaliere decideva di cambiare vita. Fu ciò che fece il senese Gaiano Guidotti nel XII secolo quando scelse di abbandonare la professione del guerriero per darsi all’eremitaggio. Salito sul Monte Siepi, cercò del legno per costruire una croce ma non lo trovò: estrasse allora la spada e l’affondò in una pietra. La “spada nella roccia” di Galgano, ancora oggi visibile nell’eremo da lui fondato, ricorda del resto molto da vicino la già citata Excalibur arturiana: lo stesso nome Galgano altro non è che una variante del Gawain, un cavaliere legato alle imprese di Artù. Possiamo qui soltanto accennare, inoltre, al fatto che, proprio per la sua grande valenza simbolica e religiosa (esaltata in epoca crociata), la spada divenne anche protagonista di molti trattati che insegnavano come maneggiarla, trasformando il combattimento da fatto militare in arte.

Massimiliano I d’Asburgo, l’imperatore che amava le armi.
Zbroja 1514.JPG
Armatura massimilianea (1514) - Polish Army Museum di Varsavia

Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519), Imperatore del Sacro Romano Impero, nutriva un’autentica passione per le armi e le armature, che utilizzava non solo sui campi da battaglio (creò il reparto dei Lanzichenecchi) e nelle giostre ma anche come capo d’abbigliamento. Der letze Ritter (L’Ultimo cavaliere), come fu soprannominato, era cliente fisso dei principali armaioli tedeschi, favorendo così un’industria germanica, divenuta manifattura imperiale a Innsbruck, in grado competere con quella italiana di Milano e di Venezia. Collezionò inoltre moltissimi pezzi, gran parte dei quali originali, bizzarri e di gusto decisamente “gotico”come la celebre panoplia donata a Enrico VIII d’Inghilterra, realizzata nel 1514 da Konrad Seusemhoffer di Innsbruck, il cui elmo  era una maschera rappresentante lo stesso Massimiliano ghignante con un grosso paio di occhiali e due corna di capro  in ottone (oggi è esposta al Royal Armouries Museum di Leeds). All’imperatore e a Seusenhoffer si attribuirsi l’invenzione (ma sarebbe meglio dire perfezionamento) di una tipologia particolare di armature, le Schott-Sonnenberg, eleganti nella forma ma da utilizzare anche per il combattimento a piedi (come le precedenti Kastenbrust, diffuse già nel Quattrocento), alleggerite di determinate componenti considerate superflue come falde e spuntoni e munite invece di scarsella, una piastra di protezione per l’inguine. Accanto a questo tipo di armatura gotica, esisteva infine la Riefelhamisch (armatura scanalata), realizzata nella bottega dell’armoraro Lorenz Helmscmied di Norimberga fino al 1530 circa e caratterizzata dalle tipiche scanalature presenti su ogni parte dell’armatura stessa eccetto le gambe.


Cavaliere in armatura a piastre su cavallato bardato

Le armature, corazze viaggianti. L’arma più visibile era però l’armatura,che iniziò a farsi progressivamente più elaborata nel Basso Medioevo, acquisendo di pari passo una valenza particolare che andava ben oltre l’impiego bellico. La storia della sua evoluzione è lunga e complessa, ma in estrema sintesi si può dire che fino al tutto il XII secolo le armi difensive più diffuse fossero le antiche maglie di ferro, utilizzate già dai Romani che le avevano mutate a loro volta dai Galli: flessibili e poco ingombranti in quanto assimilabili, peso  e misure a parte, a un semplice indumento, erano indossate sopra a un’imbottitura di tessuto o cuoio che permetteva di assorbire i colpi di taglio limitando il rischio di fratture alle costole e agli arti. Le stoccate erano invece ostacolate dagli anelli, rivettati e saldati, di cui era composta la maglia, anche se nel caso di punte particolarmente aguzze (per esempio le frecce) la protezione non sempre risultava efficace, riuscendo i proiettili a infilarsi tra un anello e l’altro. dal Duecento in poi, per difendersi dai micidiali colpi delle balestre, cominciarono a comparire le cosiddette “lamerie”, lamiere anch’esse di metallo da indossare sopra la maglia in corrispondenza dei punti vitali (come il busto): si trattava però di difese che se offrivano sicuramente maggiore resistenza sia ai dardi che alle punte delle spade, risultavano però molto più ingombranti e pesanti della cotta di maglia (il cosiddetto usbergo) che si estendeva sul busto fino alle ginocchia e lungo le braccia fino ai gomiti. A completare l’area fino ad allora protetta dall’usbergo si aggiunsero schinieri di cuoio pesante. Lo stesso procedimento avvenne per le protezioni al capo, che divennero via via più complesse: al  classico elmo con nasale divo nell’XI-XII secolo, che lasciava in gran parte il volto scoperto, si affiancò la cervelliera e poi una tipologia di elmo chiuso da una visiera (grand’elmo) in seguito evolutosi – dopo altri complessi passaggi qui impossibili da riassumere – nella bigoncia o calata, che chiudeva completamente il capo lasciando una feritoia per gli occhi ed eventualmente completato da una barbozza per proteggere la gola. Nel corso del Trecento le protezioni del corpo si arricchirono di ulteriori elementi evolvendo verso l’armatura cosiddetta “a piastra” : le mani, coperte in genere da muffole di maglia, furono chiuse in guanti scaglie e poi nelle manopole “a clessidra”, con difese articolate per le dita; gli schinieri divennero di metallo e anche gli avambracci e le cosce passarono dall’avere protezioni in cuoio ad essere coperte pressoché totalmente in metallo. Queste protezioni, però, erano solo giustapposte, senza una visione organica totale ma messe “in aggiunta” alla maglia, la quale restava presente a coprire i varchi non difesi dalle piastre (ad esempio in corrispondenza delle ascelle), la schiena e le spalle. Per vedere la nascita delle prime vere e proprie “armature da uomo d’arme”, le cui parti erano una corazza toracica (petto globoide) in acciaio, arnesi di piastra per le gambe (raccordati dal ginocchiello) e bracciali composti da vambrace e rebrace uniti da una cubitiera in corrispondenza del gomito, si dovette attendere la seconda metà del Trecento. Nel secolo successivo, il Quattrocento, parallelamente all’introduzione delle armi da fuoco (il primo esemplare pervenutoci data al 1417) l’armatura conobbe il suo assetto definitivo aggiungendo, in una vera e propria “corsa agli armamenti”, ulteriori protezioni a quelle già presenti: lo spallaccio a tutela delle spalle, raccordato al bracciale; la panciera a rinforzare la corazza nella zona del ventre, il “batticulo” appena sopra il fondoschiena, unica zona a restare scoperta (insieme all’interno coscia) per consentire il combattimento a cavallo (del resto in quel frangente erano aree già coperte già dalla sella). Nell’armatura italiana, infine, le protezioni del braccio sinistro risultavano rinforzate rispetto a quello destro, dato che quest’ultimo era in genere quello che brandiva la spada (mentre il sinistro, reggente le briglie, risultava maggiormente esposto ai colpi avversari): questo espediente permise di eliminare lo scudo della panoplia del cavaliere eccezion fatta che nelle giostre e nei combattimenti appiedati.

 Armatura da corazziere in stile savoiardo, risalente al 1600-1620
Costosi capolavori artistici. Così celato, il cavaliere era molto difficilmente riconoscibile, perciò si rese necessario ricorrere all’araldica per consentirne l’identificazione: il combattente, cioè, oltre a indossare vesti recanti il suo blasone, prese ad arricchire la propria panoplia di elementi fortemente caratterizzanti e distintivi, ad esempio cimieri decorati e vistosi. Nacque così l’armatura come forma di “rappresentazione” do sé, del proprio casato e, a causa dell’altissimo costo di realizzazione, anche della propria ricchezza.
Questa esigenza conobbe la sua acme nel Rinascimento, quando ispirandosi al mondo classico, condottieri e principi amavano farsi ritrarre come gli eroi dell’antichità, rispecchiando tale magnificenza nelle armi che indossavano. Tra le figure più utilizzate come modello ci fu, naturalmente, quella del semidio eroe Ercole, che compare ad esempio sulla cinquedea, la tipica spada corta originatisi in ambito estense, di Cesare Borgia, prodotta nel 1499 da Salomone da Sesso (che si faceva chiare “Erculis Fidelis”). Sulle armature troviamo rimandi a imprese e personaggi significati del passato come Traiano, Cesare e Orazio Coclite, ma anche il Gorgoneion, un pendente che rappresentava la testa di una Gorgone utilizza come decorazione ma soprattutto a scopo apotropaico. Queste armature, fastose e monumentali come una scultura, avevano un costo esorbitante a causa della necessità di conciliare la logica estetica con il funzionamento meccanico delle parti, quindi erano appannaggio esclusivo dei principi e della casta militare, i quali le utilizzavano come strumenti di affermazione nella loro sprezzante superiorità e antica ascendenza, sovente ricollegata come si è detto al mito.
Nel Rinascimento i centri di produzione delle armature erano essenzialmente due, l’Italia e la Germania, pur non essendoci una netta dicotomia tra i due “stili”, si può però osservare che se la scuola tedesca era caratterizzata da piastre dai profili più appuntiti e nervosi, quella itlaina presentava armature più armoniose, con piastre lisce e lucidate a specchio. Tra i maggiori centri di produzione c’erano Venezia e soprattutto Milano, che nel Quattro e Cinquecento detenne il primato assoluto con la presenza, in città, di decine di botteghe – tutte concentrate nella zona delle odierne via Spadari e Armorari, che appunto le ricordano nel nome – le quali fornivano armature al fior fiore della nobiltà e alle coronate d’Europa.

Una armatura creata da Antonio Missaglia (1450 circa)

Conosciamo i nomi delle dinastie di questi artigiani – i Negroli, i Missaglia, i Modrone, Mozio, Merate e altre famiglie meno note – nonché dei prestigiosi committenti: gli imperatori Federico III, Massimiliano I e Carlo V, re Carlo VII di Francia, Sigismondo Malatesta, Luigi XI di Baviera. Ogni bottega contrassegnava i propri capolavori di arte suntuaria – perché di ciò, in effetti, si trattava con il proprio signum o marchio di fabbrica.
 Cinquedea1.jpg
spada cinquedea 

Dai campi di battaglia ai musei. Nonostante queste armature fossero create per essere indossate sul campo di battaglia (si ha una prova documentaria certa, per esempio, per gli apparecchi progettati dal geniale Filippo Negroli), è un dato di fatto che il combattente perdesse in mobilità e finisse per mostrare il fianco ai reparti di fanteria, sempre più agguerriti e ben equipaggiati, come i balestrieri e gli arcieri: fu così ad esempio per la cavalleria francese, travolta dagli inglesi a Crécy (1346) e ad Agincourt (1415), in quest’ultimo caso affondando nel fango e finendo trafitti da una pioggia di dardi. Sempre più pesante e impacciato, il cavaliere nel tardo Medioevo fece dunque speso l’ingloriosa fine di un “povero crostaceo” (l’espressione efficacissima, è dello storico Franco Cardini) infilzato dalla plebaglia; tuttavia non è vero, come vuole lo stereotipo, che una volta caduto a terra egli non potesse più muoversi, essendo questa un’eventualità che poteva capitare durante giostre e tornei, laddove il cavaliere indossava vere e proprie gabbie di ferro come le Stechzeug, queste si pesantissime e davvero difficili da gestire. Il declino del cavaliere si accentuò con l’introduzione delle armi da fuoco. Se ancora fino al XVII secolo le possenti armature riuscivano a offrire una discreta protezione ai colpi dei moschetti, si rivelavano però troppo pesanti e scomode e subirono, in battaglia, modifiche, come la scomparsa delle scarpe di ferro e degli schinieri, la sostituzione dei bracciali con maniche di maglia, fino all’eliminazione di tutte le pezze tranne il petto e la schiena “a prova di pallottola”, indossate insieme all’elmo. Chiusa ormai l’epoca degli eroi, era iniziata quella della guerra intesa non più come “esercizio di virtù” ma come “insano macello”, una concezione acuito dal protestantesimo e dalla Controriforma che alle esaltazioni epiche del passato sostituiva la tetra lettura dell’inconsistenza delle fortune umane.
Con l’età napoleonica, la gloriosa stagione delle armature può dirsi conclusa. Da allora corazze ed elmi divennero “pezzi da museo” da esporre nelle armerie dinastiche (l’inventario dell’Armeria medicea del 1715 contemplava quasi diecimila pezzi, per lo più armi “da mostra” ossia di pregio realizzate con metalli preziosi e riccamente ornate), da contendersi nelle aste oppure da far sfilare in collezioni aperte al pubblico. Oggi possiamo ammirarle in vari musei in Italia e nel mondo; da noi, le collezioni più complete si trovano al Museo Stibbert di Firenze, all’Armeria Reale di Torino, e presso la Collezione Odescalchi di Palazzo Venezia e il Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma. Visitarle è un modo per ripercorrere questa straordinaria storia rinnovandone la suggestione.

Articolo in gran parte di Elena Percivaldi pubblicato storie di guerre e guerrieri n. 21. Altri testi e immagini da Wikipedia

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