La forza delle antiche
lame.
La più nota e temibile
arma del mondo antico, vero simbolo dell’aggressività e dell’abilità del
legionario romano, aveva un nome destinato a diventare leggenda: il gladio.
Le
spade dei primi combattenti romani, come gli armamenti etruschi in uso tra
l’VIII e il VI secolo a.C., erano in bronzo e derivano dalla cosiddetta Cultura
di Hallstatt, sviluppatasi nelle regioni dell’Europa Centrale e diffusasi in Etruria e in Italia durante la
prima età del bronzo. Una delle prime fogge è la spada di Vetulonia, lunga 66
cm e quasi identica a un esemplare rinvenuto a Roma nelle tombe dell’Esquilino.
Era d’uso comune anche una daga, o spada corta, o spada a T, in bronzo
(raramente in ferro), di provenienza greco-micenea o comunque orientale. Il
prolungamento della lama costituiva l’anima dell’impugnatura, che terminava
allargandosi leggermente verso l’esterno. All’anima di ferro era assicurato con
dei rivetti, o legato con un filo di bronzo, un rivestimento di legno, osso o
corno, che costituiva l’impugnatura e terminava con un pomello o un segmento di
cerchio. Per il combattente greco del periodo classico, la spada non svolgeva
un ruolo primario nello scontro, che era affidato soprattutto all’uso dello
scudo (hoplan, o aspis in latino) e lancia da urto: si ricorreva alla spada
solo in caso di combattimento molto ravvicinato.
Il periodo oplitico. Il modello più diffuso
tra i soldati romani fino al IV secolo a.C. era quello classico, di derivazione
greca, lo xiphos, o phaganon: una spada in bronzo o ferro, lunga dai 50 o 60
cm, con il manico a forma di croce, in grado di colpire sia di punta che di
taglio. La forma della lama, a foglia di salice allungata o leggermente
lanceolata, aveva l’obbiettivo di aumentare l’effetto dei colpi di taglio,
concentrando il peso dell’arma nel punto di più probabile impatto.
Un’altra lama molto
usata era il kopis, piuttosto comune in Grecia nel V e IV secolo a.C. e
prontamente adottata dagli Etruschi: era una spada a un solo taglio, di
lunghezza variabile tra i 60 e gli 80 cm, con un profilo convesso molto
pronunciato e una robusta parte terminale. Derivato probabilmente dall’antica
khopesh egizia, molto simile a un’ascia, il kopis era in grado di assestare fendenti
micidiali durante le mischie, aggirando i grandi scudi rotondi in virtù dello
slancio favorito dalla massa della lama, spostata in direzione della punta.
Tale caratteristica ne faceva un’arma ideale anche per la cavalleria (Senofonte
consigliava esplicitamente ai cavalieri di adottare il kopis invece dello
xiphos). L’impugnatura aveva una caratteristica forma avvolgente, spesso
sagomata artisticamente a testa di uccello o di altro animale, e in alcuni casi
completamente chiusa. In epoca successiva, i guerrieri iberici ne utilizzarono
una versione più lunga e con un profilo sagomato a forma di “S” appena
accennata, molto simile al kukri, il famoso coltello ricurvo dei Gurka.
Quest’arma, chiamata con termine moderno “falcata” (ovvero a forma di falce), a
differenza del kopis aveva la parte anteriore della lama a doppio filo, ed era
quindi adatta a colpire anche di punta.
L’età repubblicana. A partire dal III
secolo a.C., nonostante la sopravvivenza di qualche esemplare di xiphos e di
falcata, si diffuse tra i legionari l’uso del cosiddetto gladius Hispaniensis,
come viene chiamato da Polibio e da Livio, in riferimento alla sua origine
spagnola. Introdotta forse dai mercenari celtiberi al seguito di Annibale,
questa robusta spada in ferro derivava, con ogni probabilità, da modelli di
spade celtiche importate nella Penisola Iberica qualche secolo prima della
conquista romana, e modificate dagli artigiani locali. Scipione ne fece
forgiare 100 mila esemplari per armare i suoi guerrieri durante la brillante
campagna di Spagna. Adatta a colpire sia di punta che di taglio, con una lama
lunga fino a 70 cm e lunga 5 o 6 cm, era considerata un’arma particolarmente
efficace, dagli effetti devastanti sia nelle mischie che nei combattimenti
individuali. Livio riferisce del terrore dei nemici alla vista delle orribili
ferite che era in grado di infliggere. Publio la descrive come elemento
fondamentale dell’armamento prescritto non solo ai fanti pesanti (hastati,
principes e triarii), ma anche alla fanteria leggera, i cosiddetti velites. Si
trattava di spade caratterizzate da una punta molto lunga e da tagli paralleli.
Alcune ricostruzioni moderne ipotizzano per il gladius Hispaniensis un profilo
leggermente a foglia di salice, a imitazione dello xiphos greco, ma gli
esemplari finora ritrovati non lasciano supporre che tale foggia venisse
realizzata sistematicamente e intenzionalmente.
Con la fine della
Repubblica e nei primi anni dell’età augustea si registra un progressivo ma
deciso accorciamento della lama del gladio. Si individuano due tipologie
distinte di arma, che tendono a sostituire in successione il glaudius
Hispaniensis: i tipi Mainz e Pompei.
Non
di taglio, ma di punta.
L’abilità
nel maneggio dei gladio fu sempre tenuta in grande considerazione nel
bagaglio professionale e nella tecnica di combattimento dei legionari, perché
costituiva il naturale completamento dell’azione dopo il lancio del giavellotto
pesante (il pilum) sullo schieramento nemico. Non si dispone di fonti
letterarie riguardo ai particolari della tecnica schermistica dell’epoca, ma
è possibile ipotizzare l’uso dl gladio in funzione della necessità di
affrontare efficacemente il nemico mentre si era inquadrati in una formazione
compatta, dunque con i movimenti limitati.
Il
gladio era un’arma decisamente offensiva, creata per colpire con rapide
stoccate, senza ricorrere a quelle che, con termine moderno, si definiscono
“parate”. L’obiettivo era chiudere il combattimento nel minor tempo
possibile. Vegezio, nel V secolo d.C., consigliava di colpire di punta
(punctim, anziché coesim, di taglio), in quanto bastava affondare la lama per
pochi centimetri nel corpo dell’avversario (purché in punti vitali) per
provocargli ferite mortali.
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Il periodo di Augusto. La lunghezza della lama del tipo Mainz si riduce vistosamente, mentre il
profilo appare caratterizzato da una base ancora piuttosto larga e da una più o
meno pronunciata rientranza nella parte centrale. La punta conserva invece la
forma lunga e aggressiva del periodo precedente. Il gladio Pompei prende nome
dal luogo del ritrovamento di una serie di esemplari risalenti all’eruzione del
Vesuvio del 79 d.C. Sostituisce gradualmente il Mainz a partire dalla metà del
I secolo e sembra accentuare la tendenza all’accorciamento della lama, che
misura mediamente attorno ai 50 cm e presenta fianchi rigorosamente paralleli. La
lama, stretta (mediamente tra i 4 e i 5 cm) e meno imponente, lascia ipotizzare
un uso dell’arma prevalentemente di punta: una tecnica utile soprattutto nelle
mischie serrate. Le sue caratteristiche sono compatibili con un processo di
fabbricazione molto semplice e uniforme, adatto per forgiare rapidamente grandi
quantità di armi. Per essere maneggiati con leggerezza e rapidità, i gladi
presentavano un pomello terminale piuttosto vistoso, di forma sferica o
ellissoidale, che fungeva da contrappeso. La lunghezza contenuta del gladio,
che risultava simile a un lungo pugnale, aveva lo scopo di agevolare il
movimento dell’arma in spazi molto ristretti. Anche la consuetudine di portarlo
sul lato destro, appeso alla cintura o a una tracolla (il balteus), trova
spiegazione nel fatto che era l’unico modo per estrarlo senza interferire con
lo scudo e senza disturbare i commilitoni schierati in formazione di
combattimento. Verso la fine del II secolo, provenienti soprattutto dall’area
sarmatica e transdanubiana, fecero la loro comparsa tra le file dell’esercito
romano anche tipi molto diversi di spada. Tra queste le cosiddette “spade ad
anello”, i cui primi esemplari presentavano una lama di lunghezza piuttosto
limitata (40-50 cm) e un anello variamente decorato al posto del pomello
terminale. La spada ad anello si diffuse soprattutto nell’occidente romano.
Fino alla metà del II secolo d.C., il termine spartha indicava una lama lunga e
stretta in dotazione alla cavalleria: lunghezza adeguata e peso limitato erano
requisiti essenziali per un’arma destinata a essere usata prevalentemente a
cavallo contro fanti isolati, con veloci fendenti menati dall’alto verso il
basso.
Le altre armi da fianco.
copia di pugio romano
Durante il periodo alto imperiale,
assieme al gladio, che veniva portato sul fianco destro, sul quello sinistro
compare il pugio. Di origine iberica, ha una caratteristica lama a foglia non
più lungo di 35 cm, spesso rinforzata da una vistosa nervatura centrale. Il
pugio mantenne a lungo, fino al III secolo d.C. il ruolo di arma secondaria,
spesso meramente ornamentale. Molti degli esemplari finora rinvenuti, e in
particolari i loro foderi, presentano un livello di lavorazione e di qualità
che il classico più come opere d’arte che come armi vere e proprie.
Il parazonium era invece un’arma
di fattura pregiata, riservata ai generali e agli alti ufficiali, che veniva
portata sul fianco sinistro. Più corta di un gladio ordinario, aveva il
manico sagomato artisticamente, di solito a forma di testa d’aquila. Marziale
la definì “arma trivuncium cingere digna latus” ovvero “un’arma degna di
cingere al fianco di un tribuno”. Era considerata un oggetto simbolico segno
di potere e di autorità, ma è probabile che venisse anche conferita come
decorazione per ricompensare atti di particolare valore e audacia.
ricostruzioni di parazonium
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Parole di Roma: Gladius.
Secondo lo storico Varrone (I
secolo d.C), il termine gladius deriverebbe da cladis, che significa
“disastro”, “distruzione”: un accostamento simbolico, significativo della
terribile efficacia di quest’arma. In effetti, l’etimologia è probabilmente
legata alla radice indoeuropea kal o kla, con il significato di “battere”,
“rompere” o “spezzare”, da cui derivano parole come clava o claves (strage).
Simili anche il lituano kalti (battere), lo slavo klali (spezzare) e il
celtico claldeb (spada).
L’addestramento all’uso di un’arma
così micidiale veniva condotta da specialisti, i cosiddetti campidoctores,
usando una rudimentale versione in legno del gladio, detta rudis o clava,
consistente in una sagoma semplificata ma del tutto simile all’arma originale.
secondo la descrizione di Poliblo (II secolo a.C.), era pesante il doppio del
gladio ordinario, per abituare i legionari a maneggiarla con facilità e
rapidità, e aveva un’imbottatura di cuoio (o un bottone) sulla punta per non
causare ferite. L’impiego di Lanistri, istruttori dei gladiatori, fu limitato
e occasionale (vi ricorse il console Publio Rutilio, nel 105 d.C., per
addestrare i legionari ad affrontare i Cimbri), finalizzato a sviluppare doti
di aggressività e agilità piuttosto che a insegnare tecniche peculiari degli
scontri nelle arene, inadatte al tipo di combattimento che il legionario era
chiamato ad affrontare sul campo.
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Le spade del tardo impero. A partire dal III
secolo, la spatha, probabilmente anche per inflienza di modelli in uso presso i
guerrieri germanici, diventò dotazione comune del legionario romano. In ragione
del suo peso superiore e della notevole lunghezza rispetto al gladio, iniziò a
essere portata sul fianco sinistro, sospesa a una bandoliera traversale
regolabile. Il corto gladio di tipo Pompei scomparve quasi del tutto dalle
rappresentazioni dell’epoca. L’aumento della lunghezza media dell’arma di
fanteria rivela un utilizzo diverso da quello dei secoli precedenti: di sicuro
si verificava un minore ricorso alle mischie serrate contro formazioni
compatte, e probabilmente si manifestava con maggiore frequenza la necessità di
affrontare nemici a cavallo. Nelle battaglie del periodo tardo antico si
osserva anche un ritorno a formazioni di tipo falangitico, in cui l’arma offensiva
primaria tornò a essere la lancia da urto: la spada veniva utilizzato quando,
perdurando lo scontro, gli spazi si allargavano. Numerosi ritrovamenti
archeologici, hanno evidenziato come la maggior parte delle caratteristiche
estetiche di queste spade avesse origine germanica. La loro adozione da parte
dei soldati romani era quindi, almeno in parte, effetto di un’influenza
culturale molto forte. Anche le sparthae sono state classificate dagli studiosi
secondo diverse tipologie. Per il periodo compreso tra il III e il IV secolo, i
tipi sono due, ognuno con un certo numero di varianti: il tipo Lauriacum,
caratterizzato da una lama più larga e diffuso tra il II e il III secolo, e il
tipo Straubing-Nydam, caratterizzato da una lama particolarmente sottile e con
una leggera tendenza alla rastremazione verso la punto, in uso fino a tutto il
IV secolo e oltre.
Anche la foggia delle
impugnature risentì dell’influenza esercitata dagli armaioli germanici: il
classico profilo in legno, con guardia alta e pomello terminale circolare o
ellittico, lasciò il posto a combinazioni piatte, spesso arricchite con parti
di metalli, a volte caricate da decorazioni particolarmente ricche.
A partire dal IV
secolo, la spartha di un fante o di un cavaliere in servizio nell’Impero Romano
d’Occidente divenne di fatto indistinguibile da quella di un suo omologo
germanico. Oggi, pertanto, appare impossibile tracciare una netta linea di
demarcazione tra le due diverse tradizioni armiere.
Le varianti.
Le diverse armi da fianco usate
dai soldati romani.
Spada ad antenne di età arcaica.
Xphos
Kopis
Gladius Hispaniensis
Gladio tipo Mainz
Gladio tipo Pompei
Spada ad anello
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Articolo in gran parte
di Giuseppe Cascarino pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e
immagini da Wikipedia.
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