La battaglia degli
Altipiani.
Un attacco ritenuto irrealizzabile, un pericolo sottovalutato:
gli austro-ungarici calano sul nostro Paese. Ma le difficoltà ambientali sono più
grandi di quanto calcolato. La strategia è
indecisa e la reazione italiana sorprende l’invasore.
Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte»
(Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano)
La battaglia degli Altipiani fu combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini, tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, impegnati in quella che fu definita dagli italiani come Strafexpedition, che si traduce dal tedesco in italiano come spedizione punitiva[3]. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (poiché il Trentino è il territorio più a sud del Tirolo)[4]. Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.
Battaglia degli Altipiani
Frühjahrsoffensive
Strafexpedition
parte del fronte italiano della prima guerra mondiale
Quello che rimane della vegetazione alpina dopo un assalto sull'Altopiano dei Sette Comuni.Data15 maggio-27 giugno 1916LuogoTrentino meridionale, alto vicentino, nei dintorni del massiccio del Pasubio, nell'Altopiano dei Sette Comuni e nei dintorni di Folgaria, Tonezza e LavaroneEsitoRipiegamento volontario austroungarico / Vittoria difensiva italianaSchieramenti
Comandanti
Effettivi
172 battaglioni, 850 pezzi d'artiglieria (stime) | 300 battaglioni, 2.000 pezzi d'artiglieria (stime) |
147.730 (15.453 morti, 76.642 feriti e 55.635 fra prigionieri e dispersi)[1] | 82.815 (10.203 morti, 45.651 feriti, 26.961 fra prigionieri e dispersi)[2] |
«Improvvisamente, una nostra mitragliatrice aprì il fuoco. Io mi levai per vedere. Gli austriaci attaccavano.
Chi ha assistito agli avvenimenti di quel giorno, credo che li rivedrà in punto di morte» |
(Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano) |
La battaglia degli Altipiani fu combattuta tra il 15 maggio e il 27 giugno 1916, sugli altipiani vicentini, tra l'esercito italiano e quello austro-ungarico, durante la prima guerra mondiale, impegnati in quella che fu definita dagli italiani come Strafexpedition, che si traduce dal tedesco in italiano come spedizione punitiva[3]. In tedesco la battaglia è individuata come Frühjahrsoffensive (ossia Offensiva di primavera) o Südtiroloffensive (poiché il Trentino è il territorio più a sud del Tirolo)[4]. Durante la battaglia le perdite tra i due eserciti ammontarono a 230.545 uomini.
Strafexpedition, in tedesco “spedizione punitiva”: gli ufficiali austro-ungarici chiamavano così nelle loro conversazioni riservate l’offensiva che il generale Franz Conrad von Hotzendorf sta per scatenare sul fronte trentino in quella primavera del 1916. Lo riferivano i disertori in uniforme grigio-azzurra che, all’addentarsi della tempesta, attraversavano la terra di nessuno e si consegnavano agli italiani. Forse era solo una voce propagandistica studiata a tavolino dal generale Luigi Cadorna negli uffici del Comando supremo a Udine, per infiammare di sdegno gli animi dei suoi soldati. Non c’è traccia, infatti, di quello sprezzante appellativo nei documenti ufficiali dell’esercito imperial-regio. Ma, verità o diceria, qualcosa bolliva in pentola, e certo tra gli austro-ungarici il sentimento anti-italiano era vivissimo e varcava abbondantemente la soglia del disprezzo. L’Italia aveva tradito vergognosamente il patto della Triplice alleanza con un machiavellico voltafaccia, una vile pugnalata alla schiena che meritava una punizione esemplare.
Questo l’animo
dell’opinione pubblica austriaca: poco importava che quel patto fosse stato
rivisto e corretto dalle diplomazie in numerose occasioni fino a perdere negli
anni il suo valore originario. Un patto, oltretutto, che lo stesso Conrad non
avrebbe esitato a violare nel 1911, chiedendo al suo governo l’autorizzazione
ad attaccare l’Italia quando questa entrò in guerra contro l’impero ottomano.
Franz Conrad von Hotzendorf aveva maturato l’idea di un attacco preventivo
all’Italia dal Trentino quando dal 1903
al 1906 aveva guidato la divisione di fanteria di stanza in Tirolo. Lui stesso,
appassionato di alpinismo, aveva esplorato le montagne per trasformarle in un
campo di di battaglia. nel 1911 quella proposta, tanto spregiudicata quanto
politicamente inopportuna, gli era costata temporaneamente il ruolo di capo di
Stato maggiore dell’esercito imperial-regio, ma ora che l’imperatore Francesco
Giuseppe lo aveva richiamato al massimo vertice e che la guerra era in atto, i
suoi piani potevano trovare finalmente realizzazione. Sfondare la linea
italiana sull’altopiano di Asiago irrompendo nella Pianura veneta a Vicenza
significava chiudere in una sacca le centinaia di migliaia di soldati italiani
che prendevano a spallate le truppe austriache sull’Isonzo e sulle Dolomiti.
Sconfiggendo la 1a Armata si prendevano
prigioniere la 2a, la 3a e la 4a e si costringeva l’Italia alla resa. Per
l’Austria, duramente impegnata su troppi fronti e soprattutto preoccupata della
situazione in Galizia contro i Russi, riuscire a liberarsi della spina nel
fianco rappresentata dall’Italia accendeva la speranza di non venire
schiacciata dal conflitto.
il fronte italiano nel 1915-17
UN AMBIENTE OSTILE. Ma se la geografia
offriva all’Austria un’opportunità di grande valore strategico, ben altro
discorso era riuscire ad approfittarne, perché sempre essa descriveva
l’Altopiano di Asiago (detto anche dei Sette Comuni) come un campo di battaglia
decisamente ostile. Un massiccio di forma quadrangolare, delimitato da ripide
scarpate, tra i fiumi Brenta e Astico, largo 25 chilometri in senso est-ovest e
profondo più di 30 da nord a sud, con venti cime oltre i 2000 metri concentrate
nel suo lato settentrionale, che forma un primo altopiano. Superandolo si entra
nella sua frastagliata conca centrale, il secondo altopiano, dove l’altezza
media è di 1000 metri. Uno dei luoghi più freddi delle Alpi, con punte di -30°C
in inverno e due metri in media di neve, ma dove l’acqua è scarsa perché la
natura carsica del suolo se la inghiotte. Eppure Franz Conrad von Hotzendorf
era convito di poterlo superare. Già a fine 1915 aveva sottoposto il progetto
al suo omologo tedesco Erich von Falkenhayn per ottenere da lui il sostegno ritenuto
necessario: fino a nove divisioni tedesche di prima linea con la loro potente
artiglieria per arrivare a un totale ideali di 25, o almeno di 20. Von
Falkenhayn aveva espresso subito le proprie perplessità sostanziali:
un’offensiva di quell’entità in territorio alpino sarebbe stata troppo soggetta
agli imprevisti tipici della guerra in montagna per offrire sufficienti
garanzie di riuscita. L’apparato logistico necessario a tenere in vita l’azione
di un numero tanto grande di truppe semplicemente non poteva reggere alla prova. Una frana, un
guasto, un fiume in piena e tutto si sarebbe bloccato con conseguenze
catastrofiche. C’era poi un ostacolo politico: la Germania non era in guerra
con l’Italia e aggredirla avrebbe significato ovviamente modificare questo
comodo status di indifferenza reciproca, senza alcun beneficio per il Reich. Ma
c’era poi un’ulteriore motivo che toccava direttamente gli interessi strategici
tedeschi, ed era probabilmente la principale ragione del rifiuto di quei
rinforzi. Von Fralkenhayn stava programmando la gigantesca offensiva contro
Verdun, fiducioso di riuscire con essa a dissanguare a morte la Francia. I
preparativi per quella operazione, che sarebbe scattata il 21 febbraio, erano
già iniziati e il comandante tedesco non poteva privarsi nemmeno di una delle
sue divisioni, non parliamo poi di nove, per bruciarle su un fronte secondario
come quello italiano, oltretutto in un’impresa che riteneva destinata al
fallimento. Aveva consigliato dunque a Franz Conrad von Hotzendorf, senza mezzi
termini, peggiorando ancora il rapporto già sufficientemente conflittuale con
lui, di rimanersene tranquillo sulla
difensiva nelle sue ottime posizioni dominanti sulle Alpi.
La Grande guerra era scoppiata da
pochi giorni, quando il 31 luglio del 1914 il generale Cadorna fece giungere
al re Vittorio Emanuele III e ad Antonio Salandra, presidente del consiglio,
un dettagliato piano strategico di intervento nel conflitto, con l’invio sul
fronte del Reno di ben 5 corpi d’armata, eccedenti, secondo il capo di Stato
maggiore italiano, le esigenze della difesa nazionale. Solo che il lato del
fiume sul quale pensava di schierarli non era quello giusto. Nessuno aveva
infatti avvisato Cadorna che l’Italia stava cercando di districarsi dal
garbuglio diplomatico creato nei decenni precedenti, e che la legava,
peraltro in modo controverso, alle due potenze centrali: la Germania e
l’Austria-Ungheria. Il patto della Triplice Alleanza aveva subito numerose
revisioni nel corso degli anni per i continui sommovimenti che avevano
sconvolto in modo imprevedibile il panorama politico europeo. Si erano
infatti saldati legami tra nemici storici, come la Francia e la Gran
Bretagna, o tra opposti politici, come la stessa Francia repubblicana e la Russia
zarista. Una “Triplice Intesa” contro il nemico comune: la Germania.
L’Italia, giunta all’unità nazionale
in condizioni di debolezza rispetto agli altri attori europei, si era
affacciata alla politica estera con spregiudicatezza, compiendo ogni sorta di
equilibrismo per consolidare la propria posizione. La natura difensiva della
Triplice Alleanza e la prospettiva di acquisire i territori italiani ancora
inglobati nell’impero austro-ungarico fecero aderire l’Italia all’Intesa con
il patto segreto di Londra, firmato il 26 aprile 1915: quattro settimane dopo
l’Italia avrebbe dichiarato guerra all’Austria-Ungheria, guadagnandosi il suo
odio. Una decisione machiavellica, ma tutto sommato legittima, e che
risolveva il problema politico interno creato dagli irredentisti e
interventisti italiani, tra i quali figuravano uomini del calibro di
D’Annunzio e Mussolini. Cadorna, lasciato all’oscuro delle manovre politiche,
avrebbe cambiato i suoi piani senza fare eccessive domande. Nel frattempo,
faticò non poco a rispondere in modo vago ma allo stesso tempo convincente a
quelle degli “alleati” tedeschi e austriaci che gli chiedevano su quante
truppe italiane potessero contare.
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trasporto truppe
IMPRESA TITANICA. Il comando austriaco,
però, aveva già preso la sua decisione, e se forse gli austriaci non
pronunciarono mai la parola “Strafexpedition” l’astio verso l’Italia, congiunto
a una scarsa considerazione per la combattività delle sue truppe, rivestì un
peso non trascurabile. Comunque, la fiducia di Franz Conrad von Hotzendorf di
poter ottenere una vittoria contando sulle sue sole forze era forse eccessiva,
ma non completamente infondata. Anche se non aveva esperienze in combattimento
precedenti al 1914, era considerato, a ragione, il miglior teorico e stratega
dell’esercito di Francesco Giuseppe e con un po’ di esagerazione, uno dei
migliori dell’epoca: il suo era un rischio calcolato. Le truppe
austro-ungariche avevano resistito a ben 5 offensive italiane sul fronte
dell’Isondo, con arretramenti di scarsa importanza: questi successi avevano
innalzato il loro morale e la loro fiducia. In Galizia e in Serbia, poi, la
situazione si era stabilizzata e le crisi dei mesi precedenti sembravano ormai
passate. Era quindi possibile sottrarre a questi fronti le truppe necessarie a
un’offensiva, sostituendole con un’unità di seconda linea o, semplicemente,
indebolendo numericamente i dispositivi. Si sarebbe potuto così concentrare nel
Tirolo meridionale 14 divisioni, costituendo due armate per quasi 160 uomini
(con altri 200mila addetti ai servizi nelle retrovie) e un numero di cannoni
talmente alto da annichilire qualsiasi resistenza. E in quanto ad artiglierie,
Franz Conrad von Hotzendorf aveva un vero asso nella manica. Sul fronte del
Carso aveva sperimentato con successo l’utilizzo di trattori per la
movimentazione dei grossi calibri, mentre gli italiani ancora spostavano i loro
carri trainati da buoi. I mezzi meccanici riuscirono a portare sulla linea del
fronte in Tirolo 8 mostruosi mortai da 30,5 centimetri, e 3 ancora più
terribili obici da 42 (l’equivalente
austriaco della famosa Gorsse Bertha tedesca): armi che pesavano
rispettivamente 21 e 105 tonnellate e sparavano proiettili da 4 e 10 quintali,
capaci di ridurre qualsiasi fortificazione nemica in un cumulo di macerie. In
tutto quasi duemila bocche da fuoco (di cui un quarto pesanti) con le quali gli
italiani assaggiarono per la prima volta il bombardamento di artiglieria a
tappeto: il fuoco simultaneo su un’area estesa che chiudeva in una gabbia di
distruzione sena scampo le forze nemiche presenti.
I preparativi per
l’offensiva iniziarono nel febbraio del 1916: il Tirolo si trasformò in un
formicaio brulicante di soldati ansiosi di passare all’azione. L’impresa era
titanica, ma Franz Conrad von Hotzendorf si dimostrò un ottimo organizzatore e,
nonostante il freddo intenso di quell’inverno e la neve alta da 2 a 4 metri, i
preparativi procedettero con energia e tenacia, mantenendo alto il morale delle
truppe. La sfida logistica non spaventava gli austriaci, ma la montagna è un
oste che non manca mai di presentare i suoi conti: nevicò anche a marzo e ad
aprile, le prevedibili difficoltà ambientali, sotto forma di valanghe e frane
che bloccarono per giorni le lunghe colonne di uomini e mezzi, non tardarono a
manifestarsi, e l’avvio dell’offensiva dovette essere rimandato, settimana dopo
settimana, a metà maggio.
Un uomo solo al comando.
Luigi Cadorna divenne la massima
autorità militare italiana nel luglio 1914 e durante il conflitto ebbe di
fatto nelle mani un potere praticamente incontrastato: dalla dottrina delle
forze armate (da lui definita in un libretto con la copertina rossa
intitolato Attacco frontale e ammaestramento tattico), alla pianificazione
delle operazioni militari, alla mobilitazione dell’intero Paese per gli obiettivi
della guerra. Un’impresa ciclopica. Solo per dare qualche cifra, i
battaglioni di fanteria salirono da 548 nel 1915 a 867 nel 1917, e nello
stesso periodo le artiglierie di medio calibro passarono da 246 a 3000 e
quelle leggere da 1772 a 5000. Creò un esercito praticamente dal nulla, e lo
volle a sua immagine e somiglianza. Quando questa riproduzione di sé lo
deludeva la soluzione era semplice: cambiare gli interpreti. Se gli uomini
morivano, altri sarebbero venuti a rimpiazzarli, e se gli ufficiali fallivano
era sufficiente sostituirli. Esonerò 206 generali e 255 colonnelli, che in un
modo o nell’altro avevano disatteso le sue aspettative. Un metodo sbrigativo,
ma anche l’unico a sua disposizione perché tra le cose umanamente impossibili
per Cadorna c’era anche quello di controllare lo svolgersi delle operazioni
militari in un fronte tanto vasto.
Per il suo credo tattico,
attaccando una vasta porzione dello schieramento nemico, si poteva
individuare il punto di cedimento sul quale esercitare un’ulteriore pressione
allo scopo di provocare il massimo delle perdite nemiche. Se non funzionava,
la colpa non poteva essere delle mitragliatrici, delle trincee o
dell’artiglieria pesante del nemico, ma andava sostanzialmente individuata
nell’indisciplina e nella svogliatezza di quelle truppe e di chi le
comandava. Il rigido verticismo e la ferrea volontà di Cadorna, dunque,
furono tanto essenziali nella costituzione delle Forze Armate italiane
durante la Grande guerra , quanto responsabile in larga misura della sua
sistematica distruzione in innumerevoli e vani attacchi frontali.
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INDIZI INEQUIVOCABILI. Un apparato militare di quella portata difficilmente passa inosservato e i ritardi e gli intoppi non aiutarono certo gli austriaci a mantenere segreta la loro presenza nel Tirolo. E infatti già dal febbraio gli italiani iniziarono a ricevere segnali inequivocabili di un’insolita attività nemica. Disertori, come abbiamo visto, ma non solo: Franz Conrad von Hotzendorf cercava di far marciare le sue truppe per via nascoste alla vista delle cime italiane, ma interruzioni dei percorsi obbligavano a deviazioni che portavano le colonne e i fumi degli automezzi a portata di binocolo delle vedette in grigioverde. L’effetto sorpresa era perso, ma non del tutto. Cadorna conosceva le difficoltà della guerra di montagna e semplicemente non riusciva a credere che i suoi avversari potessero realizzare l’impossibile. Stava per cominciare la più grande battaglia in montagna di quella guerra e di ogni tempo: la più grande di un conflitto combattuto per quattro quinti in montagna. Ma per Cadorna e i vertici militari italiani gli austriaci stavano solo organizzando un’offensiva limitata, che cercava di distrarre la loro attenzione dal fronte isontino dove si stava preparando una sesta grande offensiva contro Gorizia.
C’era poi un’anomalia
nei rapporti di intelligence che arrivavano ai comandi italiani: dal fiume giungevano copiosi segnali allarmanti, mentre
le spie a Vienna non avevano nulla da segnalare: due canali informativi paralleli
che avrebbero dovuto convergere nel Comando supremo per essere sottoposti a un
confronto e ad una valutazione. Negli uffici di Udine, però, si riponeva
maggiore fiducia alle fonti riservate, ai rapporti personali, ai sussurri nei
corridoi della corte asburgica, e se questi tacevano significava che c’era poco
di cui preoccuparsi. Persino gli alleati dell’Italia erano scettici
sull’eventualità di un’azione sul fronte trentino: dove avrebbero mai potuto
prendere le truppe necessarie gli austro-ungarici?
Avrebbero sguarnito il
fronte galiziano contro la Russia rischiando il disastro solo per dare una
lezione agli italiani? Erano capaci di un simile azzardo? La prudenza non è mai
troppa però, e Cadorna, proprio in vista della Sesta battaglia sull’Isonzo, non
voleva fastidi alle spalle: il 22 marzo inviò dunque l’ordine al generale
Roberto Brusati, comandante della 1a Armata, di abbandonare il terreno
conquistato e di ripiegare sulle posizioni principali di resistenza assumendo
una disposizione strettamente difensiva. Con Cadorna non era facile discutere:
non era un leader che desse particolare ascolto alle opinioni diverse dalle
sue, e Brusati non pensava di poter valere con il generalissimo le proprie
ragioni. In realtà le conquiste della 1a Armata avevano ridotto l’estensione
del fronte di un buon 40%: e questo era un beneficio non trascurabile per uno
schieramento difensivo. D’altro canto il fronte italiano in quel momento
correva addossato a montagne dominate dagli austriaci, senza lo spazio di
manovra necessario a un’efficace azione di difesa. Così Brusati, che pure era
convinto dell’imminenza della Strafexpedition, interpretò gli ordini ricevuti e
lasciò la 1a Armata dov’era, in maggioranza in prima linea, pronta ad attaccare
ancora, semmai, per guadagnarsi sulle
montagne che ha di fronte posizione difensive sempre migliori. Anzi, a questo
scopo chiese insistentemente a Cadorna ulteriori truppe arrivando a circa
110mila effettivi. Alle sue spalle rinforzò per sicurezza alcuni capisaldi, ma
si era ancora ben lontani da quella seconda e terza linea ininterrotte e
organiche di una difesa in profondità che si rispetti. In caso di ripiegamento
molto avrebbe dovuto essere improvvisato, con risultati difficili da prevedere.
Le
truppe da montagna.
Le
caratteristiche peculiari della guerra in questo ambiente suggerirono da
sempre l’impiego di contingenti di soldati di popolazioni insediate in
territori montuosi. Abituati all’altitudine, al freddo e alla fatica, non
necessitavano dell’ambientamento e dell’addestramento fisico indispensabile a
chi proveniva dalla pianura. Questo creava spontaneamente unità a forte
coesione etnica e locale, e dunque uno spirito di corpo e un morale che in
altri casi doveva essere laboriosamente costruito. L’Italia, che tra Alpi e
Appennini non manca certo di rilievi montuosi, vanta la più antica tradizione
di un corpo espressamente pensato per la guerra di montagna: gli Alpini. Era
il 1872 e il Paese, da poco unito, temeva un attacco della Francia in
risposta all’annessione del papato e di Roma, e un’adeguata difesa del
confine alpino non poteva prescindere da truppe specialistiche. La
caratteristica penna nera (di corvo per la truppa e di aquila per gli
ufficiali) entrò in uso nel 1873. La Francia rispose 16 anni dopo con la
creazione degli Chasseur Alpins, anch’essi immediatamente riconoscibili dal
copricapo: un largo basco chiamato per la sua forma “Tart”, torta. Anche gli
austro-ungarici potevano vantare una lunga tradizione in fatto di truppe da
montagna, a partire dai tirolesi, che già si distinsero combattendo contro
Napoleone nel 1809, ma dovettero attendere un secolo per essere inquadrati
nei Gebirgsjager, l’equivalente dei nostri Alpini, su iniziativa del generale
Conrad. Il loro simbolo è la stella alpina. Le truppe da montagna non sono
naturalmente un’esclusiva europea: i Gurkha nepalesi, solo per fare un
esempio, provenienti da una delle
regione più alte del mondo, sono considerati tra i migliori soldati di questa
specialità.
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LA BATTAGLIA HA INIZIO. Ai primi di maggio
Cadorna visitò il fronte. Da giorni sulla linea italiana cadevano isolati colpi
di artiglieria, alcuni dei quali di inusitata potenza: erano i tiri di
aggiustamento che preludevano al prossimo bombardamento d’attacco. Era un altro
indizio che andava ad aggiungersi ai precedenti, ma ancora Cadorna non credeva
a una pericolo imminente e continuava a sospettare fosse solo un inganno
orchestrato dagli austriaci per fargli rimandare la prossima offensiva
sull’Isonzo. Tuttavia, riscontrò di persona come Brusati avesse interpretato i
suoi ordini con eccessiva libertà e lo esautorò dal comando, sostituendolo con
il generale Gugliemo Pecori Giraldi: questi ebbe solo una settimana di tempo
per ambientarsi prima che su quelle montagne si scatenasse la tempesta
annunciata. Lasciò la 1a Armata dov’era perché sapeva di non avere il tempo
materiale per spostarla più indietro.
Il piano di battaglia
austro-ungarico era semplice, né avrebbe potuto essere diversamente visto lo
scenario in cui si svolse. Le due armate si sarebbero dovute schierare l’una
dietro l’altra: l’11a Armata, con 7 divisioni, avrebbe effettuato lo
sfondamento, la 3a, con altre 7 divisioni, lo avrebbe ampliato e gli avrebbe
dato profondità. L’ala destra austriaca, costituita dall’VIII corpo, partendo
da Rovereto avrebbe dovuto percorrere la Vallarsa puntando sul passo di Pian
delle Fugazze, e da qui scendere verso Schio diretta a Thiene. Al centro
avrebbero agito due corpi: il XX schierato tra Lavarone e Luserna si sarebbe
fatto strada sull’Altipiano di Asiago e per la Val d’Astico, puntando su
Arsiero e Thiene; il III, attraversando il Passo di Vezzena, si sarebbe diretto
su Asiago. Infine l’ala sinistra con il XVII corpo (che apparteneva però alla
3a Armata) partendo da Borgo avrebbe percorso la Valsugana seguendo il corso
del fiume Brenta fino a Cismon. Il 15 maggio alle 6 del mattino i cannoni
austriaci cominciarono la loro opera distruttrice contro le principali
fortificazioni italiane. Centro veni erano pesanti, ovvero dai 24 ai 42 centimetri
di calibro, e in tre ore di fuoco intenso trasformarono il paesaggio aprendo
nel terreno voragini profonde anche 8 metri, scagliando per lungo raggio letali
schegge di roccia.
Dopo un’ora di pausa
alle 10 scattò il via per le fanterie. Lo shock del bombardamento aveva
annichilito le truppe italiane: alcune unità semplicemente non esistevano più,
altre si arresero, altre ancora combatterono con una caparbietà che stupì gli
austriaci. Ma anche queste prove di eroismo non potevano durare, perché la superiorità
numerica del nemico era schiacciante e i
rinforzi non arrivavano. Ma nemmeno ci si poteva ritirare perché non si sapeva
dove andare: gli ufficiali non avevano ordini e nessuno glieli faceva arrivare.
Cadorna aveva sottovalutato il nemico, ma in questa occasione anche il nemico
aveva sottovalutato Cadorna. Il comandante in capo italiano era gelido,
impenetrabile, accentratore, inflessibile: questo carattere che tanto aveva
influito sull’attuale, disastrosa situazione lo aiutò anche a uscirne. Mentre
intorno a lui orma era il panico e l’opinione pubblica italiana era
profondamente scossa dall’invasione del “scaro suolo della Patria”, Cadorna
seppe rimanere impassibile e concentrato nel suo ruolo e nelle sue
responsabilità. Assunse direttamente il comando del fronte riorganizzando la
difesa e iniziò a emanare gli ordini necessari alla formazione di una nuova
estemporanea 5a Armata prelevando le migliori unità dal fronte dell’Isonzo, da
ogni parte d’Italia e persino dalla Libia e dall’Albania. L’apparato logistico
italiano fece miracoli portando in pochi giorni decine di migliaia di uomini da
un fronte all’altro, prima in treno e poi in camion, un’impresa ricordata dalla
festa dell’Arma dei Trasporti e Materiali dell’esercito italiano che si svolge
tradizionalmente il 22 maggio.
Strategia in montagna: il caso
della Strafexpedition.
Con la grande maggioranza delle
truppe concentrate sul fronte dell’Isonzo, il dispositivo militare italiano
risultava fortemente sbilanciato. Il generale Franz Conrad von Hotzendorf
intuì come un’invasione dal Trentino rappresentasse la chiave strategica
capace di decidere il conflitto. Su questo sicuramente non si sbagliava,
perché dall’attraversamento delle Alpi di Annibale in poi le montagne
rappresentano una falsa sicurezza per il difensore, che può trascurarne la
difesa. Gli Altipiani costituivano indubbiamente un ostacolo naturale molto
difficile da superare, soprattutto per i problemi legati alla logistica, ma
le sue valli conducevano alla pianura veneta e alla vittoria: sopraffatta la
resistenza della 1a Armata grazie all’effetto sorpresa, il resto
dell’esercito italiano sarebbe stato chiuso in una enorme trappola. Purtroppo
per Conrad, la realizzazione del suo piano fu debole, lenta e poco coordinata
e rese possibile una reazione. Una anno dopo, a Caporetto, quando
l’avversario era il generale tedesco Otto von Below, l’Italia avrebbe avuto
molta meno fortuna
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DIFFICOLTA’ SENZA FINE. La 5a Armata si schierò
in pianura per fermare gli austriaci se fossero riusciti a scendere
dall’Altopiano di Asiago, ma anche pronta a passare al contrattacco. In
montagna la battaglia proseguiva senza sosta. Gli austriaci continuavano ad
avanzare, ma ogni giorno che passava, ogni metro conquistato, le difficoltà
aumentavano anziché diminuire. Da un lato la resistenza italiana si faceva
sempre più decisa, dall’altro le difficoltà della logistica crescevano in modo
esponenziale. Il munizionamento di artiglieria, dopo i primi giorni, già
iniziava a scarseggiare. Gli arsenali erano vuoti e le magre finanze
dell’impero asburgico non potevano riempirli. Peraltro, anche se le munizioni
fossero state disponibili nel numero sufficiente a proseguire i bombardamenti
con l’intensità necessaria, la linea del fronte, ormai, si era distanziata
oltre la portata iniziale dei cannoni pesanti, che su quel terreno erano
difficili da spostare e persino da schierare in batteria, mentre i calibri più
maneggevoli e capaci di seguire le fanterie contendevano a essi il magro carico
che era possibile trasportare sui sentieri di montagna. Pane o proiettili? O
avrebbero taciuto i cannoni o gli uomini si sarebbero dovuti accontentare,
finché ne avevano, della dura galletta che portavano nel tascapane. Le
condizioni ambientali erano durissime. Il freddo era intenso nonostante la
primavera inoltrata, tanto che alcune zone erano ancora coperte di neve, e gli
uomini ci scavavano dentro le trincee.
Dove non c’era la neve,
invece, si moriva di sete perché non si poteva nemmeno scioglierla per
dissetarsi: non c’era acqua sull’altopiano e anche quella doveva arrivare con i
trasporti. In questo gelido inferno gli uomini si affrontavano con uguale,
disperata ferocia. Franz Conrad von Hotzendorf stava iniziando probabilmente a
riconsiderare la propria opinione sulla combattività degli italiani. L’inattesa
resistenza delle unità superstiti della 1a Armata iniziava a evidenziare i
difetti del suo piano strategico. I primi, come abbiamo visto, riguardavano una
generale sottovalutazione degli avversari e delle condizioni ambientali, con le
ripercussioni sulla logistica. Di fatto lo sfondamento e la discesa nella
pianura veneta avrebbe dovuto essere molto più veloce, anticipando le
contromisure improvvisare da Cadorna, per poter aver successo. A questo scopo
potevano tornare utili le nove divisioni tedesche richieste da Franz Conrad von
Hotzendorf, sempre che si fossero riusciti a risolvere i problemi logistici,
destinati a crescere più che proporzionalmente all’aumentare delle truppe
coinvolte. Ma c’era anche un difetto di concezione: quattro direttrici di
attacco praticamente parallele e indipendenti l’una dall’altra suggeriscono una
grave indecisione strategica che affidava al caso la riuscita di un’operazione
di questa portata. Con il senno di poi, troppo pochi, troppo deboli, troppo
indecisi.
Franz Conrad von Hotzendorf.
Franz Conrad von Hötzendorf in una foto del 1915.
Capo di Stato Maggiore austro-ungarico
dal 1906, come molti altri ufficiali della sua generazione non aveva una
grande esperienza del campo di battaglia. Era però un prolifico studioso
della guerra moderna e al circolo dell’imperatore Francesco Giuseppe sembrò l’uomo
adatto per mettere le mani su uno strumento che non era cambiato molto dai
tempi del maresciallo Radetzky.
Di fatto, però, a Franz Conrad von
Hotzendorf mancava una dote essenziale per esercitare un simile incarico,
ovvero la capacità politica: carattere difficile e per niente diplomatico,
riuscì soprattutto a distinguersi come propugnatore del grande conflitto
mondiale, che perorò sempre con grande entusiasmo. I suoi bersagli preferiti
erano l’Italia e la Serbia, la cui sola esistenza come nazioni riteneva un’assurdità
e un affronto alla corona asburgica.
Come stratega non gli si può negare
un certo intuito e una buona capacitò organizzativa, che gli sono valsi
grandi elogi in patria e anche riconoscimenti dagli storici militari. Tuttavia
è altrettanto innegabile la sua mancanza di successi eclatanti: anche il più
importante di questi, l’offensiva di Gorlice-Tarnow del 1915, infatti, molto
deve all’assistenza tedesca. Il suo difetto più evidente, come dimostrò
proprio nella Strafexpedition, era la mancanza di realismo e della capacità
di commisurare risorse e obbiettivi. Per essere un buon stratega, infatti,
non è sufficiente saper individuare delle opportunità: serve soprattutto
capire come e con quali forze queste si possono sfruttare a proprio
vantaggio.
Anche gli aspetti logistici sfuggivano
alla sua capacità di analisi: riponeva un’eccessiva fiducia nella possibilità
di risolvere i problemi all’impronta, mano a mano che si presentavano, e,
soprattutto, lasciava questa incombenza ai suoi subordinati.
A partire dalla battaglia degli Altipiani
la sua carriera e la sua reputazione di stratega conobbero un’inesorabile
fase calante, fino a rendere irresistibile l’offerta tedesca di un comando
unificato (la cui guida era ovviamente proprio tedesca) a partire dal 1 marzo
1917: per lui significò la destituzione e la definitiva uscita di scena.
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Il
bombardamento ad area o a tappeto è comunemente associato alla Seconda guerra
mondiale e ai bombardieri ad alta quota che hanno rovesciato i loro letali
carichi sulle maggiori città d’Europa e del Mondo. La sua origine, però,
fonda le sue radici nella Prima guerra mondiale. A fine Ottocento il
progresso nelle tecniche metallurgiche e negli esplosivi permise la creazione
di cannoni a retrocarica di potenza e gittata mai vista in precedenza. Gli apparati
industriali avevano messo a disposizione delle nazioni armi di efficacia
straordinaria, ma in realtà non si sapeva come usarle. La dottrina prevalente
prevedeva il fuoco diretto, e in tal modo le artiglierie incominciarono la
Grande Guerra. Le batteria venivano schierate sulla linea del fronte, in modo
da poter facilmente inquadrare i propri bersagli e assistere da vicino l’azione
della fanteria. In questo modo, però, potevano essere facilmente colpiti dal
fuoco di controbatteria nemico, quando non addirittura dalle mitragliatrici e
dai fucili: i pesanti scudi frontali spesso non erano sufficienti a
proteggere i serventi e il pezzo veniva silenziato. La soluzione più ovvia
era quella di allontanare le artiglierie dalla linea del fronte, magari
nascondendola dietro un crinale, per sfruttare al meglio la loro ampia
gittata, utilizzando il cosiddetto fuoco indiretto. Tornarono in auge obici e
mortai, armi da tiro curvo, più corte dei cannoni e con minore gittata, ma
che sparavano proiettili di calibro enorme, come i mortai austroungarici da
30,5 centimetri e gli obici da 42, utilizzati nella battaglia degli
Altipiani. Artiglierie di ogni calibro venivano indirizzate in modo empirico
e con scarsa osservazione su un’area bersaglio, confidando che il loro
numero, il peso dei proiettili e la durata del fuoco garantisse l’effetto
distruttivo desiderato.
In questo
modo si rinunciava all’effetto sorpresa, ma si agevolava il compito della
fanteria, secondo un principio che veniva riassunto nel motto “l’artiglieria
conquista, la fanteria occupa”.
Gli austro-ungarici
si avvalsero di questa tattica rozza, dispendiosa ma tutto sommato efficace
non solo nella fase preliminare della battaglia, ma anche durante il suo
corso, quando riuscirono ad ammassare sufficienti bocche da fuoco: il
bombardamento del 18 maggio 1916 ridusse Asiago ad un cumulo di macerie.
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UN’IMMENSA STRAGE. In quei giorni però si insanguinavano
le montagne e tutta l’Italia guardava con costernazione l’avanzata del nemico:
tra il 27 e il 28 maggio gli austriaci avevano raggiunto e superato Arsiero e
Asiago, quest’ultima rasa al suolo dai bombardamenti, giungendo in vista delle
ultime propaggini dell’Altopiano. Sull’ala sinistra italiana, negli stessi
giorni, gli austriaci attaccavano ripetutamente passo Buole, la cui conquista
avrebbe aperto loro la Val Lagarina, che conduceva a Verona, venendo sempre
respinti e guadagnando al passo l’appellativo di “Termopili d’Italia”. Sulla destra,
invece, gli austriaci furono fermati a Ospedaletto, un paesino della Valsugana trasformato
in una vera e propria fortezza. Cadorna riteneva maturo il momento di un
contrattacco e il 2 giugno lanciò le unità fresche della 5a Armata al centro
dell’Altopiano. L’azione si infranse contro la resistenza austriaca, ma il suo
significato era strategico. Il comandante italiano aveva chiesto e ottenuto dai
russi di anticipare al 4 giugno la ripresa delle loro operazioni offensive e
sapeva che per gli austriaci era iniziato il conto alla rovescia: quei due
giorni di anticipo avrebbero dovuto dimostrare all’Italia e agli alleati che l’esercito
italiano era solido e reattivo, capace di vincere con le sue sole forze. E per
gli austriaci fu un brutto colpo. I tedeschi avevano prestato la loro
assistenza nel teatro di operazioni russo, ma la coperta rimaneva comunque
troppo corta e le divisioni che erano state sottratte da quel fronte presto
avrebbero dovuto tornarvi.
Si susseguirono i
tentativi di sfondamento, come a Monte Fior, tra il 5 e il 9 giugno: reparti di
alpini e della Brigata Sassari rimasero aggrappati con le unghie e con i denti
su quel ciglione che si apre sulla pianura veneta. Alla fine furono costretti
ad abbandonarla, ma senza aprire falle nella difesa.
Gli austriaci bruciarono
così, senza risultati e senza prospettive, le loro ultime energie: nella notte
tra il 24 e il 25 giugno Franz Conrad
von Hotzendorf arretrò tutte le sue unità su posizioni più sicure che
erano già state predisposte. La sua spedizione aveva punito crudelmente e
futilmente 15443 italiani morti, 76630 feriti e 55635 fra dispersi e
prigionieri, e 10203 austro-ungarici
morti, 45650 feriti e 26960 prigionieri e dispersi.
Articolo in gran parte
di Nicola Zotti pubblicato Storie di Guerre e guerrieri collection anthology
extra n. 1 – altri testi e immagini da Wikipedia.
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