La tragica fine di
Cicerone. La vendetta di Marco Antonio.
Marco Tullio Cicerone (in latino: Marcus Tullius Cicero, pronuncia ecclesiastica: /'markus 'tulljus 'ʧiʧero/, pronuncia restituta o classica: /'maːr.kʊs 'tʊl.lɪ.ʊs 'kɪ.kɛ.roː/; in greco antico: Κικέρων, Kikérōn; Arpino, 3 gennaio 106 a.C. – Formia, 7 dicembre 43 a.C.) è stato un avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano.
Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.
Attraverso l'opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco.[1] Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.
Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli Optimates. Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.
La denominazione di “Philippicae” venne attribuita dallo stesso Cicerone alle sue orazioni, tra il serio e il faceto, in una lettera a Bruto[1] con lo scopo di omaggiare il grande oratore greco Demostene, suo grande modello, non solo dal punto di vista oratorio, ma anche morale e patriottico. Difatti, come l'oratore greco si scagliò contro Filippo II di Macedonia, facendosi promotore della difesa e della libertà dello Stato, Cicerone, schierandosi contro Antonio, si prefisse di raggiungere nelle Cesarine e nelle Filippiche l'eloquenza demostenica sotto il profilo retorico e oratorio.[2] Questo perché Demostene rappresentava per Cicerone il modello ideale dell'oratore politico che si è formato attraverso lo studio dei testi filosofici.[3]
Inoltre l'intensificato contatto con l'eloquenza di Demostene portò Cicerone all'elaborazione di uno stile oratorio purificato, depurato di parecchia pinguedine ornamentale. Il fraseggio si fa più breve, semplice, più netto che in precedenza.[4]
La tradizione storiografica[5] attesta per l'opera ciceroniana anche la denominazione, forse più corretta, di “Antonianae”. Si sa anche che un grammatico latino, tale Arusiano Messio, cita alcuni brani dell'orazione XVI e la Filippica XVII.[6]Secondo altri autorevoli studiosi come Gian Biagio Conte e Bruno Mosca, in origine le Filippiche dovevano essere probabilmente 18, ma oggi ne sono giunte solo 14.[7] Tra le orazioni andate smarrite, una molto conosciuta ai tempi, doveva essere quella pronunciata in senato tra il 26 e il 27 aprile,[8] subito dopo un'altra fondamentale vittoria militare ottenuta dal console Irzio e da Ottaviano sulle truppe guidate da Antonio, il 21 aprile del 43.[9]
Le Filippiche costituiscono un importante documento dell'acceso contrasto tra Cicerone e Antonio, scoppiato durante gli ultimi mesi di vita della Repubblica Romana. In esse, ogni singola fase di quella drammatica crisi che stava attraversando la res publica sembra stagliarsi su di uno sfondo di alti valori etici e civili, resi ancor più vigorosi dalla meditazione filosofica ciceroniana.
Dunque, queste sue ultime orazioni possono essere considerate come un vero e proprio testamento morale che Cicerone lasciò al popolo romano: le sue impetuose parole mantennero per mesi desta l'attenzione del popolo sulla lotta politica e sull'urgenza e il dovere di difendere l'integrità della patria.
Nel 43 a.C. due sicari
fermarono una lettiga nei pressi del porto di Gaeta. Trasportava un uomo di
quasi 64 anni, il più grande oratore romano e ultimo difensore dell’antica
repubblica. Il suo nemico, Marco Antonio
ne aveva ordinato l’assassino.
L'opposizione ad Antonio e la fine[modifica | modifica wikitesto]
Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]
Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare:
(LA)
«Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.»
| (IT)
«Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»
|
(Cicerone, Ad Familiares, vi, 15) |
Quando
compì 60 anni, un’età che i romani consideravano già molto avanzata, Marco
Tullio Cicerone era convinto che la sua carriera politica era giunta al
termine. Erano lontani i giorni gloriosi in cui quest’avvocato di Arpino si era
scagliato dai banchi del senato contro i politici corrotti e i nemici dello
stato come Catilina, il patrizio di cui aveva sventato la congiura oltre 15
anni prima. In seguito aveva assistito impotente all’ascesa di Pompeo e di
Giulio Cesare, i generali e i capi fazione che avrebbero scatenato una guerra
civile per il controllo del potere Cicerone fu critico verso entrambi, ma era soprattutto Cesare a preoccuparlo, per
le sue ambizioni quasi monarchiche e contrarie al vecchio ideale repubblicano,
del quale l’arpinate si era eretto a difensore. Nel 48 a.C., dopo la vittoria
del futuro dittatore sul suo rivale, l’oratore fece ritorno a Roma, ma non
riprese a partecipare pienamente alla vita cittadina. Se in qualche momento si
era illuso che Cesare potesse restaurare la repubblica, ogni speranza si era
dissolta di fronte alla realtà dei fatti: in poco tempo il generale aveva
concentrato su di sé un potere praticamente assoluto.
L’ostracismo politico
nei confronti di Cicerone coincise con un momento particolarmente duro della
sua vita personale. Da poco rientrato a Roma, all’inizio del 46 a.C. divorziò
dalla moglie Terenzia dopo 10 anni di matrimonio, accusandola di aver
dilapidato gran parte del patrimonio familiare in discutibili investimenti.
Quindi contrasse matrimonio con Publilia, una giovane di origini patrizie che
finì poi per ripudiare sei mesi dopo. Come se non bastasse, a metà febbraio del
45 a.C. sua figlia Tullia morì nel dare alla luce un bambino che sarebbe morto
ance lui poco dopo.
In seguito a questi
eventi Cicerone cadde in uno stato di profondo scoramento, che cercò di
superare come aveva fatto in passato: rifugiandosi nelle sue passioni
letterarie. Si immerse in una frenetica attività di scrittura, che lo portò
alla stesura delle sue opere retoriche più importanti (come per esempio il
Brutus e il De oratore) e soprattutto intraprese un ambizioso progetto che
mirava a accessibili i concetti principali della filosofia greca al pubblico
latino.
Mentre Cicerone
trascorreva le sue rinchiuso nelle sue ville di Astura, Tuscolo, Pozzuoli o
Arpino, un gruppo di congiurati organizzava l’assassinio di Giulio Cesare.
Sebbene avessero forti legami con l’oratore – in particolare Marco Bruto, su
cui Cicerone aveva esercitato una decisiva influenza intellettuale – i
cospiratori non lo informarono dei loro piani, forse perché erano consapevoli del
suo atteggiamento esitante e del suo rifiuto della violenza. Cicerone era
presente alla sessione del senato alle idi di marzo del 44 a.C., durante la
quale Cesare fu pugnalato a morte. La sua razione fu un misto di sorpresa e
orrore, ma anche di gioia contenuta: nella sua corrispondenza privata e nelle
orazioni che avrebbe pronunciato contro Marco Antonio – le Filippiche –
l’avvocato arpinate mostrò un certo orgoglio per il fatto che Bruto, mentre
sollevava il pugnale che avrebbe conficcato nel corpo di Cesare aveva gridato
il nome di Cicerone in omaggio alla ritrovata libertà.
busto di Marco AntonioNome originaleMarcus AntoniusNascita14 gennaio 83 a.C.
RomaMorte1º agosto 30 a.C.
Alessandria d'EgittoConiugeFadia
Antonia Ibrida
Fulvia
Ottavia minore
CleopatraFigliAntonia di Tralles, Marco Antonio Antillo, Iullo Antonio, Antonia maggiore, Antonia minore, Alessandro Helios, Cleopatra Selene e Tolomeo Filadelfo.GensAntoniaPadreMarco Antonio CreticoMadreGiuliaQuestura52 a.C.Tribunato della plebe49 a.C.[1]Pretura47 a.C.?Consolato44 a.C. e 34 a.C
.
Marco Antonio (in latino: Marcus Antonius; nelle epigrafi: M•ANTONIVS•M•F•M•N[2]; Roma, 14 gennaio 83 a.C. – Alessandria d'Egitto, 1º agosto 30 a.C.) è stato un politico e militareromano durante il periodo della Repubblica.
Abile condottiero, discendente da famiglia patrizia, fu luogotenente di Gaio Giulio Cesare, sotto la cui protezione iniziò la sua carriera senatoria. Il progetto di Marco Antonio era trasformare la repubblica in una monarchia di stampo orientale, questo determinò lo scontro decisivo con il suo grande rivale, Cesare Ottaviano. Nel lungo periodo successivo al cesaricidio caratterizzato da fasi alterne di conflitti e alleanze tra le due fazioni, Antonio venne sconfitto definitivamente nella battaglia di Azio, si rifugiò con Cleopatra ad Alessandria, dove entrambi morirono dopo la caduta della città.[3]
A causa della sua turbolenta vita privata, del suo comportamento esuberante, della sua politica orientaleggiante, Marco Antonio fu il primo romano colpito da un provvedimento di damnatio memoriae, una vera e propria condanna all'oblio. Alla sua morte il Senato non si limitò solo ad applicare provvedimenti riservati ai nemici della patria ma permise la cancellazione di tutti i riferimenti della sua esistenza: documenti, epigrafi, ritratti.
Il triumviro romano veniva paragonato alla figura di Eracle, per il suo atteggiamento e per il suo vestiario, dato che sovente si mostrava in pubblico con la tunica cinta all'anca, un mantello di panno ruvido e al fianco una grande spada[4]. Dal suo aspetto deriva l'espressione «essere un Marcantonio», dal significato di «persona grande e grossa, dall'aspetto florido e robusto»[5].
Cronologia
Paladino della
repubblica
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49 a.C.
Giulio
Cesare attraversa il Rubicone con il suo esercito, dando inizio alla guerra
civile contro Pompeo. Cicerone, nemico di Cesare, lascia Roma come molti
senatori e si rifugia in una delle sue ville di campagna.
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48 a.C.
Cicerone
raggiunge Pompeo in Epiro (Grecia). Dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo
ritorna a Roma e si riconcilòia con Giulio Cesare. Si ritira a vivere nella
sua villa di Tuscolo, dedicandosi a scrivere prosa e poesia.
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46 a.C.
Dopo
30 anni di matrimonio, Cicerone divorzia da Terenzia e sposa la giovane
Publilia. Nel 45 a.C. muore di parto sua figlia Tullia, cui era molto legato.
Esprime il suo dolore in varie epistole
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44 a.C.
Cinque
mesi dopo l’assassinio di Giulio Cesare, Cicerone pronuncia le sue
Filippiche, in cui attacca duramente Marco Antonio. Chiede senza successo al
senato di dichiararlo nemico pubblico.
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43 a.C.
Il
7 dicembre Marco Antonio ordina l’uccisione di Cicerone. In seguito la testa
e le mani dell’oratore vengono esposte nella tribuna dei rostra.
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GUERRA CONTRO MARCO ANTONIO. La gioia di Cicerone
per la morte di Cesare non durò a lungo, perché ad assumere il controllo della
situazione a Roma fu Marco Antonio: durante le esequie funebri del dittatore e
la aizzò contro gli assassini del loro capo. Sentendosi in pericolo di vita, Bruto
e Cassio abbandonarono la città. Cicerone fu costretto a imitarli e iniziò a
lamentarsi in toni sempre più aspri dell’inazione dei congiurati, della loro
mancanza di determinazione nei momenti successivi alla morte di Cesare, della
loro incapacità di affrontare Marco Antonio. Come se ormai non avesse più
niente da perdere, Cicerone mise da parte i dubbi e l’indecisione che avevano
caratterizzato altri momenti della sua vita e si dimostrò implacabile nei
confronti del suo avversario. Sostenne la necessità di intraprendere azioni
molto più drastiche e violente di quelle proposte dai cospiratori, che a suo
giudizio avevano agito con il coraggio di un uomo, ma con la testa di un
bambino.
Tuttavia quando, poco
dopo, si profilò la possibilità di uno scontro tra Decimo Bruto (un altro dei
congiurati) e Antonio in Gallia Cisalpina, che avrebbe significato per i romani
una nuova guerra civile, Cicerone ebbe un momento di esitazione. Tutto ormai sembrava
perduto: la repubblica – confessava in una lettera al suo amico Attico – era
“una nave a pezzi: nessun piano, nessuna riflessione, nessun metodo”. Senza più
speranze, decise di abbandonare l’Italia e raggiungere la Grecia. Ma quando era
già a bordo della nave, la partenza fu rimandata a causa del sopraggiungere di
un’improvvisa tempesta.
Allora l’arpinate tornò
sui suoi passi e decise di rientrare a Roma. Le notizie provenienti dalla città
erano incoraggianti: sembrava che la situazione si stesse tranquillizzando e
che Marco Antonio fosse disponibile a rinunciare allo scontro con Decimo Bruto.
Di fronte alla mancanza di iniziativa dei congiurati, Cicerone pensò di
utilizzare nella sua battaglia contro Marco Antonio un giovane diciottenne,
recentemente entrato in politica. Questo giovane era Gaio Ottaviano, pronipote
di Giulio Cesare, da cui era stato adottato come erede. Ottaviano ricevette la
notizia della morte di Cesare mentre era ad Apollonia (nell’attuale Albania), e
subito si mise in viaggio verso Brindisi. Una volta sbarcato sulle coste itali
anche, cercò di accattivarsi la fiducia dei veterani delle legioni cesariane e
di altri personaggi influenti, come lo stesso Cicerone. Durante la sua marcia
verso Roma, visitò l’oratore presso la sua villa di Pozzuoli con l’intento di
ingraziarselo, consapevole del atto che avrebbe avuto bisogno del suo appoggio
per raggiungere i propri obiettivi politici.
L’arpinate fu lusingato
dal fatto che il giovane fosse così attento nei suoi confronti e per frenare le
ambizioni di Marco Antonio. Quando venne a sapere che, in assenza di
quest’ultimo, Ottaviano era entrato a Roma con i veterani delle legioni per
rivendicare di fronte al popolo i suoi diritti di erede ei Cesare. Cicerone se
ne rallegrò e scrisse al suo amico Attico: “Quel ragazzo ha inferto un bel
colpo ad Antonio”. Si fece quindi convincere da Ottaviano a tornare alla
capitale per guidare lo scontro con l’ex luogotenente di Cesare, che in quel
momento stava marciando verso la Gallia Cisalpina. L’oratore cercò di
convincere i nuovi consoli, Irzio e Panza, a dichiarare apertamente guerra a
Marco Antonio. Questa posizione – energicamente espressa nelle orazioni
divenute celebri come Filippiche – che era in contrasto con quella del senato,
che puntava sulla via negoziale per convincere Antonio a desistere dall’assedio
di Modena, dove Decimo Bruto resisteva disperatamente in attesa del soccorso
delle truppe repubblicane. Quando si diffuse la notizia che era passa la linea
dello scontro a Roma si scatenò l’euforia: Cicerone fu portato in trionfo al
Campidoglio e successivamente fu acclamato davanti al rostra, la tribuna
oratoria ufficiale del foro. Ma anche in questo caso la gioia di Cicerone fu di
breve durata. Sebbene sconfitto, Marco Antonio riuscì a salvare una parte delle
sue legioni e quindi strinse alleanza con Lepido, governatore della Gallia
Narbonese. Invece di inseguirlo, Ottaviano rivendicò per sé la carica di
console e, di fronte al rifiuto del senato, non esitò a varcare il Rubicone e a
marciare su Roma con le sue legioni, come aveva già fatto Cesare prima di lui,
i senatori non poterono far altro che accettare il fatto compito. Cicerone era
ormai consapevole che il nuovo capo militare approfittava del potere delle sue
truppe per calpestare la legalità repubblicana. Intanto Ottaviano iniziò a
diffidare dell’oratore, poiché era venuto a sapere che in privato cospirava
contro di lui e dichiarava “Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed
eliminato”.
Un’opportunità
perduta.
Nelle
sue lettere Cicerone criticava Bruto per aver lasciato l’iniziativa a Marco
Antonio dopo la morte di Cesare e affermava che la successiva guerra era
stata una conseguenza dell’indecisione dei congiurati. Scriveva al suo amico
Attilo: “Ti ricordi quando il primo
giorno gridai in Campidoglio che erano i pretori (Bruto e Cassio) che
dovevano convocare il senato? Dei immortali, cosa si è fatto in quei giorni
tra l’allegria della gente per bene (…) Ricordi che dicesti che non bisognava
lasciare che (Cesare) fosse onorato
durante le esequie funebri, altrimenti la causa era persa? Ebbene, è stato
persino cremato nel foro magnificato con parole commoventi, mentre i poveri e
gli schiavi venivano incitati a scagliarsi con le torce contro le nostre
case”. E a Bruto rimproverava “Scrivi
che si deve usare più vigore nell’impedire le guerre civili che nel castigare
i nemici vinti. Non sono d’accordo con te (…) Sarete oppressi credimi, se non
sarete lungimiranti, non avrete sempre lo stesso popolo né lo stesso senato
né lo stesso uomo che lo guidi. Prendi queste parole come se fossero dette
dall’oracolo di Apollo Pizio”.
|
LA FUGA DI CICERONE. Scoraggiato e ormai ben
conscio che la causa repubblicana era definitivamente persa. Cicerone si ritirò
nei suoi possedimenti nell’Italia meridionale, da cui assistette impotente
all’avvicinamento tra Ottaviano, Lepido e Marco Antonio e alla nascita del
cosiddetto secondo triumvirato. Per lui questo accordo non rappresentava
semplicemente una sconfitta, ma anche una minaccia diretta. Infatti i triumviri
redassero una lista di proscrizione, ovvero un elenco di senatori e cavalieri
condannati a morte e sottoposti alla confisca dei beni personali. La sete di
vendetta ebbe la meglio persino sui legami familiari. Lepido sacrificò suo
fratello Paolo, Marco Antonio lo zio Lucio Cesare. Nel caso di Cicerone fu
Ottaviano che alla fine cedette di fronte ai propositi di rivalsa di Antonio.
Plutarco ricostruisce così quel momento: “La
proscrizione di Cicerone fu quella che suscitò maggiori discussioni, in quanto
Antonio non era disponibile a nessun accordo se Cicerone non fosse stato il
primo a morire (…) Si dice che Ottaviano difese Cicerone i primi due giorni, e
poi al terzo lo abbandonò”.
L’oratore si trovava
nella sua villa di Tuscolo in compagnia del fratello Quinto e del figlio di
questi, quando venne a sapere che lui stesso e il fratello erano stati inseriti
nella prima lista di proscrizione. In preda all’angoscia, si misero
immediatamente in marcia verso la villa di Astura, da dove pensavano di
raggiungere la Macedonia per riunirsi con Marco Bruto. Ma a un certo punto
Quinto, che era partito senza portarsi dietro nulla, decise di tornare indietro
per procurarsi delle provviste. Quella scelta gli fu fatale. Tradito dai suoi
servi, fu ucciso pochi giorni dopo prima. Cicerone era ormai divorato da dubbi
e timori. Si imbarcò su una nave ma si fece lasciare a terra all’altezza del
Circeo e si diresse verso Roma; dopo una trentina di chilometri cambiò
nuovamente idea, tornò ad Astura e poi raggiunse via mare la villa di Forma.
Qui decise di fermarsi e recuperare le forze, prima di intraprendere il viaggio
finale verso la Grecia.
Cicerone
contro Marco Antonio.
Cicerone pronunciò contro Marco
Antonio quattordici orazioni che denominò Filippiche: in omaggio ai discorsi
tenuti dall’ateniese Demostene contro un altro tiranno della sua epoca,
ovvero Filippo II di Macedonia, quando questi si apprestava a conquistare la
Grecia. La seconda Filippica è sicuramente la più dura. A conclusione del suo
discorso, Cicerone proclama in tono solenne la ferma determinazione a lottare
per la libertà della patria, come già aveva fatto ai tempi di Catilina, pur
sapendo i rischi che avrebbe corso: “Ti
prego, Marco Antonio, rivolgi qualche volta gli occhi alla repubblica: pensa
ai tuoi antenati, e non solo ai tuoi contemporanei; comportati nei miei
confronti come ti pare, ma riconciliati con la repubblica. Quanto a me, farò
questa dichiarazione: difesi la repubblica in gioventù, non penso di
abbandonarla in vecchiaia; non ebbi timore allora delle armi di Catilina, non
saranno certo le tue a spaventarmi oggi. Offro volentieri la mia vita, se può
servire a restituire a Roma la sua libertà e se finalmente permette al dolore
del popolo romano di partorire ciò che da tempo ha concepito”.
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LA MORTE DEL GRANDE ORATORE. Troppi dubbi. Troppi
tentennamenti. Quando venne a sapere che i soldati di Antonio stavano per
raggiungerlo, Cicerone si fece trasportare in fretta e furia verso il porto di
Gaeta. I soldati trovarono la villa vuota, ma un liberto di nome Filologo gli
indicò il percorso seguito dalla lettiga su cui viaggiava Cicerone. Era il 7
dicembre del 43 a.C. Plutarco descrisse così la scena: “In quel momento arrivarono il centurione Erennio e il tribuno dei
soldati Popilio il quale, accusato una volta di parricidio, era stato difeso
dallo stesso Cicerone (…). Cicerone accortosi che Erennio si avvicinava di
corsa, ordinò ai suoi servi di fermarsi e deporre la lettiga. Toccandosi il
mento con la mano sinistra, com’era solito fare, fissò in volto i suoi
carnefici, sporco di polvere, i capelli arruffati e il viso contratto dall’angoscia;
cosicché in molti si coprirono gli occhi per non vedere Erennio che lo
sgozzava. Cicerone sporse il collo fuori dalla lettiga, e in quella posizione
morì, a quasi 64 anni. Per ordine di Antonio gli furono tagliate la testa e le
mani con cui aveva scritto le Filippiche; testa e mani che in seguito furono
esposte come trofei su quelle stesse tribune dove pochi mesi prima Cicerone era
stato acclamato dalla folla, perché tutti i romani potessero vederle”.
Stefano Sweig, che
dedica a Cicerone il penultimo dei suoi Momenti fatali, conclude così’ il suo
saggio: “Eppure, nessuna invettiva contro
la brutalità, l’illegalità e la smania di potere proferita dal grande oratore
su questa tribuna ha mai denunciato in modo così eloquente il male eterno della
violenza quanto il linguaggio muto del suo capo profanato: il popolo si
avvicina timidamente ai Rostra, poi con un senso di vergogna e costernazione se
ne allontana. Nessuno dei presenti osa protestare – ma siamo in una dittatura! –
ma angosciati, col cuore stretto in una morsa, abbassano lo sguardo davanti al
tragico simbolo della loro repubblica crocifissa”.
Cicerone
e Ottaviano: come frenare il “Giovane”.
Dopo
l’assassino di Giulio Cesare, Marco Bruto fuggì in Grecia. Nelle sue lettere
quest’ultimo rimproverava a Cicerone di aver concesso eccessivi onori al
giovane Ottaviano e di non essere stato capace di controllarne le smisurate
ambizioni politiche: “So che Cicerone
ha sempre agito con le migliori intenzioni (…). Ciononostante, mi pare che
certe cose siano state fatte, come dire, senza attenzione, per un uomo con le
sue altissime competenze. O è stato forse mosso dalla vanagloria, proprio lui
che per il bene della repubblica non ha esitato a inimicarsi il potente
Antonio? (…). Cicerone, invece di reprimere le ambizioni e lì immodestia del
giovane, le ha stimolate”. A sua volta l’oratore scrive a Bruto
ribattendo così alle sue critiche: “Se
egli (Ottaviano) continuerà a essermi leale e mi obbedirà, saremo sufficientemente
al sicuro; se poi varranno più i consigli degli empi che i miei (…) ogni
nostra speranza è in te riposta. Per questo vieni qui rapidamente, per
favore, e libera definitivamente questa repubblica che già una volta hai
liberato grazie al tuo coraggio e alla tua grandezza d’animo (uccidendo
Cesare),
|
Articolo in gran parte
di José Baros professore di teologia latina Università Computenze di Madrid pubblicato
su Storica National Geographic del mese di ottobre 2018 altri testi e immagini
da Wikipedia.
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