domenica 17 febbraio 2019

La tragica fine di Cicerone. La vendetta di Marco Antonio.


La tragica fine di Cicerone. La vendetta di Marco Antonio.


Esponente di un'agiata famiglia dell'ordine equestre, Cicerone fu una delle figure più rilevanti di tutta l'antichità romana. La sua vastissima produzione letteraria, che va dalle orazioni politiche agli scritti di filosofia e retorica, oltre a offrire un prezioso ritratto della società romana negli ultimi travagliati anni della repubblica, rimase come esempio per tutti gli autori del I secolo a.C., tanto da poter essere considerata il modello della letteratura latina classica.
Attraverso l'opera di Cicerone, grande ammiratore della cultura greca, i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina ci fu senza dubbio la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per tutti i termini specifici del linguaggio filosofico greco.[1] Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano invece le Lettere (Epistulae, in particolar modo quelle all'amico Tito Pomponio Attico), che offrono numerosissime riflessioni su ogni avvenimento, permettendo di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.
Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina ed aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae (padre della patria), ricoprì un ruolo di primissima importanza all'interno della fazione degli Optimates. Fu infatti Cicerone che, negli anni delle guerre civili, difese strenuamente fino alla morte una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo.


Cicero - Musei Capitolini.JPG 
La denominazione di “Philippicae” venne attribuita dallo stesso Cicerone alle sue orazioni, tra il serio e il faceto, in una lettera a Bruto[1] con lo scopo di omaggiare il grande oratore greco Demostene, suo grande modello, non solo dal punto di vista oratorio, ma anche morale e patriottico. Difatti, come l'oratore greco si scagliò contro Filippo II di Macedonia, facendosi promotore della difesa e della libertà dello Stato, Cicerone, schierandosi contro Antonio, si prefisse di raggiungere nelle Cesarine e nelle Filippiche l'eloquenza demostenica sotto il profilo retorico e oratorio.[2] Questo perché Demostene rappresentava per Cicerone il modello ideale dell'oratore politico che si è formato attraverso lo studio dei testi filosofici.[3]

Inoltre l'intensificato contatto con l'eloquenza di Demostene portò Cicerone all'elaborazione di uno stile oratorio purificato, depurato di parecchia pinguedine ornamentale. Il fraseggio si fa più breve, semplice, più netto che in precedenza.[4]
La tradizione storiografica[5] attesta per l'opera ciceroniana anche la denominazione, forse più corretta, di “Antonianae”. Si sa anche che un grammatico latino, tale Arusiano Messio, cita alcuni brani dell'orazione XVI e la Filippica XVII.[6]Secondo altri autorevoli studiosi come Gian Biagio Conte e Bruno Mosca, in origine le Filippiche dovevano essere probabilmente 18, ma oggi ne sono giunte solo 14.[7] Tra le orazioni andate smarrite, una molto conosciuta ai tempi, doveva essere quella pronunciata in senato tra il 26 e il 27 aprile,[8] subito dopo un'altra fondamentale vittoria militare ottenuta dal console Irzio e da Ottaviano sulle truppe guidate da Antonio, il 21 aprile del 43.[9]
Le Filippiche costituiscono un importante documento dell'acceso contrasto tra Cicerone e Antonio, scoppiato durante gli ultimi mesi di vita della Repubblica Romana. In esse, ogni singola fase di quella drammatica crisi che stava attraversando la res publica sembra stagliarsi su di uno sfondo di alti valori etici e civili, resi ancor più vigorosi dalla meditazione filosofica ciceroniana.
Dunque, queste sue ultime orazioni possono essere considerate come un vero e proprio testamento morale che Cicerone lasciò al popolo romano: le sue impetuose parole mantennero per mesi desta l'attenzione del popolo sulla lotta politica e sull'urgenza e il dovere di difendere l'integrità della patria.


Nel 43 a.C. due sicari fermarono una lettiga nei pressi del porto di Gaeta. Trasportava un uomo di quasi 64 anni, il più grande oratore romano e ultimo difensore dell’antica repubblica. Il  suo nemico, Marco Antonio ne aveva ordinato l’assassino.

L'opposizione ad Antonio e la fine[modifica | modifica wikitesto]


Cicerone non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]
Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare:
(LA)
«Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.»
(IT)
«Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»
(Cicerone, Ad Familiaresvi, 15)


Quando compì 60 anni, un’età che i romani consideravano già molto avanzata, Marco Tullio Cicerone era convinto che la sua carriera politica era giunta al termine. Erano lontani i giorni gloriosi in cui quest’avvocato di Arpino si era scagliato dai banchi del senato contro i politici corrotti e i nemici dello stato come Catilina, il patrizio di cui aveva sventato la congiura oltre 15 anni prima. In seguito aveva assistito impotente all’ascesa di Pompeo e di Giulio Cesare, i generali e i capi fazione che avrebbero scatenato una guerra civile per il controllo del potere Cicerone fu critico verso entrambi,  ma era soprattutto Cesare a preoccuparlo, per le sue ambizioni quasi monarchiche e contrarie al vecchio ideale repubblicano, del quale l’arpinate si era eretto a difensore. Nel 48 a.C., dopo la vittoria del futuro dittatore sul suo rivale, l’oratore fece ritorno a Roma, ma non riprese a partecipare pienamente alla vita cittadina. Se in qualche momento si era illuso che Cesare potesse restaurare la repubblica, ogni speranza si era dissolta di fronte alla realtà dei fatti: in poco tempo il generale aveva concentrato su di sé un potere praticamente assoluto.
L’ostracismo politico nei confronti di Cicerone coincise con un momento particolarmente duro della sua vita personale. Da poco rientrato a Roma, all’inizio del 46 a.C. divorziò dalla moglie Terenzia dopo 10 anni di matrimonio, accusandola di aver dilapidato gran parte del patrimonio familiare in discutibili investimenti. Quindi contrasse matrimonio con Publilia, una giovane di origini patrizie che finì poi per ripudiare sei mesi dopo. Come se non bastasse, a metà febbraio del 45 a.C. sua figlia Tullia morì nel dare alla luce un bambino che sarebbe morto ance lui poco dopo.
In seguito a questi eventi Cicerone cadde in uno stato di profondo scoramento, che cercò di superare come aveva fatto in passato: rifugiandosi nelle sue passioni letterarie. Si immerse in una frenetica attività di scrittura, che lo portò alla stesura delle sue opere retoriche più importanti (come per esempio il Brutus e il De oratore) e soprattutto intraprese un ambizioso progetto che mirava a accessibili i concetti principali della filosofia greca al pubblico latino.
Mentre Cicerone trascorreva le sue rinchiuso nelle sue ville di Astura, Tuscolo, Pozzuoli o Arpino, un gruppo di congiurati organizzava l’assassinio di Giulio Cesare. Sebbene avessero forti legami con l’oratore – in particolare Marco Bruto, su cui Cicerone aveva esercitato una decisiva influenza intellettuale – i cospiratori non lo informarono dei loro piani, forse perché erano consapevoli del suo atteggiamento esitante e del suo rifiuto della violenza. Cicerone era presente alla sessione del senato alle idi di marzo del 44 a.C., durante la quale Cesare fu pugnalato a morte. La sua razione fu un misto di sorpresa e orrore, ma anche di gioia contenuta: nella sua corrispondenza privata e nelle orazioni che avrebbe pronunciato contro Marco Antonio – le Filippiche – l’avvocato arpinate mostrò un certo orgoglio per il fatto che Bruto, mentre sollevava il pugnale che avrebbe conficcato nel corpo di Cesare aveva gridato il nome di Cicerone in omaggio alla ritrovata libertà.

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busto di Marco AntonioNome originaleMarcus AntoniusNascita14 gennaio 83 a.C.
RomaMorte1º agosto 30 a.C.
Alessandria d'EgittoConiugeFadia
Antonia Ibrida
Fulvia
Ottavia minore
CleopatraFigliAntonia di TrallesMarco Antonio AntilloIullo AntonioAntonia maggioreAntonia minoreAlessandro HeliosCleopatra Selene e Tolomeo Filadelfo.GensAntoniaPadreMarco Antonio CreticoMadreGiuliaQuestura52 a.C.Tribunato della plebe49 a.C.[1]Pretura47 a.C.?Consolato44 a.C. e 34 a.C
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Marco Antonio (in latinoMarcus Antonius; nelle epigrafi: M•ANTONIVS•M•F•M•N[2]Roma14 gennaio 83 a.C. – Alessandria d'Egitto1º agosto 30 a.C.) è stato un politico e militareromano durante il periodo della Repubblica.

Abile condottiero, discendente da famiglia patrizia, fu luogotenente di Gaio Giulio Cesare, sotto la cui protezione iniziò la sua carriera senatoria. Il progetto di Marco Antonio era trasformare la repubblica in una monarchia di stampo orientale, questo determinò lo scontro decisivo con il suo grande rivale, Cesare Ottaviano. Nel lungo periodo successivo al cesaricidio caratterizzato da fasi alterne di conflitti e alleanze tra le due fazioni, Antonio venne sconfitto definitivamente nella battaglia di Azio, si rifugiò con Cleopatra ad Alessandria, dove entrambi morirono dopo la caduta della città.[3]
A causa della sua turbolenta vita privata, del suo comportamento esuberante, della sua politica orientaleggiante, Marco Antonio fu il primo romano colpito da un provvedimento di damnatio memoriae, una vera e propria condanna all'oblio. Alla sua morte il Senato non si limitò solo ad applicare provvedimenti riservati ai nemici della patria ma permise la cancellazione di tutti i riferimenti della sua esistenza: documenti, epigrafi, ritratti.
Il triumviro romano veniva paragonato alla figura di Eracle, per il suo atteggiamento e per il suo vestiario, dato che sovente si mostrava in pubblico con la tunica cinta all'anca, un mantello di panno ruvido e al fianco una grande spada[4]. Dal suo aspetto deriva l'espressione «essere un Marcantonio», dal significato di «persona grande e grossa, dall'aspetto florido e robusto»[5].


Cronologia
Paladino della repubblica
49 a.C.
Giulio Cesare attraversa il Rubicone con il suo esercito, dando inizio alla guerra civile contro Pompeo. Cicerone, nemico di Cesare, lascia Roma come molti senatori e si rifugia in una delle sue ville di campagna.
48 a.C.
Cicerone raggiunge Pompeo in Epiro (Grecia). Dopo la sconfitta dei pompeiani a Farsalo ritorna a Roma e si riconcilòia con Giulio Cesare. Si ritira a vivere nella sua villa di Tuscolo, dedicandosi a scrivere prosa e poesia.
46 a.C.
Dopo 30 anni di matrimonio, Cicerone divorzia da Terenzia e sposa la giovane Publilia. Nel 45 a.C. muore di parto sua figlia Tullia, cui era molto legato. Esprime il suo dolore in varie epistole
44 a.C.
Cinque mesi dopo l’assassinio di Giulio Cesare, Cicerone pronuncia le sue Filippiche, in cui attacca duramente Marco Antonio. Chiede senza successo al senato di dichiararlo nemico pubblico.
43 a.C.
Il 7 dicembre Marco Antonio ordina l’uccisione di Cicerone. In seguito la testa e le mani dell’oratore vengono esposte nella tribuna dei rostra.

GUERRA CONTRO MARCO ANTONIO. La gioia di Cicerone per la morte di Cesare non durò a lungo, perché ad assumere il controllo della situazione a Roma fu Marco Antonio: durante le esequie funebri del dittatore e la aizzò contro gli assassini del loro capo. Sentendosi in pericolo di vita, Bruto e Cassio abbandonarono la città. Cicerone fu costretto a imitarli e iniziò a lamentarsi in toni sempre più aspri dell’inazione dei congiurati, della loro mancanza di determinazione nei momenti successivi alla morte di Cesare, della loro incapacità di affrontare Marco Antonio. Come se ormai non avesse più niente da perdere, Cicerone mise da parte i dubbi e l’indecisione che avevano caratterizzato altri momenti della sua vita e si dimostrò implacabile nei confronti del suo avversario. Sostenne la necessità di intraprendere azioni molto più drastiche e violente di quelle proposte dai cospiratori, che a suo giudizio avevano agito con il coraggio di un uomo, ma con la testa di un bambino.
Tuttavia quando, poco dopo, si profilò la possibilità di uno scontro tra Decimo Bruto (un altro dei congiurati) e Antonio in Gallia Cisalpina, che avrebbe significato per i romani una nuova guerra civile, Cicerone ebbe un momento di esitazione. Tutto ormai sembrava perduto: la repubblica – confessava in una lettera al suo amico Attico – era “una nave a pezzi: nessun piano, nessuna riflessione, nessun metodo”. Senza più speranze, decise di abbandonare l’Italia e raggiungere la Grecia. Ma quando era già a bordo della nave, la partenza fu rimandata a causa del sopraggiungere di un’improvvisa tempesta.
Allora l’arpinate tornò sui suoi passi e decise di rientrare a Roma. Le notizie provenienti dalla città erano incoraggianti: sembrava che la situazione si stesse tranquillizzando e che Marco Antonio fosse disponibile a rinunciare allo scontro con Decimo Bruto. Di fronte alla mancanza di iniziativa dei congiurati, Cicerone pensò di utilizzare nella sua battaglia contro Marco Antonio un giovane diciottenne, recentemente entrato in politica. Questo giovane era Gaio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, da cui era stato adottato come erede. Ottaviano ricevette la notizia della morte di Cesare mentre era ad Apollonia (nell’attuale Albania), e subito si mise in viaggio verso Brindisi. Una volta sbarcato sulle coste itali anche, cercò di accattivarsi la fiducia dei veterani delle legioni cesariane e di altri personaggi influenti, come lo stesso Cicerone. Durante la sua marcia verso Roma, visitò l’oratore presso la sua villa di Pozzuoli con l’intento di ingraziarselo, consapevole del atto che avrebbe avuto bisogno del suo appoggio per raggiungere i propri obiettivi politici.
L’arpinate fu lusingato dal fatto che il giovane fosse così attento nei suoi confronti e per frenare le ambizioni di Marco Antonio. Quando venne a sapere che, in assenza di quest’ultimo, Ottaviano era entrato a Roma con i veterani delle legioni per rivendicare di fronte al popolo i suoi diritti di erede ei Cesare. Cicerone se ne rallegrò e scrisse al suo amico Attico: “Quel ragazzo ha inferto un bel colpo ad Antonio”. Si fece quindi convincere da Ottaviano a tornare alla capitale per guidare lo scontro con l’ex luogotenente di Cesare, che in quel momento stava marciando verso la Gallia Cisalpina. L’oratore cercò di convincere i nuovi consoli, Irzio e Panza, a dichiarare apertamente guerra a Marco Antonio. Questa posizione – energicamente espressa nelle orazioni divenute celebri come Filippiche – che era in contrasto con quella del senato, che puntava sulla via negoziale per convincere Antonio a desistere dall’assedio di Modena, dove Decimo Bruto resisteva disperatamente in attesa del soccorso delle truppe repubblicane. Quando si diffuse la notizia che era passa la linea dello scontro a Roma si scatenò l’euforia: Cicerone fu portato in trionfo al Campidoglio e successivamente fu acclamato davanti al rostra, la tribuna oratoria ufficiale del foro. Ma anche in questo caso la gioia di Cicerone fu di breve durata. Sebbene sconfitto, Marco Antonio riuscì a salvare una parte delle sue legioni e quindi strinse alleanza con Lepido, governatore della Gallia Narbonese. Invece di inseguirlo, Ottaviano rivendicò per sé la carica di console e, di fronte al rifiuto del senato, non esitò a varcare il Rubicone e a marciare su Roma con le sue legioni, come aveva già fatto Cesare prima di lui, i senatori non poterono far altro che accettare il fatto compito. Cicerone era ormai consapevole che il nuovo capo militare approfittava del potere delle sue truppe per calpestare la legalità repubblicana. Intanto Ottaviano iniziò a diffidare dell’oratore, poiché era venuto a sapere che in privato cospirava contro di lui e dichiarava “Quel giovane dev’essere lodato, onorato ed eliminato”.

Un’opportunità perduta.
Nelle sue lettere Cicerone criticava Bruto per aver lasciato l’iniziativa a Marco Antonio dopo la morte di Cesare e affermava che la successiva guerra era stata una conseguenza dell’indecisione dei congiurati. Scriveva al suo amico Attilo: “Ti ricordi quando il primo giorno gridai in Campidoglio che erano i pretori (Bruto e Cassio) che dovevano convocare il senato? Dei immortali, cosa si è fatto in quei giorni tra l’allegria della gente per bene (…) Ricordi che dicesti che non bisognava lasciare che (Cesare)  fosse onorato durante le esequie funebri, altrimenti la causa era persa? Ebbene, è stato persino cremato nel foro magnificato con parole commoventi, mentre i poveri e gli schiavi venivano incitati a scagliarsi con le torce contro le nostre case”. E a Bruto rimproverava “Scrivi che si deve usare più vigore nell’impedire le guerre civili che nel castigare i nemici vinti. Non sono d’accordo con te (…) Sarete oppressi credimi, se non sarete lungimiranti, non avrete sempre lo stesso popolo né lo stesso senato né lo stesso uomo che lo guidi. Prendi queste parole come se fossero dette dall’oracolo di Apollo Pizio”.

LA FUGA DI CICERONE. Scoraggiato e ormai ben conscio che la causa repubblicana era definitivamente persa. Cicerone si ritirò nei suoi possedimenti nell’Italia meridionale, da cui assistette impotente all’avvicinamento tra Ottaviano, Lepido e Marco Antonio e alla nascita del cosiddetto secondo triumvirato. Per lui questo accordo non rappresentava semplicemente una sconfitta, ma anche una minaccia diretta. Infatti i triumviri redassero una lista di proscrizione, ovvero un elenco di senatori e cavalieri condannati a morte e sottoposti alla confisca dei beni personali. La sete di vendetta ebbe la meglio persino sui legami familiari. Lepido sacrificò suo fratello Paolo, Marco Antonio lo zio Lucio Cesare. Nel caso di Cicerone fu Ottaviano che alla fine cedette di fronte ai propositi di rivalsa di Antonio. Plutarco ricostruisce così quel momento: “La proscrizione di Cicerone fu quella che suscitò maggiori discussioni, in quanto Antonio non era disponibile a nessun accordo se Cicerone non fosse stato il primo a morire (…) Si dice che Ottaviano difese Cicerone i primi due giorni, e poi al terzo lo abbandonò”.
L’oratore si trovava nella sua villa di Tuscolo in compagnia del fratello Quinto e del figlio di questi, quando venne a sapere che lui stesso e il fratello erano stati inseriti nella prima lista di proscrizione. In preda all’angoscia, si misero immediatamente in marcia verso la villa di Astura, da dove pensavano di raggiungere la Macedonia per riunirsi con Marco Bruto. Ma a un certo punto Quinto, che era partito senza portarsi dietro nulla, decise di tornare indietro per procurarsi delle provviste. Quella scelta gli fu fatale. Tradito dai suoi servi, fu ucciso pochi giorni dopo prima. Cicerone era ormai divorato da dubbi e timori. Si imbarcò su una nave ma si fece lasciare a terra all’altezza del Circeo e si diresse verso Roma; dopo una trentina di chilometri cambiò nuovamente idea, tornò ad Astura e poi raggiunse via mare la villa di Forma. Qui decise di fermarsi e recuperare le forze, prima di intraprendere il viaggio finale verso la Grecia.


                  Cicerone contro Marco Antonio.
Cicerone pronunciò contro Marco Antonio quattordici orazioni che denominò Filippiche: in omaggio ai discorsi tenuti dall’ateniese Demostene contro un altro tiranno della sua epoca, ovvero Filippo II di Macedonia, quando questi si apprestava a conquistare la Grecia. La seconda Filippica è sicuramente la più dura. A conclusione del suo discorso, Cicerone proclama in tono solenne la ferma determinazione a lottare per la libertà della patria, come già aveva fatto ai tempi di Catilina, pur sapendo i rischi che avrebbe corso: “Ti prego, Marco Antonio, rivolgi qualche volta gli occhi alla repubblica: pensa ai tuoi antenati, e non solo ai tuoi contemporanei; comportati nei miei confronti come ti pare, ma riconciliati con la repubblica. Quanto a me, farò questa dichiarazione: difesi la repubblica in gioventù, non penso di abbandonarla in vecchiaia; non ebbi timore allora delle armi di Catilina, non saranno certo le tue a spaventarmi oggi. Offro volentieri la mia vita, se può servire a restituire a Roma la sua libertà e se finalmente permette al dolore del popolo romano di partorire ciò che da tempo ha concepito”.



LA MORTE DEL GRANDE ORATORE. Troppi dubbi. Troppi tentennamenti. Quando venne a sapere che i soldati di Antonio stavano per raggiungerlo, Cicerone si fece trasportare in fretta e furia verso il porto di Gaeta. I soldati trovarono la villa vuota, ma un liberto di nome Filologo gli indicò il percorso seguito dalla lettiga su cui viaggiava Cicerone. Era il 7 dicembre del 43 a.C. Plutarco descrisse così la scena: “In quel momento arrivarono il centurione Erennio e il tribuno dei soldati Popilio il quale, accusato una volta di parricidio, era stato difeso dallo stesso Cicerone (…). Cicerone accortosi che Erennio si avvicinava di corsa, ordinò ai suoi servi di fermarsi e deporre la lettiga. Toccandosi il mento con la mano sinistra, com’era solito fare, fissò in volto i suoi carnefici, sporco di polvere, i capelli arruffati e il viso contratto dall’angoscia; cosicché in molti si coprirono gli occhi per non vedere Erennio che lo sgozzava. Cicerone sporse il collo fuori dalla lettiga, e in quella posizione morì, a quasi 64 anni. Per ordine di Antonio gli furono tagliate la testa e le mani con cui aveva scritto le Filippiche; testa e mani che in seguito furono esposte come trofei su quelle stesse tribune dove pochi mesi prima Cicerone era stato acclamato dalla folla, perché tutti i romani potessero vederle”.
Stefano Sweig, che dedica a Cicerone il penultimo dei suoi Momenti fatali, conclude così’ il suo saggio: “Eppure, nessuna invettiva contro la brutalità, l’illegalità e la smania di potere proferita dal grande oratore su questa tribuna ha mai denunciato in modo così eloquente il male eterno della violenza quanto il linguaggio muto del suo capo profanato: il popolo si avvicina timidamente ai Rostra, poi con un senso di vergogna e costernazione se ne allontana. Nessuno dei presenti osa protestare – ma siamo in una dittatura! – ma angosciati, col cuore stretto in una morsa, abbassano lo sguardo davanti al tragico simbolo della loro repubblica crocifissa”.

Cicerone e Ottaviano: come frenare il “Giovane”.
Dopo l’assassino di Giulio Cesare, Marco Bruto fuggì in Grecia. Nelle sue lettere quest’ultimo rimproverava a Cicerone di aver concesso eccessivi onori al giovane Ottaviano e di non essere stato capace di controllarne le smisurate ambizioni politiche: “So che Cicerone ha sempre agito con le migliori intenzioni (…). Ciononostante, mi pare che certe cose siano state fatte, come dire, senza attenzione, per un uomo con le sue altissime competenze. O è stato forse mosso dalla vanagloria, proprio lui che per il bene della repubblica non ha esitato a inimicarsi il potente Antonio? (…). Cicerone, invece di reprimere le ambizioni e lì immodestia del giovane, le ha stimolate”. A sua volta l’oratore scrive a Bruto ribattendo così alle sue critiche: “Se egli (Ottaviano) continuerà a essermi leale e mi obbedirà, saremo sufficientemente al sicuro; se poi varranno più i consigli degli empi che i miei (…) ogni nostra speranza è in te riposta. Per questo vieni qui rapidamente, per favore, e libera definitivamente questa repubblica che già una volta hai liberato grazie al tuo coraggio e alla tua grandezza d’animo (uccidendo Cesare),


Articolo in gran parte di José Baros professore di teologia latina Università Computenze di Madrid pubblicato su Storica National Geographic del mese di ottobre 2018 altri testi e immagini da Wikipedia.

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