martedì 19 febbraio 2019

L'uomo selvatico: chi ha paura del selvaggio?


 Chi ha paura del selvaggio?
Protagonista di numerose leggende, l’uomo selvatico è un essere irsusto e solitario che vive ai margini della società. Depositario di conoscenze arcane, è rispettato e temuto. E ricorda all’uomo medievale il suo ambiguo rapporto con la natura.


Homo salvadego di Sacco in Valtellina

L’immagine dell’uomo selvatico nasce nelle pieghe più profonde del tempo. Forse si adagiò tra gli archetipi quando l’uomo comprese di essere membro di una specie superiore, capace di discernere tra quei due grandi ambiti che millenni dopo gli scienziati chiameranno “natura” e “cultura”. Quello dell’uomo selvaggio è un mito che ha lasciato tracce in tempi e in luoghi anche molto lontani fra loro: nelle leggende e nei proverbi presenti nel folklore, e che si riconoscono, per esempio, nei riti connessi al Carnevale, o in altre esperienze rituali inserite nella tradizione popolare. E così, l’uomo selvatico può essere riconosciuto nella maschera dell’orso, nel diavolo, o nelle molteplici sfaccettature degli “uomini-albero”.



Una ricostruzione dell'uomo selvatico al Museo degli usi e costumi della gente trentina

 UN ALLEVATORE PRIMORDIALE. Ma chi è dunque, l’uomo selvatico? Nelle varie tradizioni, è una sorta di essere primordiale che, pur mantenendo un aspetto umano, lo “contamina” con caratteristiche tipiche delle fiere, come l’ipertricosi (in altre parole, è interamente coperto di peli). Vive ai margini della civiltà e i suoi atteggiamenti nei confronti dell’uomo “civile” assumono connotazioni diverse: in genere prevale l’emarginazione, o l’autoemarginazione: si trova in natura per scelta, o perché nato da genitori selvatici, oppure perché fuggito dal consorzio umano, dal quale era stato rifiutato, se non addirittura allontanato malamente. Inoltre, la tradizione orale narra di selvaggi diventati tali poiché “malati di mente”, “ritardati” o caratterizzati da anomalie fisiche tali da renderli, appunto “selvaggi”.
Per accentuare la sua selvatichezza, è tradizionalmente rappresentato irsuto, vestito di pelle e armato di clava, depositario di conoscenze culturali che gli consentono di compiere una serie di attività all’interno dell’ambiente naturale, generalmente sconosciute dagli uomini che vivono nella civiltà.
Secondo il folklore (la tradizione orale, ma anche maschere, feste, rituali stagionali), lìuomo selvatico risulta caratterizzato da alcuni stereotipi. È considerato il primo abitante delle Alpi. È maestra nell’arte casearia, nell’apicoltura, nelle tecniche minerarie e in altre attività legate all’economia dei territori in cui la sua leggenda è diffusa. Ha insegnato agli uomini canti e proverbi. Si è allontanato dal resto dei “civili” perché non è stato accettato, e in più occasioni è stato da loro offeso. Vive dei prodotti della natura, di cui conosce tutti i segreti. In rari casi è un allevatore e, quando fa il pastore, eccelle su chiunque.
Abita in un luogo fisso (un riparo sottoroccia, una casa abbandonata o una grotta), spesso inaccessibile all’uomo normale. Non pericoloso e tende a fuggire quando incontra. Si avvicina ai luoghi abitati solo quando viene attirato dal canto di una donna. Di solito è buono e le testimonianze che lo descrivono come malvagio sono rare. Le sue peculiarità simboliche lo avvicinano alle figure mitiche di nani ed elfi. Oltre all’uomo selvatico, esiste anche la donna selvatica, e in alcuni casi si incontrano perfino interi gruppi famigliari. Adattamenti più recenti della leggenda imputano la fuga del selvaggio a cause “moderne”: l’uomo civile ha occupato la sua terra, costringendolo a ritirarsi altrove. In più, timoroso delle trappole per gli animali e dei mezzi agricoli usati dai contadini per lavorare i campi, preferisce mantenersi a distanza.



Donna irsuta…
Se l’uomo selvatico domina quasi incontrastato il panorama mitico, qua e là è possibile trovare tracce anche della donna selvatica. In diverse leggende la donna diventa selvatica perché rapita dall’uomo selvatico (o da un orso). L’unione dei due porta alla nascita di figli anatomicamente molto simili al padre: ricorrente è la descrizione di creature piccole, pelose, mentalmente inferiori, che ricordano da vicino la figura dello “scemo del villaggio”. Questi tratti ne enfatizzano la diversità, ponendole in contrasto con la comunità degli uomini.  

SELVAGGIO CONTRO CIVILE? La figura dell’uomo selvatico ha condizionato profondamente l’immaginario delle popolazioni che ne hanno conservato la memoria. Forse perché rappresenta la parte più arcaica di ognuno di noi: fatto sta che il suo mito riaffiora insistentemente nelle nostre tradizioni. Qualche volta si maschera, ma quasi sempre compare con tutte le sue caratteristiche dominanti, dimostrandoci che è riuscito a rimanere aggrappato alla nostra memoria, con leggerezza, fantasia e anche un po’ di poesia.
Il suo modello simbolico si affermò anche nella letteratura cortese e nell’iconografia medievale, investendolo del ruolo di creatura della natura, contrapposta alla cultura e al di fuori del consorzio umano. L’uomo selvatico è protagonista di molte leggende, da Occidente a Oriente, e occupa una posizione importante nei rituali del Carnevale, in cui spesso è simbolo dell’inverno.
In alcune storie assume caratteristiche affini al cosiddetto “eroe culturale”, cioè a colui che insegna qualcosa di fondamentale agli uomini civili: l’arte casearia, l’agricoltura, l’attività mineraria e così via. Per esempio, fornì ai pastori le indicazioni per realizzare il burro e il formaggio, e le istruzioni per ottenere il miele dagli alveari. Le leggende che fanno riferimento a queste sue peculiarità raccontano che, proprio quando l’uomo selvatico era in procinto di insegnare segreti importanti  (come ottenere la cera dal latte, o l’olio dal caglio), fu costretto a fuggire perché vittima degli scherzi degli uomini. Il risultato fu che non svelò a nessuno i suoi antichi segreti. E così dopo aver trasferito quasi per intero le proprie conoscenze a pastori e contadini, fuggì sulla montagna o nel fitto dei boschi, da cui non fece mai più ritorno, o al massimo, si concesse solo rapide incursioni nel consorzio umano.


PADRONE DELLE VALLI. L’iconografia (da quella di matrice popolare all’arte colta) ha contribuito ad accentuare le valenze simboliche dell’uomo selvatico: in genere lo rappresenta con abiti realizzati con prodotti della natura (foglie, pelli, cortecce, ecc), per accentuare la dimensione selvaggia del suo habitat.
Il selvaggio è presente anche in araldica, come sostenitore di stemmi, con un ruolo analogo a quello di alcuni animali simbolici, posti ai lati del blasone. Nelle feste popolari che si intersecano con il rito del Carnevale, è parte integrante della rappresentazione e nella sua figura si mescolano motivi allegorici provenienti sia dalla letteratura che dall’universo del mito. Il corpus di fonti costituito dall’iconografia è fatto di affreschi, miniature, incisioni e sculture, a cui, come si è detto, si aggiunge anche l’arte aristocratica dell’araldica.
Un esempio emblematico è rappresentato dalla Camera Picta di Sacco, in Valgerola. Altre raffigurazioni significative si trovano a Tirano (Sondrio), dove sono presenti ben due “salva deghi” affrescati sulla Porta Schiavina: le creature, visibili solo in parte, hanno dimensioni notevoli, sono ricoperte da un folto pelo rossiccio e impugnano un lungo bastone da pellegrino nella mano destra. Originale è poi il selvaggio tricefalo di Bressanone (le due teste laterali potrebbero essere state aggiunte in un secondo momento). Qui la statua ripropone il modello ricorrente, un uomo peloso con un lungo bastone nella destra, ma con una piccola variante, rappresentata dal perizoma di foglie. La scultura è posta a una certa altezza da terra, nel punto in cui i Portici Maggiori si incontrano con quelli Minori.
La presenza delle tre teste (caso unico nell’iconografia dell’uomo selvatico, ma non in quella cristiana) ha suggerito svariate interpretazioni, tra cui quella del modello demoniaco: affreschi con demoni tricefali sono piuttosto frequenti nelle raffigurazioni del Giudizio Universale.
Intorno al selvaggio di Bressanone, datato al XVI secolo, circolano diverse leggente che attribuiscono poteri soprannaturali a quest’insolita statua. Secondo la più strana di esse, ogni Venerdì Santo, allo scoccare del mezzogiorno, dalle tre bocche uscirebbero monete.
      
Articolo in gran parte di Massimo Centini Antropologo e saggista pubblicato su Medioevo Misterioso extra n. 7 – altri testi e immagini da Wikipedia.

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