La terra promessa.
Contagiato dal colonialismo
imperante, nel 1911 il Regno d’Italia si lanciò alla conquista della Libia.
Un’impresa ben più ardua del previsto.
Guerra italo-turca Batteria di cannoni da 149/23 in azione vicino TripoliData29 settembre 1911 - 18 ottobre 1912LuogoLibia, Mar Egeo, Mediterraneo orientale, Mar RossoEsitoVittoria italiana
- Scoppio della prima guerra balcanica
- Nascita di movimenti di resistenza libici
Teatro libico: Carlo Caneva Augusto Aubry Teatro egeo: Giovanni Ameglio Marcello Amero d'Aste | Teatro libico: Neşet Pascià Ismail Enver Mustafa Kemal Ja'far al-'Askar |
34 000 uomini | 28 000 uomini |
3 431 morti (1 948 per malattia[1][2] e 1 432 in combattimento)[1] 4 220 feriti[2][3] | ~14 000 morti[4] 5 370 feriti circa 10 000 vittime tra esecuzioni e rappresaglie[5] |
La guerra italo-turca (nota in italiano anche come guerra di Libia, impresa di Libia o campagna di Libia ed in turco come Trablusgarp Savaşı, ossia Guerra di Tripolitania) fu combattuta dal Regno d'Italia contro l'Impero ottomano tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica.
Uno scatolone di sabbia: un grande
deserto, qualche oasi e, al massimo tanti datteri. Con una superficie di un
milione e 700mila chilometri quadrati, la Libia è il quarto paese africano per
estensione e quello scatolone di sabbia – come nel 1911 la definì lo storico e
politico socialista Gaetano Salvemini con disinteresse e una dose di sano, ma
non apprezzato anti colonialismo – rappresentano quasi sei volte l’Italia. Un
territorio immenso, del quale all’epoca non erano stati ancora scoperti i
ricchi giacimenti petroliferi, e scarsamente abitato. Nelle aule del parlamento
già dalla fine dell’ottocento, si sentiva ribattere con foga che quelle terre,
definite da molti la “terra promessa”, avrebbero potuto ospitare milioni di
italiani poveri e senza lavoro di vederli scappare verso le Americhe in
un’ondata migratoria che sembrava inarrestabile. Il primo ministro Giovanni
Giolitti, e chi la pensava come lui, voleva seguire l’esempio di altre capitali
europee, come Parigi, e impossessarsi delle terre africane.
La data ufficiale dell’inizio della guerra contro i turchi,
che governavano il territorio corrispondente all’odierna Libia dalla metà del
cinquecento è il 29 settembre 1911. Il Regno d’Italia festeggiava allora il suo
cinquantenario mentre l’impero ottomano era in una fase di rapida disgregazione
dopo più di seicento anni al potere (dal 1299 circa al 1922). I turchi
cercheranno fino all’ultimo di evitare il conflitto e arriveranno a proporre
all’Italia il protettorato anche dopo l’inizio del conflitto. In Italia l’idea
stessa della guerra e del suo carattere coloniale aveva profondamente diviso il
Paese e un parlamento già ostile al primo ministro.
Reparti da sbarco di marina in Libia
1911
Ha
inizio la cosiddetta Guerra italo-turca. Il 5 ottobre le truppe italiane
guidate da Umberto Cagni sbarcano a Tripoli.
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1929-1931
Il
generale Graziani sopprime la resistenza libica. Nel ’34 il governatore Balbo
avvia la migrazione di migliaia di italiani.
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1943
Con
la caduta del fascismo, la Libia viene occupata dagli inglesi; i francesi
controllano il Fezzan, regione al sud ovest della Libia odierna.
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1951
Proclamazione dell’indipendenza della Libia. Viene nominato re Idris,
capo della confraternita dei Senussi.
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1969 Con un colpo
di stato Muhmammar Gheddafi deponi il re Idris e proclama la repubblica araba
di Libia.
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1970
Nazionalizzazione
delle banche e delle proprietà straniere, circa 20mila residenti italiani
sono obblicati a lasciare il Paese.
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2011
Tre
anni dopo l’accordo che pone fine al contenzioso coloniale, guerra civile e
competizione neo-coloniale dividono la Libia.
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LA CONQUISTA A DIBATTITO. Sui giornali la
polemica divampava già da mesi con toni accesi. I nazionalisti, i giornalisti
dei quotidiani più importanti, i cattolici, il poeta Giovanni Pascoli, e il
vate Gabriele D’Annunzio erano tutti a favore. Proliferavano libri e studi
eruditi e si facevano conferenze per dimostrare, con l’aiuto della storia, che
in fondo andare in Libia era come tornare a casa. Non erano forse romane le
città di Sabratha, di Leptis Magna, di Cirene? I romani non avevano conquistato
e portato la loro civiltà all’interno del Paese fino a domare anche i bellicosi
e fieri garamanti? La Libia era, appunto, una specie di “terra promessa”. E le
banche romane controllate dal Vaticano (che già avevano investito in quelle
province dell’impero ottomano) spingevano per preservare i loro interessi e
andare ancora più avanti. Tra i contrari alla conquista, a fianco di Salvemini
si consolidarono alleanze che soltanto pochi anni dopo sarebbero state
improponibili. Benito Mussolini, allora socialista, e Pietro Nenni, all’epoca
repubblicano, furono persino arrestati, condannati e imprigionati per qualche
mese nel carcere di Bologna per aver manifestato contro l’impresa e contro la
politica delle altre potenze europee che il governo di Roma voleva inseguire.
La corse per il controllo del Mediterraneo e dei resti della “Sublime Porta”,
come i turchi chiamavano il loro impero, aveva già portato la Gran Bretagna e
Francia a impadronirsi dei bocconi più ghiotti del Mediterraneo dal Marocco
all’Egitto. Restavano Tripolitania e Cirenaica.
E ai 1732 marinai al
comando del capitano Umberto Cagni che sbarcarono a Tripoli, l’impresa
appariva, oltre che totalmente giustificata dalla storia, facile. Ma tra il
dire e il fare c’è di mezzo il mare. Mai più vero il detto. Gli analisti, così
presi dalla voglia di agire, si erano resi colpevoli di una superficialità che
spesso, ancora oggi in un mondo molto che spesso, ancora oggi in un mondo molto
più informato, fa fallire progetti di conquista. Avevano sottovalutato la
resistenza dei turchi. E soprattutto quella dei libici, divisi o uniti in tribù
o popoli il cui comune denominatore era l’islam e l’odio nei confronti di ogni
invasore.
La molteplice popolazione
libica.
Erano soprattutto
arabi, berberi e tuareg i libici che gli italiani avevano trovato quando
approdarono nel vasto Paese. e la loro lingua unificante era l’arabo. Berberi
e Tuareg, gli abitanti originari della regione nordafricana, appartengono al
medesimo gruppo etnico e hanno in comune un’antica lingua scritta e parlata
ancora oggi in alcune zone. Nelle regioni meridionali, gruppi di tebu e hausa
provenienti dall’Africa sub sahariana occupavano molte oasi. Nelle montagne a
sud di Tripoli, in mezzo o accanto ai berberi, fin dall’antichità si erano
insediati nuclei di ebrei (chiamati trogloditi per le loro abitazioni scavate
nella roccia). Nel tempo, a questi si aggiunsero altri arrivati dalla Spagna
all’epoca dell’inquisizione, per un totale di circa 28mila persone. I
sefarditi, dediti soprattutto al commercio, vivevano a Tripoli e Bengasi.
Legarono immediatamente con i colonizzatori italiani, ma il filo fu spezzato
con la proclamazione delle Leggi speciali anti-ebraiche nel 1938. Allora come
oggi, arabi, berberi e tuareg erano divisi in circa centro tribù distribuite
sul territorio e spesso antagoniste tra di loro. I warfalla, presenti
soprattutto in Tripolitania, i ghadala (la famiglia di Gheddafi) a Sirte e
dintorni, i megarha, nella regione sudorientale del Paese, gli zuwayya a est
(zona oggi strategicamente importante per il controllo delle condutture
petrolifere), costituivano i nuclei più potenti con cui gli italiani dovevano
fare i conti. I nomadi tuareg si muovevano soprattutto nel Sahara passando da
osasi in oasi, anche fuori dai confini coloniali tracciati nelle sabbie del
deserto. Invece il grosso dei berberi abitava soprattutto nel Gebel Nefusa a
Zuara sulla costa, e in vari centri dell’interno come Ghat, Gadames, Sokna e
Augila.
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Marinai delle compagnie da sbarco della Regia Marina prendono terra a Tripoli nell'ottobre 1911.
LE DUE FASI DELLA CONQUISTA. Anche per questo la
conquista della Libia si svolse in due fasi quasi distinte: la prima,
superficiale e approssimativa, portò gli italiani a impossessarsi di parte del
Paese (1911-12) prima di essere respinti e confinati sulla costa intorno a
Tripoli e Bengasi (1914-15). La seconda, definita la “riconquista”, venne
portata a termine dal regime fascista mussoliniano. Strumenti di guerra più
efficaci e micidiali vennero messi a disposizione dell’esercito da un governo
disposto a vedere la decimazione della popolazione autoctona pur di pacificare
lo scatolone e renderlo abitabile e ospitale per le decine di migliaia di
coloni che vi sarebbero stati trasferiti dall’Italia.
Se nella prima fase le
atrocità furono causate dall’inesperienza e dall’approssimazione, nella seconda
la repressione divenne una scelta ben precisa, codificata, messa in atto con
determinazione e, dunque, senza attenuanti. Quelli che oggi chiamiamo crimini
di guerra – stupri, scempi sui corpi degli uccisi, armati e no – furono spesso
reciproci nella prima fase del conflitto ma, con l’avvento del fascismo,
divennero più strutturati. Massacri dei civili con la giustificazione che
nascondevano i ribelli, marce forzate di intere comunità e campi di
concentramento, eliminazione di greggi e altri fonti di approvvigionamento,
impiccagioni dopo processi sommari e, verso la fine dello scontro armato,
rappresaglie feroci come a Cufra (dove molti capi tribù furono fatti salire in
aereo e buttati sulle popolazioni costrette a guardare) sono apparsi a molti
storici come un vero e proprio progetto di genocidio. Il 23 ottobre 1911,
mentre un mese dopo lo sbarco delle truppe italiane, gli ottomani e le milizie
libiche loro alleate reagirono e attaccarono all’improvviso il perimetro difensivo
di Tripoli. Alcune posizioni riuscirono a resistere. Nell’oasi di Sciara el
Sciatt, invece, le cose andarono male. La popolazione locale si unì ai
combattimenti prendendo alle spalle i bersaglieri e costringendo una compagnia
ad arrendersi. Quando gli italiani riconquistarono l’area si trovarono di
fronte a un massacro. Quasi tutti i 290 prigioni in uniforme erano stati
trucidati. Un corrispondente francese del Matin descrisse così le sevizie da
circa 80 bersaglieri: “… gli hanno
tagliato i piedi, strappate le mani, poi sono stati crocifissi. Un bersagliere
ha la bocca strappata fino alle orecchie, un altro ha il naso segato in piccoli
tratti, un terzo ha infine le palpebre cucite con spago da sacco”. La
reazione delle truppe italiane non fu meno feroce. Vennero uccisi a sangue
freddo oltre 1000 tra uomini, donne e bambini secondo le fonti italiane. Quelle
libiche, invece, parlano di quattromila morti. La vicenda, ampiamente
raccontata dagli inviati della stampa italiana, suscitò nuove polemiche e per
molti anni influenzò i comportamenti delle truppe italiane. Negli stessi
giorni, dopo violenti combattimenti, venne occupata Bengasi, capitale della
Cirenaica, 650 chilometri in linea d’aria da Tripoli. Dopo appena un mese
Tripoli e Bengasi erano in mano italiana, ma la resistenza turca e libica
continuò. E Roma si servì di ogni mezzo, lecito e illecito, per cercare di
penetrare nel vasto interno dello “scatolone di sabbia”. Nei cieli della Libia
apparve, allora, per la prima volta una manciata di aerei da combattimento per
bombardare e terrorizzare la popolazione. (per altre notizie leggere qui).
Nonostante vecchie e nuovi armi, però, le operazioni militari italiane non
andarono bene. Le truppe non erano preparate ala deserto, al colera, e ancora
meno alla guerriglia urbana. Fu necessario quasi un anno per mettere in
ginocchio la Sublime Porta: il trattato di pace tra Italia e Turchia venne
firmato il 18 ottobre 1912 a Losanna. Ufficiali e truppe turche si ritirarono
dalla Tripolitania e dalla Cirenaica. Ma la resistenza libica era soltanto agli
inizi.
Le popolazioni
combattevano non più per sostenere gli interessi dei turchi, quanto per non
essere nuovamente sottoposte a un’occupazione straniera. Quella italiana aveva
generato speciale rigetto, anche perché, fin da subito dopo lo sbarco, l’Italia
aveva revocato ai libici o diritti politici (la possibilità di avere i propri
deputati a Costantinopoli, i consigli comunali elettivi, ecc..) che questi
avevano conquistato a caro prezzo dall’amministrazione ottomana. Gli arabi e i
berberi libici riuscirono a costringere gli invasori a rinchiudersi nelle due
grandi città conquistate, Tripoli e Bengasi. Al tempo stesso, erano già stati
allestiti reparti di libici disposti a combattere a fianco degli italiani pur
di non vedere le loro famiglie colpite da rappresaglie. Negli anni successivi,
eritrei, somali, etiopi, yemeniti e sudanesi avrebbero integrato i reparti di
arabi libici fedeli a Roma che avrebbero sostenuto il grosso del peso della
guerra. La grande guerra impose, se non una vera e propria pausa, quanto meno
un rallentamento delle operazioni, che ripresero con maggiore convinzione nel
1922 in quella che fu definita la riconquista della Libia. Molte oasi a sud
della Tripolitania erano già cadute in mani italiani. Il vero nodo era la
Cirenaica. Prima il governo liberale, poi quello fascista, si impegnarono a
fondo per mettere ordine o, come scrissero, per pacificare la provincia libica.
Mussolini aveva dimenticato le proteste contro l’occupazione che lo avevano
portato in carcere e, da leader dell’Italia, sognava la gloria dell’antico
impero di Roma. I generali i generali Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani
comandarono le nuove operazioni. Avevano di fronte una resistenza organizzata e
sostenuta da tutta la popolazione, in gran parte nomade, e guidata da un uomo
abile e carismatico, spronato da religione e nazionalismo: Omar al Mukhtar: era
il capo indiscusso dell’ala militare della Senussia, una confraternita
mussulmana fondata nell’ottocento da Muhammad ibn ‘Alf as-Sanusi, un mistico
algerino che aveva istituito la sua comunità nell’oasi di Giarabub. Prima di
combattere gli italiani, i fedeli della setta avevano lottato contro l’espansione
francese nel Sahara e nel Ciad. Sul piano strettamente militare i mezzi di cui
disponevano i ribelli (vecchi cannoni e fucili turchi, dromedari con cui
muoversi nel deserto e, soprattutto, il sostegno della popolazione civile, che consentiva
loro di nascondersi di giorno e di colpire con il buoi le posizioni italiane
più isolate) non potevano competere con gli aerei armati di bombe e mitragliatrici
e con i semicingolati adatti agli spostamenti nel deserto. Ma a un certo punto Roma,
che giocava anche sulle rivalità tra le tribù, si rese conto che la superiorità
delle armi e il cosiddetto dialogo era insufficiente. E allora puntò sulla
repressione e il massacro della popolazione civile.
Nel gennaio 1929 il
maresciallo Badoglio assunse il governo della Tripolitania e Cirenaica: iniziò
così la pagina più nera del colonialismo italiano in Libia. Il suo obiettivo era
chiaro e non aveva remore a scriverlo. “Bisogna
anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso tra formazioni
ribelli e popolazione sottomessa. Non mi nascondo la portata e la gravità di
questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta
sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla
sino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”.
L'impiccagione di Omar al Muktar a Soluk
il 16 settembre 1931.Data1922 - 1932
Gaetano Salvemini, voce contro
dall’Italia.
Convinto meridionalista,
antifascista e difensore degli oppressi, Salvemini fu lo storico,docente
universitario, saggista e giornalista. Nacque a Molfetta nel 1873 e si laureò
a Firenze. Aderì al Partito Socialista, ma in seguito se ne allontanò in
quanto lo riteneva non sufficientemente attento alla questione meridionale. Oltre
a criticare la Guerra in Libia, in una specie di “crociata per la
moralizzazione della vita pubblica” si schierò contro Giolitti, che chiamava “ministro
della malavita”. A soli 28 anni ricopriva già la cattedra di storia moderna a
Messina. Nel 1925, dopo essersi rifiutato di firmare il “manifesto degli
intellettuali fascisti” venne arrestato e imprigionato. Infine fu costretto
all’esilio. Prima a Londra e a Parigi, poi negli Usa ottenne la cattedra di
Storia della civiltà italiana a Harward, continuò la sua battaglia contro il
fascismo. Morì a Sorrento nel 1952.
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Omar
al-Mukhtar, il capo della resistenza.
Gli
ultimi anni di Omar al-Mukhtar, eroe nazionale libico, sono stati raccontati
nel film il leone del deserto con Anthony Queen. Omar nacque nel 1861 da una
famiglia di contadini in un villaggio della Cirenaica e studiò prima in una
scuola coranica di Giarabub, poi una madrasa di Zanzure, infine aderì come
imam alla confraternita dei Senussi. Nel 1922, fu nominato capo delle
operazioni militari da Idris as-Sanusi (che sarebbe diventato il primo re di
Libia) e con gran parte della guerriglia unificata riuscì a bloccare per anni
l’avanzata italiana. Fu ferito e catturato l’11 settembre 1931 e, quattro
giorni più tardi, condannato a morte. Nel giugno 2009 Gheddafi si fece
accompagnare in Italia dal figlio di al Mukhtar portando sul petto la foto
dell’arresto del padre di questi. Per anni il film sulla sua storia era stato
bandito dalle sale italiane in quanto “lesivo dell’onore dell’esercito
italiano”.
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METODI SPIETATI. L’uomo che traduceva le
disposizioni arrivate dal duce e decideva le strategie era Rodolfo Graziani. Freddo
e spietato, sperimentò metodi mai usati prima in combattimento. Se tra il 1911
e il 1912 la giovane aviazione del Regno lanciava bombe grandi come pompelmi –
più per spaventare e stordire i ribelli che per ucciderli – nella nuova fase
gli ordigni erano di dimensioni maggiori. Si decise anche di tirare fuori dai
magazzini di residuati bellici della Guerra mondiale, quelli carichi di iprite,
un gas già sperimentato in combattimento sul fronte francese e successivamente bandito dalle convenzioni
internazionali. Dal novembre 1929 alle ultime azioni del maggio 1930 l’aviazione
in Cirenaica eseguì, secondo fonti ufficiali, ben 1605 ore di volo bellico
lanciando 43500 tonnellate di bombe e sparando diecimila colpi di
mitragliatrice. Le fonti, però, non precisano quante tonnellate di bombe
fossero cariche di iprite. Molta documentazione del suo uso è stata eliminata
ma qualcosa è rimasto negli archivi, come testimonia questa relazione segreta
del 6 gennaio 1928: “Come stabilito,
stamane quattro Ca73 e tre Ro hanno bombardato Gife con evidente distruzione. I
quattro Ca73 si sono spinti circa settanta chilometri sud Nufilia bombardando
anche a gas circa quattrocento tende …”. L’attacco all’oasi non fu un
episodio isolato. Nel mirino anche greggi e cammelli, per costringere alla resa
i civili – all’incirca centomila persone – e poi convogliarli in vasti campi di
concentramento perché non potessero più aiutare i ribelli. Non erano campi di
sterminio come quelli nazisti, ma i morti furono comunque decine di migliaia. “Ogni giorno da El Agheila uscivano
cinquanta cadaveri. Venivano sepolti in fosse comuni… . Gente impiccata o
fucilata. O persone che morivano di malattia”, avrebbe raccontato anni dopo
un sopravvissuto. Nelle vicinanze di uno di questi campi, dove affiorano ancora
oggi le sepolture delle vittime, c’è un piccolo monumento per ricordare il capo
della resistenza, Omar al-Mukhtar. Nonostante gli fossero rimasti appena
settecento combattenti, non volle arrendersi. L’11 settembre 1931, fu ferito e
catturato e, dopo un processo sommario e un breve colloquio con Graziani a
Bengasi, venne portato a Soluch, a ridosso di uno dei campi di concentramento
fascisti e impiccato alla presenza di migliaia di libici. Le sue ultime parole
furono quelle di un noto versetto coranico: Inna li-llahi wa inna ilayHi ragi’
una (a Dio apparteniamo e a Lui ritorniamo). Badoglio avrebbe dovuto il 24
gennaio per annunciare fiero: “La
ribellione in Cirenaica è completamente e definitivamente stroncata”. Il territorio
strappato all’impero ottomano sarebbe rimasto saldamente nelle mani dell’Italia
di Mussolini fino alla Seconda guerra mondiale, quando la colonia si sarebbe
trasformata in grande campo di battaglia. la sconfitta del fascismo avrebbe
segnato la fine del colonialismo italiano e la Libia sarebbe diventata uno
stato indipendente. E dalle viscere sarebbero usciti fiumi di petroli e
minerali rari, che avrebbero aperto le porte a devastanti giochi neo-coloniali.
Dalle deportazioni ai campi di
concentramento.
Campo di Concentramento Sidi Ahmed el-Magrun
Lo scopo era duplice: mettere fine
alla resistenza contro l’occupazione italiana e far posto ai coloni che
sarebbero venuti dall’Italia. A partire dal 1930 almeno centomila abitanti di
Gebel el-Achdar , i monti fertili della Cirenaica, furono strappati alle loro
case e ai loro accampamenti e costretti a marciare per raggiungere tredici
campi di concentramento allestiti nelle regioni più inospitali lungo la costa
della Sirtica. Le terre furono espropriate; le zavie, i centri polivalenti
senussiti, chiusi, e molti dei pozzi avvelenati per rendere la vita
impossibile a chi era riuscito a sfuggire ai rastrellamenti e ai
combattimenti che avrebbero continuato per mesi la loro lotta contro gli
italiani. Quindicimila tra uomini, donne e bambini non arrivarono mai a
destinazione. Ai morti per malattia, fame e stanchezza si aggiunsero quelli
deceduti per le fustigazioni o le fucilazioni
di chi non voleva obbedire ai soldati italiani o alle truppe coloniali
(composte da eritrei e, talvolta, anche da libici). Nello spostamento fu
perso o ucciso gran parte del bestiame (circa un milione di animali) per non
farlo cadere nelle mani dei guerriglieri.
Le foto scattate dagli aerei
militari italiani mostrano campi di tende e spazi per gli animali allestiti nello
stile classico romano: quadrati di circa un chilometro quadrato con vie strette
per consentire il passaggio dei guardiani e mantenere il controllo dei
detenuti. Il tutto era circondato da filo spinato. L’acqua razionata, la
mancanza di cibo e le condizioni igeniche fecero scempio degli internati. Come
anche le fucilazioni e le impiccagioni quotidiani. Dei circa 85mila internati
si sarebbe salvata poco più della metà. Le tombe dei morti affiorano ancora
oggi dalla sabbia attorno ai campi.
I mandanti. Il dittatore Benito
Mussolini insieme al generale Rolfo Graziani a Salò. Dopo il crollo del
regime Graziani decise di schierarsi a fianco del duce. Nel 2012 gli è stato
intitolato un mausoleo che ha fatto discutere in quanto affronto alla
democrazia.
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L'arco dei Fileni al confine fra Tripolitania e Cirenaica fu progettato dall'architetto Florestano Di Fausto ed eretto per volontà di Italo Balbo al confine fra Tripolitania e Cirenaica
LA VITA NELLA COLONIA ITALIANA. Arrivarono soprattutto
da Veneto, Sicilia, Calabria e Basilicata. Alcuni subito dopo la Prima guerra
mondiale, altri alla metà degli anni trenta, quando il governatore Balbo ne
portò 20mila e fondò per loro una ventina di villaggi, molti in Cirenaica. In quella
che era considerata la nuova America per l’emigrazione italiana costruirono
strade, ponti, ospedali e altre infrastrutture importanti. Lanciarono iniziative
con la Fiera internazionale di Tripoli e il Gran Premio di Tripoli, corsa
automobilistica di fama internazionale. Le antiche città romane di Leptis Magna
e Sabratha furono dissotterrate. All’inizio della Seconda guerra mondiale gli
italiani in Libia erano 120mila: circa il 13% della popolazione, concentrati
nella costa intorno a Tripoli e Bengasi. Con lo scoppio del conflitto che
trasformò la Libia in un campo di battaglia, molti furono costretti ad abbandonare
case e proprietà.
ITALIANIZZAZIONE DEI LIBICI. Dopo la pacificazione l’obiettivo
di Mussolini fu la conquista morale degli arabi. Nei decenni precedenti il
sistema scolastico turco era stato modificato con iniziative che potevano, all’epoca,
apparire migliorative. Tuttavia, soltanto con l’arrivo di Balbo come
governatore nel 1934 fu chiaro il progetto di assimilazione che si voleva
perseguire. “Noi avremo in Libia non
dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani mussulmani, gli uni e
gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di
un grande potente organismo, l’Impero fascista”. Al posto della scuola
media per gli arabi furono create strutture per insegnare arti e mestieri e
come educazione superiore furono rafforzate le vecchie istituzioni di studi
islamici. Molti libici impararono l’italiano, ma il programma educativo imposto
fu un totale fallimento. Quando la Libia divenne indipendente nel 1951 il 91%
della popolazione era analfabeta rispetto al 13% in Italia.
Articolo in gran parte
di Eric Salerno scrittore, esperto in questioni mediorientali africane
pubblicato su Storica National Geographic del mese di ottobre 2018. Altri testi
e immagini da wikipedia.
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