La sottile arte della
diplomazia nell’antica Roma.
L’Urbe non aveva una
pratica diplomatica paragonabile a quella moderna. Esisteva una gestione
organizzata e funzionale dei complessi rapporti con i popoli confinanti, volta
più alla guerra che alla pace, che affondava le sue radici in un collegio
sacerdotale di origini antichissime.
La
nascita della diplomazia modera si fa convenzionalmente risalire al tardo
Medioevo, quando alcuni Stati italiani, soprattutto Venezia, svilupparono fitte
relazioni internazionali, generando consuetudini e prassi diplomatiche spesso
ancora in uso ai giorni nostri. Si pensi, per esempio, alla presentazione delle
“lettere credenziali” da parte dell’ambasciatore dello Stato, inviate alle
autorità dello Stato ricevente; all’apertura di ambasciate permanenti: ai
dispacci scritti dagli ambasciatori veneziani, maestri nell’arte di riferire
notizie utili per la Repubblica di San Marco.
Un modello di
diplomazia che si estese
progressivamente a tutta l’Europa, fino alla pace di Westfalia (1648) quando, dopo gli orrori e le sofferenze provocate
dalla Guerra dei Trent’Anni, il giurista Ugo Grozio (Huig de Groot) diede alle
stampe il De iure beli acpacis, opera che poneva le basi del diritto
internazionale, cioè l’insieme delle norme che avrebbero regolato la condotta
degli Stati nazione (nati sulle ceneri del Sacro Romano Impero) nei loro
rapporti di pace e di guerra.
Da quel momento,
diritto internazionale e diplomazia tesero a intrecciarsi sempre di più, sia
perché una parte del diritto internazionale riguarda proprio l’insieme degli
obblighi che gli Stati assumono per regolare l’attività diplomatica, sia perché
esso è il principale strumento di cui dispongono gli Stati per realizzare
iniziative fuori dai propri confini. Nel 1961, tutte le consuetudini e le norme
che disciplinano i rapporti tra Stati (nonché le prerogative e le immunità di
cui godono gli ambasciatori nell’esercizio delle loro funzioni) furono
raggruppate nella Convenzione di Vienna che è tutt’ora in vigore.
Tre
grandi ambasciatori. |
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Lucio
Anicio Gallo Politico,
pretore nel 168 a.C, console, combattente valorose e vittorioso contro gli
Illiri. Nel 154 a.C., fu a capo di una delegazione di ambasciatori inviati in
Asia Minore per dirimere la controversia sorta tra Prusia II (re di Bitinia)
e Attalo (re di Pergamo). Lucio Anicio Gallo ebbe una serie di colloqui prima
con Attalo, poi con Prusia II, che rifiutò tutte le proposte di mediazione
avanzate dal Senato romano. I legati assunsero allora un atteggiamento più
deciso. Da una parte consigliarono ad Attalo di intensificare le proprie
difese e dall’altro ordinarono a Prusia II di non mettere in atto alcuna
iniziativa di guerra. Sulla via del ritorno, i diplomatici dell’Urbe
ingiunsero agli Stati che attraversavano di non fornire alcun aiuto alle mire
bellicose di Prusia II, che finì quindi finì per rimanere del tutto isolato.
Così, la pace venne preservata grazie a una diplomazia muscolare com’era
appunto quella romana. |
Gaio
Popilio Lenate Uomo
politico e due volte console (nel 172 e nel 158 a.C.), nel 168 a.C., durante
il conflitto di Roma contro la Macedonia, Gaio Popilio Lenale fu inviato in
missione diplomatica per evitare la guerra tra Anioco IV (re seleucide della
Siria, che voleva invadere Alessandria) e Tolomeo VI, sovrano d’Egitto. L’ambasciatore
romano incontrò Antioco proprio nei pressi di Alessandria e, secondo la
leggenda, per accelerare il negoziato tracciò il famoso ‘cerchio di Popilio’.
Con la punta di un bastone disegnò un cerchio nella polvere intorno ad
Antioco, ingiungendogli (in nome della grandezza di Roma) di non muoversi di
lì finché non avesse fornito una risposta chiara alle proposte del Senato
romano. Il sovrano, di fronte alla risolutezza dell’ambasciatore, pensò bene
di accettare le condizioni poste dalla più grande potenza militare del tempo.
I Seleucidi si ritirarono e in seguito concordarono una pace duratura con la
dinastia tolemaica. |
Quinto
Fabio Massimo Gurgite. Soprannominato
“Gurges” (ghiottone) per i suoi eccessi in gioventù, fu eletto due volte
console (nel 292 e ne 276 a.C.). Nel 273 a.C., fu a capo di una delegazione
diplomatica inviata dal Senato presso il sovrano d’Egitto Tolomeo, parente e
amico di Pirro, re dell’Epiro, di cui Roma temeva l’intervento in Italia del
Sud e voleva conoscere meglio le intenzioni. Al suo ritorno in patria, Quinto
Fabio Massimo fece rapporto al Senato, offrendo generosamente al tesoro
pubblico i preziosi regali che aveva ricevuto da Tolomeo a titolo personale,
quale attestato di stima e di amicizia. Il Senato, tuttavia, respinse il
nobile gesto e lo autorizzò a conservare quegli oggetti, come ricompensa per
una missione che aveva dato buoni frutti, permettendo di ottenere
informazioni utili per la Repubblica. |
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Diplomazia latina. Tuttavia, non bisogna
credere che all’epoca degli antichi Romani non esistesse la diplomazia. Al
contrario, c’era ed era anche molto efficiente. Aveva però caratteristiche
alquanto diverse rispetto a quella che conosciamo oggi, in un contesto dove
ancora non esisteva la concezione dello Stato modernamente inteso. Oggi la
diplomazia rappresenta l’alternativa alla guerra, è lo strumento a cui si
ricorre per cercare di evitare il conflitto armato. Le relazioni diplomatiche
si attuano attraverso missioni permanenti che gli Stati interessati si
scambiano reciprocamente. Il diplomatico, in questa cornice, ha facoltà di
negoziare, proporre, accogliere richieste, in un contatto permanente con le
autorità presso cui è accreditato, con la precisa finalità di migliorare i
rapporti tra Stato inviante e Stato ricevente. Il corpo diplomatico è formato
da agenti professionisti, cioè persone che svolgono le loro funzioni a tempo
pieno nell’ambito di un’apposita carriera.
Nell’antica Roma,
invece, la diplomazia era una sorta di strumento parallelo (ma non alternativo)
all’azione militare. Serviva, più che per trattare o negoziare, per spiegare e
illustrare ai popoli da sottomettere le condizioni (e soprattutto i termini) in
cui sarebbe avvenuta l’integrazione. Roma conquistava i popoli, ma poi faceva
in modo di assimilarli. Concedeva loro la cittadinanza, facendo del territorio
conquistato parte integrante dell’Impero. Compito della diplomazia, dei legati
(com’erano chiamati gli ambasciatori), era quindi quello di esprimere il
pensiero del Senato, il punto di vista dell’imperatore. I legati non avevano
molto spazio negoziale,dovevano solo spiegare e convincere. Ecco perché in
genere erano eccellenti oratori e svolgevano la loro missione con una certa
teatralità protocollare, per impressionare gli interlocutori stranieri
sfoggiando, tra l’altro, le inconfondibili toghe rosso porpora. Le delegazioni
diplomatiche erano temporanee, finalizzate a uno scopo preciso. Non si
concepivano quindi ambasciate permanenti. I legati dovevano anche verificare
che l’integrazione nell’Impero avvenisse in maniera ordinata e priva di
eventuali conflittualità, tenendo d’occhio la stabilizzazione interna, che si
realizzava secondo diverse fasi: assimilazione, alleanza (i territori annessi
manteneva le amministrazioni tradizionali), colonia latina (per le popolazioni
più restie alla regola di Roma).
Un ruolo eminentemente
politico, ragione per cui non esistevano diplomatici di carriera. Gli ambasciatori
venivano scelti tra personalità del mondo politico (pretori, consoli e
senatori) in base alla loro esperienza, all’oratoria, alla capacità di
persuasione. Erano quindi, incaricati di una o più missioni ad hoc, per poi
riprendere le loro occupazioni precedenti.
I feziali,
ambasciatori sacri. I legati, attraverso le loro
delegazioni speciali, avevano la possibilità di osservare direttamente le
reazioni e il comportamento dei regni e dei popoli conquistati. I loro discorsi
erano spesso accompagnati da una significativa gestualità, per avere il massimo
impatto possibile sull’uditorio. Racconta Tito Livio che quando un legato
romano si recò di fronte al Senato cartaginese per sapere se Annibale avesse
attaccato scientemente Sagunto, in Spagna (e avesse dunque intenzioni bellicose
nei confronti di Roma), aprì la sua toga rossa esclamando che in essa era
racchiusa la pace o la guerra. Ai Cartaginesi la scelta. Quando si sentì rispondere
che volevano la guerra, riavvolse teatralmente la veste, accettando la
dichiarazione fatta senza pronunciare una sola parola: iniziava ufficialmente
la Seconda guerra punica. Sempre da Tito Livio apprendiamo dell’esistenza di
una particolare corporazione di sacerdoti e saggi, i Feziali (Fetiales o
Feciales), che fungevano da garanti e interpreti di quello che oggi, con
qualche forzatura, potremmo definire diritto internazionale (ius fetiale), e
che conferivano sacralità.
Alle relazioni internazionali e ai patti
diplomatici conclusi. Il concorso dei Feziali era richiesto ogni qualvolta
fosse necessario dichiarare guerra o concludere un’alleanza e un accordo. In
caso di crisi internazionale, i Feziali erano incaricati di accertare (tenendo
conto delle indicazioni del Senato e dei legati al rientro delle loro missioni
speciali) dove stessero il torto e la provocazione. Se venivano riscontrati
comportamento scorretti da parte di cittadini romani, i Feziali (difensori
della dignità di Roma) esigevano la consegna dei colpevoli al nemico
(dedition), altrimenti procedevano alla solenne dichiarazione di guerra
(clarigatio) secondo un complicato cerimoniale, che comprendeva l’utilizzo
simbolico di alcune erbe sacre colte in cima al Campidoglio. Il collegio sacerdotale
dei Feziali, composto da 20 membri eletti per cooprazione (cioè da membri del
collegio stesso), era presieduto, con rotazione annuale, da un magister
fetialum e aveva una sorta di portavoce, il pater patratus populi romani,
l’oratore ufficiale, incaricato delle dichiarazione formale di guerra.
Va inoltre ricordato
che gli ambasciatori romani non godevano dei privilegi e delle immunità oggi
riservate ai diplomatici. Non potevano contare sull’inviolabilità personale,
sull’extraterritorialità del loro domicilio (peraltro provvisorio) e
sull’esenzione dalla giurisdizione civile e penale. Tuttavia, in genere, la
loro missione non era troppo rischioso. Avevano alle spalle la più grande
potenza del mondo conosciuto, dunque chi si sarebbe ma azzardato a fare un
torto a un ambasciatore romano? Del resto anche ai cittadini comuni, qualora si
trovassero in difficoltà in una delle numerose zone dell’Impero, bastava dire
“civis romanus sun!” (sono cittadino romano) per ottenere subito riguardo e
rispetto.
Contatti reciproci. Roma inviava
ambasciatori, ma riceveva anche delegazioni diplomatiche di altri Paesi. I
legati stranieri venivano accolti e ascoltati dal Senato, ma esisteva una certa
differenza tra l'atteggiamento degli ambasciatori romani (che riflettevano
l’immagine della grandezza dell’Urbe) e quello dei rappresentanti stranieri,
che davanti al Senato assumevano un atteggiamento supplicante, sollecitando
pace, perdono o giustizia, oppure esprimendo gratitudine. Gli ambasciatori dei
Paesi alleati venivano ricevuti immediatamente e alloggiati intra pomerium
(dentro la cinta sacra della città), mentre le delegazioni dei popoli poco
amici erano ospitate extra pomerium e obbligate a lunghe attese.
Quella dell’Urbe,
quindi, era una diplomazia che precedeva, affiancava o seguiva l’azione
militare, tesa a fornire un contributo significativo alla politica
d’integrazione perseguita da Roma, specialmente nel tardo periodo repubblicano
e durante l’Impero, quando sul mondo regnava la pax romana. Una pace che si
basava sulla potenza delle legioni, ma anche, e soprattutto, su
un’amministrazione evoluta ed efficiente, sull’applicazione di norme giuridiche
chiare ed esemplari, sul senso della res publica (cosa pubblica), sul concetto
d’integrazione e su una diplomazia di grande peso, i cui meccanismi
d’intervento rimasero invariati per secoli, nelle procedure, nei rituali e nel
linguaggio. Almeno finché durò l’Impero Romano d’Occidente, la cui caduta (nel
476) comportò la scomparsa delle sue più importanti istituzioni, diplomazia
compresa.
Articolo di Domenico
Vecchioni pubblicato su Civiltà Romana n. 3 – altri testi e immagini da
Wikipedia.
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