I cannoni che fecero
l’unità d’Italia.
La canna rigata migliorò la potenza e la precisione dell’artiglieria e questo fu determinante in molte battaglie. Anche durante le guerre di indipendenza. Una innovazione che ha cambiato la nostra storia.
Molte volte nella storia militare del mondo le armi innovative sono
risultate decisive per la sorte della guerra. Per quanto riguarda le
artiglierie, il progresso fatto dopo il 1850 fu enorme e ciò si deve
soprattutto a una caratteristica: la rigatura interna della canna delle bocche
da fuoco. Il vantaggio delle armi rigate su quelle bocche è duplice e si
traduce nella regolarità e nella precisione del tiro e dell’aumento della
portata o della gettata. La rigatura è costituita dall’insieme di un certo
numero di solcature (o righe appunto) con andamento elicoidale, ricavate sulla
superficie interna della canna, che adempiono alla funzione di imprimere al
proiettile o alla pallottola una forte velocità di rotazione attorno al proprio
asse. Ma non fu un’innovazione accolta velocemente dagli eserciti. Il
principale motivo per cui questo tipo di artiglieria, nonostante i pregi, non
fu subito adottata su larga scala era dovuto al fatto che si imputava alla
rigatura una diminuzione della robustezza della bocca da fuoco. Nonostante
questo essa risultò determinante in molte circostanze, comprese le campagne
militari risorgimentali per l’Unità d’Italia, a partire dalla Seconda guerra
d’indipendenza, nel 1859, quando i cannoni a canna rigata furono utilizzati per
la prima volta dalle truppe francesi.
Il battesimo di Solferino. Durante la battaglia di
Solferino, una delle più decisive della Seconda guerra d’indipendenza, il
successo dell’armata franco-piemontese su quella austriaca fu enormemente
facilitato dall’importante ruolo svolto dall’artiglieria francese, dotata di
pezzi a canna rigata, molti più efficaci di quelli ad anima liscia in dotazione
agli austriaci. Per esempio, il 24 giugno il 2° Corpo francese del generale
Patrice de Mac-Mahon fu attaccato dalla fanteria austriaca, preceduta dal
cannoneggiamento dell’artiglieria posta a un migliaio di metri dai francesi, ma
i cannoni del 2° Corpo francese risposero al fuoco, incrociando i cannoni
austriaci che furono costretti a ripiegare la 1a Armata austriaca fu poi
colpita dall’artiglieria francese mentre attraversava una zona scoperta: grazie
alla precisione dei nuovi cannoni a canna rigata, le truppe austriache furono
falcidiate. L’artiglieria francese fu determinante anche nella conquista della
strategia altura di Monte Sacro, nei pressi di Solferino, così come
nell’opporsi all’avanzata del 7° Corpo del maresciallo Friedrich Zobel, e a
quella della divisione di Cavalleria del generale Alexnder von Mensdorff.
Nonostante i loro
sforzi e un energico attacco su Medole del 9° e dell’11° Corpo, gli uomini
dell’Imperatore Francesco Giuseppe non riuscirono a ottenere i successi sperati
e alcuni loro reparti furono costretti a ritirarsi fino a Goito. Come
confermano anche i rapporti militari del comando francese (ma anche di quello
austriaco) la nuova artiglieria a canna rigata procurava ai Transalpini una
superiorità tattica perché andava a colpire gli austriaci a distanze superiori
rispetto a quelle raggiunte dai loro migliori cannoni.
La rigatura. L’elemento principale dell’artiglieria è la bocca da fuoco costituita da un tubo metallico chiuso posteriormente nel quale, sotto l’azione di una carica di esplosivo, un proiettile può essere lanciato con forte velocità iniziale in una determinata direzione. La superficie interna del tubo, o meglio della canna, dove scorre il proiettile è chiamata anima della bocca da fuoco. La sua caratteristica principale è il calibro, cioè il diametro dell’animo della canna, che è indice della potenza del pezzo e viene usato per suddividere le artiglierie in piccolo, medio e grosso calibro. Le artiglierie rimasero lisce e ad avancarica fino ai primi del XIX secolo. Il “vento” lasciato ha il proiettile e l’anima provocava la fuga del gas prodotto dalla combustione della carica esplosiva, disperdendo una parte della forza propulsiva a discapito della velocità e della gittata. Per effetto di questo gioco, inoltre, il proiettile sbatteva in maniera casuale sulle pareti della canna causando irregolarità nel tiro. Si cercò pertanto do ridurre il vento portando la palla alle sue dimensioni massime, senza riuscire però a eliminare questi inconvenienti. È quindi evidente come il limite fondamentale delle artiglierie a canna liscia sia stato quello della irregolarità del tiro che non dava garanzie di successo nel entrare il bersaglio o l’obiettivo prefissato. Per impedire che il proiettile, uscendo dall’anima, deviasse nel senso dell’ultimo urto era necessario fare in modo che la sua direzione fosse costante. A ciò soltanto la rigatura dell’anima pose rimedio. Essa era costituita dall’insieme di un certo numero di solcature o righe aventi andamento elicoidale, che avevano l’effetto di imprimere al proiettile una forte velocità di rotazione attorno al proprio asse evitando dispersione di potenza e facendo in modo che, grazie all’effetto giroscopico, aumentasse la stabilità e diminuisse la possibilità di deviazioni dalla traiettoria. Ebbe anche come conseguenza un nuovo sviluppo dei proiettili. Con la canna liscia, infatti, il peso e le dimensioni del proiettile erano predeterminate e fissate dal calibro della canna della bocca da fuoco. Il proiettile era una sfera, il cui diametro doveva essere uguale a quello del calibro dell’arma, e il suo peso era una costante fisica che dipendeva esclusivamente dal peso specifico del metallo. È per questo motivo che i vari pezzi di artiglieria a canna liscia erano identificati e classificati con il peso della palla che potevano sparare. Si parlava quindi di pezzi da sei libbre, da dodici libbre, ecc. , (a ogni calibro corrispondeva quindi un certo peso del proiettile stabilito una volta per tutte). Con l’introduzione della rigatura i proiettili non ebbero più la necessità di essere sferici ma diventarono ogivali, con dimensioni e pesi differenti. Per questo motivo si iniziò a indicare le caratteristiche delle artiglierie non con il peso del proiettile, ma con il calibro in millimetri o in pollici delle varie bocche da fuoco. Consuetudine che si andò affermando dopo la battaglia di Solferino del 1859, in cui fu sancita definitivamente la superiorità delle artiglierie a canna rigata rispetto a quelle a canna liscia. L’INTUIZIONE DI UN ITALIANO. Le armi portatili rigate avevano
righe secondo le generatrici, unicamente allo scopo di permettere una
riduzione “vento”. Siccome poi si trovò più facile solcare l’anima a spirare
che in modo rettilineo, queste ultime diventarono il modello dominante. A
Benjamin Robins, matematico inglese inventore del pendolo balistico, si deve
la spiegazione del fenomeno. Egli comprese il grande vantaggio dato dal
rigare anche i cannoni e nel 1746 scrisse: “La nazione che per prima capirà l’importanza delle artiglierie
rigate e provvederà a munirsene avrà sulle altre tanti vantaggi, quanti ne
ebbero sui propri avversari gli inventori delle armi da fuoco”. I
principi dimostrati da Robins rimasero però lettera morta per circa un secolo
fino a quando l’italiano Giovanni Cavalli (che già si era preoccupato di costruire
un cannone a retrocarica mentre era ospite del barone Wahrendorf, in Svezia,
che gli fornì i mezzi per i suoi esperimenti, si adoperò per concretizzare il
concetto della rigatura della canna. Egli, nel 1845, mise a punto una bocca
da fuoco in ghisa avente l’anima solcata da due righe a spirale profonde 4-5
mm, capaci di imprimere una velocità di rotazione pari a 112 giri al secondo.
La bocca da fuoco era di 32 libbre (calibro 140 mm) e sparava un proiettile
in ghisa, di forma conica o ogivale con due alette, di 17 kg a 3770 metri di
distanza, oltre il doppio rispetto ai normali cannoni ad anima liscia. La
fama dei risultati da lui ottenuti, che si riassumevano in potenza, gittata e
precisione, attrasse l’attenzione di tutti gli studiosi in materia. La prima
ad avvantaggiarsi di questa innovazione fu la Francia, che si dotò di
artiglierie a canna rigata grazie agli studi compiti da una commissione
presieduta dal generale La Hitte. Così l’artiglieria rigata, schierata in
campo nel 1859, diede all’esercito francese un vantaggio militare che si
concretizzò in alcune importanti vittorie, come a Solferino, e gettò nello
sconcerto le altre potenze europee che si affrettarono a seguire le orme
dell’artiglieria francese. |
palazzo comunale di Castelfidardo
La nuova arma in mano ai piemontesi. Un
vantaggio, quello che dava l’artiglieria a canna rigata, che presto anche i
piemontesi impararono a sfruttare. Lo fecero, per esempio, nella battaglia di
Castelfidardo contro le truppe pontificie. Alle ore 8 del 18 settembre il
generale De Pimodan, a capo di una colonna dell’esercito pontificio comandato dal
generale De La Moriciére, mosse da Loreto per la conquista di colle Montore di
Castelfidardo. L’attacco non riuscì perché verso le ore 10.00 il generale
Villamarina diede ordine al capitano Alfredo Sterpone di accorrere sul luogo
della battaglia in aiuto degli assediati con una sezione di cannoni rigati. Le
due bocche da fuoco furono messe in posizione e subito iniziarono a sparare
contro le masse della fanteria pontifica cagionando, con colpi ben assestati,
notevoli perdite al nemico. Poco dopo giunsero sul posto altri 4 pezzi:
l’artiglieria pontificia fu così bersagliata dai precisi tiri di quella
piemontese che gli attaccanti si tramutarono in difensori. Si diede anche
ordine alla 4a batteria di cannoni da 16 libbre dell’8° reggimento di portarsi
a Monte San Pellegrino e fare fuoco d’infilata contro il fianco destro dello
schieramento pontificio, tagliando loro una eventuale via di fuga verso Ancona.
Alcune scariche di questa batteria falcidiarono, disgregandola, le linee dei
pontifici e le costrinsero a ritirarsi, sgominate, verso il fiume Musone.
Un’altra batteria, sempre da 16, venne collocata nell’avvallamento tra le
Crocette e l’altura di Colle Montoro. Proprio nel momento cruciale dello
scontro, quindi, quando la prima linea pontificia di Pimodan aveva urgente
necessità di rinforzi, la seconda linea invece di andare in suo soccorso e
rinsaldare le file pontificie, cominciò a indietreggiare battendo in ritirata,
dietro i precisi colpi di cannoni rigati piemontesi. Il generale De La
Moriciére aveva disposto le sue truppe troppo vicine alle posizioni del nemico,
perché non immaginava che i piemontesi avessero a disposizione dei cannoni a
canna rigata, i quali con all’arrivo dei rinforzi. Avendo ormai coscienza
dell’importanza e della netta superiorità delle artiglieri rigate, i pontifici
cercarono in tutti i modi di procurarsi dei cannoni rigati, anche modificando
quelli a canna liscia, ma tutti i loro sforzi risultarono vani. Nella mattinata
del 28 settembre il controammiraglio della flotta piemontese Pellion di Persano
convocò un consiglio di guerra per illustrare le sue intenzioni di attaccare
con i cannoni delle sue navi il porto di Ancona. Quello stesso pomeriggio le
navi manovrarono per iniziare il tiro contro le difese del porto. Il forte
della Lanterna fu completamente distrutto per lo scoppio della polveriera
colpita dai tiri delle navi, con un tremendo boato che riecheggiò per tutta la
città. La capitolazione venne firmata a Villa Favorita nei pressi di Ancona,
sede del comando Sardo-piemontese, alle ore 14.50 del 29 settembre 1860.
La prova del nove. Ancora più che
nell’assedio di Ancona, il ruolo delle nuove artiglierie a canna rigata fu
esemplare negli assedi di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
Per prendere una
fortezza come quella di Gaeta era evidente che si doveva ricorrere
prevalentemente all’azione dell’artiglieria, che doveva necessariamente avere
una potenza e una gittata notevole per colpire senza essere a sua volta
colpita. Il comando delle truppe Sardo-piemontese che assediarono i borbonici a
Gaeta fu affidato al generale Enrico Cialdini, il quale pensò subito che per
espugnare la fortezza si doveva evitare la tradizionale tattica: costruzione di
batterie sempre più ravvicinate, costruzione di parallele, apertura della
breccia e assalto con la fanteria. Secondo lui, che aveva vinto l’effetto dei
cannoni a canna rigata a Castelfidardo, si doveva puntare solo sul
bombardamento dell’artiglieria a lunga gittata. L’assedio vero e proprio iniziò
il 12 novembre 1860 ma subito s’intuì che per un’efficace bombardamento della
fortezza occorreva un numero elevato di pezzi di artiglieria di grande potenza.
Cialdini aveva richiesto nuovi cannoni a canna rigata con retrocarica,
progettati dal generale Cavalli, che promettevano di essere ancora più potenti
di quelli ad avancarica. Mentre, infatti, tecnici e tattici erano ancora
indecisi sulla effettiva superiorità di queste nuove artiglierie, il generale
Cialdini non aveva dubbi: “I cannoni rigati fanno miracoli” disse in una frase
entrata poi nella storia militare del nostro Paese. dopo che il 3 febbraio il
deposito munizioni della batteria Transilvania che ne conteneva ben 18mila, la
fortezza di Gaeta fu ridotta a un ammasso di macerie. Le batterie Sarde, dopo
aver tirato circa 55mila colpi e utilizzato 190mila chilogrammi di polvere da
sparo, avevano ormai avuto ragione della resistenza nemica. Quello stesso
giorno, il 13 febbraio 1861, Gaeta capitolava e con essa le ultime speranze del
regime borbonico. Quattro giorni dopo Cialdini partiva per una altro assedio,
quello di Messina. Neanche a dirlo fu un altro successo delle nuove artiglierie
a canna rigata.
Le ostilità iniziarono
il 1° marzo 1861. I piemontesi per prima cosa sistemarono sei batterie ai
Gemelli, al Cimitero, al Bastione Segreto, al Noviziato, a Santa Cecilia e a
Sant’Elia. L’11 marzo esse concentrarono la loro potenza di fuoco sul forte Don
Blasco, che era il bastione fortificato più avanzato della Cittadella. La potenza
e la doppia gittata dei cannoni rigati piemontesi ridussero a un cumulo di
macerie il fortino in poco tempo. Successivamente anche il gran deposito
Norimbergh (pieno di polvere da sparo), concentrato più volte, prese fuoco,
rischiando di saltare in aria. I borbonici cercarono di allungare il tiro dei
vecchi cannoni (alcuni avevano circa 150 anni di vita), interrando una parte,
ma persero così la facoltà di mirare. Tutto fu inutile: la schiacciante
superiorità dell’artiglieria dei Franco-piemontesi costrinse presso al silenzio
le bocche da fuoco della piazzaforte. Il 13 marzo Cialdini a capo delle sue
truppe a capo delle sue truppe fece il suo ingresso nella Cittadella di
Messina, dichiarando “prigioniera” la guarnigione del Regno delle Due Sicilie. La
resa fu firmata a bordo della nave Maria Adelaide. Al generale Giovanni
Cavalli, che ideò le artiglierie rigate e a retrocarica, è stato intitolato un
forte della cittadella fortificata di Messina, diventata ora anche un parco
museo. Il 14 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamava solennemente l’Unità
d’Italia, anche se rimaneva da conquistare la fortezza di Civitella del Tronto,
ancora nelle mani dei soldati borbonici (era difesa da un contingente di 530
uomini, con 27 pezzi di artiglieria tutti però a canna liscia), che resistevano.
La cittadella era stata assediata a partire dal 26 ottobre 1860 e, visto che
non si arrendeva, nel mese di dicembre il governo piemontese decise di
potenziare il parco delle artiglierie con pezzi a canna rigata, che iniziarono
a bersagliarla, ma questa non capitolò. A quel punto, il 15 febbraio 1861, i
piemontesi operarono un potentissimo bombardamento con i nuovi cannoni rigati a
retrocarica progettati dal generale Cavalli. Tempo poco più di un mese e il 20
marzo 1861,dopo che l’artiglieria aveva tirato qualcosa come 7860 proiettili
contro la fortezza, i borbonici decisero la resa. La storia d’Italia era
cominciata.
Articolo di Renato Biondini pubblicato su Storie
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