Attacco suicida a Port Sudan.
Il 2 aprile 1941 ai
marinai italiani della III e V squadriglia cacciatorpediniere di stanza a
Massaua restavano due solo opzioni: la resa incondizionata o la morte in
combattimento. Scelsero la seconda. Ecco perché il loro attacco a Port Sudan,
la base navale inglese nel Mar Rosso. È uno dei più fulgidi esempi di coraggio
e sacrificio dell’intero secondo conflitto mondiale.
cartina Africa Orientale Italiana
Il
10 giugno 1940 l’Italia entrava in guerra a fianco dell’alleato tedesco. Una
decisione che, con il senso di poi, si rivelerà disastrosa. Il Paese, dopo aver
dilapidato ingenti risorse nella Guerra di Spagna e nella conquista d’Etiopia,
poteva contare su un esercito del tutto impreparato ad affrontare le nuove
sfide di una guerra moderna. Senza dimenticare che l’industria italiana, vista
la carenza delle materie prime, non sarebbe mai stata in grado di fare fronte a
uno sforzo bellico prolungato. Nonostante questi evidenti limiti Mussolini
decise per l’intervento, sicuro com’era, visto l’andamento degli scontri (dopo
la vittoriosa campagna di Polonia, anche la Francia era caduta sotto i colpi
delle divisioni corazzate del III Reich), che presto ci si sarebbe seduti al
tavolo della pace, con l’Italia in posizione di forza. Un’analisi troppo
frettolosa che, in capo a pochi mesi, sarebbe stata completamente sconfessata.
Non solo non si arrivò al tanto sperato armistizio, ma il conflitto, dal
‘limitato’ teatro europeo, assunse dimensioni globali. A quel punto le nostre
forze armate furono costrette a fronteggiare l’Impero britannico su più fronti:
nel Mediterraneo, nel Nord Africa e perfino nell’Africa Orientale Italiana,
ovvero l’istituzione coloniale comprendente Etiopia, Somalia italiana e
Eritrea, voluta da Mussolini nel ’36. Un compito ancora più arduo,
quest’ultimo, perché il Corno d’Africa era completamente isolato dal resto dei
possedimenti italiani a causa del blocco navale attuato dalla Royal Navy. A
nulla valsero gli sforzi e il coraggio di Amedeo di Savoia, comandante delle
forze armate nella regione. Quando, a partire dal febbraio del 1941, le forze
britanniche lanciarono un’offensiva terrestre dalle loro basi in Africa,
all’esercito italiano non restò che mettere in atto continui ripiegamenti per
asserragliarsi sulle montagne. Fino al fatidico 17 maggio quando, dopo
un’eroica resistenza sull’Amba Alagi, i 7mila uomini del Duca d’Aosta si
arresero ai 39mila del generale Cunningham. L’Africa Orientale italiana cessava
di esistere.
Un compito impossibile. panorama di Port Sudan I vari rapporti stilati dal
Comitato navale dell’Africa Orientale Italiana chiariscono come le condizioni
operative delle forze navali nel Corno d’Africa fossero critiche. In pratica,
il naviglio della Regia Marina non fu quasi mai in grado di impensierire i
muniti convogli britannici che risalivano quel tratto di mare alla volta del
Mediterraneo. Le ragioni sono molteplici: forze sottodimensionate rispetto al
compito (i cacciatorpediniere erano sempre in inferiorità numerica e dovevano
confrontarsi con avversari più potenti), obsolescenza dei mezzi e carenza dei
pezzi di ricambio. Per non parlare poi delle condizioni degli equipaggi,
sfibrati dalla permanenza in area tropicale senza ricambio. Anche le forze
subacquee, per gravi problemi tecnici (perdite di cloruro di metile in
immersione da parte dei condizionatori e conseguente intossicazione
dell’equipaggio), risultarono quasi inefficaci. Se prendiamo per esempio il
caso del cacciatorpediniere Manin, inquadrato nella III Squadriglia
cacciatorpediniere, veniamo a sapere che nel corso del conflitto prese parte
a 12 missioni di intercettazione senza mai riuscire a ottenere risultati
significati. Il 19 settembre 1940 lasciò Massaua, con il Battisti, il Leone e
il Pantera, senza riuscire a individuare il convoglio BN7 composto da 32
mercantili, protetto dall’incrociatore leggere HMNZS Leander, dal
cacciatorpediniere HMS Kimberley e da tre sloop. Fin da subito lo scontro
prese una brutta piega, costringendo gli italiani a ripiegare dietro una
cortina di fumo. Il Nullo, però, per una grave avaria al timone, fu raggiunto
dalle unità nemiche e dopo un violento scontro fu affondato. |
La fornace di Massaua. Le gravi carenze a cui
dovette provvedere l’esercito italiano sul fronte terrestre non risparmiarono
neppure la componente navale che operava dal porto eritreo di Massaua (Comando
navale Africa Orientale Italiana). Una forza apparentemente di tutto rispetto,
composta com’era dalla III Squadriglia cacciatorpediniere (Nullo, Battisti,
Sauro, Manin), la V Squadriglia cacciatorpediniere (Pantera, Tigre, Leone), due
torpediniere (Acerbi, Orsini), la XXI Squadriglia MAS, l’VIII Gruppo
sommergibili e tutta una serie di navi militarizzate. Ma alcune testimonianze,
come quella del sottotenente di vascello Fabio Gnetti (autore di Ultima
missione in Mar Rosso), imbarcato sul Manin in qualità di capo servizio rotta e
comunicazioni, fanno comprendere quale fosse la realtà dei fatti: “Il compito assegnato alla Marina Militare …
era quello di contrastare il passaggio in Mar Rosso dei convogli inglesi
provenienti dall’Oceano indiano e diretti a rifornire il fronte in Africa
settentrionale nonché il Vicino Oriente. Data l’importanza della posta in
gioco, questi convogli transitavano con scorte consistenti – due o tre
incrociatori, due o tre cacciatorpediniere – per contrastare le quali l’Italia
aveva pensato bene di trasferire a Massaua … ben sette cacciatorpediniere di
tipo antiquato e con le stesse attrezzature e caratteristiche di quelle vendute
ai Paesi scandinavi”. Nella fornace di Massaua, dove si raggiungevano
temperature intorno ai 55° all’ombra, uomini e mezzi (con dotazioni che
risultavano idonee per climi nordici) erano sottoposti a uno stress continuo
che ne pregiudicava l’efficienza e limitava la capacità combattiva. Gli stessi
sommergibili, 6 di tipo oceanico e 2 costieri, erano costretti a operare in
condizioni proibitivi per il pericoloso inconveniente causato dalle continue
perdite di cloruro di metile, il gas impiegato negli impianti di
condizionamento dell’aria, essenziale per poter sopravvivere a quelle
latitudini. Peccato, però, che la sostanza fosse tossica (a differenza del
freon usato in America) e in ambiente così ridotto provocasse gravi problemi
come vertigini, delirio, apatia, riduzione della concentrazione e, nei casi più
gravi, addirittura la morte. Un problema sottovalutato dagli alti comandi che
lo ritenevano pericoloso solo se assunto in grande quantità. Una leggerezza che
provocherà la perdita di diversi mezzi, come il Makallé che proprio nel primo
giorno di guerra andò a incagliarsi presso l’isolotto di Bar Musa Kebir, perché
l’ufficiale di rotta, fu una delle persone che risentì maggiormente dell’azione
deleteria del gas. Considerando tutta questa serie di fattori, (mezzi antiquati
e non idonei a operare ai tropici, oltre a problemi tecnici) non stupisce che
tale forza navale non abbia potuto affrontare il nemico con l’efficacia dovuta.
I
protagonisti dell’attacco a Port Sudan. In
Africa Orientale Italiana le unità di superficie più grandi a disposizione
della Regia Marina erano 7 cacciatorpediniere appartenenti a due classi
diverse: la Naziario Sauro (Cesare Battisti, Daniele Manin, Francesco Nullo e
Nazario Sauro) e la Leone (Leone, Tigre, Pantera). Saranno proprio questi
mezzi, o meglio i 5 rimasti (il Nullo e il Leone erano andati persi) a
tentare quel colpo di mano a Port Sudan che indubbiamente rientra nella
categoria delle missioni senza ritorni. Ecco i dettagli delle due classi: |
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classe
Nazario Sauro.
Il cacciatorpediniere Sauro in entrata nel porto di Taranto Entrata
in servizio: 1926-1927 Dislocamento:
1650 t. Lunghezza:
90,71 m Propulsione:
vapore (3 caldaie) Potenza:
38mila cv Velocità
massima: 30 nodi Equipaggio:
10 ufficiali, 146 tra sottoufficiali e marinai. Armamento:
2 impianti binati da 120/45 mm. 2
mitragliere binate da 40/39 mm e 6 siluri da 533 mm |
Classe
Leone. cacciatorpediniere Pantera, Nullo, Manin e Battisti alla banchina di Massaua nel 1940 Entrata
in servizio: 1924 Dislocamento:
2203 t Lunghezza:
113,41 m Propulsione:
vapore (4 caldaie) Potenza:
42mila cv Velocità
massima: 31 nodi Equipaggio
10 ufficiali, 194 sottoufficiali e marinai Armamento:
4 impianti binati da 120/45, 2 cannoni antiaerei da 76/40, 4 mitragliatrici
da 6,5 mm e 6 tubi lanciasiluri. |
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Una missione suicida. A partire dai primi mesi del
1941, con il rapido deteriorarsi della situazione militare sul fronte
terrestre, anche la posizione della base navale divenne insostenibile. Come
ricorda Gnetti: “La nostra situazione sta
diventando quella di marinai che entro brevissimo tempo non avranno più un
porto in cui entrare perché, occupate via terra Massaua e Assab, nessun altro
anfratto italiano sarà in grado di farci da base”. Per tale ragione al
comando non restò che mettere in atto un piano di evacuazione riguardante le
unità dotate di maggiore autonomia, in grado di raggiungere porti amici. Alcune
di loro riusciranno a portare a termine questa pericolosissima missione: la
nave coloniale Eritrea e un mercantile armato eviteranno il blocco alleato
arrivando in Giappone, mentre ciò che rimaneva della forza subacquea riparerà
nella base di Bordeaux, nell’Atlantico (dopo il periplo dell’Africa e il
rifornimento in mare operato da mercantili armati tedeschi). Per i 6 cacciatorpediniere
rimasti (il Nullo era andato perduto) la situazione invece, a causa della
limitata autonomia, non lasciava speranze. Fu pertanto deciso che sarebbero
stati impiegati per una missione d’attacco – non c’è bisogno di aggiungere ai
limiti del suicidio – contro i porti inglesi del Mar Rosso: la V Squadriglia
(Tigre, Leone, Pantera) contro Suez, la III (Battisti, Sauro, Manin) contro
Port Sudan. Il piano indipendentemente dall’esito della missione, prevedeva
inoltre che le unità superstiti (se ce ne fossero state) non avrebbero dovuto
ripiegare su Massaua (il porto cadde in mano inglese l’8 aprile), ma fare rotta
verso la costa araba per autoaffondarsi, visto che il Paese all’epoca era
neutrale. Il piano originario, però, fu presto disatteso perché il 31 marzo,
giorno della partenza della V Squadriglia, si verificò la perdita del Leone,
andando ad incagliarsi in una secca non segnata sulle mappe a poca distanza dal
porto. Per tale ragione fu deciso di riunire le 5 unità superstiti per un’unica
operazione contro Port Sudan da effettuare il 2 aprile. La sera prima della partenza
il comandante della squadriglia (comandante di vascello Araldo Fadin, imbarcato
sul Manin), parlando ai suoi uomini si espresse così: “Domani dovremo andare a
picco. Chi non se la sente può anche optare per restare a far parte della
difesa terrestre del porto”. Eppure, nonostante la pericolosità dell’azione,
nessuno si tirò indietro. Anzi il giorno dopo sui cinque mezzi in partenza
avevano preso posto anche i naufraghi del Leone. Fin da subito però le cose
andarono male: oò Battisti per gravi problemi all’apparato motore fu costretto
a staccarsi dalla formazione e autoaffondarsi, mentre il resto della flotta,
che navigava a tutta velocità, fu individuata dai ricognitori inglesi. In questo
modo anche la speranza di cogliere il nemico di sorpresa era andata in fumo
(nella sua relazione Fadin sottolinea come l’esercito di Sua Maestà fosse ben
informato sulle intenzioni italiane), e la reazione britannica non si fece
attendere.
Oltre il coraggio. All’alba del 3 aprile,
ricorda Gnetti, nonostante questi inconvenienti “arrivammo a sei miglia dall’ingresso del porto. Attraverso canali, fra
secche e scogli, che ci obbligavano a mantenere una determinata rotta … siamo
ora così vicini a Port Sudan da riuscire a vedere benissimo, malgrado la
foschia mattinale, non solo i depositi di carburante nella rada, ma addirittura
gli alberi delle unità navali che stanno salpando per venirci a dare il
benvenuto”. Dopodiché si scatenò l’inferno. Secondo i rapporti stilati
dalla Regia Marina, sulle navi italiane si accanivano ben 70 bombardieri medi
Bristol Blenheim, in più ondate (almeno 8 secondo le testimonianze). Procedere in
formazione era impossibile, così come perseverare nell’attacco al porto, per
cui i cacciatorpediniere decisero di disimpegnarsi continuando a navigare
zigzagando e difendendosi con tutto l’armamento antiaereo a disposizione (mitragliere
40/39 e 13,2 millimetri). Ma era una lotta impari: intorno alle 7:30 i velivoli
inglesi concentrarono il fuoco sul Sauro e il Manin, più piccoli e vulnerabili,
danneggiandoli a più riprese. A quel punto, il Tigre e il Pantera decisero di
ripiegare (dopo aver comunicato le loro intenzioni a Fadin), perché erano sotto
attacco anche da parte delle navi britanniche uscite dal porto e, dopo una fuga
disperata, si autoaffonderanno di fronte alle coste arabe, a sud di Gedda. Per le
altre due navi la situazione divenne presto disperata. Intorno alle 9:00 il
Sauro andò incontro ad una tragica fine. “È
così che salta in aria – ricorda il giovane ufficiale – distrutto in pochi
secondi, da una bomba d’aereo inglese sparendo nella vampa dello scoppio del
deposito munizioni prodiero. È in linea di fronte al Manin, 7,800 metri sulla
nostra dritta. Il tempo di dire: Il Sauro … e un pezzettino di Sauro – la sola
prua – svetta verso il cielo nell’immane deflagrazione che causa anche la
perdita dell’aereo nemico, per ripiombare all’indietro e sparire, lasciando in
superficie pochi relitti e qualche naufrago”. Il Manin invece, manovrando
ad alta velocità e difendendosi con le mitragliatrici (secondo il rapporto
riuscì a colpire due velivoli avversari) resistette altre due ore, finché due
bombe da 224 kg lo centreranno contemporaneamente, immobilizzandolo. Solo a
quel punto il suo comandante diede l’ordine di abbandonare la nave, dopo aver
fatto attivare le carice esplosive per l’autoaffondamento. “Indescrivibile – ricorda Gnetti – la scena di come si presenta la nave
uscendo dalla plancia! Cadaveri, feriti imploranti, sangue e rottami
dappertutto! … E il campanello d’allarme del deposito munizioni poppiero in
piena funzione. I mezzi di salvataggio sono rapidamente messi a mare”. Su un’imbarcazione
presero posto il comandante, ferito in maniera grava da una scheggia al
ginocchio, e altri sessanta marinai (molti dei quali in pessime condizioni);
sulla lancia IA 463 altri quarantanove (sebbene fosse stata progettata per soli
venticinque), tra cui lo stesso Gnetti; infine i restanti su alcune zattere di
salvataggio. Tutto questo accadeva nella confusione più totale, mentre ancora i
velivoli nemici si accanivano con mitragliatrici e bombe sul relitto fumante
del cacciatorpediniere.
Mas,
sempre loro. La HMS Capetown Può sembrare incredibile, ma, se si eccettuano due petroliere affondate da sommergibili, il più brillante successo italiano conseguito in Mar Rosso avvenne per mano di un antiquato Mas (motoscafo armato silurante) tra il 7 e l’9 aprile 1941, quando Massaua era prossima alla resa egli inglesi erano a pochi chilometri dal porto. A farne le spese fu l’incrociatore inglese Capetown che navigava a poche miglia al largo del porto: colpito da due siluri lanciati dal Mas 213, da poco meno di 300 m di distanza. Un attacco davvero audace che provocò all’unità britannica gravissimi danni e la morte di 7 uomini di equipaggio. Non affondò ma dovettero rimorchiarla fini in India per le riparazioni che durarono un anno. Ma c’è un ulteriore particolare curioso nella vicenda: i Mas presenti a Massaua (in tutto cinque) erano vecchi modelli costruiti nel Primo conflitto mondiale dai cantieri Baglietto di Varazze e risentivano degli anni di attività e dell’usura. In pratica erano veri e propri cimeli che avrebbe dovuto essere radiati da tempo. Con lo scoppio del conflitto, però, l’isolamento del Corno d’Africa impedì che venissero sostituiti con mezzi più efficienti. Per tale ragione furono rimessi in sesto alla belle e meglio con i pochi pezzi di ricambio disponibili in loco. Problemi meccanici e criticità all’apparato motore ne limitavano le prestazioni. Per capire cosa ciò potesse significare basta leggere il rapporto dell’ufficiale che guidò l’attacco. Vi si evince che la velocità massima del suo mezzo poteva raggiungere a stento i 15 nodi e problemi di surriscaldamento lo obbligarono più di una volta a spegnere i motori in attesa che si raffreddasse. Il tutto mentre a poche centinaia di metri incrociava un vascello nemico da 4200 tonnellate! |
Per forza di volontà. Nonostante fosse un
inferno, qualcuno si accorse che le cariche per l’autodistruzione non si erano
ancora attivate. Fu allora che il tenente di vascello Armando Crisciani, il
direttore di macchina, capitano del Genio Rodolfo Batateli e il sottocapo
silurista Ulderico Sacchetto) risalirono a bordo per risolvere il problema. A quel
punto (era mezzogiorno) il relitto esplose e si capovolse portando con sé i tre
coraggiosi (riceveranno la medaglia d’oro al valor militare alla memoria). Con il
calare delle tenebre, e il peggioramento delle condizioni del mare (si alzò
infatti un forte vento), i tre gruppi di sopravvissuti finirono con il
disperdersi. L’imbarcazione del comandante Fadin dopo tre giorni in mare,
durante i quali molti uomini persero la vita, fu finalmente soccorsa dal
Flamingo, un’unità da guerra inglese in rotta per Suez, che due giorni prima
aveva già salvato i naufraghi a bordo delle zattere. Per loro iniziava così un
lungo periodo di prigionia. Per coloro che erano a bordo della lancia della
IA463 invece, la sorte aveva in serbo un altro destino. L’imbarcazione, al cui
comando, dopo la morte del capitano di
seconda, si era ritrovato proprio Gnetti, fu protagonista di un’odissea durata
sette giorni, alla fine della quale approdarono nello sperduto avamposto di El
Lid, oltre cento km a sud di Gedda, dove stazionava una risicata guarnigione
araba. Fu una prova ai limiti della sopportazione umana. In quella settimana i
naufraghi furono sottoposti a terribili prove con la lancia che si allagava e
doveva essere continuamente svuotata, una limitata riserva di acqua potabile,
mancanza di cibo, il sole implacabile e squali famelici che li seguivano giorno
e notte. Nonostante questo con incredibile determinazione, ormai sull’orlo del
collasso, questi uomini riuscirono a guadagnare terra. Dopo essere stati
soccorsi e rifocillati, scoprirono che gli altri equipaggi dei
cacciatorpediniere che si erano autoaffondati nei giorni scorsi erano riusciti
a salvarsi ed erano stati concentrati a Gedda in attesa che le autorità locali,
in stretto contratto con l’ambasciatore italiano nel Paese, decidessero il da
farsi. Sfuggiti alla morte, per i sopravvissuti delle due squadriglie iniziava
un lungo periodo di confino su un minuscolo isolotto, El Wasta, a poca distanza
dalla città, che si sarebbe protratto per quasi due anni. Tennero duro nonostante
le privazioni e il clima implacabile. Tornarono in Patria nel 1943 grazie alla
Croce Rossa: dopo lunghe trattative con il governo italiano e inglese, in una
fase cruciale della guerra, si accordarono – caso davvero raro nel panorama di
quel drammatico conflitto – per uno scambio di prigionieri in territorio
neutrale (Turchia). E così avvenne. In una fredda giornata di marzo due navi
nemiche gettarono l’ancora a poca distanza una dall’altra nella rada di Mersin,
consegnando contemporaneamente un ugual numero di internati. Per i reduci di
Port Sudan la libertà tanto agognata era finalmente arrivata, ma di certo non ebbero
il tempo per assaporarla come avrebbero desiderato. In capo a pochi mesi il
loro Paese sarebbe andato incontro al tracollo militare e alla resa
incondizionata. Come ha scritto Gnetti era “la fine di un periodo travagliato e
l’inizio di un altro, che non ha nulla da invidiare al precedente”.
Articolo di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e immagini da Wikipedia
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