sabato 5 settembre 2020

Attacco suicida a Port Sudan.

 Attacco suicida a Port Sudan.

Il 2 aprile 1941 ai marinai italiani della III e V squadriglia cacciatorpediniere di stanza a Massaua restavano due solo opzioni: la resa incondizionata o la morte in combattimento. Scelsero la seconda. Ecco perché il loro attacco a Port Sudan, la base navale inglese nel Mar Rosso. È uno dei più fulgidi esempi di coraggio e sacrificio dell’intero secondo conflitto mondiale.

 Italian East Africa (1938–1941) it.svg

cartina Africa Orientale Italiana

Il 10 giugno 1940 l’Italia entrava in guerra a fianco dell’alleato tedesco. Una decisione che, con il senso di poi, si rivelerà disastrosa. Il Paese, dopo aver dilapidato ingenti risorse nella Guerra di Spagna e nella conquista d’Etiopia, poteva contare su un esercito del tutto impreparato ad affrontare le nuove sfide di una guerra moderna. Senza dimenticare che l’industria italiana, vista la carenza delle materie prime, non sarebbe mai stata in grado di fare fronte a uno sforzo bellico prolungato. Nonostante questi evidenti limiti Mussolini decise per l’intervento, sicuro com’era, visto l’andamento degli scontri (dopo la vittoriosa campagna di Polonia, anche la Francia era caduta sotto i colpi delle divisioni corazzate del III Reich), che presto ci si sarebbe seduti al tavolo della pace, con l’Italia in posizione di forza. Un’analisi troppo frettolosa che, in capo a pochi mesi, sarebbe stata completamente sconfessata. Non solo non si arrivò al tanto sperato armistizio, ma il conflitto, dal ‘limitato’ teatro europeo, assunse dimensioni globali. A quel punto le nostre forze armate furono costrette a fronteggiare l’Impero britannico su più fronti: nel Mediterraneo, nel Nord Africa e perfino nell’Africa Orientale Italiana, ovvero l’istituzione coloniale comprendente Etiopia, Somalia italiana e Eritrea, voluta da Mussolini nel ’36. Un compito ancora più arduo, quest’ultimo, perché il Corno d’Africa era completamente isolato dal resto dei possedimenti italiani a causa del blocco navale attuato dalla Royal Navy. A nulla valsero gli sforzi e il coraggio di Amedeo di Savoia, comandante delle forze armate nella regione. Quando, a partire dal febbraio del 1941, le forze britanniche lanciarono un’offensiva terrestre dalle loro basi in Africa, all’esercito italiano non restò che mettere in atto continui ripiegamenti per asserragliarsi sulle montagne. Fino al fatidico 17 maggio quando, dopo un’eroica resistenza sull’Amba Alagi, i 7mila uomini del Duca d’Aosta si arresero ai 39mila del generale Cunningham. L’Africa Orientale italiana cessava di esistere.

Un compito impossibile.

Porto Sudàn – Veduta

panorama di Port Sudan

I vari rapporti stilati dal Comitato navale dell’Africa Orientale Italiana chiariscono come le condizioni operative delle forze navali nel Corno d’Africa fossero critiche. In pratica, il naviglio della Regia Marina non fu quasi mai in grado di impensierire i muniti convogli britannici che risalivano quel tratto di mare alla volta del Mediterraneo. Le ragioni sono molteplici: forze sottodimensionate rispetto al compito (i cacciatorpediniere erano sempre in inferiorità numerica e dovevano confrontarsi con avversari più potenti), obsolescenza dei mezzi e carenza dei pezzi di ricambio. Per non parlare poi delle condizioni degli equipaggi, sfibrati dalla permanenza in area tropicale senza ricambio. Anche le forze subacquee, per gravi problemi tecnici (perdite di cloruro di metile in immersione da parte dei condizionatori e conseguente intossicazione dell’equipaggio), risultarono quasi inefficaci. Se prendiamo per esempio il caso del cacciatorpediniere Manin, inquadrato nella III Squadriglia cacciatorpediniere, veniamo a sapere che nel corso del conflitto prese parte a 12 missioni di intercettazione senza mai riuscire a ottenere risultati significati. Il 19 settembre 1940 lasciò Massaua, con il Battisti, il Leone e il Pantera, senza riuscire a individuare il convoglio BN7 composto da 32 mercantili, protetto dall’incrociatore leggere HMNZS Leander, dal cacciatorpediniere HMS Kimberley e da tre sloop. Fin da subito lo scontro prese una brutta piega, costringendo gli italiani a ripiegare dietro una cortina di fumo. Il Nullo, però, per una grave avaria al timone, fu raggiunto dalle unità nemiche e dopo un violento scontro fu affondato.

 

La fornace di Massaua. Le gravi carenze a cui dovette provvedere l’esercito italiano sul fronte terrestre non risparmiarono neppure la componente navale che operava dal porto eritreo di Massaua (Comando navale Africa Orientale Italiana). Una forza apparentemente di tutto rispetto, composta com’era dalla III Squadriglia cacciatorpediniere (Nullo, Battisti, Sauro, Manin), la V Squadriglia cacciatorpediniere (Pantera, Tigre, Leone), due torpediniere (Acerbi, Orsini), la XXI Squadriglia MAS, l’VIII Gruppo sommergibili e tutta una serie di navi militarizzate. Ma alcune testimonianze, come quella del sottotenente di vascello Fabio Gnetti (autore di Ultima missione in Mar Rosso), imbarcato sul Manin in qualità di capo servizio rotta e comunicazioni, fanno comprendere quale fosse la realtà dei fatti: “Il compito assegnato alla Marina Militare … era quello di contrastare il passaggio in Mar Rosso dei convogli inglesi provenienti dall’Oceano indiano e diretti a rifornire il fronte in Africa settentrionale nonché il Vicino Oriente. Data l’importanza della posta in gioco, questi convogli transitavano con scorte consistenti – due o tre incrociatori, due o tre cacciatorpediniere – per contrastare le quali l’Italia aveva pensato bene di trasferire a Massaua … ben sette cacciatorpediniere di tipo antiquato e con le stesse attrezzature e caratteristiche di quelle vendute ai Paesi scandinavi”. Nella fornace di Massaua, dove si raggiungevano temperature intorno ai 55° all’ombra, uomini e mezzi (con dotazioni che risultavano idonee per climi nordici) erano sottoposti a uno stress continuo che ne pregiudicava l’efficienza e limitava la capacità combattiva. Gli stessi sommergibili, 6 di tipo oceanico e 2 costieri, erano costretti a operare in condizioni proibitivi per il pericoloso inconveniente causato dalle continue perdite di cloruro di metile, il gas impiegato negli impianti di condizionamento dell’aria, essenziale per poter sopravvivere a quelle latitudini. Peccato, però, che la sostanza fosse tossica (a differenza del freon usato in America) e in ambiente così ridotto provocasse gravi problemi come vertigini, delirio, apatia, riduzione della concentrazione e, nei casi più gravi, addirittura la morte. Un problema sottovalutato dagli alti comandi che lo ritenevano pericoloso solo se assunto in grande quantità. Una leggerezza che provocherà la perdita di diversi mezzi, come il Makallé che proprio nel primo giorno di guerra andò a incagliarsi presso l’isolotto di Bar Musa Kebir, perché l’ufficiale di rotta, fu una delle persone che risentì maggiormente dell’azione deleteria del gas. Considerando tutta questa serie di fattori, (mezzi antiquati e non idonei a operare ai tropici, oltre a problemi tecnici) non stupisce che tale forza navale non abbia potuto affrontare il nemico con l’efficacia dovuta.

 

I protagonisti dell’attacco a Port Sudan.

In Africa Orientale Italiana le unità di superficie più grandi a disposizione della Regia Marina erano 7 cacciatorpediniere appartenenti a due classi diverse: la Naziario Sauro (Cesare Battisti, Daniele Manin, Francesco Nullo e Nazario Sauro) e la Leone (Leone, Tigre, Pantera). Saranno proprio questi mezzi, o meglio i 5 rimasti (il Nullo e il Leone erano andati persi) a tentare quel colpo di mano a Port Sudan che indubbiamente rientra nella categoria delle missioni senza ritorni. Ecco i dettagli delle due classi:

 

classe Nazario Sauro.

 Destroyer Nazario Sauro.jpg

Il cacciatorpediniere Sauro in entrata nel porto di Taranto


Entrata in servizio: 1926-1927

Dislocamento: 1650 t.

Lunghezza: 90,71 m

Propulsione: vapore (3 caldaie)

Potenza: 38mila cv

Velocità massima: 30 nodi

Equipaggio: 10 ufficiali, 146 tra sottoufficiali e marinai.

Armamento: 2 impianti binati da 120/45 mm.

2 mitragliere binate da 40/39 mm e 6 siluri da 533 mm

Classe Leone.

CT Massaua USMM X.jpg

cacciatorpediniere PanteraNulloManin e Battisti alla banchina di Massaua nel 1940

Entrata in servizio: 1924

Dislocamento: 2203 t

Lunghezza: 113,41 m

Propulsione: vapore (4 caldaie)

Potenza: 42mila cv

Velocità massima: 31 nodi

Equipaggio 10 ufficiali, 194 sottoufficiali e marinai

Armamento: 4 impianti binati da 120/45, 2 cannoni antiaerei da 76/40, 4 mitragliatrici da 6,5 mm e 6 tubi lanciasiluri.

 

 Una missione suicida. A partire dai primi mesi del 1941, con il rapido deteriorarsi della situazione militare sul fronte terrestre, anche la posizione della base navale divenne insostenibile. Come ricorda Gnetti: “La nostra situazione sta diventando quella di marinai che entro brevissimo tempo non avranno più un porto in cui entrare perché, occupate via terra Massaua e Assab, nessun altro anfratto italiano sarà in grado di farci da base”. Per tale ragione al comando non restò che mettere in atto un piano di evacuazione riguardante le unità dotate di maggiore autonomia, in grado di raggiungere porti amici. Alcune di loro riusciranno a portare a termine questa pericolosissima missione: la nave coloniale Eritrea e un mercantile armato eviteranno il blocco alleato arrivando in Giappone, mentre ciò che rimaneva della forza subacquea riparerà nella base di Bordeaux, nell’Atlantico (dopo il periplo dell’Africa e il rifornimento in mare operato da mercantili armati tedeschi). Per i 6 cacciatorpediniere rimasti (il Nullo era andato perduto) la situazione invece, a causa della limitata autonomia, non lasciava speranze. Fu pertanto deciso che sarebbero stati impiegati per una missione d’attacco – non c’è bisogno di aggiungere ai limiti del suicidio – contro i porti inglesi del Mar Rosso: la V Squadriglia (Tigre, Leone, Pantera) contro Suez, la III (Battisti, Sauro, Manin) contro Port Sudan. Il piano indipendentemente dall’esito della missione, prevedeva inoltre che le unità superstiti (se ce ne fossero state) non avrebbero dovuto ripiegare su Massaua (il porto cadde in mano inglese l’8 aprile), ma fare rotta verso la costa araba per autoaffondarsi, visto che il Paese all’epoca era neutrale. Il piano originario, però, fu presto disatteso perché il 31 marzo, giorno della partenza della V Squadriglia, si verificò la perdita del Leone, andando ad incagliarsi in una secca non segnata sulle mappe a poca distanza dal porto. Per tale ragione fu deciso di riunire le 5 unità superstiti per un’unica operazione contro Port Sudan da effettuare il 2 aprile. La sera prima della partenza il comandante della squadriglia (comandante di vascello Araldo Fadin, imbarcato sul Manin), parlando ai suoi uomini si espresse così: “Domani dovremo andare a picco. Chi non se la sente può anche optare per restare a far parte della difesa terrestre del porto”. Eppure, nonostante la pericolosità dell’azione, nessuno si tirò indietro. Anzi il giorno dopo sui cinque mezzi in partenza avevano preso posto anche i naufraghi del Leone. Fin da subito però le cose andarono male: oò Battisti per gravi problemi all’apparato motore fu costretto a staccarsi dalla formazione e autoaffondarsi, mentre il resto della flotta, che navigava a tutta velocità, fu individuata dai ricognitori inglesi. In questo modo anche la speranza di cogliere il nemico di sorpresa era andata in fumo (nella sua relazione Fadin sottolinea come l’esercito di Sua Maestà fosse ben informato sulle intenzioni italiane), e la reazione britannica non si fece attendere.

 

Oltre il coraggio. All’alba del 3 aprile, ricorda Gnetti, nonostante questi inconvenienti “arrivammo a sei miglia dall’ingresso del porto. Attraverso canali, fra secche e scogli, che ci obbligavano a mantenere una determinata rotta … siamo ora così vicini a Port Sudan da riuscire a vedere benissimo, malgrado la foschia mattinale, non solo i depositi di carburante nella rada, ma addirittura gli alberi delle unità navali che stanno salpando per venirci a dare il benvenuto”. Dopodiché si scatenò l’inferno. Secondo i rapporti stilati dalla Regia Marina, sulle navi italiane si accanivano ben 70 bombardieri medi Bristol Blenheim, in più ondate (almeno 8 secondo le testimonianze). Procedere in formazione era impossibile, così come perseverare nell’attacco al porto, per cui i cacciatorpediniere decisero di disimpegnarsi continuando a navigare zigzagando e difendendosi con tutto l’armamento antiaereo a disposizione (mitragliere 40/39 e 13,2 millimetri). Ma era una lotta impari: intorno alle 7:30 i velivoli inglesi concentrarono il fuoco sul Sauro e il Manin, più piccoli e vulnerabili, danneggiandoli a più riprese. A quel punto, il Tigre e il Pantera decisero di ripiegare (dopo aver comunicato le loro intenzioni a Fadin), perché erano sotto attacco anche da parte delle navi britanniche uscite dal porto e, dopo una fuga disperata, si autoaffonderanno di fronte alle coste arabe, a sud di Gedda. Per le altre due navi la situazione divenne presto disperata. Intorno alle 9:00 il Sauro andò incontro ad una tragica fine. “È così che salta in aria – ricorda il giovane ufficiale – distrutto in pochi secondi, da una bomba d’aereo inglese sparendo nella vampa dello scoppio del deposito munizioni prodiero. È in linea di fronte al Manin, 7,800 metri sulla nostra dritta. Il tempo di dire: Il Sauro … e un pezzettino di Sauro – la sola prua – svetta verso il cielo nell’immane deflagrazione che causa anche la perdita dell’aereo nemico, per ripiombare all’indietro e sparire, lasciando in superficie pochi relitti e qualche naufrago”. Il Manin invece, manovrando ad alta velocità e difendendosi con le mitragliatrici (secondo il rapporto riuscì a colpire due velivoli avversari) resistette altre due ore, finché due bombe da 224 kg lo centreranno contemporaneamente, immobilizzandolo. Solo a quel punto il suo comandante diede l’ordine di abbandonare la nave, dopo aver fatto attivare le carice esplosive per l’autoaffondamento. “Indescrivibile – ricorda Gnetti – la scena di come si presenta la nave uscendo dalla plancia! Cadaveri, feriti imploranti, sangue e rottami dappertutto! … E il campanello d’allarme del deposito munizioni poppiero in piena funzione. I mezzi di salvataggio sono rapidamente messi a mare”. Su un’imbarcazione presero posto il comandante, ferito in maniera grava da una scheggia al ginocchio, e altri sessanta marinai (molti dei quali in pessime condizioni); sulla lancia IA 463 altri quarantanove (sebbene fosse stata progettata per soli venticinque), tra cui lo stesso Gnetti; infine i restanti su alcune zattere di salvataggio. Tutto questo accadeva nella confusione più totale, mentre ancora i velivoli nemici si accanivano con mitragliatrici e bombe sul relitto fumante del cacciatorpediniere.

 

Mas, sempre loro.

La HMS Capetown

Può sembrare incredibile, ma, se si eccettuano due petroliere affondate da sommergibili, il più brillante successo italiano conseguito in Mar Rosso avvenne per mano di un antiquato Mas (motoscafo armato silurante) tra il 7 e l’9 aprile 1941, quando Massaua era prossima alla resa egli inglesi erano a pochi chilometri dal porto. A farne le spese fu l’incrociatore inglese Capetown che navigava a poche miglia al largo del porto: colpito da due siluri lanciati dal Mas 213, da poco meno di 300 m di distanza. Un attacco davvero audace che provocò all’unità britannica gravissimi danni e la morte di 7 uomini di equipaggio. Non affondò ma dovettero rimorchiarla fini in India per le riparazioni che durarono un anno. Ma c’è un ulteriore particolare curioso nella vicenda: i Mas presenti a Massaua (in tutto cinque) erano vecchi modelli costruiti nel Primo conflitto mondiale dai cantieri Baglietto di Varazze e risentivano degli anni di attività e dell’usura. In pratica erano veri e propri cimeli che avrebbe dovuto essere radiati da tempo. Con lo scoppio del conflitto, però, l’isolamento del Corno d’Africa impedì che venissero sostituiti con mezzi più efficienti. Per tale ragione furono rimessi in sesto alla belle e meglio con i pochi pezzi di ricambio disponibili in loco. Problemi meccanici e criticità all’apparato motore ne limitavano le prestazioni. Per capire cosa ciò potesse significare basta leggere il rapporto dell’ufficiale che guidò l’attacco. Vi si evince che la velocità massima del suo mezzo poteva raggiungere a stento i 15 nodi e problemi di surriscaldamento lo obbligarono più di una volta a spegnere i motori in attesa che si raffreddasse. Il tutto mentre a poche centinaia di metri incrociava un vascello nemico da 4200 tonnellate!

 

Per forza di volontà. Nonostante fosse un inferno, qualcuno si accorse che le cariche per l’autodistruzione non si erano ancora attivate. Fu allora che il tenente di vascello Armando Crisciani, il direttore di macchina, capitano del Genio Rodolfo Batateli e il sottocapo silurista Ulderico Sacchetto) risalirono a bordo per risolvere il problema. A quel punto (era mezzogiorno) il relitto esplose e si capovolse portando con sé i tre coraggiosi (riceveranno la medaglia d’oro al valor militare alla memoria). Con il calare delle tenebre, e il peggioramento delle condizioni del mare (si alzò infatti un forte vento), i tre gruppi di sopravvissuti finirono con il disperdersi. L’imbarcazione del comandante Fadin dopo tre giorni in mare, durante i quali molti uomini persero la vita, fu finalmente soccorsa dal Flamingo, un’unità da guerra inglese in rotta per Suez, che due giorni prima aveva già salvato i naufraghi a bordo delle zattere. Per loro iniziava così un lungo periodo di prigionia. Per coloro che erano a bordo della lancia della IA463 invece, la sorte aveva in serbo un altro destino. L’imbarcazione, al cui comando, dopo la  morte del capitano di seconda, si era ritrovato proprio Gnetti, fu protagonista di un’odissea durata sette giorni, alla fine della quale approdarono nello sperduto avamposto di El Lid, oltre cento km a sud di Gedda, dove stazionava una risicata guarnigione araba. Fu una prova ai limiti della sopportazione umana. In quella settimana i naufraghi furono sottoposti a terribili prove con la lancia che si allagava e doveva essere continuamente svuotata, una limitata riserva di acqua potabile, mancanza di cibo, il sole implacabile e squali famelici che li seguivano giorno e notte. Nonostante questo con incredibile determinazione, ormai sull’orlo del collasso, questi uomini riuscirono a guadagnare terra. Dopo essere stati soccorsi e rifocillati, scoprirono che gli altri equipaggi dei cacciatorpediniere che si erano autoaffondati nei giorni scorsi erano riusciti a salvarsi ed erano stati concentrati a Gedda in attesa che le autorità locali, in stretto contratto con l’ambasciatore italiano nel Paese, decidessero il da farsi. Sfuggiti alla morte, per i sopravvissuti delle due squadriglie iniziava un lungo periodo di confino su un minuscolo isolotto, El Wasta, a poca distanza dalla città, che si sarebbe protratto per quasi due anni. Tennero duro nonostante le privazioni e il clima implacabile. Tornarono in Patria nel 1943 grazie alla Croce Rossa: dopo lunghe trattative con il governo italiano e inglese, in una fase cruciale della guerra, si accordarono – caso davvero raro nel panorama di quel drammatico conflitto – per uno scambio di prigionieri in territorio neutrale (Turchia). E così avvenne. In una fredda giornata di marzo due navi nemiche gettarono l’ancora a poca distanza una dall’altra nella rada di Mersin, consegnando contemporaneamente un ugual numero di internati. Per i reduci di Port Sudan la libertà tanto agognata era finalmente arrivata, ma di certo non ebbero il tempo per assaporarla come avrebbero desiderato. In capo a pochi mesi il loro Paese sarebbe andato incontro al tracollo militare e alla resa incondizionata. Come ha scritto Gnetti era “la fine di un periodo travagliato e l’inizio di un altro, che non ha nulla da invidiare al precedente”.

 

Articolo di Antonio Ratti pubblicato su Storie di guerre e guerrieri n. 23 – altri testi e immagini da Wikipedia

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